Informazione

Perché apprendere una lingua sola se ne puoi imparare molte con un unico corso? Jugocoord Onlus promuove corsi di lingua serbocroata per la stagione 2017-2018


STUDIA UNA LINGUA E NE IMPARI CINQUE!

Il SERBOCROATO è la lingua che si parla in Croazia, Bosnia, Serbia e Montenegro. Essa viene designata anche in molti altri modi: croato, serbo, croatoserbo, bosniaco, bosgnacco, montenegrino o \"lingua madre\", jugoslavo... Si tratta in realtà di varianti della stessa lingua, che differiscono poco tra di loro.
La conoscenza della lingua SERBOCROATA, nelle due grafie latina e cirillica, consente di comprendere con facilità altre lingue affini del ceppo slavo del Sud: sloveno, macedone, bulgaro; inoltre, essa facilita grandemente l\'approccio verso le altre lingue slave, fino al russo.
Imparare il SERBOCROATO vuol dire imparare tutte insieme le lingue croata, serba, bosniaca, 
montenegrina... aprendosi così al mondo variegato e affascinante dei Balcani, senza preclusioni.
Nel corso è impartita la conoscenza dell\'alfabeto cirillico e di elementi di letteratura e cultura di tutti quei popoli; sono inoltre fornite informazioni su lingua, letteratura e cultura dei popoli slavi più vicini…


INFORMAZIONI UTILI SUL CORSO
Direttrice scientifica: Prof.ssa Ljiljana Banjanin
Docente: Valentina Sileo
Livelli: base e intermedio
Prezzi popolari. Agevolazioni per giovanissimi di origine jugoslava e disoccupati.
Programma: Accanto allo studio della lingua (grammatica e sintassi), ogni modulo prevede alcuni approfondimenti di cultura popolare, letteratura (anche slovena e macedone), cinematografia e traduzione.
Frequenza: 1,5 h/settimana, in orario pre-serale e in giorno da concordare. Due moduli di 4 mesi ciascuno:
livello base 
sede: c/o Politeko, Corso Luigi Einaudi 55, Torino.
primo ciclo: dicembre–marzo; secondo ciclo: aprile–luglio
Riunione per concordare giorno e orario: fine novembre
livello intermedio 
sede: c/o Casa del popolo “Enrico Berlinguer”, Via La Salle, Grugliasco (TO)
primo ciclo: novembre–febbraio; secondo ciclo: marzo–giugno
Inizio del corso: 15 novembre; giorno della settimana e orario definitivo saranno concordati con gli studenti.


Per i contatti telefonici e le modalità di iscrizione si veda alla nostra pagina: 


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Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus
C.P. 13114 (Uff. Roma 4), 00100 ROMA - ITALIA



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(english / français / italiano / srpskohrvatski)

Testi di Zivadin Jovanovic 2015-2017

1) 29. Congress of the Communist Party of China / Da li je predsednik Kine najmoćniji čovek na svetu (2017)
2) Pace e sviluppo (2017)
3) Democrazia significa libertà, uguaglianza e informazione neutrale (2016)
4) Cinque anni dopo l’accordo di cooperazione tra Cina e Paesi Europei Centro-Orientali. Notevoli Risultati (2016)
5) La migration des peuples est la conséquence de la voracité de l’interventionnisme (2016)
6) Ukraine and beyond – reminding notes (2015)
7) FLASHBACK: << KOSOVO WILL BE PRECEDENT >> (ZIVADIN JOVANOVIC 1999)


See further texts and links on our website / Si vedano molti altri testi e collegamenti alla nostra pagina:

Vedi anche:

BEOGRADSKI FORUM 2017, RELAZIONE INTRODUTTIVA:
Tekst pripremljenog govora Zivadina Jovanovica za skupstinu Beogradskog Foruma 28. januara 2017.
I VIDEO DI ALCUNI DEGLI INTERVENTI:
Видео излагања са Годишње скупштине Беофорума 28.1.2017.
http://www.beoforum.rs/godisnje-skupstine-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih/840-video-izlaganja-sagod-skupstine-beoforuma-2017.html


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( About the outcomings of the 29. Congress of the CPC see also / Sugli esiti del 19.mo Congresso del PC cinese si veda anche: 
Il Partito Comunista Cinese allo specchio (di Diego Angelo Bertozzi e Francesco Maringiò per Marx21.it, 24 Ottobre 2017)

Congratulations to china (Beogradski Forum, 25 October 2017)

Da li je predsednik Kine najmoćniji čovek na svetu (Beogradski Forum / Sputnik 23.10.2017.)
„Novi Sputnjik poredak“ analizira najznačajniji politički događaj u svetu, 19. Kongres Komunističke partije Kine.
Šta je kineski predsednik Si Đinping poručio i Kini i čitavom svetu? Zašto ga Rotšildov „Ekonomist“ proglašava za najmoćnijeg čoveka na svetu i zašto zabrinuto konstatuje da (zapadnom) svetu Si ništa dobro neće doneti? Kako će juan srušiti američki dolar i da li će time biti srušen i najvažniji stub američke moći? Odgovore na ta pitanja će u razgovoru sa Nikolom Vrzićem potražili su bivši ministar spoljnih poslova SR Jugoslavije Živadin Jovanović i dugogodišnji dopisnik beogradskih medija iz Pekinga Milorad Denda...

In the eve of the 19th CPC Congress: CHINA TO STAY THE PILLAR OF PEACE AND DEVELOPMENT 
Zivadin Jovanovic, President of the Belgrade Forum for a World of Equals / President of the Silk Road Connectivity Research Center, 13 October 2017


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Pace e sviluppo

5 Ottobre 2017

di Zivadin Jovanovic | da civg.it

Zivadin Jovanovic è Presidente del Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali e del “Centro di Ricerca sulla Connettività della Silk Road (La Strada della Seta)”

\"Non ci può essere uno sviluppo sostenibile senza pace e pace senza sviluppo sostenibile\" (Preambolo dell\'Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile)

L\'economia mondiale ha generalmente superato le conseguenze delle crisi finanziarie che hanno avuto inizio nel 2008, ma è ancora di fronte a incertezze derivanti dalla debole crescita del PIL mondiale. Alcune nuove misure protezionistiche, sanzioni e altre misure unilaterali, in generale, hanno ostacolato la crescita degli investimenti commerciali e transfrontalieri. La cooperazione globale di partenariato e gli sforzi coordinati necessari per lo sviluppo sostenibile sono stati ostacolati da approcci e decisioni unilaterali di alcuni paesi. Il perseguimento dell\'unilateralismo e dell\'isolamento in un momento come questo ed in un mondo multipolare e globalizzato non può essere utile per nessun paese. Tale atteggiamento, qualunque motivazione abbia, non potrà aumentare i vantaggi del rapido progresso delle innovazioni e delle nuove tecnologie numeriche. L\'apertura, l\'uguaglianza, il partenariato e la cooperazione reciprocamente vantaggiosa sono il futuro per il mondo intero e per ogni paese in particolare.

Nell\'ambito delle relazioni politiche si osservano due tendenze. In primo luogo, un cambiamento profondo e storico della correlazione delle forze a livello globale a favore di un sistema mondiale multipolare, basato sul pieno rispetto dei principi fondamentali del diritto Internazionale, innanzitutto il principio di uguaglianza sovrana di tutte le nazioni ed integrità territoriale di tutti gli stati. Questo comprende il principio della non interferenza negli affari interni, la libertà di scelta dei sistemi sociali interni e il principio di una soluzione di tutte le controversie con mezzi pacifici, vale a dire attraverso il dialogo. Ed esclude ogni dominio, o gerarchia tra i paesi sovrani, l\'uso della forza o la minaccia di uso della forza. La seconda tendenza è rappresentata da forze che stanno essenzialmente cercando di salvaguardare il mondo unipolare, la politica di dominio e l\'interventismo militare. Esse credono ancora nel loro \"eccezionalità\" e praticamente si aspettano che tutti siano tenuti a rispettare i loro \"interessi nazionali\" in qualsiasi angolo del mondo; ma loro non sono tenuti a rispettare gli interessi di nessun paese, persino all\'interno delle frontiere internazionalmente riconosciute.

La lotta per la pace e la lotta per lo sviluppo economico, sociale e culturale sono strettamente interconnesse e devono essere perseguite attivamente. \"Abbiamo bisogno di una risposta globale che affronti le cause di conflitto ed integri la pace, lo sviluppo sostenibile ed i diritti umani in modo olistico - dalla concezione all\'esecuzione\" (UN SG Antonio Guterres, 24 gennaio 2017). Uno  sviluppo economico sostenibile e inclusivo, un\'occupazione decente, in particolare l\'occupazione di giovani qualificati, il benessere delle persone in generale sono la migliore prevenzione contro qualsiasi tipo di estremismo, di disordini o conflitti. Paesi e regioni che godono di una crescita economica sostenibile difficilmente possono diventare fonte di migrazioni massicce. La stabilizzazione del processo di pace, il ritorno dei rifugiati e degli sfollati e la riconciliazione post bellica dipendono fortemente dalla rapidità della ricostruzione economica.

La Belt and Road Initiative (BRI) Cinese, progetto mondiale multidimensionale, modello vincente di cooperazione e di pace ed amicizia tra le persone, offre un\' ispirazione fondamentale per il migliore approccio pratico della comunità mondiale alle sfide della crescita economica globale, della comprensione reciproca e del rafforzamento della pace. Ciò spiega perché i richiami e le idee da parte della Cina vengano seguite con molta attenzione in tutti i forum internazionali e regionali. Così è stato in occasione del recente vertice dei leader del G20 ad Amburgo, in Germania, a cui ha  partecipato anche il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Djinping. La Cina ha ricevuto il riconoscimento di tutti gli altri leader per il suo contributo ai risultati del G20, in particolare come paese ospitante del Vertice dei Leader del G20 di Hangzhou e per la presidenza del 2016. Inoltre, una serie di intuizioni cinesi hanno trovato un adeguato spazio nei principali documenti del G20 di Amburgo.

Il punto di svolta del G20. Una delle immagini più evidenti della profondità e della portata dei cambiamenti globali nei rapporti mondiali è il ruolo crescente del G20 nelle relazioni economiche mondiali. Il G20 comprende le economie più sviluppate e quelle emergenti, compresi tutti i paesi membri del G7 e del BRICKS, nonché tutti e cinque i membri permanenti della ONU SC. Inoltre, le sue conferenze sono regolarmente frequentate dai più alti rappresentanti delle organizzazioni internazionali competenti quali l\'ONU, l\'ECOSOC, l\'UNCTAD, l\'IBRD, il FMI, l\'OCSE, l\'OMC, l\'OMS, il WFO ed altri. Così il G20 è diventato il forum principale per la cooperazione economica internazionale, il dialogo ed il coordinamento degli sforzi volti a conseguire una crescita economica e una governance sostenibile e inclusiva. L\'uguaglianza e la dignità degli esseri umani, la disoccupazione, le esigenze sociali, umanitarie, educative, sanitarie e culturali delle persone sono tra le più alte priorità del G20. Forse questioni cruciali di pace e stabilità possono non essere formalmente incluse nelle agende del G20, ma non sono mai state trascurate e possono essere considerate uno stretto collegamento tra la pace e lo sviluppo.

La storia, compresa quella recente, mostra che molti conflitti, aggressioni e guerre derivano da un chiaro contesto geo-economico che provoca conseguenze negative sulle prospettive di sviluppo e benessere delle persone. Non è vero che alcune guerre recenti siano state provocate per stabilire il controllo sull\'energia o su altre risorse naturali ed economiche!  Al contrario, la pace e la stabilità sono precondizioni per lo sviluppo, la prosperità e la dignità umana. Il ruolo del G20 nel tracciare la strada e il meccanismo per salvare il mondo dalla crisi economica e finanziaria mondiale del 2008 è stato il punto di svolta storico verso il mondo della partnership, dell\'uguaglianza e dell\'ordine multipolare delle relazioni internazionali.

Il vertice dei leader del G20 di Amburgo (7-8 luglio 2017) ha adottato una serie di documenti che riflettono la realtà dell\'economia mondiale, definendo i principali obiettivi e le responsabilità dei paesi membri e delle organizzazioni internazionali nel processo di attuazione. Il documento chiave intitolato \"Dichiarazione dei Leader del G20: Formare un Mondo Interconnesso\" (1) afferma che \"uno sviluppo forte, sostenibile, equilibrato e inclusivo resta la massima priorità del G20\". Riconosce che i benefici derivanti dal commercio internazionale e dagli investimenti \"non sono stati sufficientemente condivisi\" e ha chiesto che la politica di \"maggiore inclusività, correttezza e parità\" debba essere approfondita in modo più efficace. In alcuni documenti e discorsi del Vertice, le richieste di politiche \"centrate sulla popolazione\" sono caratterizzate in modo prominente, riflettendo così la volontà di attenuare la sfiducia tra le élites e il pubblico, particolarmente caratteristica dell\'Europa, nonché di porre fine ai crescenti divari socioeconomici tra società, paesi, regioni e continenti.

E\' stato salvaguardato il consenso sul principio del libero scambio e degli investimenti transfrontalieri, nonché sul continuare \"a combattere il protezionismo\". Alcune differenze tra gli approcci degli Stati Uniti ed il resto delle 19 delegazioni hanno portato a una compromissione della proposta originaria così che la formulazione finale del relativo capitolo nella Dichiarazione recita: \"Teniamo i mercati aperti rilevando l\'importanza di reciproci e reciprocamente vantaggiosi scambi commerciali e di investimenti e del principio della non discriminazione e continuiamo a combattere il protezionismo, comprese tutte le pratiche commerciali sleali e riconosciamo il ruolo degli strumenti legittimi di scambio a questo proposito” (in grassetto ZJ).

Gli USA si sono ritirati dall\'accordo di Parigi. Nella Riunione del Vertice del G7, tenutasi il 26-27 maggio 2017 a Taormina, in Sicilia, Italia, gli USA hanno annunciato di essere in fase di revisione delle proprie politiche sul cambiamento climatico e dell\'accordo di Parigi e quindi non sono in grado di aderire al Consenso del G7 su questi temi. Altri membri del G7, oltre all\'UE, hanno ribadito il loro forte impegno per attuare rapidamente l\'accordo di Parigi.

All\'Incontro del Vertice del G20 ad Amburgo, gli USA hanno annunciato formalmente la decisione di ritirarsi dall\'accordo di Parigi. Di conseguenza, gli Stati Uniti cesseranno immediatamente l\'attuazione del loro attuale contributo determinato a livello nazionale e hanno affermato il loro forte impegno verso un approccio che abbassi le emissioni, sostenendo la crescita economica e migliorando le esigenze di sicurezza energetica. È stato aggiunto che gli USA si impegnano a lavorare a stretto contatto con altri paesi per aiutarli ad accedere ed \"utilizzare i combustibili fossili in modo più pulito ed efficiente e contribuire a distribuire fonti energetiche rinnovabili ed altre energie pulite, data l\'importanza dell\'accesso all\'energia ed alla sicurezza nei loro contributi definiti a livello nazionale ”.

I Leader degli altri membri del G20 hanno preso atto della decisione americana, ribadendo il loro forte impegno per l\'accordo di Parigi e la sua piena attuazione.

L\'adozione unilaterale di tale decisione porta enormi conseguenze su piani diversi. Innanzitutto, difficilmente può dirsi vantaggiosa per i cittadini statunitensi, mentre è certamente dannosa dal punto di vista degli interessi della comunità mondiale, cioè gli esseri viventi del Pianeta, in generale. La leadership di qualsiasi paese è naturalmente tenuta a prestare attenzione agli interessi del proprio paese, ma certamente non a scapito o danneggiando gli interessi di altri paesi o del resto del mondo. Questa decisione unilaterale ha portato ad alcune interessanti domande, come ad esempio: quale messaggio l\'\"eccezionalismo Americano\" porta nell\'era del mondo multipolare? Si stanno forse ripresentando coloro che vogliono ritornare all\'epoca della pre-globalizzazione? Esiste forse, a parere di alcuni decisori, un qualunque ruolo che la mutua fiducia, la solidarietà, la prevedibilità politica e la politica basata su regole possa svolgere nelle relazioni mondiali contemporanee?

La migrazione di massa provoca discordia nell\'UE. Da qualche anno, il mondo e l\'Europa in particolare sono di fronte ad una massiccia immigrazione di rifugiati e di emigranti principalmente provenienti dal Medio Oriente e dall\'Africa. Secondo le fonti ONU, oltre 65 milioni di persone hanno abbandonato le loro case a causa di guerre, disastri naturali od estrema povertà. Solo nell\'ultimo anno più di un milione di profughi provenienti dalla Siria, dall\'Iraq e da altri paesi del Medio Oriente sono entrati nei paesi dell\'Unione europea utilizzando il cosiddetto percorso dei Balcani (Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Croazia). Altre decine di migliaia di persone provenienti da paesi sub-sahariani ed altri paesi africani sono entrati in Europa utilizzando il cosiddetto \"percorso mediterraneo\" (via Libia, Tunisia, altri paesi del Maghreb fino in Italia ed in Spagna). Migliaia di emigrati trasportati in barche non sicure e sovraccariche hanno perso la vita in mare. L\'afflusso di profughi e migranti ha provocato diverse difficoltà nei paesi di transito e nei paesi di accoglienza. Alcuni paesi membri dell\'Unione Europea hanno eretto muri metallici lunghi centinaia di chilometri sui loro confini per impedire l\'entrata non autorizzata di migranti, altri hanno rifiutato di accettare qualsiasi quota (numero) di migranti decisa dalla sede dell\'UE a Bruxelles. La discordia all\'interno dell\'Unione Europea circa le quote dei migranti, sull\'interpretazione del concetto di solidarietà e sulle modalità per trovare soluzioni sostenibili hanno portato ad una atmosfera poco piacevole ed all\'ascesa del particolarismo e del nazionalismo.

È chiaro che il problema della migrazione su larga scala delle persone è un problema serio ed a lungo termine. La soluzione sostenibile, pertanto, richiede alcune misure urgenti ed alcune misure a medio e lungo termine. Fino ad ora l\'attenzione e le risorse sono state indirizzate a soddisfare urgenti bisogni umanitari, come l\'alloggio, la salute e le esigenze quotidiane dei migranti, tra cui decine di migliaia di bambini. Esiste la necessità di un approccio globale che sia incentrato sull\'eliminazione delle cause profonde del problema. Alcuni progressi recenti nel porre fine alla guerra in Iraq e Siria, compreso il cessate il fuoco nella Siria sud-occidentale, raggiunti a Amburgo durante il Vertice del G20, dovrebbero portare alla diminuzione del numero dei rifugiati ed alla speranza di incoraggiare il libero e sicuro ritorno alle loro case di persone provenienti da vari campi di rifugiati. Solo una soluzione negoziata, pacifica e duratura per il conflitto in Siria può porre fine al flusso di profughi provenienti da quel paese. Tale soluzione per essere sostenibile deve basarsi semplicemente sul compromesso tra le forze politiche interne, rispettando la sovranità e l\'integrità territoriale della Siria. Un simile approccio di dialogo, compromesso e pace basato sui principi fondamentali del diritto internazionale deve essere perseguito per giungere a soluzioni di tutti gli altri conflitti e problemi del Vicino e Medio Oriente, inclusi quelli della regione del Golfo e della Penisola Araba.

Devono essere fornite risorse per stimolare gli investimenti nella crescita economica dei paesi Africani, in particolare nei paesi meno sviluppati e quelli in guerra, da dove gli emigranti si stanno riversando in Libia e in altri paesi del Nord dell\'Africa (Maghreb). Il problema dell\'emigrazione massiccia dall\'Africa difficilmente sarà risolto rafforzando la presenza di polizia e di militari nel Mar Mediterraneo o sulle rive dell\'Africa Settentrionale. E più che mai necessari sono \"una crescita economica ed uno sviluppo sostenibile e inclusivo, in risposta alle esigenze ed alle aspirazioni dei paesi Africani, che contribuiscano a creare un\'occupazione soddisfacente in particolare per le donne ed i giovani, contribuendo così a affrontare la povertà e la disuguaglianza in quanto cause di migrazione \". (Partenariato del G20 con l\'Africa, centro Informativo del G20).  La Cina con la sua politica di cooperazione vincente è un esempio brillante di una partnership con l\'Africa costante e reciprocamente vantaggiosa.

Terrorismo: problema globale - strategia globale. La Strategia Globale 2006 contro il Terrorismo dell\'ONU si basa su 4 pilastri

  1. Affrontare le condizioni che favoriscono la diffusione del terrorismo
  2. Misure per prevenire e combattere il terrorismo
  3. Misure per costruire la capacità degli stati di prevenire e combattere il terrorismo e rafforzare il ruolo del sistema delle Nazioni Unite a tale riguardo;
  4. Misure volte a garantire il rispetto dei diritti umani per tutti e dello Stato di diritto come base fondamentale per la lotta al terrorismo. (A / RES / 60/288)

Tuttavia, il terrorismo internazionale continua a reclamare un alto tasso di vite umane, distruggendo  ricchezza culturale e beni economici, seminando divisione, confronto, disordine, insicurezza e persino destabilizzazione, come nel caso di ISIS. È chiaro che la Strategia Globale per ottenere risultati ha bisogno di un fronte unito e di azioni coordinate che, per motivi diversi, soprattutto geopolitici, sono finora stati insufficienti quando non totalmente assenti. L\'indebolimento del dialogo, della fiducia reciproca e del partenariato tra alcuni dei principali protagonisti internazionali, l\'utilizzo del pericolo terroristico come giustificazione per l\'espansione militare, la politica dei “due pesi e due misure” su chi sono veri terroristi e chi i \"combattenti per la libertà\" o \"l\'opposizione moderata\", l\'interventismo sotto falsi pretesti  hanno creato un ampio spazio per la crescita dell\'estremismo violento e del terrorismo internazionale. La ghettizzazione degli immigrati provenienti dai paesi Musulmani nelle città dell\'ovest, l\'aumento della disoccupazione, del nazionalismo e della xenofobia contribuiscono anche ad un ambiente favorevole all\'estremismo, alla violenza e al terrorismo.

In conclusione, va osservato che nessun paese, e neanche un gruppo ristretto di paesi, per quanto economicamente o militarmente forti, può affermare di poter sradicare le radici del terrorismo internazionale come nemico globale. C\'è la necessità di un fronte antiterroristico forte ed unito e di un coordinamento sotto gli auspici dell\'ONU. Lottare contro il terrorismo come nemico comune presume una fiducia reciproca ed una cooperazione di partenariato ad ampio spettro. Le politiche di confronto, l\'accerchiamento militare ed economico, l\'abuso della democrazia o dei diritti umani per intromettersi negli affari interni dei partner nella lotta contro il terrorismo, non possono che rafforzare il fronte dei terroristi. \"È dunque fondamentale promuovere la tolleranza politica e religiosa, lo sviluppo economico e la coesione sociale e l\'inclusione, per risolvere i conflitti armati e per facilitare il reinserimento\". (Dichiarazione dei leader del G20 di Amburgo sul Contrasto al Terrorismo, Centro Informativo del G20)

Mettere da parte le politiche di potere del passato e accettare nuove realtà è un importante presupposto per un\'eradicazione efficace del terrorismo e per assicurare una crescita economica rapida, stabile e sostenibile dell\'economia mondiale.

(1)   Altri documenti: Dichiarazione dei Leader del G20 di Amburgo sulla Lotta contro il Terrorismo; Piano di Azione di Amburgo, Piano di Azione per il Clima e l\'Energia per la Crescita; Aggiornamento di Amburgo per Portare Avanti il Piano d\'Azione del G20 nell\'Agenda del 2030; Relazione Annuale sullo Stato di Avanzamento 2017; Piano di Azione del G20 contro i Rifiuti Marittimi; Partenariato con l\'Africa; Iniziativa del G20 per l\'Occupazione della Gioventù Rurale

Traduzione di Giorgio F. per civg.it


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ORIG.: Interview: Democracy means freedom, equality and solidarity (20.12.2016.)
Zivadin Jovanovic\'s interview to the “People`s Daily” (Zhenminzhibao)



Democrazia significa libertà, uguaglianza e informazione neutrale

Scritto da Zivadin Jovanovic

Intervista rilasciata a People\'s Daily da Zivadin Jovanovic, Presidente del Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali.

D: Molte persone sono rimaste scioccate dai risultati delle elezioni presidenziali statunitensi dello scorso novembre.  Alcuni esperti sostengono che ciò sia un difetto della liberal-democrazia. Quali sono le principali colpe o errori delle democrazie occidentali?

R: Vorrei anzitutto dire che l\'assenza di una democrazia sostanziale è attualmente il principale problema delle democrazie occidentali. La democrazia occidentale è diventata l\'opposto di cosa dovrebbe essere. Le persone che avrebbero dovuto garantire il processo democratico decisionale sono stati ridotte a una mera copertura per i gruppi di potere che \"dietro le quinte\" decidono su ogni questione rilevante, incluse le decisioni sulla pace e la guerra. La democrazia è libertà, informazione neutrale e umanesimo. In pratica, dove ritroviamo questi valori nella vita reale? Milioni di cittadini sono spiati dai loro governi, centinaia di milioni sono quotidianamente ingannati dalla falsa informazione del sistema di informazione globale, vi è, inoltre, un abuso quotidiano dei diritti umani e il terrorismo internazionale è utilizzato per promuovere il dominio imperiale e gli interessi più biechi, incrementando la disoccupazione di massa e la povertà, il degrado dell\'educazione, della cultura, la rinascita del razzismo e della xenofobia. Sono questi i valori esportati dall\'Occidente nel resto del mondo attraverso Regime change, rivoluzioni colorate e altri metodi sovversivi?

Le cosiddette istituzioni democratiche, come i parlamenti, per esempio, sono diventati semplici \"gusci vuoti\" che ripetono decisioni prese altrove anche fuori dal Paese a cui loro formalmente appartengono. Che istituzioni democratiche hanno deciso l\'aggressione della NATO alla Jugoslavia nel 1999 o dell\'Iraq nel 2003, o in Libia e in Yemen e in molti altri paesi? Quali parlamenti hanno preso decisioni sui miliardi di dollari ed euro pagati nel 2008 e nel 2009 per salvare le banche private e le compagnie di assicurazione negli Stati Uniti e in Europa? Anche se quei miliardi fossero solo moneta appena stampata le enormi perdite causate dall\'incapacità manageriale e dalla corruzione nel settore privato saranno pagate dalle future generazioni.

 

D: Nel 2016, in Europa ci sono succeduti alcuni referendum, come quello nel Regno Unito, in Ungheria, in Svizzera, in Austria e in Italia. Possiamo dire che questi eventi dimostrano la vittoria della democrazia diretta? Alcuni sostengono che questa in Europa è solamente una vittoria del populismo. Qual è la tua opinione? Qual è il limite della democrazia diretta e perché molti Paesi non hanno adottato tale sistema di voto nel passato?

 

R: Ogni referendum ha qualcosa di specifico dipendente dalla cultura, dalla tradizione, dalla storia, dalla geopolitica e dal proprio contesto. La Svizzera, ad esempio, ha una lunga tradizione di frequenti referendum e non c\'è niente di inusuale nel fatto che questa pratica continui a esistere.

Per i referendum come la Brexit, quello in Ungheria, in Italia e altri, io credo che siano una forma di rivolta nei confronti di un\'offesa sistematica dei reali bisogni e di ciò che la gente veramente vuole, nonché una reazione al prolungato crollo del tenore di vita. I risultati dei referendum sono tuttavia differenti da un Paese all\'altro, ma hanno in comune la disperazione e la sfiducia nei confronti dell\'élite, o quello che viene chiamato establishment. Tali risultati mostrano quanto l\'establishment sia alienato e lontano dalle masse di persone che si sentono spogliate e private dei loro diritti di base sia democratici che umani.

Ritengo alta la possibilità che in futuro ci possano essere simili referendum in altri Paesi.

É ancora da vedere se gli inevitabili cambiamenti del sistema disumano socio-economico corporativo liberale possano verificarsi solo tramite referendum o se sarà necessario contemplare degli approcci più complessi che coinvolgano il ritorno di potere alle istituzioni. É certo tuttavia che la burocrazia e la plutocrazia a livello nazionale e internazionale non si priveranno volontariamente dei privilegi e del potere accumulati negli ultimi decenni.

Il ritorno dei referendum è, quindi, una reazione delle masse al sistema capitalista al servizio degli interessi di una minoranza di ricchi che ignorano i legittimi interessi della maggioranza.

Il populismo come fenomeno politico non dovrebbe essere analizzato anzitutto per capire quali sono le sue cause e le sue radici? Il termine populismo è invece utilizzato dall\'establishment occidentale per conservare lo status quo, per difendere i suoi enormi privilegi dipingendo ogni domanda di cambiamento come negativa.

 

D: Molti europei sono spaventati dall\'incapacità dei leaders europei di gestire crisi come quella dei rifugiati, il terrorismo e la Brexit. Alcuni dicono che la debolezza dell\'Europa sta nell\'abuso di democrazia . In Occidente, i sondaggi mostrano una caduta fra i giovani del livello di fiducia nella democrazia. Sembra che molti pensano che sarebbe meglio avere un \"leader forte\" o un \"grande uomo\" che abbia messaggi semplici e soluzioni facili. Come vede il fallimento della democrazia occidentale?

 

R: La Brexit ha destabilizzato l\'Europa e ha aperto il Vaso di Pandora con conseguenze imprevedibili. Influenti forze politiche negli altri Paesi membri dell\'Unione europea invocano simili mosse in un futuro non troppo distante. Ad oggi, la leadership dell\'Europa non ha dato risposte convincenti riguardo il futuro comune. La crescita dei problemi legata ai rifugiati, alla migrazione di massa, all\'espandersi del terrorismo internazionale, alla disoccupazione, alle differenze socio-economiche a livello nazionale e internazionale, la lenta ripresa economica e molti altri, ha aumentato le divisioni, indebolito la fiducia reciproca, aumentato l\'egoismo e l\'euroscetticismo. Tutti questi problemi, a mio avviso, sono interconnessi e conseguenze di una crisi di sistema del capitalismo liberale e dell\'ordine mondiale unipolare.

Mentre i difensori dell\'ordine mondiale unipolare stanno perdendo terreno cresce chi sostiene un sistema mondiale multipolare, anche in Occidente, ed è sintomatico che il bisogno di un cambio parallelo del concetto di capitalismo liberale multinazionale e corporativo non è in qualche modo al centro dall\'attenzione. Non è ancora stato capito come l\'ordine unipolare e il sistema capitalista liberale corporativo siano fortemente interconnessi. Il sistema sta subendo una crisi prolungata e severa, sta disumanizzando e distruggendo le società e in parallelo destabilizzando le relazioni internazionali e alzando il profitto al di sopra di ogni valore di civiltà. É ora di guardare avanti. É necessario che al centro dell\'attenzione nazionale e internazionale tornino a esserci l\'uomo, la libertà, l\'uguaglianza e la solidarietà.

 

Zivadin Jovanovic, President of the Belgrade Forum for a World of Equals

Traduzione di Andrea C. per Forum Belgrado Italia/CIVG



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ORIG.: Five years after inception of China-CEEC Cooperation - REMARKABLE ACHIEVEMENTS (Zivadin Jovanovic – Belgrade Forum and Connectivity Research Center, 23 June 2017)
... In 2012 then Prime-minister of the People’s Republic of China Wen Jibao presented to the first summit of prime ministers of China +16 CEE countries in Warsaw, Poland, the document titled “China’s Twelve Measures for Promoting Friendly Cooperation with Central and Eastern European Countries. The document known as “Warsaw Initiative” symbolizes the beginning and foundation of multitier, long-term, strategic cooperation between China and 16 CEE countries (1+16), based on sovereign equality, mutual trust and benefits, in win win mode...
http://www.beoforum.rs/en/comments-belgrade-forum-for-the-world-of-equals/519-five-years-after-inception-of-china-ceec-cooperation-remarkable-achievements-.html


http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1122:cinque-anni-dopo-l-accordo-di-cooperazione-tra-cina-e-paesi-europei-centro-orientali-notevoli-risultati&catid=2:non-categorizzato

Cinque anni dopo l’accordo di cooperazione tra Cina e Paesi Europei Centro-Orientali. Notevoli Risultati

Scritto da Zivadin Jovanovic

Sono cinque anni da quando è stato siglato l’accordo tra i paesi europei centro-orientali (CEEC) e la Cina. Nel 2012 il primo ministro della Repubblica Popolare Cinese, Wen Jibao, presentò al summit fra Cina e i 16 paesi aderenti al CEEC svoltosi a Varsavia, Polonia, un documento intitolato “Le dodici misure Cinesi per promuovere la Cooperazione con i paesi centro orientali\".

Il documento conosciuto come “L’iniziativa di Varsavia” simboleggia l’inizio e la fondazione di una cooperazione strategica di lungo termine tra la Cina e i paesi europei centro-orientali, che si basa sull’equità e il rispetto delle rispettive sovranità, fiducia e benefici reciproci. Dopo cinque anni i risultati concreti raggiunti in campo economico, hanno confermato che l’iniziativa ha portato frutti insperati. Il meccanismo cooperativo ha dimostrato di essere realistico, efficiente e in armonia con la strategia dei paesi partecipanti. Anche i paesi che non hanno aderito al protocollo di cooperazione, hanno reagito positivamente di fronte a questa sinergia e alle varie forme di incremento di reciproca comprensione e di integrazione fra l’oriente e l’occidente.

L’iniziativa lanciata dal Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, One Belt One Road (OBOR), nel Settembre 2013 ha dato una grande impulso alla Cooperazione fra Cina e CEEC dando nuove dimensione e nuove opportunità. Inoltre, la OBOR, ha incentivato la cooperazione fra gli stessi Paesi della CEEC, e fra questi e gli altri Paesi che si trovano lungo la via della seta.

La collaborazione fra i Paesi della CEEC e la Cina, apre svariate opportunità:

 

-       Velocizzare la modernizzazione delle infrastrutture, in particolare ferrovie, autostrade, aeroporti, e le vie d’acqua, sia fluviali, che marittime;

-       Diminuire il divario sociale e tecnologico tra i paesi CEEC, e fra questi e i Paesi sviluppati dell’Unione Europea;

-       L’opportunità di ospitare nuove realtà economiche in Cina, che garantiscano stabilità, una costante crescita economica, nonché un ruolo di livello globale;

-       Contribuisce in generale alla cooperazione tra Unione Europea e Cina, ala luce dell’agenda strategica per la Cooperazione prevista per il 2020 fra Unione Europea e Cina;

-       Partecipare alla ripresa economica aggiornando il proprio sviluppo economico avendo riguardo per il carattere globale e multidimensionale dell’agenda OBOR.

 

La posizione geografica dei paesi della CEEC, la loro importanza economica, il loro bacino di risorse umane, da un lato, la sete di investimenti, di un’economia moderna e sviluppata e di piena occupazione, dall’altro lato, fanno si che Cina e CEEC si desiderino a vicenda. La Cina ha l’interesse a sviluppare relazioni strategiche con l’Europa (UE), aggiornare la cooperazione commerciale e gli investimenti, fare della CEEC il motore per approfondire la cooperazione fra Cina ed Unione Europea. Inoltre, la Cina è divenuta la seconda potenza economica, raggiungendo notevoli risultati nello sviluppo di nuove tecnologie e con la sua strategia che si basa sulla cooperazione con reciproci vantaggi, ha incoraggiato i Paesi CEEC ad incrementare investimenti e il commercio.

Dopo il vertice di Varsavia del 2012, se ne sono avuti altri a Bucarest (2013), Belgrado (2014), Suzhou (2015) e Riga (2016). Il prossimo summit verrà ospitato a Budapest. Ogni summit, adotta linee guida come, ad esempio, l’impostazione di documenti che stabiliscono compiti e misure concreti.

Di tutti i meeting e i relativi documenti e le varie attuazioni devono dimostrare di essere di elevata importanza sia in fase di preparazione che di aggiornamento, di modo che si rinforzi l’efficienza e il carattere pratico della cooperazione fra CEEC e Cina.

I “think tank” hanno un ruolo davvero importante nello studio approfondito e nell’analisi dei vari aspetti della cooperazione sotto l’egida dell’OBOR, cercando di individuare le migliori opzioni, prevedendo lo sviluppo le migliori condizioni per lo sviluppo. Giocano un ruolo insostituibile nel campo della promozione, diplomazia, e la connettività fra le persone. La partecipazione alle varie attività è su base volontaria.

La cooperazione fra la CEEC e la Cina, ha prodotto progressi senza precedenti nell’intensificare il dialogo politico su tutti i livelli, specialmente su quello più alto fra capi di stato e capi di governo. Seguendo la strategia delle riforme e trasformando la Cina in una potenza mondiale in campo economico e un fattore globale delle relazioni internazionali. Così, per essere partner della Cina ed instaurare con lei un dialogo, i leader della CEEC, non devono solamente migliorare gli aspetti economici della cooperazione ma anche, rinforzare la loro reputazione internazionale, e contribuire alla costruzione di un mondo multipolare, che sta venendo alla luce grazie all’enorme contributo della Cina. A questo proposito, l’adozione di protocolli volti a costruire una strategica relazione fra la Cina e i paesi CEEC è di particolare importanza la stabilità della cooperazione e la base per condividere future relazioni e processi.

In parallelo, noi assistiamo quotidianamente alla vigorosa intensificazione della cooperazione e lo scambio fra popoli. Non vi è solo la crescita delle delegazioni ufficiali e degli uomini d’affari, vi sono anche quelle fra artisti, scienziati, gruppi di danza, turisti, giornalisti e molti altri aumentano costantemente i contatti scambiandosi informazioni, cultura, amicizia. Comprensione reciproca, dialogo e cooperazione economica, da un lato, e l’intensificazione dello scambio e dell’amicizia fra popoli, hanno fatto si che si rinforzasse la sinergia in tutti i tipi di relazioni.

Ci sono stati notevoli risultati e benefici reciproci nella cooperazione fra Cina e CEEC. Nel luglio 2013 sono iniziati trasporti merci su ferrovia fra Chengdu (Cina), e Lodz (Polonia). Altri collegamenti diretti sono stati instaurati fra la Cina e Paesi della CEEC e Paesi dell’Europa Occidentale (Praga, Duisburg, Francoforte, Budapest). “Una via di terra e di mare” è stata aperta fra i porti di Shanghai e il cuore dell’Europa. L’Hub express aperto in Grecia nel porto del Pireo verso cui le merci sono trasportate da ferrovie (o autostrade) via Skopje (Macedonia), Belgrado (Serbia) e Budapest (Ungheria) all’Europa Centrale ed Occidentale. Vi sono voli diretti fra Pechino e varie capitali della CEEC (Varsavia, Praga, Budapest) e ve ne sono altre in preparazione (Belgrado).

Gli investimenti nell’industria e nell’energia sono impressionanti. Il gruppo Cinese Wanhua ha investito nell’ungherese BorsodChem 1,6 miliardi di dollari; la LiuGong Machinery ha acquisito la polacca Huta Stalowa Wola; la China’s Railway Signal and Communication Co. è divenuta l’azionista di maggioranza della Ceck’s IneconTram Producing Group; una delle più grandi aziende cinesi del campo siderurgico, la HeSteel, ha assorbito la Serbian Steel Mil Company in Smederevo (2016); la Great Wal Car Factory si è stabilita in Bulgaria; la Stanari and Tuzla Power Plants  in Bosnia Herzegovina è stata finanziata e costruita da partner cinesi. Due delle principali autostrade in Macedonia – la Miladinovci – Stip (50 km) e la Kicevo-Ohrid (57 km) valgono 730 milioni di dollari, sono state costruite e finanziate da banche e compagnie cinesi. In Serbia, dopo aver completato il ponte sul Danubio, il “Mijalo Pupin”, i partner cinesi, han continuato a costruire autostrade, ponti e tunnel, compresa l’autostrada del corridoio 11, che unisce la Serbia col Montenegro.

La costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità tra Belgrado (Serbia) e Budapest (Ungheria) di 370 Km comincerà il prossimo novembre. Quando sarà completata, il tempo di percorrenza frale due capitali si ridurrà dalle attuali 8 ore, a 3 ore.

Il volume di affari fra la Cina e i paesi CEEC è cresciuto rapidamente di 60,2 miliardi di dollari nel 2014, e molto probabilmente raddoppierà il suo volume nei prossimi 5 anni. Quest’obiettivo è stato fissato al summit di Bucarest del 2013. Nei precedenti 5 anni la cooperazione fra Cina e CEEC sotto l’egida della OBOR è stato un fattore di crescita economica, aumento dell’occupazione e miglioramento della qualità della vita nei paesi CEEC. Questo ha incoraggiato i partecipanti a continuare e ad allargare la cooperazione, rimuovendo i rimanenti ostacoli e avvicinando l’Europa, la Cina e l’Asia.

Il ruolo dei Paesi della penisola balcanica.

La regione balcanica si colloca nel sud est dell’Europa bagnata dall’Adriatico, dal mar Ionio, mar Egeo e il mar Nero. Secondo l’Enciclopedia Britannica la regione comprende l’Albania, Bosnia ed Herzegovina, Bulgaria, Croazia, Macedonia, Montenegro, Romania, Serbia, Slovenia, mentre Grecia e Turchia sono spesso incluse (la valutazione non è univoca). L’area è estesa per 666700 Km quadrati e la popolazione conta 59297000 abitanti. I Paesi della penisola, ad eccezione di Grecia e Turchia, sono molto attivi nella cooperazione CEEC-Cina. Tuttavia Grecia e Turchia hanno un ruolo chiave nel migliorare ed incrementare la OBOR con accordi bilaterali. Cinque di questi Paesi (Bulgaria, Croazia, Grecia, Romania, Slovenia) sono membri dell’UE, mentre altri sono in attesa di farne parte.

I Paesi della penisola balcanica hanno un sistema economico basato sul libero mercato. I salari medi oscillano fra i 4000 e i 12000 dollari pro capite. Il PIL pro-capite più alto è in Slovenia e in Grecia (sopra i 25000 dollari), seguito da Croazia (21000) e poi Turchia, Bulgaria, Romania, Montenegro, Serbia, Macedonia (10000 – 15000 dollari), Bosnia e Albania (sotto i 10000 dollari).

Generalmente, la disoccupazione è un grosso problema per la maggior parte dei paesi balcanici, che colpisce in modo particolare le giovani generazioni, ove il tasso di non occupati sfiora il 30%. Il tasso più basso è in Romania (sotto il 10%), seguita da Bulgaria, Turchia, Albania (10-15 %), Grecia, Serbia (15-20%), Montenegro, Bosnia (20 – 30%), Macedonia (sopra il 30%).

Il ruolo della penisola Balcanica è di estrema importanza, soprattutto nel campo del commercio, degli investimenti e delle infrastrutture. Hanno l’interesse, la volontà politica e il potenziale per incrementare la cooperazione con la Cina.

Sebbene gli interessi possono variare fra paese e paese, la priorità di tutti i paesi è la modernizzazione delle infrastrutture transfrontaliere, una nuova industrializzazione eco-sostenibile, e produzione di energia rinnovabile.

I Balcani possiedono un’enorme potenziale. Questi Paesi controllano i territori che uniscono l’Europa Occidentale con il Sud Ovest dell’Asia (Asia Minore e Medio Oriente). Tuttavia, questi stessi territori rappresentano un collo di bottiglia per la crescente domanda di trasporti e la necessità di modernizzazione.

Numerosi sono i porti in Grecia, Turchia, Bulgaria, Romania, Albania, Croazia e Montenegro, che rendono la regione interconnessa coi porti e i mercati sia Europei che di altri continenti. Altri paesi come la Serbia, hanno enormi potenzialità per quel che riguarda le vie fluviali, soprattutto grazie al Danubio, nonché la sua rete di affluenti e di canali. Così la maggior parte della penisola balcanica, se non tutta, gioca un ruolo importante nell’operazione “Via diretta per terra e per mare”.

Da millenni la penisola balcanica gioca un ruolo chiave nell’incontro fra civiltà, culture e religioni. Nonostante la sua storia turbolenta e i lunghi periodi di occupazione, i paesi di questa parte di Europa conserva una rara apertura vero la comunicazione e l’interazione con gli altri paesi del mondo, con le altre culture, con le differenti società ed economie.

Riassumendo, le caratteristiche della penisola balcanica che risultano interessanti alla natura e agli obiettivi della OBOR sono:

1)      Posizione geografica favorevole, per cui la penisola balcanica è spesso considerata la via principale all’Europa:

2)      Grande potenziale concernente la connettività, autostrade, ferrovie, porti, fiumi, aeroporti che rendono facilmente collegabile con le altre regioni d’Europa e l’Asia Minore (Turchia) e il vicino Oriente;

3)      Porti di mare accessibili facilmente dagli oceani indiano ed atlantico, dall’Africa e dalle altre regioni del mondo;

4)      Vie interne d’acqua che collegano il mar Nero coi mari del nord e col mar Baltico, tagliando tempi e costi di trasporto;

5)      Posizione geografica, sociale ed ambiente culturale e i già raggiunti risultati della cooperazione con la Cina sono buone raccomandazioni per i Balcani per ospitare la “Belt and Road Initiative connectivity juncture park” mettendo in sinergia le vie di mare e di terra, ferrovie, vie d’acqua, aeroporti, in un sistema completo e flessibile a livello regionale;

6)      Connettività nel campo della libera circolazione delle persone: per oltre 2000 anni i Balcani sono stati teatro dell’incontro e dell’incrocio di varie civiltà (Occidentale, Orientale, Latina, Bizantina, Islamica), di culture, di religioni, come quella Cristiana (Greco Ortodossa, Cattolica, Protestante), e quella Islamica. E’ una zona con una popolazione dalla mentalità aperta, con spirito comunicativo e assetata di imparare la storia, la cultura e l’arte degli altri popoli.


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La truffa lombardo-veneta

1) Nota del Comitato Nazionale dell\'ANPI
2) L’imbroglio del referendum lombardo-veneto, di Giorgio Cremaschi
3) Le regioni andrebbero abolite, di Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro
4) 22 ottobre, referendum autonomista lombardo-veneto: c’è chi dice NO, di Fronte Popolare
5) Referendum in Lombardia e Veneto /1. Prepariamoci a votare NO, di Sergio Cararo


Vedi anche:

Die deutsche Ethno-Zentrale / Germania e separatismi: l’economia della secessione (rassegna JUGOINFO del 16.10.2017)

Lombardia e Veneto: referendum inutile? No, utilissimo…a loro! (di Pierluigia Iannuzzi, 30/09/2017)
Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
https://www.lacittafutura.it/dibattito/lombardia-e-veneto-referendum-inutile-no-utilissimo-a-loro.html

Regione Lombardia: referendum sulla autonomia ed “evoluzione” del sistema sanitario lombardo (di Gaspare Jean, su Gramsci Oggi n.3/2017)
...  3 milioni di ammalati cronici lombardi riceveranno entro ottobre 2017 una lettera con indicati i Gestori accreditati che dovranno scegliere; da indiscrezioni sembra che questa lettera abbia il seguente tono: “ La Regione Lombardia fa uno sforzo notevole per far si che i malati cronici non debbano avere lunghe liste d’attesa... avrebbe potuto fare di più se fosse più autonoma e libera di stilare coi MMG una convenzione regionale e coi dipendenti un Contratto regionale invece che nazionale. Scegliete dunque il GESTORE e votate per una maggiore autonomia.”...  I gravi disagi che gli ammalati cronici lombardi hanno non sono dovuti a mancanza di maggior autonomia della Lombardia ma a scelte precise della maggioranza di centro-destra che ha puntato sulla privatizzazione, sulla centralità della medicina ospedaliera e specialistica a scapito dei distretti sanitari che sono stati aboliti, sulla esclusione dei Comuni dal Servizio Sanitario regionale, sulla mancata integrazione tra servizi sociali e sanitari...


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Fonte: ANPI News n. 260 – 10/17 ottobre 2017

Il Comitato Nazionale dell\'ANPI, 
preso atto che il 22 ottobre i cittadini delle Regioni Veneto e Lombardia saranno chiamati a votare sui quesiti proposti dalle due Regioni, con cui, in sostanza, si chiedono maggiore autonomia e maggiori poteri;
sentiti i dirigenti provinciali e regionali delle due Regioni interessate, 
osserva:
i due quesiti, pur diversi nella forma, hanno carattere meramente consultivo e mirano ad ottenere ciò che è previsto, in altra forma, dalla Costituzione italiana, che disciplina il sistema delle autonomie, per quanto interessa in questo caso, con gli artt. 5 e 116 e, in particolare, in quest\'ultimo articolo con la norma che prevede espressamente la possibilità che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni con legge dello Stato, su iniziativa delle Regioni interessate, sentiti gli Enti locali”. 
Si tratta, dunque, di referendum sprovvisti di qualsiasi utilità e comportanti oneri di spesa notevoli, su obiettivi che possono essere già raggiunti in altro modo, nelle opportune sedi e forme istituzionali. Basterebbe questo per indurre l\'ANPI ad estraniarsi rispetto a tali consultazioni. Non può esimersi, tuttavia, l\'ANPI dall\'osservare che il sistema delle autonomie, non solo è regolato da diverse disposizioni specifiche, a cominciare dall\'art. 5 e da tutta la parte che riguarda i rapporti tra i poteri centrali, le Regioni e i Comuni, ma rientra anche nella disciplina generale di cui all\'art. 2, che impone a tutti (cittadini e istituzioni) “l\'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Ogni questione attinente alle autonomie non può ispirarsi a criteri particolaristi ed egoistici, ma deve potersi ricondurre anche ai doveri di solidarietà di cui, appunto, all\'art. 2.
Ogni cittadino è libero di votare come crede, ma farà bene a tener presente, sempre, i princìpi che si ricavano, in modo indiscutibile e chiarissimo, dalla Carta Costituzionale.

Roma, 14 settembre 2017


=== 2 ===


L’imbroglio del referendum lombardo-veneto

di Giorgio Cremaschi, 17 ottobre 2017

Le stesse forze politiche che, contrapposte, si candidano al governo del paese e che si scontrano sulla nuova legge elettorale, sostengono unanimi i referendum per l’autonomia che si terranno in Lombardia e Veneto il 22 ottobre. 

Non è vero dunque che le due consultazioni siano un puro patrimonio leghista, anche se così vengono presentate. In Lombardia il referendum è stato approvato da tutto il centrodestra e dai cinque stelle. Il Partito democratico, inizialmente contrario, ha poi cambiato posizione: il sindaco Sala di Milano, il futuro candidato alla regione ora sindaco di Bergamo, Gori, insieme a tanti altri si sono pronunciati per il SI. 

Nel Veneto il PD si è astenuto sul referendum, poi ha dato indicazione per il SI, tutte le altre formazioni politiche hanno la stessa posizione dei loro omologhi lombardi. In sintesi in Lombardia e Veneto Renzi, Berlusconi, Di Maio e persino Meloni, almeno tramite i loro referenti locali, sono d’accordo con il referendum di Salvini, Maroni e Zaia. È l’unità regionale totale. Che ora il PD vorrebbe estendere anche in Emilia Romagna ed in Puglia, con analoghe consultazioni.

In Lombardia e Veneto le sole voci fortemente contrarie vengono dalla sinistra non rappresentata nei parlamentini regionali, da movimenti sociali, da sindacati di base come USB, voci troppo flebili per rompere la monotonia di una campagna elettorale inquietante, dove è in campo solo il SI sostenuto con ingenti finanziamenti dalle istituzioni regionali. 

Ma se sono tutti d’accordo i principali schieramenti politici delle due regioni, a che serve il referendum? La domanda ha una risposta scontata da parte dei presidenti regionali: il voto serve a far contare il popolo. É vero? Assolutamente no. 

I due quesiti referendari non fanno domande precise, le uniche sulle quali il pronunciamento popolare potrebbe davvero decidere e contare. Avete presente il nostro referendum costituzionale, quello sulla Brexit, quello greco sul memorandum della Troika, quello sulla indipendenza della Catalogna? Ecco, quelle consultazioni con il voto del Lombardo-Veneto non c’entrano nulla. Quelli sono stati pronunciamenti con domande chiare che esigevano altrettante risposte chiare; e infatti la politica poi ha fatto molta fatica a reggere il responso popolare, anzi a volte lo ha rinnegato proprio. 

Questo rischio, per i referendum sull’autonomia, non si corre: essi non chiedono nulla e quindi, quale che sia, la risposta popolare ad essi nulla conterà. Per quelle forze politiche italiane abituate a tradire i propri programmi un minuto dopo averli varati, questo voto è perfetto. Tutti impegnati senza veri impegni. 

Il quesito veneto è semplicissimo: volete più autonomia? Quello lombardo, evidentemente frutto di qualche consulenza giuridica più meditata, accenna al rispetto dell’unità nazionale, della Costituzione e esplicita la richiesta di maggiori risorse. 

Quali? Qui c’è l’ imbroglio. 

L’Italia ha il fiscal compact, quello che Renzi e Salvini dicono di voler cambiare, direttamente inserito nella Costituzione. La modifica dell’articolo 81 è un atto devastante della nostra democrazia, compiuto quasi alla unanimità dal parlamento precedente a quello attuale. Assieme alla costituzionalizzazione dell’austerità ci sono poi il patto di stabilità che distrugge l’autonomia di spesa degli enti locali e il controllo diretto della UE sui bilanci pubblici. 

Come si fa a chiedere più autonomia per le regioni, se tutto il meccanismo di governo imposto dalla austerità europea nega ogni libertà di spesa a tutte le istituzioni della Repubblica? 

Maroni e Zaia sono al governo delle due regioni più ricche del paese, che assieme hanno un quarto della popolazione. Immaginate una loro iniziativa istituzionale per cancellare il fiscal compact e il patto di stabilità. Questa sì che avrebbe bisogno del consenso del popolo, proprio perché si tratterebbe di imporre allo Stato una diversa politica economica, anche in conflitto con i vincoli UE. 

Ma la Lega nord e tutte le principali forze politiche italiane sono oggi “europeiste”. Meglio quindi chiedere una autonomia che in realtà non è permessa a nessuno, meglio fare domande che non vogliono dire nulla nel sistema economico governato dalla troika. Meglio un referendum finto che impegnarsi davvero in un conflitto col potere centrale. Questo si fa sui venti migranti ospitati a San Colombano, non sulle spese per lo stato sociale. 

I referendum lombardo e veneto non propongono alcuna revisione reale delle spese dello Stato e delle regioni, alludono soltanto a più soldi al nord e meno al sud; ma anche in questo imbrogliano, perché con il vincolo europeo di bilancio – che Maroni e Zaia accettano – neanche una redistribuzione iniqua delle risorse potrebbe essere fatta. Si taglia dappertutto e basta. 

Dunque il quesito sull’autonomia è fasullo, però dietro di esso se ne nasconde uno vero, che non a caso ha raccolto grande consenso nel mondo imprenditoriale. La domanda nascosta è: visto che l’austerità istituzionale vincola rigidamente il bilancio della regione, possiamo riconquistare autonomia privatizzando? 

Trasporti, servizi sociali, istruzione e soprattutto la sanità nelle due regioni a guida leghista sono sempre più regalati al mercato. I milioni di malati cronici della Lombardia saranno affidati ad un gestore privato che avrà il compito di amministrare le loro cure, naturalmente trovando il modo di farci profitti. In Veneto l’appalto ai privati della costruzione e della gestione di uno dei più grandi ospedali della regione è diventato un bengodi senza precedenti per gli affari. La regione Lombardia è più sollecita della ministra Fedeli nell’offrire alle aziende il lavoro gratis degli studenti nell’alternanza scuola lavoro.

Il “Si” chiesto da Maroni e Zaia serve dunque prima di tutto a questo: ad approvare la connessione sempre più stretta tra politica ed affari e la privatizzazione dello stato sociale e dei servizi pubblici, ove Lombardia e Veneto sono all’avanguardia. 

I due referendum autonomisti sono un imbroglio a diversi strati di inganni, il cui solo scopo è creare consenso al sistema di potere che governa le due regioni più ricche d’Italia. Che tutte le principali forze politiche delle due regioni siano d’accordo, è solo un ulteriore segno del degrado della nostra democrazia. 


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I referendum in Lombardia e Veneto. Le regioni andrebbero abolite

di Ugo Boghetta - Mimmo Porcaro, 29 settembre 2017

Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terranno due referendum promossi dai presidenti (pardon, governatori) leghisti Maroni e Zaia al fine di avere l’avallo per chiedere al Governo e al Parlamento una maggiore autonomia. E già qui si vede che si tratta di referendum farlocchi: una tale richiesta Maroni e Zaia potrebbero tranquillamente farla già da oggi, quindi quello che si vuole è un plebiscito, pura propaganda.

A questi referendum si affiancano le mozioni presentate nelle regioni del sud dall’ormai ineffabile M5S per l’istituzione della giornata della memoria delle vittime dell’Unità d’Italia. Così. Di colpo. Senza nessun preliminare ragionamento sulla complessità del processo unitario e dei suoi effetti, sulla natura di classe dell’unificazione. Aria di elezioni, insomma.

Si tratta sì delle ennesime armi di distrazioni di massa. Ma, in realtà, creano confusione e, per questo, sono cose importanti e pericolose. Sono importanti per la prospettiva del paese e delle classi popolari che lo abitano. Sono pericolose perché coincidono con gli interessi dell’imperialismo statunitense e di quello tedesco (per ora – e ancora per poco? – subordinato al primo, ma per noi non meno letale).

L’Italia vive da tempo una situazione di stallo. Più o meno dall’entrata nell’Unione Europea e dalla firma del trattato di Maastricht: 7 gennaio ’92. Come si vede il periodo coincide con il sorgere della cosiddetta seconda repubblica e degli equivoci ideologici che l’hanno generata ed accompagnata.

Ma tale confusione è entrata in una nuova fase. Da una parte avremo l’implementazione dell’Unione a “due velocità”, che accentuerà il baricentro nordico e la germanizzazione dell’Europa (e il recente risultato elettorale tedesco non interromperà il processo, ma lo renderà per noi più pesante). E tutto ciò con l’aiuto contraddittorio della Francia. È dall’avvio dell’Unione che abbiamo sempre dovuto subire gli intrighi, le volontà e l’estorsione del gatto e della volpe, ed ogni idea nostrana di giocare l’uno contro l’altra si è mostrata finora campata per aria: e non soltanto perché non c’è un Cavour. Sempre più il popolo italiano ha tutto da perdere dall’Unione. I paesi mediterranei diventeranno via via più periferici, e così quelli dell’est, che inoltre accentueranno la loro subalternità agli Usa.

Per l’altro verso, l’elezione di Trump e lo scontro in atto negli Usa, hanno reso più blanda la presa statunitense e accentuato i mutamenti e le tendenze multipolari: la Germania sa benissimo che prima o poi dovrà scegliere di percorrere di nuovo la via della politica di potenza, anche se farà di tutto per realizzarla attraverso l’Unione. Infine, terzo e quarto attore, la Russia si presenta come argine militare alle pericolosissime iniziative occidentali e la Cina come alternativa economica (“via della seta”) al deflazionismo (classista) dell’Unione europea: ed entrambi come vasti mercati per le imprese italiane e come soggetti di un ordine finanziario alternativo.

Questa situazione in sé sarebbe positiva, se soltanto si fosse in grado di sfruttarla. Essa infatti amplia gli spazi per costruire una posizione non subalterna agli uni ed agli altri (un ruolo centrale dei paesi mediterranei, o meglio ancora di una confederazione europea radicalmente modificata). Ma a tal fine dovremmo saper riconquistare un po’ di dignità e di indipendenza. In questo contesto, infatti, potremmo meglio sviluppare gli interessi nazionali (cosa a cui abbiamo fatto cenno in un recente articolo: viva la Catalogna abbasso l’Italia) e dall’altra potremmo lavorare meglio per un mondo multipolare, che è l’assetto migliore per tutti i paesi medio-piccoli e per ostacolare l’assoluta mobilità del capitale, causa prima del pluridecennale arretramento dei lavoratori.

Al contrario, se continua questo confusionismo, col nord leghista che vuole diventare il sud della Baviera, col sud che si accontenta di diventare definitivamente la piattaforma USA nel Mediterraneo, il paese rischia la disgregazione, ed ogni sua parte va incontro ed altri secoli di sudditanza.

Ovviamente queste grandi questioni si mischiano alle miserie interne ai partiti. Maroni e Zaia si muovono contro l’ipotesi nazionale di Salvini. Il PD vota Sì ai referendum al nord ed aderisce alle mozioni dei M5S al sud, da un lato mostrando di essere diventato un partito colabrodo, e dall’altro intestardendosi coerentemente con il federalismo: quello fiscale fu un frutto loro. A questo proposito, non tutti sanno che le richieste per le modifiche della “Bassanini” inserite nel recente referendum sulle modifiche Costituzionali erano state avanzate dalle Regioni stesse perché fonti di caos.

Nemmeno il M5S scherza. Al nord stanno col Sì perché si vota con i computer: uno sballo on-line! Al sud propongono una mozione che apre una questione sull’unificazione dell’Italia (cosa, come abbiamo detto, certamente controversa) scegliendo come data della giornata della memoria quella della fine del regno borbonico: un atto reazionario o di estrema stupidità. Perché non scegliere il giorno del massacro di Bronte, sanguinosa espressione del carattere classista dell’unificazione? In questo caso il messaggio storico-politico sarebbe stato chiaro. Forse troppo chiaro. Perché non celebrare il giorno in cui fu ucciso Pisacane, che al cambiamento sociale credeva davvero, e che fu massacrato da contadini istigati dai Borboni e dagli agrari (gli altri decisivi agenti – questi ultimi – di una unificazione che non fu voluta solo dai “piemontesi”)? È su queste questioni che l’Unità d’Italia al sud ha preso la piega gattopardesca che ha dato i risultati che ha dato.

Come si vede, non c’è nessun contenuto classista,progrsessita, democratico in nessuna delle due posizioni.

In ogni caso, mettere di fatto in discussione l’Unità d’Italia, frammentarla, esporla alle incursioni di interessi stranieri è da criminali. Così come lo è stata l’entrata nell’Unione e nell’euro. Ciò non può che accentuare l’autorazzismo degli italiani sempre pronti a denigrarsi: un popolo che dimentica la propria storia (e la sua complessità) non va data nessuna parte.

Ma a questo quadro generale si deve aggiungere un altro tema.

I referendum chiedono più autonomia regionale. Il fatto è che, (a parte l’uso politico che PCI e PSI ne fecero all’epoca, usando con qualche successo le Regioni da loro governate come contraltare al governo centrale democristiano) queste istituzioni sono un fallimento. Costano davvero una barca di soldi. L’unico loro ruolo è distribuire i denari della sanità, dell’assistenza e dei trasporti (80/90% del bilancio) e, nel farlo, contribuiscono non poco ad acuire le già pesanti differenze trai servizi sociali nelle diverse zone del paese. Rendono volutamente complicato il processo decisionale. Legano strettamente i partiti ed i loro uomini ai diversi gruppi di interesse. Sono composte da territori storicamente eterogenei. Non sono sentite come istituzioni veramente interessanti a livello elettorale: le votazioni importanti sono quelle nazionali e quelle locali.

Se da una parte, dunque, va fatto fallire il referendum-plebiscito chiesto da Maroni e Zaia, dall’altra bisognerebbe proporre un modello istituzionale alternativo adeguato ai tempi. Questo non può che essere uno Stato centrale autorevole ed efficace all’interno, con una politica adeguata, forte e cooperativa all’esterno. Uno Stato che sappia trasferire parte dei poteri e delle risorse delle Regioni a livello locale: Comuni e Province. E abolire le Regioni. Allo Stato quello che è dello Stato. Agli enti locali quello che è meglio che gestiscano loro.

Serve un nuovo Stato per un nuovo e diverso interesse nazionale. In fondo è qualcosa di simile a ciò che ha proposto Melénchon con France insoumise.



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22 ottobre, referendum autonomista lombardo-veneto: c’è chi dice NO 

Appello per il No al referendum consultivo: per contrastare la pericolosa ideologia dei partiti maggiori ma anche per opporsi all’inerzia di quella sinistra che cede le piazze ai fascisti.

di Fronte Popolare  09/09/2017

Il prossimo 22 ottobre gli elettori di Lombardia e Veneto saranno chiamati ad esprimersi in un referendum consultivo sulla cosiddetta autonomia. Fatto salvo che in caso di vittoria del SI oggi non cambierebbe niente (rimandiamo ad altre più puntuali riflessioni le analisi economiche e giuridiche sul tema), con questo contributo vogliamo concentrarci soprattutto sul portato ideologico della consultazione, che merita a nostro parere molta attenzione e su cui, da Milano, siamo a fare un appello alla mobilitazione a tutti i Compagni sparsi per l’Italia

Illustriamo il quadro politico odierno in Lombardia. 

Ovvia è la posizione per il SI dei leghisti promotori, dove comunque il referendum è infine uno “spottone” per Maroni in vista delle “vere elezioni” regionali del 2018.

Non stupiscono, e consideriamo pericolose, le posizioni degli altri partiti padronali, 5 Stelle e PD, che si adeguano al generale spostamento culturale del paese sempre più a destra. Dichiarazioni sulla “razza” da difendere, regole da rispettare, meno dipendenza dallo Stato centrale sono slogan che purtroppo colpiscono e raccolgono facili consensi. Mentre il PD Veneto è direttamente schierato per il SI, quello lombardo fa dichiarazioni non così nette, ma manda avanti i cavalli di razza, vale a dire diversi autorevolissimi sindaci lombardi come Sala a Milano(fra i primi a schierarsi per il SI già a primavera scorsa) oppure Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo (e già direttore di Italia 1 anni addietro); quest’ ultimo tra i fondatori di comitati di amministratori del PD per il SI.

5 stelle, a cui va riconosciuto un buon lavoro a livello di consiglio regionale, un giorno attaccano Maroni mentre l’altro sui loro siti ufficiali arrivano a dire che il referendum l’hanno scritto loro, e godono “perché si voterà in maniera elettronica”, ed alla fine del gioco i tablet rimarranno nelle scuole…riesumando antichi slogans alla Berluscones (un computer per ogni scuola, primi anni ’90!). La posizione del sito lombardo grillino (qui è arduo dire “dei loro dirigenti”) è dettata probabilmente e da “studi di settore”, ovvero, visto che l’aria che tira è sempre del tipo “a Roma rubano tutti”, viene loro imposto di schierarsi per il SI, anche se notiamo, da qualche prima inchiesta, che per molti elettori dei 5 stelle non dovrebbe essere semplice votare come lega e PD, ovvero come quella che loro chiamano la “partitocrazia”.

Anche a sinistra la situazione è complessadiverse organizzazioni hanno dichiarato che faranno “astensione attiva”, cioè campagna elettorale per NON andare al voto, “puntando” sulla presunta bassa affluenza alle urne, dove comunque il SI dovrebbe prevalere grandemente, viste le posizioni politiche espresse dei maggiori partiti. 

Noi di Fronte Popolare, quindi, ci siamo chiesti cosa fare. Considerata (purtroppo) la poca influenza, in termini assoluti numerici, della sinistra in Lombardia sul risultato finale della consultazione, noi comunisti, analizzato il quadro politico riassunto qui sopra, abbiamo deciso invece di partecipare e fare campagna elettorale per votare, e votare NO

Il fatto che la consultazione indetta per ottobre abbia carattere puramente consultivo non solo non ne diminuisce la pericolosità, ma ne sottolinea il portato insidiosamente ideologico: pensare di contenere un simile risultato mediante l\'incentivazione della bassa affluenza è pura illusione.

Ci troviamo, per citare il compagno Antonio Gramsci, in quella fase in cui “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. 

Ecco compagni, qui al Nord sentiamo, purtroppo più che altrove, il senso di questa frase di Gramsci. Per chi sta “dalla parte del torto” la situazione non è per niente facile. Chi milita, chi partecipa, chi fa qualcosa e non passa le giornate davanti alla TV, tocca con mano ogni giorno la diminuzione degli spazi di agibilità politica, sia dal punto di vista della repressione ufficiale sia da quello di quella culturale: i casi di aggressioni contro gli antifascisti in Lombardia sono in costante aumento, ancora grida vendetta l’ irruzione di fine Luglio a Palazzo Marino, il Comune di Milano, con conseguente ferimento di due compagni.

Non meno importante ricordare che questo è un referendum promosso da due regioni che contano un quarto degli italiania cui bisogna provare a rispondere e resistere. Perché quello delle maggiori autonomie gestionali di risorse NON è solo un problema lombardo, ma di tutto il Paese (già altre regioni si dicono pronte ad indire simili consultazioni).

Di fronte al consolidarsi del senso comune reazionario e fascistoide che disgrega l\'unità dei lavoratori del nostro Paese, è necessario sviluppare una forte azione democratica e antifascista di contrasto, che esige prese di posizione chiare.

Noi di Fronte Popolare faremo quindi campagna elettorale per il NO. 

Stamperemo manifesti, volantini, e siamo pronti a dare una mano in ogni comune ad ogni sincero antifascista, democratico, comunista che in ottobre, nelle forme che riterrà più opportune, vorrà fare concretamente campagna elettorale e la cui coscienza gli dirà che non si accontenta del concetto di “astensione attiva”, atteggiamento che purtroppo temiamo possa rapidamente scivolare per inerzia verso un più tragico “siccome questo referendum è una presa in giro, ad ottobre ce ne andiamo a funghi”, lasciando totalmente piazza libera a partiti che da diversi anni portano dentro le istituzioni (al governo, sia chiaro) delle grande città individui dichiaratamente fascisti e razzisti

E’ molto probabile che non vinceremo, ma vogliamo e dobbiamo far vedere nelle piazze, nei mercati e nei posti di lavoro che c’e’ ancora qualcuno, qui al nord, che non mette la testa sotto la sabbia. 

E con più calore ci rivolgiamo ai tanti antifascisti sparsi per l’Italia, cui chiediamo di darci concretamente una mano. Come scritto prima, più poteri alle regioni vuol dire meno solidarietà fra tutti i lavoratori italiani , e purtroppo già altre regioni si dicono pronte a seguire questo pessimo esempio. 

Vi chiediamo di “parlare” del 22/10, di organizzare momenti di discussione, anche nelle vostre città lontano dalla Lombardia e dal Veneto. E poi vi chiediamo, (ed oggi i tanti famigerati strumenti tecnologici sono di grande utilità) di indicare ad amici, parenti e compagni che magari vivono nelle nostre regioni, che NON tutti hanno abbandonato la battaglia, e che qui a Milano c’è ancora chi resiste, e chi volesse impegnarsi in campagna elettorale per il NO da noi troverà validi compagni e interessante materiale di propaganda. 

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Referendum in Lombardia e Veneto /1. Prepariamoci a votare NO

di Sergio Cararo, 23 agosto 2017

Il prossimo 22 ottobre, in due strategiche regioni italiane come Lombardia e Veneto si terrà un referendum consultivo sulla “autonomia” dal governo centrale. La materia di questa maggiore autonomia è tutt’altro che chiara, tenendo conto che sarebbero già sufficienti i danni provocati dalla modifica del Titolo V della Costituzione con il federalismo introdotto nel 2001 dall’allora governo di centro-sinistra e peggiorati dal governo di centro-destra nel 2009.

Il riferimento normativo a cui fanno riferimento le forze che sostengono il referendum in Lombardia e Veneto (dalla Lega a gran parte del Pd), è l’articolo 116 della Costituzione, il quale dopo la riforma del 2001 prevede al comma 3: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata”. Ma, come si può leggere, non si fa menzione di alcun referendum. Il problema è che nel 2001 è stata aperta la strada con un referendum confermativo sulla modifica del Titolo V (voluto dal governo Amato per “battere la Lega e la destra” ma che anticipò invece una sonora sconfitta del centro-sinistra.

I referendum in Lombardia e Veneto del prossimo 22 ottobre, fortemente sponsorizzati da Maroni e Zaia ma assecondati dal Pd locale, saranno referendum consultivi per cui non è previsto neppure un quorum. In altre parole una battaglia squisitamente politica in cui le due regioni (oltre all’Emilia-Romagna) in cui si concentra quel 22% di imprese che fanno l’80% del valore aggiunto e delle esportazioni italiane diranno sostanzialmente: “noi siamo agganciati al cuore dell’Unione Europea e il resto del paese si fotta”. In caso di vittoria al referendum le autorità e le classi dominanti di Lombardia e Veneto aprirebbero da una posizione di forza una fase negoziale con il governo centrale.

In un certo senso la trama svelata da questi referendum fotografa una situazione di fatto: la crescente asimmetria del nostro paese. C’è da anni un nucleo geo-economico e sociale costituito da Lombardia, Emilia, Veneto che sia sul piano economico che su quello politico si è sincronizzato con la “locomotiva Germania” lavorando nella sub fornitura alle imprese tedesche e assicurando consenso sociale, ideologico, elettorale al Pd e al blocco politico-trasversale europeista. Lo si è visto con i risultati delle elezioni locali come nei risultati del referendum sulla controriforma costituzionale del 4 dicembre. Una realtà dei fatti che marginalizza Salvini come esponente di questo mondo e che lo ha portato ad abbassare le penne nelle sue ormai rimosse sparate contro l’euro e Bruxelles.

Secondo  un sondaggio realizzato dall’Api (associazione delle piccole imprese), il 74% dei rappresentanti delle piccole e medie imprese intervistati ha risposto si alla domanda se conferire maggiori poteri alla Regione Lombardia possa rappresentare un’opportunità. “Questo referendum farà capire a Roma che in Lombardia e Veneto ci sono piccoli imprenditori manifatturieri che chiedono più rispetto” dicono i padroni e padroncini delle due regioni interessate. Secondo gli intervistati nel sondaggio, al primo posto delle azioni prioritarie che la Regione Lombardia, una volta più autonoma, dovrebbe mettere in atto c’è la diminuzione delle imposte regionali (47%). Al secondo posto l’aumento dei fondi per le imprese (34%) e infine il miglioramento delle infrastrutture (19%). Insomma una regione a totale disposizione delle imprese. Ma se i “padrùn” non vedono oltre i propri interessi di bottega, figuriamoci se la loro visione possa estendersi al resto del paese. Un motivo per schierarsi e battersi per il NO nei referendum regionali in Lombardia e Veneto. (segue)
 


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Rivoluzione d’Ottobre

1) A. Catone: La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica
2) D. Losurdo: Rivoluzione d’Ottobre e democrazia


Per iniziative e documentazione nel Centenario della Rivoluzione d\'Ottobre si veda la nostra pagina dedicata:


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La Rivoluzione d’Ottobre e il Movimento Socialista Mondiale in una prospettiva storica

di Andrea Catone
12 Ottobre 2017

1. Il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre consente oggi, con il vantaggio della distanza storica, di trarre un bilancio dei suoi effetti duraturi in tutta la storia del mondo.

La rivoluzione d’Ottobre segna un momento fondamentale nella storia, non solo del movimento operaio, ma dell’intera umanità. Dopo la Comune di Parigi (1871), schiacciata nel sangue dalla repressione della borghesia, la Rivoluzione d’Ottobre è il primo tentativo vittorioso del proletariato e delle classi subalterne di rovesciare i rapporti sociali dominanti e costruire una società socialista. Segna anche l’inizio di un potente processo di emancipazione dei popoli oppressi e lo sviluppo di lotte anti-coloniali e antimperialiste. Le rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana – per limitarsi ad alcuni dei più importanti movimenti comunisti – hanno permesso la liberazione di centinaia di milioni di esseri umani dalla miseria e dalla fame e rappresentano il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo. L’importanza di queste esperienze non si è esaurita nei paesi che sono stati teatro dei processi rivoluzionari; queste esperienze hanno dato nuovo impulso alla liberazione che ha coinvolto grandi masse in ogni continente.

Grazie all’Ottobre sulle bandiere del movimento dei lavoratori è scritto non solo “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!” Ma “Lavoratori di tutti i paesi e popoli oppressi, unitevi!” [1]. La Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione della Terza Internazionale (Comintern), lega strettamente il proletariato occidentale e i popoli delle colonie e delle semicolonie in una lotta generale contro l’imperialismo. Grazie all’Ottobre, e al Komintern che da esso si sviluppa, sono nati nei paesi oppressi dall’imperialismo i partiti comunisti. Ottobre apre la strada alla rivoluzione cinese e alla riconquista della dignità nazionale del paese più popoloso del mondo.

Nella storia del capitalismo, come Marx ci ricorda nel capitolo 24 del I Libro del Capitale sulla cosiddetta accumulazione originaria, il contributo della ricchezza saccheggiata nelle colonie ha costituito una base per l’accumulazione del capitale. Il capitalismo è cresciuto insieme con il colonialismo moderno ed è diventato imperialismo. La rottura della catena imperialista avviata con la Rivoluzione di Ottobre è una svolta nella storia dello sviluppo capitalistico e non solo perché la Russia è stata considerata l’anello più debole della catena imperialista, ma perché ha aperto la strada alla lotta di liberazione dei popoli d’Oriente e di tutti i popoli oppressi.

La teoria leninista dell’imperialismo ha un enorme valore scientifico e strategico perché individua il legame necessario tra il movimento dei lavoratori in Occidente e le popolazioni colonizzate. Lenin pensa globalmente, come la Seconda Internazionale non aveva mai fatto. Con l’Ottobre nasce la strategia del fronte unito dei lavoratori dei paesi capitalistici e dei popoli oppressi. Pensare la rivoluzione a livello mondiale significa che il proletariato occidentale sostiene tutte le lotte che possono indebolire il fronte imperialista. Significa anche che ogni situazione nazionale deve essere posta e compresa in un contesto internazionale.

La presenza e il prestigio dell’URSS, vittoriosa sul nazifascismo, e del suo modello di sviluppo che ha costruito un forte paese industriale dotato di armi moderne più potenti di quelle della feroce Germania hitleriana, ha rappresentato, per tutta una fase del secondo dopoguerra, un forte incentivo e un modello per i paesi che intendevano sfuggire al giogo dell’imperialismo (i nazionalismi arabi emergono con un programma avanzato di forti interventi statali – Egitto, Siria Iraq, ma, più tardi, anche Libia) e movimenti di liberazione nazionale (Angola, Mozambico, America Centrale…).

È con la Rivoluzione d’Ottobre che il movimento dei lavoratori viene globalizzato. La I e II Internazionale sono fondamentalmente europee, il Comintern è mondiale.

Da una prospettiva a lungo termine, dopo la dissoluzione dell’URSS e il crollo dei regimi socialisti in Europa nel 1989-91, e il ritorno di questi paesi al sistema capitalistico, il risultato più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei popoli oppressi come protagonisti della scena mondiale (la Cina ne è il caso più emblematico).

2. Il crollo del 1989-1991: I partiti comunisti perdono il potere politico nell’URSS e nei paesi dell’Europa orientale

Nel 1989-91, dopo 70 anni in URSS e 40 anni nelle repubbliche popolari dell’Europa orientale e dei Balcani, i partiti comunisti hanno perso il potere politico, che ritorna alle mani dei capitalisti, i rapporti di proprietà borghesi vengono ripristinati e i paesi ex socialisti dell’Europa orientale sono integrati nella NATO e nella UE. Perché è successo questo? La questione rimane aperta su questo tema fondamentale. Numerosi forum internazionali sono stati tenuti dal 1991 e sono state pubblicati anche importanti lavori sulle cause del crollo delle democrazie popolari dell’Europa orientale e dell’URSS. Il sistema sovietico, che le democrazie popolari europee hanno più o meno imitato, è stato analizzato nei suoi vari aspetti: politici economici, sociali e culturali; nelle relazioni internazionali. A mio avviso, la causa principale sta nel deficit politico e ideologico che distrugge la leadership dell’URSS e porta a disastri. Un contributo molto importante in questo senso è stato dato dalla Conferenza di Pechino nel 2011 e dal libro che ne raccoglie gli atti, La storia giudicherà su questo, a cura di Li Shenming.

Il bilancio storico dell’Ottobre richiede anche un bilancio teorico, una ridefinizione critica delle categorie della rivoluzione.

3. La teoria della transizione al socialismo.

Lenin aveva chiarito che la transizione al socialismo è un processo dialettico che richiede un’intera epoca storica [2]. E dove non è stato deciso una volta per tutte chi vincerà. La storia del secolo che ci separa dall’ Ottobre conferma pienamente la concezione di Lenin e nega le teorie anti-dialettiche e ingenue che credono che il socialismo possa sostituire il capitalismo in pochi anni attraverso misure politiche e decreti. La transizione al socialismo richiede la transizione verso una nuova superiore civiltà. Una nuova civiltà non può essere creata in breve tempo, richiede un’intera epoca storica.

Perché Lenin insiste nei suoi ultimi scritti sul tema della creazione di una nuova civiltà? Che cos’è una civiltà? C’è una determinata civiltà quando un popolo ha acquisito determinati comportamenti come sua seconda natura e si è abituato a praticarli senza una coercizione esterna. Il socialismo richiede che le grandi masse di lavoratori e i gruppi subalterni (Gramsci) siano in grado di esercitare effettivamente il potere di direzione e di controllo sulla proprietà sociale ed essere in grado nei fatti di decidere cosa, in che misura e come produrre e distribuire il prodotto, essere in grado di pianificare la produzione.

Nel settembre-ottobre 1917 Lenin scrisse: “Possono i bolscevichi mantenere il potere statale?”, in cui, tra l’altro, pone la questione della capacità reale dei proletari, dei lavoratori non qualificati, di guidare lo Stato. Per l’immediato la risposta è: no. Un compito essenziale per il potere sovietico è quindi quello di costruire le condizioni perché anche una cuoca possa dirigere lo stato.

Anche Gramsci si pone chiaramente su questa scia: il socialismo deve rendere politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di ristretti gruppi intellettuali [Quaderni del carcere, Q11 §12, 1932]. Questo straordinario obiettivo non può essere raggiunto in condizioni di miseria e di basso sviluppo delle forze produttive.

I bolscevichi si trovano ad affrontare il duplice difficilissimo compito: superare l’arretratezza e allo stesso tempo costruire rapporti di produzione socialisti: una doppia transizione. Dovranno affrontare un compito totalmente nuovo nella storia dell’umanità, come la pianificazione e il calcolo economico in un’economia di transizione. I comunisti sovietici devono inventare e sperimentare una nuova economia, organizzare una nuova formazione economica e sociale. E devono farlo in condizioni estremamente difficili.

Lo stesso problema, in misura anche maggiore, avevano i comunisti in Cina dopo la conquista del potere politico nel 1949. La capacità di trovare un modo originale di sviluppo dopo la prima fase della costruzione economica e sociale (1949-1978) è stato il grande merito storico di Deng Xiaoping: quasi 40 anni dopo l’avvio del “socialismo con caratteristiche cinesi”, la RPC è diventata la seconda potenza economica mondiale (calcolando in base al PIL), sviluppando notevolmente le forze produttive.

Lo sviluppo delle forze produttive in una società di transizione verso il socialismo è tuttavia diverso da quello di una formazione economico-sociale capitalistica. La forza produttiva principale è l’essere umano. La transizione al socialismo richiede un essere umano con una conoscenza critica e una cultura politecnica – umanistica e tecnico-scientifica allo stesso tempo – e con uno stile di vita che non può essere la copia del modo di vivere americano, che tende a mantenere i subalterni nella condizione di consumatori subalterni, in uomini a una dimensione, come scrisse oltre 50 anni fa Herbert Marcuse.

Uno dei problemi più gravi che le società di transizione al socialismo si trovano ad affrontare – ognuna sulla base delle proprie caratteristiche nazionali – è quello di sviluppare le forze produttive, ma di governare questo sviluppo nella direzione della formazione di un nuovo tipo umano e di un nuovo legame sociale per una superiore forma di civiltà, la società socialista. Il fattore culturale non è meno importante di quello economico per avanzare verso la civiltà socialista.

4. Il tema della direzione politica del processo di transizione. La questione della democrazia socialista

La transizione verso una forma di democrazia superiore a quella del parlamentarismo borghese è riuscita solo in alcune situazioni e solo in parte nella storia di questo secolo. Dopo la morte di Lenin, la questione del gruppo dirigente e delle modalità e forme di selezione dei quadri non è stata affrontata in modo adeguato.

Il problema dei partiti comunisti al potere consiste nella ricerca di istituzioni e formule che possano garantire la transizione socialista. La transizione al socialismo non è un movimento spontaneo. Questa questione è stata teoricamente affrontata da Marx e sistemata da Lenin: la dittatura del proletariato, necessaria per garantire la transizione. Ma, allo stesso tempo, è necessario assicurare un meccanismo di selezione trasparente e democratico per i gruppi dirigenti, il legame stretto tra il partito e le masse, i governanti e i governati. Occorre sviluppare forme di democrazia partecipativa e crescita delle masse nella partecipazione alla direzione dello stato e dell’economia, un grande “progresso intellettuale di massa” (vedi Gramsci). La corretta selezione dei gruppi dirigenti è una delle questioni più delicate nella società di transizione.

Nella transizione al socialismo, il legame tra economia e politica deve necessariamente essere molto più stretto che nella società borghese, perché la transizione al socialismo non è un processo spontaneo, non avviene automaticamente, ma richiede una direzione politica chiara e forte. La transizione al socialismo richiede la creazione di una nuova cultura di massa, che non sia subalterna all’ideologia capitalista e imperialista: una rivoluzione culturale.

5. Le rivoluzioni socialiste vittoriose non si svolgono nei centri imperialisti, ma solo in periferia.

Il sistema capitalistico nelle sue sovrastrutture politiche e ideologiche si è rivelato più forte del proletariato dei Paesi occidentali. La rivoluzione in Occidente non si realizza, sia per la forza del capitale (si veda l’analisi di Gramsci sull’articolazione delle società borghesi occidentali e quella di Althusser sugli apparati ideologici di Stato), sia per la debolezza della strategia e dell’organizzazione del proletariato e dei partiti comunisti.

Di solito, si hanno situazioni rivoluzionarie in tempi di crisi acuta dello stato borghese. Dopo il 1918, nel primo dopoguerra europeo, nei paesi sconfitti degli imperi centrali (Ungheria, Baviera, Austria, Germania), le rivoluzioni sono rapidamente schiacciate nel sangue prima della presa del potere politico (Germania) o sopraffatte per l’incapacità di governare l’economia dei rivoluzionari (In Ungheria).

Dopo il 1945, nel II dopoguerra, la situazione sembra più favorevole grazie alla vittoria dell’URSS sul nazismo. Nei paesi dell’Europa centrale e orientale, i comunisti vanno al potere o come continuazione della resistenza antifascista nella rivoluzione socialista (Jugoslavia, Albania) o grazie a un consenso popolare fortemente sostenuto dalla presenza dell’armata rossa sovietica: Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Germania orientale. Fatta eccezione per gli ultimi due, si tratta di paesi di capitalismo periferico.

Nei paesi chiave dell’Occidente, anche quando un forte movimento anti-nazista (Italia, Francia) è stato sviluppato dai comunisti o con una forte presenza di essi, la Resistenza non si trasforma in una rivoluzione e dove è tentata ,come in Grecia, è schiacciata nel sangue dall’intervento militare britannico e occidentale.

Dopo il 1945 in Europa occidentale non ci sono crisi rivoluzionarie, anche se in due paesi con un’importante presenza dei comunisti ci sono momenti di mobilitazione di massa e di crisi del potere borghese (maggio 1968 in Francia, decennio 1968-77 in Italia). La migliore opportunità rivoluzionaria è stata in Portogallo, la “Rivoluzione dei garofani” (1974), con un ruolo importante del Partito Comunista guidato da Alvaro Cunhal, ma anche qui la borghesia interna, con il sostegno dell’imperialismo occidentale e della NATO, è in grado di ristabilire il proprio potere politico ed economico. L’ultima occasione, in una situazione di forte crisi economica, è stata in Grecia (2011-2015), dove la coalizione di sinistra ottiene il consenso elettorale e va al governo, ma subito dopo rimane ostaggio della “troika” (BCE , IMF, UE) e si riduce ad essere l’esecutrice dei suoi diktat.

Negli Stati Uniti, il cuore dei paesi imperialisti, nessun movimento di lotta (la rivolta dei campus universitari o le pantere nere negli anni ‘60) ha mai seriamente messo in discussione il potere politico o l’egemonia culturale del grande capitale. In Inghilterra, attraversata anche da grandi lotte dei lavoratori (minatori) il potere borghese non è mai messo in discussione.

Nei cento anni che ci separano dall’Ottobre il movimento comunista e dei lavoratori non riesce nel suo obiettivo principale: avviare nei paesi capitalisti più sviluppati – con la conquista del potere politico – la trasformazione del modo di produzione capitalistico nel modo di produzione socialista basato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e sulla pianificazione socialista.

Quali sono le cause di questo fallimento storico?

La teoria dell’imperialismo di Lenin può spiegare alcune delle cause che ostacolano la rivoluzione in Occidente: la classe capitalistica, con le briciole della rapina imperialista, nutre “l’aristocrazia operaia” e corrompe i leader di sindacati e partiti operai, che introiettano le teorie revisioniste e negano la possibilità di uscire dall’orizzonte dei rapporti di produzione borghesi.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare il ruolo mondiale dell’imperialismo, che non è solo la rapina dei popoli sottomessi, ma è anche organizzato come un cane da guardia del potere borghese nei paesi centrali del capitalismo. Dopo il 1945, gli USA e la NATO, la più grande alleanza militare del mondo sotto il comando statunitense, hanno svolto un ruolo decisivo nel contrastare il movimento progressista e di emancipazione anche nei paesi occidentali, utilizzando il colpo di Stato (Grecia 1967) o minacciandolo (Italia, anni 1960-70). Inoltre, l’imperialismo, con le sue istituzioni economiche e finanziarie mondiali (FMI, ecc.), controlla e riconquista i paesi che vogliono liberarsi dal sistema imperialista mondiale (l’ultimo caso evidente: la Grecia 2011-2015).

Ci sono stati e ci sono immensi errori strategici e tattici commessi dai partiti comunisti in Occidente, senza una seria comprensione dei quali nessun progresso del movimento operaio sarà possibile. Oggi va preso atto che il capitalismo e il potere politico borghese si sono dimostrati molto più forti del movimento dei lavoratori, nonostante due crisi strutturali generali del capitalismo (negli anni ‘30 del XX secolo e la crisi manifestatasi a partire dal 2007-2008).

La transizione al modo di produzione socialista non è avvenuta nei tempi e nei modi che abbiamo immaginato dopo la vittoria del 1917.

Questa domanda rimane aperta. L’indagine di questo fallimento storico è un compito fondamentale per il movimento operaio e per i suoi intellettuali organici.

Questo non significa che tutta l’attività e l’elaborazione strategica del movimento operaio nei paesi centrali del capitalismo siano stati inutili e inefficaci. In particolare, la “via Italiana al Socialismo”, la strategia sviluppata dal Partito Comunista Italiano dal 1944 sulla base dell’analisi di Gramsci nei Quaderni del carcere, al di là di deviazioni e riduzionismi, è di grande importanza per la possibile transizione al socialismo in Occidente. 

Questa strategia si basava su una lunga “guerra di posizione” in cui i comunisti, al centro di un fronte popolare, di un blocco di forze sociali e politiche, gradualmente conquistano alcune “fortezze” delle istituzioni economiche e politiche capitalistiche, attuando riforme strutturali. Per il successo di questa strategia, tuttavia, il paese deve essere libero dal controllo militare ed economico dell’imperialismo, mentre attualmente tutti i paesi dell’Europa occidentale e gli ex paesi socialisti europei sono sotto il controllo militare della NATO e delle istituzioni economiche imperialiste internazionali.

L’esperienza storica di questo secolo che ci separa dal grande Ottobre russo ci insegna che ci sono possibilità concrete di avviare una transizione socialista solo se la catena imperialista è seriamente indebolita.

Oggi, la situazione mondiale è più favorevole al movimento dei lavoratori che negli anni 1990 e 2000. È gravida di grandi pericoli e minacce, ma è anche aperta alla possibilità di un rapporto di forze più favorevole all’emancipazione delle nazioni oppresse e dei popoli sfruttati. Oggi, in tutto il mondo, le cose stanno cambiando: lo strapotere dell’imperialismo statunitense, che negli ultimi 25 anni ha portato guerre di aggressione per mantenere la sua centralità unipolare, trova un freno e un limite nella ascesa economica della Cina, nell’organizzazione dei BRICS, nel programma di creare una valuta di scambio internazionale alternativa al dollaro, nelle proposte strategiche della Cina che è diventato un attore sul palcoscenico mondiale e offre al mondo un’alternativa strategica per uno sviluppo pacifico (si veda “la nuova via della seta).

Il contesto internazionale è sempre stato importante per il movimento dei lavoratori, non perché le rivoluzioni possono essere esportate (le rivoluzioni possono svilupparsi solo su una effettiva base nazionale e devono fondamentalmente basarsi sulle proprie forze in ciascun paese), ma perché la presenza di un blocco di forze in grado di contenere l’impero americano può limitare la sua aggressività e fornire un sostegno a quei paesi in cui si sviluppa un movimento per il recupero della sovranità nazionale e popolare.

In questa situazione in movimento si possono creare le condizioni per una rinascita della lotta per il socialismo in Occidente.

LEGGI LA VERSIONE IN PDF

NOTE

1 Si veda in proposito Cheng Enfu, Li Wei, “Il marxismo-leninismo è il metodo scientifico e la guida per conoscere e trasformare il mondo”, in Marx in Cina, quaderno speciale di MarxVentuno n. 2-3/2014. Si può anche leggere in rete in http://www.marx21books.com/MARX%20IN%20CINA/Il%20marxisismo%20leninismo%20di%20Cheng%20Enfu.pdf.

2 Su questo, si veda anche la recentissima e fondamentale antologia di scritti di Lenin, curata da V. Giacché, con un’ampia prefazione dello stesso: Economia della rivoluzione, Il Saggiatore, Milano, 2017.


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di Domenico Losurdo

Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici. 

Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)

L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia;
divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: il comunismo è il nemico implacabile della democrazia, la quale ha potuto consolidarsi e svilupparsi solo dopo averlo sconfitto.

1. La democrazia quale superamento delle tre grandi discriminazioni

Sennonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia, così come oggi la intendiamo, presuppone il suffragio universale: indipendentemente dal sesso (o genere), dal censo e dalla «razza», ogni individuo dev’essere riconosciuto quale titolare dei diritti politici, del diritto elettorale attivo e passivo, del diritto di votare per i propri rappresentanti e di essere eventualmente eletto negli organismi rappresentativi. E cioè, ai giorni nostri la democrazia, persino nel suo significato più elementare e immediato, implica il superamento delle tre grandi discriminazioni (sessuale o di genere, censitaria e razziale) che erano ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917 e che sono state superate solo col contributo, talvolta decisivo, del movimento politico scaturito dalla rivoluzione bolscevica.

Cominciamo con la clausola d’esclusione, macroscopica, che negava il godimento dei diritti politici alla metà del genere umano e cioè alle donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che promuovevano la lotta contro tale discriminazione e dirigevano il movimento femminista delle suffragette, erano costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. La situazione non era molto diversa negli altri grandi paesi dell’Occidente. Era Lenin invece, in Stato e rivoluzione, a denunciare l\'«esclusione delle donne» dai diritti politici come una conferma clamorosa del carattere mistificatorio della «democrazia capitalistica». Tale discriminazione veniva cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, da Gramsci salutata come «rivoluzione proletaria» per il ruolo di protagonista svolto dalle masse popolari, com’era confermato dal fatto che la rivoluzione aveva introdotto «il suffragio universale, estendendolo anche alle donne». La medesima strada era poi imboccata dalla repubblica di Weimar, scaturita dalla «rivoluzione di novembre», scoppiata in Germania a un anno di distanza dalla rivoluzione d’ottobre e sull’onda e a imitazione di quest’ultima. Successivamente, in questa direzione si muovevano anche gli USA. In Italia e in Francia, invece, le donne conquistavano i diritti politici solo dopo la seconda guerra mondiale, sull’onda della Resistenza antifascista, alla quale i comunisti avevano contribuito in modo essenziale o decisivo.

Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della seconda grande discriminazione, che ha anch’essa caratterizzato a lungo la tradizione liberale: mi riferisco alla discriminazione censitaria, che escludeva dai diritti politici attivi e passivi i non proprietari, i non abbienti, le masse popolari. Già efficacemente combattuta dal movimento socialista e operaio, pur fortemente indebolita, essa continuava a resistere pervicacemente alla vigilia della rivoluzione d’ottobre. Nel saggio sull’imperialismo e in Stato e rivoluzione Lenin richiamava l’attenzione sulle persistenti discriminazioni censitarie, camuffate mediante i requisiti di residenza o altri «\"piccoli\" (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale», che in paesi come la Gran Bretagna comportavano l\'esclusione dai diritti politici dello «strato inferiore propriamente proletario». Si può aggiungere che proprio nel paese classico della tradizione liberale ha tardato in modo particolare ad affermarsi pienamente il principio «una testa, un voto». Solo nel 1948 sono dileguate le ultime tracce del «voto plurale», a suo tempo teorizzato e celebrato da John Stuart Mill: i membri delle classi superiori considerati più intelligenti e più meritevoli godevano del diritto di esprimere più di un voto, ciò che faceva rientrare dalla finestra la discriminazione censitaria cacciata dalla porta. 

Per quanto riguarda l’Italia, sui manuali scolastici si può leggere che la discriminazione censitaria è stata cancellata nel 1912. In realtà continuavano a sussistere le «piccole» clausole di esclusione denunciate da Lenin. Ma non è questo il punto più importante. La legge varata in quell’anno concedeva graziosamente i diritti politici solo a quei cittadini di sesso maschile che, pur di modeste condizioni sociali, si fossero distinti o per «titoli di cultura e di onore» o per il valore militare mostrato nel corso della guerra contro la Libia terminata poco prima. In altre parole, non si trattava del riconoscimento di un diritto universale, bensì di una ricompensa in primo luogo per quanti avevano dato prova di coraggio e di ardore bellico nel corso di una conquista coloniale dai tratti brutali e talvolta genocidi.

In ogni caso, anche là dove il suffragio (maschile) era divenuto universale o pressoché universale, esso non valeva per la Camera Alta, che continuava a essere appannaggio della nobiltà e delle classi superiori. Nel Senato italiano vi sedevano, in qualità di membri di diritto, i principi di Casa Savoia: tutti gli altri erano nominati a vita dal re, su segnalazione del presidente del Consiglio. Non dissimile era la composizione delle altre Camere Alte europee che, a eccezione di quella francese, non erano elettive bensì caratterizzate da un intreccio di ereditarietà e nomina regia. Persino per quanto riguarda il Senato della Terza Repubblica francese, che pure aveva alle spalle una serie ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da notare che esso risultava da un\'elezione indiretta ed era costituito in modo tale da garantire una marcata sovra-rappresentanza alla campagna (e alla conservazione politico-sociale), a danno ovviamente di Parigi e delle maggiori città, a danno cioè dei centri urbani considerati il focolaio della rivoluzione. Anche in Gran Bretagna, nonostante la secolare tradizione liberale alle spalle, la Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e giudici), non aveva nulla di democratico, e netto era il controllo esercitato dall’aristocrazia sulla sfera pubblica: era una situazione non molto diversa da quella che caratterizzava Germania e Austria. È per questo che un illustre storico (Arno J. Mayer) ha parlato di persistenza dell’antico regime in Europa sino al primo conflitto mondiale (e alla rivoluzione d’ottobre e alle rivoluzioni e agli sconvolgimenti che hanno fatto seguito a essa)

In quegli anni neppure negli USA erano assenti i residui di discriminazione censitaria. Rispetto all’Europa, però, l’antico regime si presentava in una versione diversa: l’aristocrazia di classe si configurava come aristocrazia di razza. Nel Sud del paese il potere era nelle mani degli ex-proprietari di schiavi, che nulla avevano perso della loro arroganza razziale o razzista e che non a caso erano bollati dai loro avversari quali Borboni; non era certo dileguato il regime talvolta celebrato dai suoi sostenitori e talaltra criticamente analizzato dagli studiosi contemporanei come una sorta di ordinamento castale, in quanto fondato su raggruppamenti etnico-sociali resi impermeabili dal divieto di miscegenation, e cioè dal divieto di rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali, severamente condannati e puniti in quanto suscettibili di mettere in discussione la white supremacy.

2. La duplice dimensione della discriminazione razziale

E veniamo così alla terza grande discriminazione, quella razziale. Prima della Rivoluzione d’Ottobre essa era più viva che mai e manifestava la sua vitalità in due modi. A livello globale il mondo era caratterizzato dal dominio incontrastato, per dirla con Lenin, di «poche nazioni elette» ovvero di un pugno di «nazioni modello» che attribuivano a se stesse «il privilegio esclusivo di formazione dello Stato», negandolo alla stragrande maggioranza dell’umanità, ai popoli estranei al mondo occidentale e bianco e pertanto indegni di costituirsi quali Stati nazionali indipendenti. E dunque, le «razze inferiori» erano escluse in blocco dal godimento dei diritti politici già per il fatto di essere considerate incapaci di autogoverno, incapaci di intendere e di volere sul piano politico. Tale esclusione era ribadita a un secondo livello, a livello nazionale: nell’Unione sudafricana e negli USA (il paese sul quale soprattutto ci soffermeremo), i popoli di origine coloniale erano ferocemente oppressi: essi non godevano né dei diritti politici né di quelli civili. 

Si pensi ad esempio ai linciaggi che, tra Otto e Novecento, negli Stati Uniti erano riservati in particolare ai neri. Un illustre storico statunitense (Vann Woodward) ne ha dato una descrizione secca ma tanto più efficace e raccapricciante:

«Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.

Lo spettacolo poteva includere la castrazione, lo scoiamento, l\'arrostimento, l\'impiccagione, i colpi d\'arma da fuoco. I souvenir per acquirenti potevano includere le dita delle mani e dei piedi, i denti, le ossa e persino i genitali della vittima, così come cartoline illustrate dell\'evento».

Vediamo qui all’opera non la democrazia propriamente detta di cui favoleggia la storiella edificante di cui ho parlato agli inizi, bensì quella che eminenti studiosi statunitensi hanno definito la Herrenvolk democracy, una democrazia riservata esclusivamente al popolo dei signori, il quale esercitava una terroristica white supremacy non solo sui popoli di origine coloniale (afroamericani, asiatici ecc.) ma talvolta anche sugli immigrati provenienti da paesi (quali l’Italia) considerati di dubbia purezza razziale.

Ancora negli anni ’30 i neri, che pure nel corso della prima guerra mondiale erano stati chiamati a combattere e a morire per la «difesa» del paese, continuavano a subire un regime di terrore che al tempo stesso funzionava come una ripugnante società dello spettacolo. Eloquenti sono di per sé i titoli e le cronache dei giornali locali del tempo. Li riprendiamo dall’antologia (100 Years of Lynchings) curata da uno studioso afroamericano (Ralph Ginzburg): «Grandi preparativi per il linciaggio di questa sera». Nessun particolare doveva essere trascurato: «Si teme che colpi d’arma da fuoco diretti al negro possano andare fuori bersaglio e colpire spettatori innocenti, che includono donne con i loro bambini in braccio»; ma se tutti si atterranno alle regole, «nessuno sarà deluso». L’inedita società dello spettacolo procedeva in modo implacabile. Vediamo altri titoli: «il linciaggio eseguito pressoché come previsto nell’annuncio pubblicitario»; «la folla applaude e ride per l’orribile morte di un negro»; «cuore e genitali recisi dal cadavere di un negro». 

A subire il linciaggio non erano solo i neri colpevoli di «stupro» ovvero, il più delle volte, di rapporti sessuali consensuali con una donna bianca. Bastava molto meno per essere condannati a morte: l’«Atlanta Constitution» dell’11 luglio 1934 informava dell’avvenuta esecuzione di un nero di 25 anni «accusato di aver scritto una lettera “indecente e insultante” a una giovane ragazza bianca della contea di Hinds»; in questo caso la «folla di cittadini armati» si era accontentata di riempire di pallottole il corpo dello sciagurato. Per di più, oltre che sui «colpevoli», la morte, inflitta in modo più o meno sadico, incombeva anche sui sospetti. Continuiamo a sfogliare i giornali dell’epoca e a leggere i titoli: «Assolto dalla giuria, poi linciato»; «Sospetto impiccato a una quercia sulla pubblica piazza di Bastrop»; «Linciato l’uomo sbagliato». Infine la violenza non si limitava a prendere di mira il responsabile o il sospetto responsabile del misfatto a lui attribuito: accadeva che, prima di procedere al suo linciaggio, venisse data alle fiamme e bruciata completamente la capanna in cui abitava la sua famiglia. 

È da aggiungere che la terza grande discriminazione finiva col colpire anche certi membri e certi settori della stessa casta o razza privilegiata. Sfogliando sempre l’antologia relativa ai cento anni di linciaggi negli USA, ci imbattiamo nel titolo di un articolo del «Galveston (Texas) Tribune» del 21 giugno 1934: «Una ragazza bianca è rinchiusa in carcere, il suo amico negro è linciato». Su quella ragazza bianca il regime di terroristica white supremacy si abbatteva in modo duplice: sia privandola della sua libertà personale, sia colpendola pesantemente nei suoi affetti.

3. Movimento comunista e lotta contro la discriminazione razziale

In che direzione, a quale movimento e a quale paese guardavano le vittime di tale orrore, per cercare solidarietà e ispirazione nella lotta di resistenza e di emancipazione? Non è difficile indovinarlo. Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, gli afroamericani che aspiravano a scuotersi di dosso il giogo della white supremacy erano spesso accusati di bolscevismo, ma pronta era la replica di un militante nero che non si lasciava intimidire: «Se lottare per i nostri diritti significa essere bolscevichi, ebbene io sono bolscevico e che gli altri si rassegnino una volta per sempre».

Sono gli anni in cui i neri che diventavano militanti del Partito comunista degli USA o che visitavano la Russia sovietica facevano un’esperienza inedita e esaltante: si vedevano finalmente riconosciuti nella loro dignità umana; su un piano di parità con i loro compagni potevano partecipare alla progettazione di un mondo nuovo. Si comprende allora che essi guardassero a Stalin come al «nuovo Lincoln», al Lincoln che avrebbe messo fine questa volta in modo concreto e definitivo alla schiavitù dei neri, all’oppressione, alla degradazione, all’umiliazione, alla violenza e ai linciaggi che essi continuavano a subire. Non c’è da stupirsi per questa visione. Si tenga presente che per lungo tempo, nel periodo in cui la discriminazione razziale e il regime di supremazia bianca infuriavano pressoché indisturbati all’interno degli USA e a livello mondiale nel rapporto tra metropoli capitalistica e colonie, il termine «razzismo» ha avuto una connotazione positiva, quale sinonimo di comprensione sobria e scientifica della storia e della politica, una comprensione scientifica che solo gli ingenui (per lo più socialisti o comunisti) si ostinavano a ignorare o a mettere in discussione.

Quando interveniva il momento di svolta nella storia degli afroamericani? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia inviava alla Corte Suprema, che era stata chiamata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica». Già per ragioni di politica estera occorreva sancire l’incostituzionalità della segregazione e della discriminazione anti-nera. Washington – osserva lo storico statunitense (Vann Woodward) che ricostruisce tale vicenda – correva il pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli Stati Uniti: anche qui la propaganda comunista riscuoteva un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa rivoluzionaria», facendo crollare in loro la «fede nelle istituzioni americane». In altre parole, non si poteva arginare la sovversione comunista senza mettere fine al regime di white supremacy. E dunque: la lotta ingaggiata dal movimento comunista e la paura del comunismo finivano con lo svolgere un ruolo essenziale nella cancellazione negli USA (e poi nel Sudafrica) della discriminazione razziale e nella promozione della democrazia.

A questo punto s’impone una riflessione. Le opzioni politiche di ciascuno di noi possono essere le più diverse. E, tuttavia, chi voglia fondare le sue affermazioni su una sia pur elementare ricostruzione storica, deve riconoscere un punto essenziale: la storiella edificante dalla quale abbiamo preso le mosse, e che continua a essere strombazzata dall’ideologia dominante, è per l’appunto una storiella. Se per democrazia intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni, è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla Rivoluzione d’Ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale.

4. La discriminazione razziale tra USA e Terzo Reich

Se da un lato spingeva le sue vittime a riporre le loro speranze nel movimento comunista e nell’Unione Sovietica, dall’altro il regime di white supremacy vigente negli USA e a livello mondiale suscitava l’ammirazione del movimento nazista. Nel 1930, Alfred Rosenberg, che poi sarebbe diventato il teorico più o meno ufficiale del Terzo Reich, celebrava gli Stati Uniti, con lo sguardo rivolto soprattutto al Sud, come uno «splendido paese del futuro» che aveva avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che si trattava allora di mettere in pratica, «con forza giovanile», senza fermarsi a mezza strada. La repubblica nord-americana aveva coraggiosamente richiamato l’attenzione sulla «questione negra» e anzi l’aveva collocata «al vertice di tutte le questioni decisive». Ebbene, una volta cancellato per i neri, l’assurdo principio dell’uguaglianza doveva essere liquidato sino in fondo: occorreva trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei».

Non c’è dubbio, il regime di white supremacy ha profondamente ispirato il nazismo e il Terzo Reich. È un’influenza che ha lasciato tracce profonde anche sul piano categoriale e linguistico. Proviamo a interrogarci sul termine-chiave suscettibile di esprimere in modo chiaro e concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista. In questo caso non c’è bisogno di ricerche particolarmente tormentose: è Untermensch il termine-chiave, che in anticipo priva di qualsiasi dignità umana quanti sono destinati a essere schiavizzati al servizio della razza dei signori o a essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. Ebbene, il termine Untermensch, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione dall’americano Under Man! Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta a indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», con i quali bisogna procedere a una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), Stoddard è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime, compreso Adolf Hitler, ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli «indigeni» ovvero degli Untermenschen dell’Europa orientale, e impegnato nei preparativi per l’annientamento degli Untermenschen ebraici, considerati i folli ispiratori della rivoluzione bolscevica e della rivolta degli schiavi e dei popoli delle colonie. 

Ben lungi dal poter essere assimilate l’una all’altra quali nemiche mortali della democrazia, Unione Sovietica e Germania hitleriana si sono storicamente collocate su posizioni contrapposte: la prima ha svolto un ruolo d’avanguardia nella lotta contro la terza grande discriminazione (quella razziale), mentre la seconda si è distinta nella lotta per radicalizzare ed eternizzare la terza grande discriminazione e, nel far ciò, si è richiamata all’esempio costituito dagli USA. Nel complesso, l’analisi storica costringe a riconoscere il contributo essenziale o decisivo fornito dal movimento scaturito dalla rivoluzione d’ottobre al superamento delle tre grandi discriminazioni e dunque alla realizzazione di un presupposto ineludibile della democrazia.

5. Un incompiuto processo di democratizzazione

Conviene ora porsi un’ultima domanda: le tre grandi discriminazioni sono oggi del tutto dileguate? Già diversi anni fa, un eminente storico statunitense, Arthur Schlesinger Jr, che è stato anche consigliere del presidente John Kennedy, tracciava un quadro ben poco lusinghiero della democrazia nel suo paese: «L\'azione politica, una volta imperniata sull\'attivismo, s’impernia ora sulla disponibilità finanziaria». Dati i «costi spaventosamente alti delle recenti campagne elettorali», si delineava nettamente la tendenza a «limitare l’accesso alla politica a quei candidati che hanno fortune personali o che ricevono denaro da comitati d’azione politica», ovvero da «gruppi di interessi» e lobbies varie. In altre parole, era come se la discriminazione censitaria, cacciata dalla porta, fosse rientrata dalla finestra. Conviene prenderne atto: la campagna neoliberista contro i «diritti sociali ed economici», solennemente proclamati e sanciti dall\'ONU nel 1948 ma denunciati da Friedrich August von Hayek quali espressione dell\'influenza (da lui considerata rovinosa) della «rivoluzione marxista russa», ha finito con l‘investire anche i diritti politici.

Nell’atto di accusa contro la Rivoluzione d’Ottobre formulato dal patriarca del neoliberismo (e premio Nobel per l’Economia nel 1974) si può e si deve leggere un grande riconoscimento. Quella rivoluzione ha contribuito alla realizzazione dei diritti economici e sociali e all’edificazione anche in Occidente; non a caso, ai giorni nostri, al venire meno della sfida del movimento comunista corrisponde lo smantellamento dello Stato sociale nella stessa Europa, con il risultato che la discriminazione censitaria finisce col ripresentarsi in forme nuove.

E per quanto riguarda le altre due grandi discriminazioni? Non c’è tempo per un’analisi approfondita, ma non posso fare a meno di una breve osservazione a proposito della terza grande discriminazione. Certo, la storia non è l’eterno ritorno dell’identico, come pretendeva Nietzsche. Sarebbe errato e fuorviante ignorare i mutamenti intervenuti e i risultati conseguiti dalla lotta di emancipazione. Ai giorni nostri nessuno oserebbe fare professione di razzismo e proclamare ad alta voce la necessità di difendere o ristabilire la white supremacy. Non bisogna però dimenticare che, storicamente, un aspetto essenziale della terza grande discriminazione è stato la gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. L’ha ben compreso Lenin che abbiamo visto definire l’imperialismo come la pretesa di «poche nazioni elette» ovvero di poche «nazioni modello» di riservare esclusivamente a se stesse il diritto di costituirsi in Stato nazionale indipendente. È stata abbandonata una volta per sempre tale pretesa? In occasione di gravi conflitti politici e diplomatici, l’Occidente e in particolare il suo paese-guida si rivolgono al Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché autorizzi l’intervento militare da loro auspicato o programmato, ma al tempo stesso dichiarano che, anche in assenza di autorizzazione, essi si riservano il diritto di scatenare sovranamente la guerra contro questo o quel paese. E’ evidente che, arrogandosi il diritto di dichiarare superata la sovranità di altri Stati, i paesi occidentali si attribuiscono una sovranità dilatata e imperiale, da esercitare ben al di là del proprio territorio nazionale, mentre per i paesi da loro presi di mira il principio della sovranità statale è dichiarato superato e privo di valore. In forme nuove si riproduce la dicotomia (nazioni elette e realmente fornite di sovranità/popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo) che è propria dell’imperialismo e del colonialismo. Con la forza delle armi continua a esser fatto valere il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. 

Nel caso degli USA questa sedicente gerarchia è proclamata ad alta voce e viene persino religiosamente trasfigurata. Nel settembre del 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo». È un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo: «La nostra missione è senza tempo»!

Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy. Resta fermo il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni, una gerarchizzazione naturale, eterna e persino consacrata dalla volontà divina, come nella monarchia assoluta dell’Antico regime! Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la terza grande discriminazione non è dileguata. Detto altrimenti: almeno per quanto riguarda i rapporti internazionali, siamo ben lontani dalla democrazia. Il processo di democratizzazione iniziato con la rivoluzione d’ottobre è ancora ben lungi dalla sua conclusione.

Testo pubblicato dalla Casa editrice «La Scuola di Pitagora», Napoli. Ringraziamo Domenico Losurdo, Presidente dell\'Associazione Marx XXI, per la richiesta di pubblicazione nel nostro sito.

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