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La vertigine catalana

segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico

1) George Soros finanzia l’indipendentismo catalano / George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana
2) A proposito del referendum in Catalogna (George Gastaud, PRCF)
3) Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»
4) L’Unione Europea contro la Catalogna: bene censura e repressione (M. Santopadre)
5) Indipendenza della Catalogna e lotte di classe: intervista a Quim Arrufat (Cup)


ALTRI LINK:

Sostegno del PCE alle mobilitazioni in difesa delle libertà democratiche e del diritto all’autodeterminazione (Partido Comunista de España, 20/09/2017)
... Rajoy, con l’aiuto di Ciudadanos sta cercando di dinamitare la convivenza dei cittadini attraverso la creazione di uno stato di emergenza con conseguenze imprevedibili, proprio quando Unidos Podemos propone una via di buon senso per una soluzione concordata alla crisi istituzionale che ha portato lo scontro tra il Governo centrale e quello catalano. Di fronte a questa nuova dimostrazione di autoritarismo, con arresti e interventi che si verificano in Catalogna, il PCE ribadisce che la soluzione per ripristinare la normalità democratica e evitare la rottura della convivenza pacifica è un accordo tra le amministrazioni per consentire al popolo catalano di votare pacificamente e in completa sicurezza, per decidere sulle differenti forme di organizzarsi come nazione e allo stesso tempo decidere come garantire i diritti sociali e lavorativi che i governi di Rajoy e Puigdemont / Màs hanno rubato dal 2010. Di conseguenza, il PCE sostiene le mobilizazioni che, in difesa delle libertà democratiche e in difesa del diritto di autodeterminazione, sono convocate in questo senso...
Catalogna, Rizzo (PC): \"Motore della rivolta è la classe borghese catalana. E l\'Unione Europea sarà il metro\" (26 settembre 2017 ore 13:10, Andrea Barcariol)
... Sarà divertente capire come si schiererà realmente l\'Unione Europea. Sarà il metro con cui comprenderemo meglio la situazione rispetto allo scacchiere internazionale. Queste spinte indipendentiste sono forti e non credo che la questione finirà qui, il tema è molto complesso.

Catalogna: Trump si schiera contro l’indipendenza (PTV News 27.09.17 - Allarme a Basilea)


FLASHBACKS:

CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA (di Lucio CARACCIOLO, da LIMES DEL 3/09/1994)
... Non c’è troppo entusiasmo a Zagabria e Lubiana, la sera del 25 giugno 1991, quando si festeggia la dichiarazione di indipendenza. Sloveni e croati restano quasi isolati internazionalmente. Ad incoraggiarli, un fronte alquanto eterogeneo: da Alpe Adria alla Dc italiana, da Le Pen ai terroristi baschi e agli autonomisti catalani – il cui presidente Jordi Pujol già nel dicembre del 1990 aveva invitato Kucan a Barcellona per spingerlo alla secessione (124)...

EUROPA: UNIONE E DISGREGAZIONE (DOSSIER, 1997)
... Bisogna infatti tracciare una linea di demarcazione tra l\'intellettualismo borghese, che porta avanti valori romantici, passatisti e reazionari che si esauriscono nella esaltazione delle \"differenze\", dall\'internazionalismo ed antiimperialismo marxista, che riconosce i diritti di tutti perche\' vuole l\'unione tra eguali anziche\' il dominio del piu\' forte...

CRISIS PROFITEERS (GFP 2012/11/27)
... Germany has recently been supporting Catalonia\'s secessionist efforts, which are oriented on the notion that Catalonia - the richest region of the country - would not have entered the crisis, if it would not have to share its wealth, via the central government\'s redistribution with Spain\'s poorer areas... While Catalan separatism is grabbing attention throughout Europe, South Tyrolean secessionist efforts are also making bigger waves. Once more, the German austerity dictate to counter the Euro crisis is the direct cause. Rome is obliged to execute drastic budget cuts, as demanded by Berlin, which effect the financial margin of maneuver for the Bolzano Alto Adige (\"South Tyrol\") province. The cancellation of resources earmarked for South Tyrol has provoked protests...

¿Qué pasa en Catalunya?: lo que no se dice en los medios, ni en Catalunya ni en España (VICENÇ NAVARRO, 12 Jul 2017)
... Para entender Catalunya, hay que conocer a dicho partido, CDC, fundado por Jordi Pujol y que ha sido el eje del pujolismo, una ideología nacionalista conservadora que siempre ha considerado la Generalitat de Catalunya como su propiedad individual, familiar y colectiva, extendiendo su influencia a través de unas políticas de tipo clientelar, con prácticas intensamente corruptas... Es lo que Pablo Iglesias ha definido acertadamente como nacionalpatrimonialismo. Su largo dominio en el gobierno se debe a su claro encaje en la estructura de poder económico, financiero y mediático del país. Su dominio sobre los medios públicos de información de la Generalitat es casi absoluto. E influencia también en gran manera a los privados a base de subvenciones amplias (a modo de ejemplo, en 2015 la Generalitat de Catalunya otorgó 810.719 euros a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui recibió 457.496; y el diario Ara, 313.495 euros)... En TV3, sus programas económicos son de orientación ultraliberal, los cuales son conducidos por uno de los gurús económicos de CDC y sectores de ERC, el economista Sala i Martín, economista catalán, de nacionalidad estadounidense, que apoya en EEUU al Partido Libertario, un partido de ultraderecha que tiene gran influencia hoy en el Partido Republicano de aquel país. Es más que probable que el Ministro de Economía y Finanzas de la Catalunya independiente gobernada por una coalición liderada por el PDeCAT fuese tal personaje, o alguien próximo a él en su orientación política...

INTERPRETAZIONI DIVERGENTI DELLA QUESTIONE CATALANA (Rassegna JUGOINFO del 26.9.2017)
0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8771


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George Soros finanzia l’indipendentismo catalano

Rete Voltaire | 28 Settembre 2017
Traduzione: Rachele Marmetti (Il Cronista)

L’anno scorso La Vanguardia [quotidiano edito a Barcellona, ndt] ha rivelato che nel 2014 la fondazione Open Society Initiative for Europe di George Soros ha finanziato organizzazioni che militano per l’indipendenza della Catalogna.

Secondo documenti interni, la fondazione ha versato: 
  27.049 dollari al Consell de Diplomàcia Pública de Catalunya (Consiglio di Diplomazia Pubblica di Catalogna), organismo creato dalla Generalità di Catalogna insieme a diversi partner privati; 
  24.973 dollari al Centre d’Informació i Documentació Internacionals a Barcelona (CIDOB – Centro d’Informazione e Documentazione Internazionale di Barcellona, un think tank indipendentista.

Il CIDOB svolge il ruolo di “pre-ministero” degli Esteri per la Generalità di Catalogna. In ogni occasione sostiene lo stesso punto di vista di Hillary Clinton.

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George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana

La fundación del financiero colaboró con 27.000 dólares para diversas actividades del Diplocat y también con 24.949 para el CIDOB

QUICO SALLÉSBarcelona, 
16/08/2016 

La Fundación Open Society Initiative for Europe de George Sorosfinanció con 27.049 dólares actividades del Consell per la Diplomàcia Pública de Catalunya, el Diplocat, la agencia ‘paradiplomática’ catalana. Según los documentos que se han filtrado de las actividades del financiero, Soros aportó estos dólares para cofinanciar una jornada sobre la xenofobia y el euroescepticismo que se celebró en Barcelona en enero de 2014 ante las elecciones al Parlamento Europeo.

Fuentes de la dirección del Diplocat han admitido a La Vanguardia la financiación de este proyecto por parte de la fundación del famoso financiero. De hecho, no es la única aportación a agencias o think tanks catalanes a los que Soros ha ayudado económicamente. El CIDOB, think tank de prestigio internacional bajo el paraguas de diversas administraciones catalanas, también recibió 24.973 dólares para financiar una jornada sobre la integración.

El seminario internacional del Diplocat, titulado “Eleccions Europees 2014: l’augment de la xenofòbia i els moviments euroescèptics a Europa”, fue coordinado por Elisabet Moragas y se realizó a puerta cerrada y al que sólo se podía asistir por invitación.

Según las explicaciones del Diplocat, que preside Albert Royo, se realizó en forma de diálogo abierto entre los expertos académicos y representantes políticos, todos con experiencia sobre el tema del debate, junto con periodistas o representantes de medios de comunicación influyentes de diferentes países de la UE.

[FOTO: La explicación de la financiación de Soros al Diplocat (Quico Sallés)


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di George Gastaud, segretario nazionale del Polo della Rinascita Comunista in Francia (PRCF),  Antoine Manessis, responsabile PRCF delle relazioni internazionali, e Annette Mateu-Casado, membro della segreteria politica del PRCF, difensora della cultura catalana.

da initiative-communiste.fr, 19 settembre 2017

Traduzione di Marx21.it

Poiché il diritto dei popoli alla propria autodeterminazione non è negoziabile agli occhi dei comunisti, il PRCF condanna il comportamento grossolanamente repressivo del potere di Madrid contro gli eventuali partecipanti al referendum catalano. Anche l\'attaccamento di Mariano Rajoy e del re Felipe alla “democrazia” è sospetto, perché appare in continuità con quella Spagna franchista, in cui il centralismo, certo non democratico, ma fascistaè stato in larga parte responsabile storicamente delle divisioni della Spagna attuale.

Tuttavia, dobbiamo anche interrogarci sull\' “indipendentismo” della grande borghesia catalana.Esso si iscrive completamente nella costruzione “euro-atlantica” che è la negazione stessa dell\'indipendenza dei popoli e, ancor più, del loro diritto inalienabile a costruire il socialismo. Come le odierne componenti dei governi regionali degli Stati esistenti (Spagna, Francia, Italia, Belgio, ex Jugoslavia, ex Cecoslovacchia...) possono essere più forti di fronte all\'Asse Bruxelles-Berlino-Washington (dunque di fronte all\'oligarchia euro-atlantica che mette i popoli in competizione tra loro), isolandosi le une dalle altre, piuttosto che unirsi alle altre nel rispetto delle diversità culturali? Come i proletari di ciascuna delle “grandi regioni” che coltivano l\'euro-separatismo possono essere più forti per lottare contro il capitale se, all\'interno di ogni “nuovo paese” separato dagli Stati esistenti e trasformato in una nuova micro-stella della bandiera europea, i lavoratori sono ulteriormente divisi secondo la lingua e la nazionalità?

Nella stessa Francia, forze reazionarie stanno lavorando, in diverse regioni limitrofe del paese, a smantellare la Repubblica una e indivisibile nata dalla Rivoluzione, a stringere la lingua francese tra l\'inglese transatlantico e la lingua regionale impugnata come arma di divisione. Sullo sfondo di questo separatismo regionalista che si presume opposto a “Parigi” e allo “Stato”, il potere “parigino” stesso si scatena contro il “giacobinismo” (una fase spiccatamente progressista della nostra storia in cui, sotto l\'autorità di Robespierre, l\'unità territoriale del paese si era coniugata con una diffusa autonomia comunale) e difende quello che esso definisce il “patto girondino”: Macron intende in questo modo minare l\'unità, sbarazzarsi delle conquiste nazionali del popolo (contratti collettivi di ramo, statuti, diplomi nazionali, sicurezza, servizi pubblici di Stato, pensioni), favorire le grandi regioni, le “regioni trasfrontaliere” e le Euro-metropoli distruttrici dei comuni e dei dipartimenti.

Per quanto riguarda la Francia, e pur difendendo molto chiaramente le lingue e le culture regionali in quanto patrimonio indivisibile della nazione, il PRCF chiama i lavoratori, da Lille a Perpignan e da Brest a Sarténe, a sconfiggere il Macron-MEDEF, l\'UE sovranazionale, il Patto transatlantico in gestazione, la NATO, tutti quelli che vogliono allo stesso tempo cancellare le conquiste sociali del CNR, l\'autonomia dei comuni della Francia, la sovranità del nostro paese e il diritto dei suoi lavoratori a costruire tutti insieme il socialismo, nella prospettiva del comunismo.

Nel rifiutare in ogni modo la violenza del potere di Madrid contro la popolazione che vive nella Generalità catalana, il PRCF appoggia le rivendicazioni dei comunisti e dei progressisti della Spagna che propongono l\'istituzione di una Spagna repubblicana e socialista, confederale, indipendente dall\'UE e dalla NATO, pienamente rispettosa delle sue nazionalità e in marcia verso il socialismo.


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Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»

22 settembre 2017

Nella mattinata di mercoledì la Guardia Civil spagnola ha fatto irruzione nei palazzi governativi catalani arrestando 14 membri della Generalitat de Catalunya, sequestrando il materiale referendario e facendo calare – in sostanza – la scure dell’impossibilità della celebrazione del referendum indipendentista convocato per il 1° ottobre. Mariano Rajoy, Primo Ministro Spagnolo, infatti, ha dichiarato alla stampa: «Il referendum non può essere celebrato, non è mai stato legale o legittimo, ora è solo una chimera impossibile. Lo Stato ha agito e continuerà a farlo, ogni illegalità avrà la sua risposta. La disobbedienza alla legge è l’opposto della democrazia. Siete ancora in tempo per evitare danni maggiori». Le organizzazioni politiche spagnole non sono mai riuscite ad amalgamare un consenso realmente cospicuo in Catalogna, tanto che alle scorse Elezioni Generali il Partito di Governo (il Partito Popolare) nella circoscrizione catalana è andato ben sotto la media nazionale (33%) attestandosi attorno al 13%.

L’azione repressiva da parte del governo centrale, con l’appoggio dell’UE, ha scatenato le proteste di massa in difesa del diritto democratico al referendum con anche uno sciopero degli scaricatori di porto che hanno impedito l’approdo di 16.000 agenti della Polizia Nazionale e Guardia Civile inviati dalle autorità statali centrali.

La situazione, in ogni caso, è decisamente complessa e l’analisi più completa del fenomeno e del “processo” è necessaria per una comprensione a 360°. È l’obiettivo del documento realizzato dal PCPE (Partito Comunista dei Popoli di Spagna) sull’attuale relazione tra la Catalogna e la Spagna e il “processo” (di autodeterminazione nda): chi lo porta avanti, verso dove va e se ha qualcosa di positivo per la classe operaia e il popolo lavoratore. Il PCPE sostiene il diritto di autodeterminazione della nazione Catalana e condanna la repressione dello Stato spagnolo contro il popolo catalano ma considera che la classe lavoratrice non otterrà alcuna soluzione alla sua penosa condizione dal referendum del 1° Ottobre sia se voterà SI che NO e che tale processo, nelle condizioni attuali, è destinato al fallimento senza riuscire ad indebolire né lo Stato né il regime del ’78. «Le seguenti riflessioni – si legge nel lungo scritto realizzato dall’organizzazione Comunisti Catalani affiliata al PCPE e reso pubblico il 6 settembre scorso – si inquadrano nella nostra campagna “Nostro cammino: l’indipendenza della classe operaia”, con cui vogliamo dare il nostro contributo affinché la classe operaia avanzi verso la sua propria indipendenza politica per conquistare un mondo fatto su sua misura».


Alcuni cenni storici e di base

Prima di addentrarsi nell’analisi del “processo”, il documento si sofferma su alcuni concetti e cenni storici per una migliore comprensione: «L’idea di una nazione spagnola coesa e immutabile creata da re cattolici è una grande menzogna. La Spagna feudale pre-capitalista, uguale a molti stati vicini, era un conglomerato di popoli con culture e lingue proprie. La nazione è una comunità umana stabile con una base ideologica, territoriale, economica e psicologica/culturale in comune, nasce dallo sviluppo capitalista, concretamente in Spagna nel XIX secolo. E’ la comparsa di una necessità materiale, ossia, un mercato nazionale per la borghesia, ciò che impulsa una confluenza linguistica e psicologica/culturale di un popolo. Con una volontà politica conseguente alla borghesia ascendente, si promosse un’unità di criteri mercantili, dazi che proteggessero questo mercato e puntellassero la dominazione borghese. Tutto questo impulsò la fusione di diversi popoli e culture nel consolidamento degli Stati-nazione

«Le nazioni non sono qualcosa di eterno o immutabile, ma sono un prodotto storico determinato, con una nascita, evoluzione e scomparsa in funzione dello sviluppo delle società e, fondamentalmente, dello sviluppo economico a partire dall’attività e la lotta delle classi, che muove il resto. […] Agli inizi del XIX secolo le remore del feudalismo erano ancora forti in gran parte del territorio e nella capitale, nei centri di potere. La borghesia centralista, molto legata a relazioni redditiere e poco produttive non apportava le stesse dinamiche rispetto ad una borghesia catalana più avanzata nel processo di industrializzazione. Le relazioni di produzione capitaliste più sviluppate entrarono dalla periferia e si svilupparono fondamentalmente in Catalogna e nel Paese Basco. Quando la borghesia spagnola cerca di creare un quadro nazionale unico in tutto lo Stato trova che ci sono mercati nazionali creati, con borghesie proprie, con interessi propri e con uno sviluppo nazionale molto avanzato. La creazione di uno Stato-nazione con un’unica lingua, cultura e quadro economico cozza frontalmente con l’esistenza di altri quadri nazionali consolidati.»

Questione nazionale catalana e la contraddizione con lo Stato-nazione spagnolo

In merito alla questione della ‘nazione’ catalana, Comunisti Catalani-PCPE scrive come: «Il processo di creazione della nazione catalana proviene da una borghesia che rispondeva solo ai suoi interessi di creare un mercato economico determinato. […] Al consolidarsi del capitalismo in Spagna, gli interessi della borghesia centrale cozzano per decenni con quelli delle borghesie periferiche. Dalla fine del XIX secolo, con l’apparizione del catalanismo politico, e durante tutto il XX secolo lo scontro nazionale è una caratteristica propria del tentativo di costruzione dello Stato-nazione spagnolo. Sotto lo scontro nazionale, c’è un sigillo di classe dello scontro di interessi tra le differenti borghesie. Questo conflitto si svolge in un quadro di unità e lotta, trascinando dietro di sé gli strati popolari che sinceramente e legittimamente cercavano di difendere il loro patrimonio culturale e la loro identità. In questa relazione di unità e lotta, le borghesie, da un lato, hanno lottato tra sé per difendere i rispettivi interessi: questioni commerciali e produttive (il corridoio del mediterraneo/centrale è l’ultimo esempio), di riparto del bilancio statale, del riparto dell’azionariato di grandi compagnie, ecc., ma dall’altro lato, entrambe le borghesie condividevano un interesse comune basato nelle loro condizioni di classe dominante e sfruttatrice della classe operaia. Entrambe le borghesie sono state molto unite quando si è trattato di schiacciare la maggioranza operaia e popolare. In nessun momento della sua storia, la borghesia catalana ha aspirato all’indipendenza. Durante tutto il XX secolo abbiamo molteplici esempi di collaborazione tra borghesie o tra i loro rappresentanti politici», facendo riferimento all’appoggio al franchismo, alla guerra civile, ai patti costituzionali e all’appoggio a leggi e governi della transizione.

Il “processo” è lontano dall’essere guidato dalla classe operaia

Il processo indipendentista catalano non è guidato dalla classe operaia catalana, ma da settori borghesi: «La radice del conflitto è il lucro o interesse economico, un interesse di classe che, più o meno legittimo, dobbiamo saper separare e analizzare. In caso contrario ci faranno passare interessi estranei come nostri e finiremo per partecipare in lotte nelle quali non abbiamo alcuna speranza di miglioramento dei nostri problemi reali come classe operaia.

Il processo indipendentista cresce su problematiche politiche: annullamento dello Statuto votato dai catalani, attacchi alla lingua e la cultura, bassi investimenti in certi settori, ecc. Ma il “processo” come lo intendiamo oggi, come processo indipendentista (non per il patto fiscale o altre iniziative) scoppia nel 2011-2012, nei momenti più duri della crisi economica, e con alcuni fattori che vanno molto al di là di queste problematiche reali.

L’elemento chiave per comprendere il processo indipendentista sono le conseguenze del naturale sviluppo del sistema capitalista. Le leggi economiche di questo sistema, basate nell’accumulazione di capitale, nella produzione conducono inesorabilmente alle seguenti conseguenze: concentrazione del capitale sempre più in meno mani, impoverimento relativo, e a volte assoluto, del resto della popolazione in cui non si concentra il capitale e crescita dei monopoli che dominano rami della produzione e anche paesi interi».

In questo sviluppo si forma quello che Comunisti Catalani-PCPE definisce blocco oligarchico-borghese a livello statale spagnolo con l’unità dei settori monopolistici: «La storica borghesia catalana ha concentrato il suo capitale durante tutto il XX secolo, creando importanti monopoli che hanno dominato sempre più il mercato, in principio nel resto dello Stato e dopo a livello internazionale. Parallelamente, la borghesia spagnola ha seguito un processo simile, compartendo zone di mercato con la borghesia catalana. Le leggi dell’economia operarono e alla fine del XX secolo e inizi del XXI, al calore dell’impulso economico e delle grandi privatizzazioni dei monopoli pubblici, si compì un processo di fusione di capitali nella forma di compartizione azionaria delle grandi compagnie. Questo processo si realizzò dall’integrazione dei monopoli spagnoli nel sistema capitalista-imperialista internazionale e dall’omologazione delle forme di dominazione con i paesi dell’Unione Europea. L’interrelazione di capitali oggi è profonda, e la maggioranza delle grandi oligarchie nate in uno e l’altro lato dell’Ebro condividono azioni delle principali Banche e compagnie dell’IBEX35. Questo ha creato una tal comunione di interessi tra le differenti borghesie dello Stato spagnolo che rende imprescindibile parlare di un blocco oligarchico-borghese spagnolo. […] Il blocco oligarchico-borghese non è né catalano, né basco, né madrileno, è un blocco di carattere spagnolo mentre la sua base di accumulazione e dominazione non è nazionale, ma nel quadro statale. Questo si riflette direttamente nell’ambito politico visto che la nazione catalana ha smesso di esser un progetto utile per la classe dominante in Catalogna. I suoi rappresentanti storici (CiU) sono stati spodestati. Questo è un elemento che differenzia la situazione nel XXI secolo, elemento che in nessun caso si invertirà. L’oligarchia in Catalogna non tornerà mai più a difendere, mantenere o promuovere la nazione catalana.

Il ruolo della piccola e media borghesia catalana

Lo sviluppo imperialistico spagnolo – nel quadro dell’UE- con il suo processo di concentrazione e accentramento, ha avuto il riflesso della reazione della piccola borghesia che di fronte alla caduta delle sue posizioni e condizioni dei suoi piccoli affari rispetto ai grandi monopoli ha assunto sempre maggior protagonismo cavalcando il malcontento diffuso e generando una proposta politica che si riflette nell’attuale “processo”: «L’elemento chiave che spiega l’impulso del processo indipendentista è stato il processo di proletarizzazione accelerato vissuto da ampi strati della piccola e media borghesia catalana nei momenti più duri della crisi economica. Inoltre, la scomparsa di un mercato nazionale catalano, profondamente inter-relazionato con quello della Spagna ha radicalizzato questi strati che vedono “il loro mondo” – o contesto di sussistenza – scomparire.

Pertanto, la proposta politica di questa classe è stata segnata da due elementi:

  1. Dal fatto che la grande borghesia si è fusa con quella del resto dello Stato e si è convertita in borghesia spagnola, perdendo il quadro nazionale e non rappresentando più gli interessi del territorio sul quale si sostenta il mercato della piccola e media borghesia.
  2. E soprattutto, la minaccia massiva di proletarizzazione l’ha portata a sollevare una proposta di scontro radicalizzato contro le conseguenze del capitalismo monopolista attuale, ma non contro il capitalismo come sistema, giacché desiderano un capitalismo che non tenda alla concentrazione di capitali, senza grandi corporazioni e basato nel regime di piccole proprietà come le loro.

Tutto questo ha portato la piccola borghesia a sviluppare una proposta politica con un certo grado di conflitto contro la classe oligarchica ma senza generare un movimento di rottura o indipendente da essa.»

L’impraticabilità del “processo”

Comunisti Catalani-PCPE, in sostanza, delinea l’impraticabilità del “processo” d’autodeterminazione catalano se non viene spodestata l’oligarchia-reggente a livello statale tramite un processo rivoluzionario.

«[…] Poco a poco si va visualizzando l’unico orizzonte realista per l’indipendentismo e tutti i difensori del diritto all’autodeterminazione, orizzonte che da tempo noi comunisti annunciamo: che non sarà possibile alcun processo di autodeterminazione e, pertanto, nemmeno di indipendenza, senza distruggere il potere statale dell’oligarchia. Non si può spodestare l’oligarchia dal potere in maniera pacifica, posto che è sempre disposta a utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per mantenere il suo regime di interessi». E gli eventi di questi giorni confermano pienamente questa tesi. E ancora: «Per rovesciare il potere dell’oligarchia si richiede, così come la storia dimostra, un processo rivoluzionario. E’ l’indipendentismo disposto a portare avanti un processo rivoluzionario? La risposta a questa domanda è profondamente no. L’indipendentismo oggi non ha né forza né capacità di resistenza per affrontare un conflitto reale con lo Stato. E questo non avviene per una condizione codarda intrinseca dei catalani, ma nelle condizioni di classe del “processo”. La piccola borghesia non è una classe rivoluzionaria e pertanto i movimenti politici che sviluppa non hanno nessuna caratteristica (ideologica, politica e organizzativa) rivoluzionaria. In definitiva, il processo indipendentista è destinato al fallimento a causa della classe sociale che lo fomenta, dirige e gli dà forma».

Il ruolo della classe operaia e il suo cammino

Di fronte a questo scenario, il compito dei comunisti è quello di delineare una posizione e percorso indipendente per la classe operaia sulla base dei suoi interessi e non alla coda dei vari settori della borghesia. «La classe operaia deve apprendere dalle sue esperienze, e pertanto deve organizzarsi per creare un movimento con orientamento nettamente operaio dove si difendono i suoi interessi al di sopra di quelli dei padroni […] Né lo spagnolismo difensore dello status quo né l’indipendentismo con proposte utopiche irrealizzabili, servono gli interessi della classe operaia, hanno entrambi un sigillo di classe estraneo ad essa».

Le une e le altre proposte sono irricevibili dai comunisti per cui «solo in un processo rivoluzionario nel quadro spagnolo, ossia statale, in cui la classe oligarchica sia definitivamente sostituita al potere dalla classe sfruttata, la classe operaia, ci saranno le condizioni materiali per dare un reale diritto all’autodeterminazione della Catalogna».

Dunque, il PCPE conclude il documento lanciando un appello alla classe operaia e i settori popolari.

  • A rafforzare la lotta operaia. Rafforzare il sindacalismo di classe e combattivo e le file del Partito Comunista. Lottare contro la penetrazione delle idee di altre classi sociali dentro la nostra classe come sono la socialdemocrazia e ogni tipo di nazionalismo.

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Segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico)


Interpretazioni divergenti della questione catalana

0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone



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Links:

The Federal State - A Loss-Making Business (II – G.F.P. 17.10.2012)
... Cooperation with Catalonia as the \"Partner Nation\" in 2007, at the prestigious Frankfurt Book Fair, provided the separatists with an appreciable boost. German federal state Baden Wuerttemberg\'s special cooperation with Catalonia provides economic support for its secessionist efforts - and points to Europe\'s breakup into an economically successful core and poverty-stricken, hopeless marginalized zones, just as has crystallized under Euro zone pressure...

Farewell to Catalonia (JUGOINFO del 29 ago 2015)
An Unofficial Plebiscite (GFP 7.8.2015)
Risoluzione della Conferenza Nazionale del PCPC sulla questione nazionale (27/09/2014)
Auch zu lesen: Los von Madrid (Berliner Experten plädieren für Abspaltung Kataloniens – GFP 30.10.2014)

Peoples without Borders (G.F.P. 23.9.2015)
Just days before regional elections in Spain\'s Catalonia - elections declared a plebiscite on secession - a political partner of the German Green Party is calling for the rapid secession of that region from Spain. Ethnically defined \"peoples\" throughout Europe should have the \"right to self-determination,\" recognizing \"no borders,\" according to a declaration signed by the Spanish member organization of the \"European Free Alliance\" (EFA). The EFA unites separatist parties of various political orientations from numerous EU member countries... The EFA\'s map of Europe also depicts Germany merged with Austria and territories of neighboring countries to form a Greater Germany...

Il catalanismo e la Catalogna nella Spagna contemporanea. Un dialogo con Borja de Riquer (a cura di Andrea Geniola. In: Nazioni e Regioni. Studi e ricerche sulla comunità immaginata. 8/2016: 89-107)
... Attenendoci ai fatti, l’alta borghesia catalana è assolutamente contraria al processo di autodeterminazione e all’ipotesi indipendentista. Questa ha cercato di pianificare una cosiddetta terza via, soprattutto nella forma della richiesta di autonomia fiscale, ma senza essere ascoltata né dalle istituzioni dello Stato né dai partiti né dal grosso delle classi intellettuali spagnole. Ci troviamo dinnanzi a un fenomeno assolutamente nuovo, risultato dell’esaurimento del catalanismo di sinistra e di destra che avevano avuto un ruolo in questi decenni... non si tratta di un movimento anti-spagnolo bensì contro il regime attuale e quella che si considera essere una rottura del patto costituzionale delle autonomie con quote di autogoverno progressivamente maggiori. Si tratta inoltre di un movimento politicamente contro il PP e il PSOE, soprattutto questo per la sua involuzione nei confronti della realtà catalana. E per concludere si presenta come un movimento popolare civico e democratico. Non c’è un elemento essenzialista, sebbene ci possano essere settori o casi concreti in questo senso, che rivendica il fatto che in quanto nazione la Catalogna ha diritto all’autodeterminazione, bensì la richiesta di votare in quanto soggetti dotati di diritti civili e democratici universali...

¿Qué pasa en Catalunya?: lo que no se dice en los medios, ni en Catalunya ni en España (VICENÇ NAVARRO, 12 Jul 2017)
... En realidad, Catalunya ha estado gobernada 30 de 37 años por las derechas, es decir, 9 de 11 legislaturas, mostrando la gran hegemonía de las derechas... Para entender Catalunya, hay que conocer a dicho partido, CDC, fundado por Jordi Pujol y que ha sido el eje del pujolismo, una ideología nacionalista conservadora que siempre ha considerado la Generalitat de Catalunya como su propiedad individual, familiar y colectiva, extendiendo su influencia a través de unas políticas de tipo clientelar, con prácticas intensamente corruptas... Es lo que Pablo Iglesias ha definido acertadamente como nacionalpatrimonialismo. Su largo dominio en el gobierno se debe a su claro encaje en la estructura de poder económico, financiero y mediático del país. Su dominio sobre los medios públicos de información de la Generalitat es casi absoluto. E influencia también en gran manera a los privados a base de subvenciones amplias (a modo de ejemplo, en 2015 la Generalitat de Catalunya otorgó 810.719 euros a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui recibió 457.496; y el diario Ara, 313.495 euros)... En TV3, sus programas económicos son de orientación ultraliberal, los cuales son conducidos por uno de los gurús económicos de CDC y sectores de ERC, el economista Sala i Martín, economista catalán, de nacionalidad estadounidense, que apoya en EEUU al Partido Libertario, un partido de ultraderecha que tiene gran influencia hoy en el Partido Republicano de aquel país. Es más que probable que el Ministro de Economía y Finanzas de la Catalunya independiente gobernada por una coalición liderada por el PDeCAT fuese tal personaje, o alguien próximo a él en su orientación política...

Comunistes pel Sì: un appello per la Repubblica Catalana interroga le sinistre europee (Andrea Quaranta / Comunistes pel SÍ)
... Per Comunistes pel SÍ la Repubblica Catalana rappresenta un’opportunità sia per rompere i legami col vecchio regime che per avviare politiche di segno opposto al dogma liberista. In questo senso il manifesto chiama in causa implicitamente le sinistre europee e i comunisti in particolare, affermando che il miglior contributo internazionalista è il sostegno al referendum del 1 ottobre, all’autodeterminazione di Catalunya e alla nascita di una Repubblica al servizio delle classi popolari.
Il manifesto rappresenta inoltre un invito ad approfondire l’analisi dello scenario internazionale e svilupparne una visione non eclettica, così da definire da sinistra un altro modello di Europa. La riflessione su Catalunya implica cioè una riflessione sull’Unione europea, sulla natura antipopolare delle politiche della Troika e sul carattere imperialista del polo europeo...
Il testo originale del manifesto si trova alla pagina: https://comunistespelsi.com/manifest/

Catalogna e autodeterminazione (di Dante Barontini, 21 settembre 2017)
... Il groviglio catalano è sorto all’interno di almeno tre faglie decisionali diverse: l’ambito territoriale della Catalogna, quello della Spagna storica e lo spazio dell’Unione Europea. Abbiamo una “comunità indigena” unita da lingua e tradizioni culturali che persegue l’indipendenza da tempo immemorabile; uno Stato-nazione classico che non riconosce al suo interno altre nazionalità; un quasi-Stato sovranazionale che assume competenze chiave (le politiche di bilancio, in primo luogo) senza alcuna verifica “democratica” effettiva (il voto popolare sulle decisioni rilevanti)...

Le radici economiche dell’indipendentismo catalano (di Alessandro Bartoloni  23/09/2017)
... il processo di autodeterminazione del popolo catalano, ha radici economiche che ne permettono l’effettiva realizzazione. Tuttavia non bisogna pensare che questo processo sia un fatto meramente interno alla borghesia, con quella catalana che non riuscendo a prendere il pieno controllo del paese sembra tuttavia matura per assumersi la responsabilità della spoliazione della propria classe lavoratrice senza più dover fare i conti con Madrid. Quanto sta avvenendo, infatti, è la manifestazione di un conflitto molto più profondo: quello tra l’enorme sviluppo delle forze produttive avvenuto in una trentina d’anni, a partire dalla fine della dittatura militare, e la cornice entro cui ancora oggi si sviluppano i rapporti politici ed istituzionali, ingessati in quel compromesso tra forze democratiche e fascisti che ha guidato il passaggio alla monarchia costituzionale e garantito la pace sociale e l’ordine capitalistico.


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Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije

29/08/2017    SAŠA. F. 

Nakon terorističkog napada na La Rambli u Barceloni i atentata u Cambrilsu, portal Rambla Libre piše kako su oba čina pokazala neuspjeh integracije i nekonzistentnost identiteta koji se temelji na različitosti, što je samo po sebi proturječno.

Kako bi se izašlo iz ove teške situacije, koja ometa planove Carlesa Puigdemonta, lidera katalonskog pokreta za odcjepljenje, iz sjene je trebao izaći pokrovitelj kolektivnog samoubojstva Katalonije, George Soros, piše katalonski portal.

Prvo, svi mediji izravno ili neizravno povezani sa Sorosevim Otvorenim društvom su napisali niz članaka o tome ”kako je upravljanjem u kriznim situacijama i tijekom napada Katalonija pokazala da može biti neovisna”.

Prvi je bio The Wall Street Journal, a sada The Guardian, koji podržavaju Kataloniju i njezinu sposobnost da funkcionira kao samostalna država, posebno nakon onoga što je pokazala tijekom terorističkih napada.

To tvrdi Luka Stobart, profesor političke ekonomije, koji je napisao kolumnu naziva ”Odgovor Katalonije na terorizam pokazuje da je spremna za nezavisnost”.

Osim toga, mediji bliski Sorosu čak i na nacionalnoj razini u Španjolskoj, kao El Confidencial, umanjuju štetne ekonomske posljedice od hipotetskog razbijanja španjolskog jedinstva.

Novinar Juan Carlos Barba piše: ”Španjolska će gotovo sigurno pasti u kratku recesiju, ali će njen utjecaj biti ograničen. Katalonija će zbog sadašnjih političkih problema također pretrpjeti recesiju koja će, međutim, biti kratkog vijeka i nakon toga je čeka snažan ekonomski rast. Osim toga, ako se prijateljski raziđe sa Španjolskom, Kataloniju uopće ne bi trebala pogoditi recesija.”

Istovremeno, list La Vanguardia otkriva da su George Soros i njegovo  Otvoreno društvo za Europu službeno s 27 100 dolara financirali ”Diplomatsko vijeće Katalonije” (Diplocat), te s 24 973 dolara udrugu CIDOB (Catalunya i la cooperació da Desenvolupament). To su svote koje su službeno priznate.

Osim toga, regionalni direktor Otvorenog društva za Europu, Jordi Vaquer Fanés, koji ”radi na promicanju vrijednosti institucija otvorenog društva u zemljama Europske unije i Zapadnog Balkana”, bio je direktor CIDOB-a između 2008. i 2012. godine.

Sva ova tijela središnje vlasti nazivaju ”paradržavnim strukturama Katalonije”. Međutim, nije problem što su ona osnovana ili što Katalonija želi neovisnost, nego što se netko unaprijed pobrinuo da se puna neovisnost ove španjolske autonomne pokrajine nikada ne ostvari.

”Onaj koji izgleda kao dobročinitelj i učenik Karla Poppera, G. Soros, zapravo je jedan od najvećih zagovornika globalizacije, koji više i ne kriju da im je cilj uništiti nacije, granice i nametnuti svjetsku vladu. Čak su i Katalonci naivno upali u njegovu mrežu”, zaključuje Rambla Libre.



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Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi


di Marco Santopadre*

Nelle prossime settimane si terranno due appuntamenti elettorali su materie apparentemente simili ma in realtà di segno molto diverso. Il primo ottobre dovrebbe svolgersi in Catalogna (il condizionale è d’obbligo) un referendum per l’indipendenza dallo Stato Spagnolo, mentre il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si voterà per chiedere maggiore autonomia dal governo centrale italiano.
Come detto, ad uno sguardo superficiale le due consultazioni potrebbero sembrare equivalenti, ma le differenze sono notevoli.

I referendum in Lombardia e Veneto sono promossi e sostenuti dalla maggioranza dei partiti, dalla Lega fino al Pd, e mirano a ottenere una maggiore autonomia, soprattutto in campo fiscale, per le due regioni del nord Italia. Si tratta quindi di un proseguimento e di un approfondimento delle politiche, portate avanti prima dai governi di centrosinistra e poi da quelli di centrodestra nel corso del decennio scorso, che introdussero il cosiddetto ‘federalismo’. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: le imposte e i balzelli locali per i cittadini sono notevolmente aumentati, man mano che lo Stato cedeva competenze agli enti locali che a loro volta privati dei finanziamenti statali si vedevano obbligati ad aumentare la tassazione e a tagliare o esternalizzare importanti servizi. Col risultato che oggi i cittadini, i lavoratori, i pensionati pagano assai più cari servizi di qualità peggiore. Sul fronte dell’autogoverno, della possibilità cioè delle comunità locali di incidere maggiormente sulle decisioni di natura politica e territoriale, nulla è cambiato, anzi.

Di fatto i referendum indetti in Lombardia e in Veneto il 22 ottobre su iniziativa dei governatori Maroni e Zaia si inseriscono nel solco di quel ridisegno regressivo dell’assetto costituzionale e istituzionale tendente a facilitare una maggiore integrazione del nord del paese all’interno della struttura produttiva, economica e politica dell’Unione Europea. Nelle due regioni, come ha ricordato Sergio Cararo qualche giorno fa su Contropiano, si concentra quel 22% d’imprese che realizzano l’80% del valore aggiunto e delle esportazioni di tutto lo Stato. Sono questi i territori che a Bruxelles, Parigi e Berlino interessa integrare e cooptare nel nucleo duro dell’Unione Europea, mentre il resto del paese si fa sempre meno interessante perché poco appetibile.

Comunque si tratta di referendum di tipo consultivo per i quali non è previsto alcun quorum, e l’impatto del loro risultato potrebbe essere assai scarso. Di fatto una sorta di megaspot a favore dei due governatori e delle loro rispettive maggioranze, anche se poi le consultazioni sono sostenute dal Pd e dai suoi cespugli. Certo, in caso di vittoria del Sì e di forte partecipazione alle consultazioni, i promotori e i loro sponsor – il padronato medio-piccolo, le lobby finanziarie locali agganciate agli ambienti europei che contano – potrebbero rivendicare più voce in capitolo nei confronti del governo e rosicchiare qualche privilegio in più. Ad esempio, ottenendo di poter stringere accordi ‘autonomi’ con gli ambienti economici tedeschi, finanziamenti ad hoc per migliorare le infrastrutture, agevolazioni fiscali o incentivi alle imprese o agli enti locali.

I riscontri positivi per le popolazioni delle due regioni sarebbero insignificanti. Anzi, com’è successo dopo l’introduzione del cosiddetto ‘federalismo fiscale’, i processi di concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di ambienti sempre più ridotti e di tipo oligarchico potrebbe subire una ulteriore accelerazione.

Mentre i due referendum in Lombardia e Veneto sono puramente funzionali agli interessi del padronato locale e del meccanismo di gerarchizzazione del territorio europeo gestito in maniera spesso spericolata da una borghesia continentale sempre più sovranazionale, il quesito catalano del Primo ottobre ha risvolti assai più interessanti e di rottura.

La rivendicazione indipendentista catalana ha una storia pluricentenaria, in opposizione ad una costruzione nazionale spagnola di tipo autoritario e sciovinista che è ricorso alla dittatura per ben due volte nel ventesimo secolo (quelle di Miguel Primo de Rivera dal 1923 al 1930 e poi quella di Francisco Franco dal 1936 fino alla fine degli anni ‘70). Fu non solo per reprimere i movimenti dei lavoratori e i moti rivoluzionari che le classi dirigenti spagnole scelsero il terrore, ma anche contro le rivendicazioni indipendentiste dei baschi, dei catalani e delle altre nazionalità inglobate a forza in uno stato autoritario e feudale.

Dopo la morte di Franco all’interno del regime si affermò l’ala più modernista e liberale in economia (ma non per questo meno fascista) che era interessata a integrare la Spagna nell’allora Comunità Economica Europea e nella Nato. Così il regime non venne travolto ma semplicemente si autoriformò, cambiando pelle pur di continuare a garantire, con forme nuove, il dominio dell’oligarchia economica e politica.
Se il Movimento di Liberazione Basco, da posizioni socialiste rivoluzionarie, rifiutò e contestò a lungo l’autoriforma del regime accettata supinamente dalle opposizioni di sinistra spagnole, il movimento nazionalista catalano si integrò senza particolari scossoni all’interno del cosiddetto ‘Stato delle autonomie’. La borghesia catalana, ampiamente integrata sia a livello statale che internazionale, ha gestito il potere politico ed economico a livello locale in maniera pressoché ininterrotta dall’inizio degli anni ’80 fino ai nostri giorni. I partiti regionalisti e autonomisti catalani – in primis Convergència Democràtica de Catalunya – hanno a lungo relegato le rivendicazioni indipendentiste al livello simbolico, mirando ad aumentare il proprio potere e il proprio radicamento a livello locale in cambio del sostegno ai governi statali formati alternativamente dai due partiti nazionalisti spagnoli, il Partito Popolare e il Partito Socialista Operaio (sic!) Spagnolo.

Ma questo equilibrio si è rotto all’inizio del decennio. La gestione autoritaria e liberista della crisi economica da parte dei governi spagnoli – sotto dettatura Ue – e di quelli regionali ha provocato la politicizzazione di decine, forse centinaia di migliaia di catalani da sempre lontani dalla contesa tra il campo autonomista e quello nazionalista (spagnolo). In reazione ai licenziamenti di massa, degli sfratti con l’uso della forza pubblica e dei tagli ai salari e al welfare le piazze si sono riempite: scioperi, manifestazioni, picchetti e assemblee hanno scosso la Catalogna.

Nel frattempo un blando tentativo di riforma dello Statuto di Autonomia varato dopo l’autoriforma del regime franchista, promosso dagli autonomisti e da alcune forze federaliste di centro-sinistra, ha visto una reazione sproporzionata e violenta da parte dello Stato e delle sue istituzioni. Un testo già ampiamente mutilato dagli stessi promotori catalani è stato ulteriormente sfregiato dalle istituzioni statali, manifestando così l’impossibilità di una riforma graduale e negoziale dell’autonomia di Barcellona.

La confluenza dei due processi – lotta contro l’austerity e lotta per una maggiore autonomia – unita ad una crescente mobilitazione sociale e politica contro lo stato e i suoi apparati repressivi, oltre che contro la corruzione e l’autoritarismo repressivo del governo regionale ha causato una frattura di tipo storico all’interno dello scenario catalano, con l’indebolimento dell’egemonia di Convergència – nel frattempo trasformatasi in Partit Demòcrata Europeu Català – e il rafforzamento di un variegato fronte indipendentista sorretto dalla mobilitazione permanente dell’associazionismo nazionalista trasversale e dall’affermazione elettorale di varie forze di sinistra, tra le quali le Candidature di Unità Popolare (Cup), anticapitaliste oltre che indipendentiste.

La mobilitazione a sinistra e indipendentista ha di fatto condizionato i regionalisti catalani obbligandoli ad abbracciare rivendicazioni di tipo nazionalista, che hanno portato alla formazione di un governo il cui obiettivo dichiarato è quello di traghettare la Catalogna verso l’autodeterminazione attraverso un processo di ‘disconnessione’ politica ed istituzionale con Madrid e i suoi apparati. Il momento di rottura formale dovrebbe essere rappresentato dal referendum che il parlamento catalano si appresta a convocare per il prossimo 1 ottobre. Che il referendum si tenga veramente ed in forme ufficiali – per intenderci sulla falsariga di quelli realizzati in Scozia ed in Quebec – è tutto da vedere: i partiti nazionalisti spagnoli e gli apparati dello Stato non hanno alcuna intenzione di permettere la celebrazione del voto popolare, non riconoscono ai catalani l’esercizio del diritto all’autodeterminazione e stanno intraprendendo un boicottaggio che potrebbe arrivare all’intervento delle forze di sicurezza contro i promotori del referendum, alla sospensione dello statuto di autonomia di Barcellona e all’esclusione degli indipendentisti dalle istituzioni e dagli uffici pubblici, per non parlare dei ricatti sul fronte economico.

Ma le contraddizioni esistono anche nel fronte catalano: il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, ha già perso pezzi consistenti del suo schieramento politico e il sostegno di alcuni importanti dirigenti del suo stesso partito politico. Di fronte all’acuirsi dello scontro e all’avvicinarsi del momento della verità molti di coloro che, da posizioni catalaniste, hanno a lungo agitato la parola d’ordine dell’indipendenza scelgono di fare un passo indietro. In fondo gli spezzoni dominanti della borghesia catalana non hanno mai abbracciato pienamente la parola d’ordine della separazione da Madrid e la sua scelta sarà improntata ad un pragmatico bilancio costi/benefici. Se lo scontro con Madrid si facesse troppo duro settori consistenti e maggioritari di PDeCat potrebbero tirare i remi in barca, sospendendo la procedura di ‘disconnessione’ in cambio magari di un aumento dell’autonomia fiscale e amministrativa che poi è il succo delle rivendicazioni autonomiste della borghesia catalana. Una scelta che però non sarebbe né facile né indolore per il partito liberal-conservatore catalano, che a quel punto dovrebbe subire l’offensiva delle forze autenticamente indipendentiste e in particolare dei partiti di sinistra catalani, Erc e Cup.

Come detto, a Barcellona in queste settimane si gioca una partita molto interessante, dagli esiti non scontati e che avrebbe forti ripercussioni non solo sugli equilibri dello Stato Spagnolo ma su tutta l’Unione Europea. In Catalogna, nel fronte indipendentista, si scontrano due diverse tendenze politiche: una europeista, liberista, conservatrice sul piano sociale e affatto interessata a mettere in dubbio le attuali collocazioni internazionali, ed un’altra che insieme all’indipendenza chiede l’uscita dalla Nato e dall’Unione Europea, la rottura con le politiche liberiste e una forte rottura con gli attuali equilibri politici ed economici.

La Monarchia autoritaria spagnola perderebbe un pezzo consistente, e nascerebbe una Repubblica Catalana all’interno della quale i movimenti sociali e politici progressisti o esplicitamente antagonisti avrebbero un peso consistente in grado di contendere alle forze moderate la guida del processo di costruzione del nuovo stato, di mutare i rapporti di forza, di introdurre nel dibattito politico e nel processo decisionale degli elementi di rottura con la brutta china imposta dal processo di costruzione del polo imperialista europeo.

L’esito di questa dialettica è ovviamente tutt’altro che scontato, ma che la rottura di Barcellona con Madrid apra spazi consistenti alle rivendicazioni di classe è innegabile.
Per questo equiparare i referendum di Lombardia e Veneto con quello catalano è un grave errore da parte di forze che si richiamano al progresso e al cambiamento.

* Rete dei Comunisti

31 agosto 2017



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Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE sobre la situación en Catalunya de cara al referéndum del 1 de octubre


1.     El ejercicio del derecho a la libre autodeterminación de los pueblos es un requisito imprescindible para superar el fracaso histórico de la burguesía española en su objetivo de construir España como nación que reconozca la realidad de su carácter plurinacional, y que desarrolle el marco de convivencia necesario para sentar las bases materiales de una nación española que sea reconocida como patria por quienes vivimos en este Estado. La nación española que ha impuesto la burguesía, especialmente después del fin de su fase colonial en 1898, es incapaz de adquirir esta condición y se desarrolla como cárcel de pueblos oprimidos en la dictadura del capital. Este derecho a la libre autodeterminación no es tal si no incluye el derecho a la independencia.

2.     Mariano Rajoy representa, hoy, la continuidad del proyecto político de la vieja España, fracasada en su intento de unificar a los distintos pueblos y naciones. Intento de unificación que, siempre ignorando sus derechos, se ha realizado desde la imposición y la violencia. Esa es la misma incapacidad política que hoy pone en evidencia el Gobierno del PP, que no tiene ninguna vía política de superación del actual conflicto con el Govern de Generalitat, y que recurre a la utilización instrumental de los aparatos del Estado y a la intervención represiva de los cuerpos de policía. 

3.     El proceso que se desarrolla en Catalunya, a iniciativa de un amplio sector de su burguesía, tiene el objetivo de una mejor recolocación de esa clase social en la cadena imperialista. La burguesía catalana entra así, una vez más, en contradicción con la oligarquía española. Contradicción que tiene su base material en la existencia de un marco específico de acumulación capitalista en Catalunya, que el capitalismo español (pese a haberlo intentado) no ha conseguido nunca integrar en el marco general de la acumulación capitalista en España de forma unificada. No es, por tanto, un proceso de liberación nacional de base popular, si bien se apoya y utiliza los sentimientos nacionales históricamente arraigados en el pueblo, para obtener una amplia legitimación de masas a su particular estrategia. Estamos frente a un intento de proceso de recomposición capitalista, sobre la base de la continuidad de la propiedad privada y de la explotación de la clase obrera y los sectores populares por una clase social parasitaria.

4.     El SP del CC del PCPE entiende que, en una situación así, la posición del Partido de la clase obrera es la de clarificar los intereses en juego ante el pueblo trabajador y, también, la de aprovechar las contradicciones que se dan en el marco del bloque de fuerzas dominantes para incidir sobre ellas favoreciendo los intereses de la clase obrera y los sectores populares. Por ello, aun respondiendo esta situación que se da en Catalunya a un conflicto dentro del bloque de poder dominante, es necesario que la clase obrera intervenga en el mismo para debilitar a la clase dominante y favorecer el desarrollo de los intereses proletarios.

5.     Ante la convocatoria del referéndum del 1 de octubre, el PCPE, coincidiendo con las posiciones expresadas por el PC del Poble de Catalunya, hace un llamamiento a la clase obrera y a los sectores populares a participar en ese proceso, manifestando su voto nulo, como expresión contra un proyecto de la burguesía catalana que se inserta en la alianza imperialista de la UE y en la OTAN, y que quiere dar continuidad a la actual explotación de la clase obrera catalana bajo nuevas formas.

6.     El SP del CC del PCPE llama a combatir todas las formas de utilización violenta de los aparatos del Estado para reprimir los derechos de la clase obrera catalana por parte del Gobierno de Mariano Rajoy, a hacer una firme defensa del legítimo derecho de autodeterminación de los pueblos, y a fortalecer el bloque obrero y popular en torno a sus propios intereses de clase, que es un requisito imprescindible para impulsar el proceso que lleve al reconocimiento de Catalunya como nación. 

7.     El SP del CC del PCPE, como expresión de los acuerdos del X Congreso del Partido, reitera su propuesta de superación de la actual situación en base a su propuesta de República Socialista de carácter Confederal, como salida política de futuro a esta situación. Un proceso hegemonizado por la clase obrera, que liquidará no solo a la decrépita monarquía española sino, también, a las estructuras de dominación capitalista que someten a los pueblos y naciones del Estado a la opresión nacional, y a su clase obrera a unas miserables condiciones de vida bajo la dictadura del capital.


Secretariado Político del Comité Central del PCPE a 10 de Septiembre de 2017



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Septembre 19, 2017

A propos du référendum en Catalogne ibérique

Une réflexion de Georges Gastaud, secrétaire national du PRCF, d’Antoine Manessis, responsable PRCF aux relations internationales, et Annette Mateu-Casado, membre du secrétariat politique, défenseur de la culture catalane


Le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes n’étant pas négociable aux yeux des communistes, le PRCF condamne l’attitude grossièrement répressive du pouvoir de Madrid à l’encontre des éventuels participants au référendum catalan. D’autant que l’attachement de Mariano Rajoy et du roi Felipe à la « démocratie » est aussi suspect qu’est évidente leur commune filiation avec l’Espagne franquiste dont le centralisme, non pas démocratique, mais fasciste, est largement responsable historiquement des divisions de l’Espagne actuelle.

Il n’en faut pas moins s’interroger sur l’ « indépendantisme » de la grande bourgeoisie catalane. Il s’inscrit totalement dans la « construction » euro-atlantique qui est la négation même de l’indépendance des peuples et plus encore, de leur droit inaliénable à construire le socialisme. Comment des actuelles composantes régionales des Etats existants (Espagne, France, Italie, Belgique, ex-Yougoslavie, ex-Tchécoslovaquie…) seraient-elles plus fortes face à l’Axe Bruxelles-Berlin-Washington (donc face à l’oligarchie euro-atlantique qui met les peuples en coupe réglée) en s’isolant les unes des autres, plutôt qu’en s’unissant aux autres composantes dans le respect des diversités culturelles ? Comment les prolétaires de chacune de ces « grandes régions » cultivant l’euro-séparatisme seraient-ils plus forts pour lutter contre le capital si, à l’intérieur de chaque « nouveau pays » séparé des Etats existants et transformé en nouvelle micro-étoile du drapeau européen, les travailleurs sont divisés encore davantage selon la langue et selon la nationalité ?

D’autant qu’en France même, des forces réactionnaires travaillent, dans plusieurs régions limitrophes du pays, à démanteler la République une et indivisible issue de la Révolution, à prendre la langue française – élément unificateur majeur du pays – en étau entre le tout-anglais transatlantique et la langue régionale érigée en arme de division. A l’arrière-plan de ce séparatisme régionaliste soi-disant opposé à « Paris » et à l’ « Etat », le pouvoir « parisien » lui-même se déchaîne contre le « jacobinisme » (phase éminemment progressiste de notre histoire où, sous l’autorité de Robespierre, l’unité territoriale du pays s’est conjuguée avec la généralisation de l’autonomie communale) défend ce qu’il appelle un « pacte girondin » : Macron entend ainsi saper l’unité de la République, exploser les acquis nationaux du peuple (conventions collectives de branche, statuts, diplômes nationaux, Sécu, services publics d’Etat, retraites…), favoriser les grandes régions, les « régions transfrontalières » et les euro-métropoles destructrices des communes et des départements.

En ce qui concerne la France, et tout en défendant très clairement les langues et les cultures régionales en tant que patrimoine indivisible de la nation, le PRCF appelle les travailleurs, de Lille à Perpignan et de Brest à Sartène, à faire échec à Macron-MEDEF, à l’UE supranationale, au Pacte transatlantique en gestation, à l’OTAN, à tous ceux qui veulent à la fois araser les conquêtes sociales du CNR, l’autonomie des communes de France, la souveraineté de notre pays et le droit de ses travailleurs à construire tous ensemble, le socialisme dans la perspective du communisme.

Sans cautionner en quoi que ce soit la moindre violence du pouvoir de Madrid à l’encontre de la population vivant dans la Généralité catalane, le PRCF appuie la revendication des communistes et des progressistes d’Espagne qui proposent la mise en place d’une Espagne républicaine et socialiste, confédérale, indépendante de l’UE et de l’OTAN, pleinement respectueuse de ses nationalités et en marche vers le socialisme*. 


*nous signalons que nos camarades du Parti communiste des peuples d’Espagne appellent au vote blanc à ce référendum.



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Comunicato  solidarietà con il popolo catalano

Con l\'avvicinarsi del 1 ottobre, giorno scelto per la consultazione referendaria sull\'indipendenza della Catalogna, si vanno concretizzando violentemente le minacce del governo Rajoy nei confronti del composito movimento indipendentista.

In nome del \"diritto\" - evidentemente quello di neutralizzare la democrazia nel caso si manifesti in maniera contraria agli interessi del \"mondo di sopra\" -  sono scattate le manette per diversi membri e funzionari della Generalitat. E\' solo l\'ultimo episodio dopo il sequestro di materiale pro-referendum, l\'invio di un\'ordine di comparizione in tribunale per 712 sindaci accusati di favorire una consultazione illegale, l\'ordine di bloccare in ogni formato, cartaceo o digitale, la propaganda referendaria, il commissariamento dei conti del governo regionale catalano e l’invio a Barcellona di 10mila tra agenti di polizia e militari.

La “democrazia spagnola” di mostra per quello che è sempre stata: diretta erede dello stato franchista, dal quale non si è mai smarcata realmente, mantenendo il suo impianto nazionalista e autoritario e i suoi apparati repressivi e ideologici. Il passaggio dalla dittatura alla monarchia parlamentare fu gestito dal regime fascista per garantire il dominio dell\'oligarchia sotto altre forme dettate dalla necessità di integrare il paese nella Nato e nella Comunità Economica Europea.

Quella stessa Unione Europea che oggi volta le spalle alle richieste di libertà e di democrazia del popolo catalano, concedendo mano libera alla repressione di Madrid. Quel diritto all’autodeterminazione che l’Ue ha strumentalmente sponsorizzato quando si trattava di togliere di mezzo paesi non conformi da sfasciare e assorbire - il caso dell’ex Jugoslavia è eclatante - non sembra valere per Bruxelles all’interno dei propri confini. Al polo imperialista europeo non interessano né la democrazia né la libertà, soprattutto quando non sono in linea con i propri interessi strategici e se mettono a rischio la stabilità interna come nel caso della Catalogna. Una contraddizione non indifferente per quegli spezzoni liberali del movimento indipendentista catalano che si appellano proprio a Bruxelles ritenendo Ue una alternativa democratica all’autoritarismo spagnolo.

Nel momento in cui gli viene impedito di esprimersi democraticamente sul proprio futuro non possiamo che schierarci a fianco del popolo catalano. All\'interno del fronte indipendentista esistono componenti molto diverse per orientamento politico e ideologico; non potrebbe essere altrimenti visto che siamo di fronte a un vasto movimento popolare e non dell’espressione delle rivendicazioni di un solo partito o di una sola classe sociale. Ma è impossibile negare l\'importanza che la lotta per l\'emancipazione e la liberazione sociale, condotta da consistenti e radicati settori politici e sociali di sinistra e di classe, sta avendo nella concretizzazione del Referendum del 1 ottobre e in generale nel processo indipendentista.

Nell\'attuale contesto continentale, la rivendicazione d\'indipendenza del popolo catalano si pone in oggettiva rottura non solo con le classi dirigenti e l\'oligarchia spagnola ma anche con la stessa Unione Europea. Un processo di rottura politica e sociale in Catalogna rafforza oggi le ipotesi di opposizione e rottura dei popoli europei nei confronti dei propri governi e della gabbia dell\'Unione Europea, il che non può lasciarci indifferenti.

Nei prossimi giorni parteciperemo a diversi momenti di dibattito e di mobilitazione in solidarietà con la lotta del popolo catalano e il 1 ottobre saremo a Barcellona a fianco dei compagni e delle organizzazioni di classe che animano il movimento per l’emancipazione sociale e nazionale della Catalogna.


Rete dei Comunisti, 21/09/2017


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Sullo stesso tema si veda anche: Il giornalismo non è più un lavoro (di Alberto Negri, Il Sole24Ore, 8/8/2017)
... La professione giornalistica, ma ovviamente non solo quella, è diventata sempre più “volontariato”. Possono fare questo lavoro coloro che non campano di giornalismo, come professori, esperti vari, già pagati dalle istituzioni, da società pubbliche o private, dal mondo del business, oppure figli di papà mantenuti dalla famiglia. Ma non è gente che va sul terreno e afferra la vita vera. Parlano a vanvera di popoli che non conoscono e posti che non hanno mai visto...




L’informazione è povera, i giornalisti anche. I risultati si vedono


di Federico Rucco, 15 settembre 2017

“La situazione dell’editoria è devastante, ormai il 65% degli iscritti è precario o disoccupato. Otto su dieci hanno un reddito intorno ai 10 mila euro, quindi sotto la soglia di povertà”. A sottolinearlo è stato il presidente nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Nicola Marini, nel corso del suo intervento alla 10/a edizione di ‘Media Memoriae’. Disaggregando ulteriormente il dato, emerge che il 40% degli oltre 35mila giornalisti attivi in Italia, per lo più sotto i 35 anni, produce annualmente un reddito inferiore ai 5.000 euro.

Secondo i dati elaborati dal Rapporto dell’Agcom presentato lo scorso marzo, negli ultimi quindici anni sono andate crescendo soprattutto le fasce di reddito piu’ basse della professione, a testimonianza del fatto che sempre piu’ giornalisti esercitano la professione in modo parziale e precario.

sancire questo pessimo stato delle cose, è stato l’accordo siglato nel 2014 tra il sindacato dei giornalisti (Fnsi) con l’associazione degli editori (Fieg) e l’istituto previdenziale dei giornalisti (Inpgi). Con il meccanismo dell’equo compenso si è prodotta una situazione vergognosa. Ltariffe minime stabilite sono 20,80 euro a pezzo per i quotidiani con una media di 12 articoli al mese, 6,25 euro per le agenzie (con un minimo di 40 segnalazioni/informazioni al mese) e le testate web aumentati del 30% con foto e del 50% con un video. Se la produzione giornalistica è superiore, si procede per scaglioni e, paradossalmente, i pezzi successivi vengono retribuiti in misura ancora inferiore.

I dati ci dicono che in Italia quattro giornalisti freelance su dieci nel 2014 hanno praticamente lavorato gratis . In questa condizione si trovano 16.830 giornalisti «autonomi» sui 40.534 iscritti alla gestione separata dell’Inpgi, vale a dire il 41,5% degli iscritti.

Il rapporto del Lsdi presentato tre anni fa alla federazione della stampa, parlava di «zero redditi». In una situazione ancora più rognosa si trovano anche i 23.704 freelance che nel 2014 avevano dichiarato redditi inferiori o pari ai 10 mila euro lordi all’anno. Nel 2014 è stato inoltre registrato un ulteriore calo della retribuzione media: da 10.941 a 10.935 euro lordi annui. Chi lavora con la partita Iva o con la ritenuta d’acconto in Italia guadagna mediamente il 17,9% di chi invece ha un contratto di lavoro dipendente, 5,6 volte di meno.

Da tempo la logica della “liberalizzazione” ha prodotto devastazioni in ogni settore. Se sul lavoro salariato si è abbattuto lo tsunami della ristrutturazione, delle delocalizzazioni e del blocco dei salari, in settori come l’informazione ha agito il medesimo meccanismo espellendone i settori stabilizzati (sia tra i giornalisti che tra i poligrafici) e ricorrendo sistematicamente al precariato, al lavoro a prestazione e deresponsabilizzando le aziende editoriali da ogni dovere contributivo e fiscale. 

La Fnsi, il sindacato di categoria, da anni viene sollecitato a vedere come sia profondamente mutato anche socialmente il mondo dell’informazione, ma chi ha posto il problema si è trovato di fronte un muro (e neanche troppo di gomma) di chi continua a pensare che le figure da tutelare siano ancora e solo quelle che operano in Rai o nella grandi testate. Nel caso della crisi aziendale al Sole 24 Ore si è scelto di sacrificare i precari e salvaguardare gli stabilizzati.

E’ evidente come la povertà diffusa tra gli operatori della comunicazione riproduca un abbassamento della qualità nel mondo dei media. Ormai lo spettacolo quotidiano su lanci di agenzia, cronache, gestione di servizi televisivi è disperante. Altro che stimoli alla concorrenza, giornalismo di inchiesta, verifica delle fonti, deontologia professionale. E’ una lotta per la sopravvivenza che mette quotidianamente in contraddizione le aspettative sul “lavoro più bello del mondo” e la giungla di miserie messa a disposizione dai grandi e piccoli monopoli sull’informazione. Le cose migliori (ma anche le peggiori) ormai si trovano sulla rete. I monopoli se ne sono accorti e ne temono le conseguenze (vedi il crollo di vendite dei giornali o la diminuzione di telespettatori sui canali in chiaro). Ma la qualità si scontra sempre più spesso con la povertà delle risorse e delle retribuzioni ed anche progetti innovativi sul piano informativo decollano e atterrano bruscamente e pesantemente in pochissimo tempo. Insomma chi ha il pane non ha i denti. Chi ha i denti deve stringerli, per trovare il varco su cui convergere per rovesciare il tavolo.



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L\'Africa all\'epoca della ricolonizzazione

1) A. Soumahoro: La presunta superiorità dell\'uomo (francese?) europeo secondo Sua eccellenza Macron
2) D. Wedikorbaria: Risposta di un africano alla lettera di Padre Alex Zanotelli sull’Africa
3) M. Dinucci: Macron-Libia: la Rothschild Connection 
4) G. Masala: Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa)


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La presunta superiorità dell\'uomo (francese?) europeo secondo Sua eccellenza Macron

di Aboubakar Soumahoro
15 luglio 2017

Il presidente francese Emmanuel Macron sostenendo che \"l\'Africa ha avuto problemi di civilizzazione\" conferma ciò che fu la colonizzazione dal punto di vista del degrado culturale dei suoi protagonisti e promotori. 
Perché la presunta civilizzazione \"superiore\" portata dalla Francia sul continente africano, dal punto di vista storico, si legge attraverso la colonizzazione con i vari crimine che essa ha portato con se. Basta ricordare le rivolte finite nel sangue in Camerun con oltre 120 000 morti. Parliamo dei \"tiratori\" africani spinti in prima fila sotto le bombe dei nazisti mentre gli altri militari, di pelle bianca, risultavano in seconda e terza fila. 
Noi siamo quella civiltà che venne repressa, sempre dalla Francia a Setif in Algeria con oltre 45 000 morti nel 1945. Siamo quell\'Africa che l\'esercito francese colonialista massacrava con oltre 100 000 morti in Madagascar nel 1947. Vogliamo anche parlare dell\'uccisione di contadini, donne e giovani durante l\'opera detta civilizzatrice francese in giro per l\'Africa (Senegal, Costa D\'Avorio, Mali, Ghana, Guinea, ecc ecc)? 
Ecco oggi la stessa politica francese, da non confondere con il popolo francese nel suo insieme, ha venduto armi per 6,6 miliardi di euro nel solo 2016, e l\'Africa risulta una delle principali piazze di questa economica bellica.
Questa è anche la civiltà portata dalla Francia di sua maestà tra noi africani della presunta civiltà inferiore. Una presunta civiltà inferiore che per la sua dimensione di umanità e di rifiuto di ogni forma di subalternità, si è ribellata con dignità contro i vari saccheggi delle sue risorse umane e naturali. 
La decolonizzazione per noi, con la costruzione di mentalità nuova, continua ne sia sicuro Signor Presidente. La storia non può essere scritta e manipolata da chi ha costruito quella mostruosità che è la colonizzazione.


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Risposta di un africano alla lettera di Padre Alex Zanotelli sull’Africa

Padre Alex Zanotelli elenca una serie di “è inaccettabile” per descrivere la drammatica situazione in cui versano tanti Stati africani e lo fa, ovviamente, puntando il suo dito accusatorio sugli africani stessi. Praticamente è come se si accusassero i Sioux o gli Apache della drammatica situazione che si è creata nel Nord America.

By daniel wedikorbaria - 27 luglio 2017

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.” Inizia così la lettera del profondo conoscitore dell’Africa padre Alex Zanotelli, nella quale, senza ritegno alcuno, chiede di “rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne.” Ma i mainstream media parlano fin troppo dell’Africa anche a sproposito. Come hanno sempre fatto continuano a diffamare ancor di più l’Africa e gli africani. Tutte le narrazioni che una grossa fetta del giornalismo ha prodotto negli ultimi decenni sull’Africa e sugli africani straripano di stereotipi al limite della xenofobia e del ridicolo.

L’attempato canuto elenca una serie di “è inaccettabile” per descrivere la drammatica situazione in cui versano tanti Stati africani e lo fa, ovviamente, puntando il suo dito accusatorio sugli africani stessi. Praticamente è come se si accusassero i Sioux o gli Apache della drammatica situazione che si è creata nel Nord America.

La sua elencazione inizia con: “È inaccettabile il silenzio sul Sudan retto da un regime dittatoriale…” dando l’idea di non essere ancora soddisfatto della sua suddivisione in due Stati. Forse vorrebbe farlo ancora a pezzi, oltre al Sud Sudan facciamo anche quello Est e quello Ovest? In fondo, Dividi et impera è sempre stata una strategia usata dai colonialisti che hanno stravolto i confini nazionali africani per innescare guerre interetniche.

Non risparmia nemmeno il paese che crede nell’autosostentamento o self reliance, il paese che rifiuta di offrire un solo ettaro della sua terra al fenomeno del Land grabbing praticato in Africa dalle multinazionali, il paese che ha rispedito a casa tutte le ONG e rifiuta gli aiuti umanitari considerati l’oppio della popolazione africana. “È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo…”  Questa dichiarazione è la menzogna più evidente di tutta la sua lettera, una frottola che poteva anche risparmiarsi. Ai giornalisti italiani si può dir di tutto tranne che siano mai rimasti in silenzio sull’Eritrea. Lui mente sapendo di mentire perché da tanti anni esiste una sistematica demonizzazione mediatica dell’occidente nei confronti del Paese descritto come “l’inferno sulla terra”, “la Corea del Nord africana”, “una prigione a cielo aperto”, ecc. L’unica cosa che gli rimane da dire ancora sarebbe che gli eritrei mangiano i bambini!

Padre Alex è convinto che i leader africani che osano negare l’accesso al loro paese ai neocolonialisti, evitando così di farsi derubare, siano da annoverare come i peggiori dittatori di questo mondo.

Quello eritreo è un regime oppressivo forse perché l’unico in Africa a non volere più gli aiuti umanitari occidentali? In effetti questa cosa rende automaticamente tutti quelli come Alex delle persone inutili. Lo so che è difficile digerirlo per quelli come lui che vanno in giro con l’aureola in testa ma, volenti o nolenti, l’Eritrea diventerà un esempio per l’Africa perché insegnerà agli altri Stati africani che si può vivere senza mendicare aiuti umanitari. Solo quando questa filosofia, germogliata in Eritrea, attecchirà e radicherà in tutto il continente africano tutta l’Africa si salverà e allora lui e tutti i suoi compari dovranno tornarsene a casa loro.

Trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad”. Guarda caso l’Eritrea è assente dalla sua lista. Si è chiesto il perché? Eppure è la stessa area geografica del Corno d’Africa colpita dal fenomeno climatico El Nino. Se si fosse documentato con più serietà saprebbe che l’Eritrea sta lottando da sola contro il cambiamento climatico piantumando alberi e costruendo dighe per fermare l’acqua piovana con l’idea di raggiungere l’obbiettivo del Millennio sulla sicurezza alimentare. Obiettivo quasi raggiunto, in Eritrea più nessun bambino muore di fame. Se anche gli altri paesi africani adottassero questo progetto politico smentirebbero quella stima ONU da lui citata che dice che a fine secolo l’Africa avrà tre quarti del suo territorio non abitabile e circa cinquanta milioni di profughi climatici entro il 2050. La mia speranza è che questa rivoluzione alla maniera eritrea si compia molto presto in tutto il continente africano alla faccia di tutti gli uccelli del malaugurio!

Ma forse il buon padre Alex intendeva dire che in Eritrea c’è un regime oppressivo perché si nega l’accesso all’AFRICOM, l’invasione militare statunitense in atto in tutta l’Africa? Allora, piuttosto che puntare il suo dito contro gli africani e colpevolizzare le vittime, perché non trova il coraggio di raccontare la presenza di AFRICOM in 52 paesi africani tranne che in Eritrea e nello Zimbabwe? Perché non spende due parole o anche un solo “è inaccettabile” sulla presenza massiccia di basi militari, armamenti ed aeroporti di droni motivati sempre dall’assurda idea di proteggere la sicurezza nazionale o gli interessi nazionali statunitensi? Perché Alex non accusa mai gli Stati Uniti della devastazione e della destabilizzazione africana? È forse per il suo passato a Cincinnati dove era stato mandato dai Padri Comboniani a completare gli studi di Teologia? Perché, colto da amnesia, si rifiuta di raccontare che dietro al caos e al disastro del continente africano c’è sempre la loro longa mano?

Per esempio nella Repubblica Centrafricana, per poter fermare l’avanzata dei cinesi, gli Stati Uniti hanno scatenato un’improvvisa guerra di religione così drammatica da dividere la pacifica popolazione in due distinti gruppi, per non parlare della zona saheliana del Ciad e del Mali dove sono stati finanziati alcuni gruppi jihadisti creati ed armati assieme ai francesi. Perché Alex non ha il coraggio di puntare il dito contro chi sta creando i terroristi in Africa, a cominciare dai BokoHaram in Nigeria e Al Shabaab in Somalia? Crede davvero che in Somalia si divertano a fare una guerra civile da trent’anni? A chi giovano questi terroristi se non al neocolonialismo? La War on terrornon è forse la nuova evangelizzazione del continente africano? Se vogliamo rompere il silenzio sull’Africa diciamo di chi è veramente la colpa. Quale altra potenza conosciamo impegnata a destabilizzare l’Africa ed il mondo intero con il terrorismo? Padre abbia il coraggio di puntare quel suo santo dito sull’America! Pure se per questo dovesse sacrificare la sua vita non tema, mi batterò anch’io perché la facciano santo subito!

Ma torniamo all’Eritrea dove lei non è mai stato e che conosce solo per sentito dire. L’Eritrea è spesso stata la fonte di tante bufale per quegli stessi giornali che oggi lei rimprovera di non scrivere abbastanza menzogne. Trovo che non sia affatto onesto da parte sua, eppure il suo abito talare le imporrebbe di perseguire la verità cristiana, blaterare dei giovani eritrei in fuga verso l’Europa senza approfondirne il vero motivo, la sua vera causa, la sua radice. Non diventerà certo un santo per aver volutamente ignorato, o peggio omesso, che i ragazzi eritrei vengono in Europa perché gli viene promesso il paradiso con il welfare nord europeo, del resto il loro Paese sotto sanzioni USA non offre occupazione a volontà e la sua economia è ancora da post guerra quarantennale. Il loro è un paese che non gli offre sicurezza in quanto la minaccia di invasione etiopica è annuale come la stagione delle piogge, i raid militari etiopici sono frequenti, ancora ci sono territori eritrei sotto occupazione nonostante il verdetto dell’EEBC. Perché la fuga dei giovani eritrei è un progetto USA come ammesso anche dallo stesso presidente Obama per facilitare il suo alleato numero uno in Africa, l’Etiopia, che mira allo sbocco sul Mar Rosso. E per convincere i ragazzi eritrei a lasciare il loro paese li hanno attirati con le allettanti promesse di distribuzione di visti per l’America, promesse fatte nei campi rifugiati etiopici, campi dell’UNHCR gestiti da ARRA, un’agenzia di intelligence del regime etiopico. Come sappiamo l’UNHCR è finanziato dallo State Department americano per costruire in Etiopia vicino al confine con l’Eritrea altri campi rifugiati con l’intenzione di svuotare il Paese dei suoi giovani.

Perciò Santissimo Alex, se lei vuole davvero fermare questa “invasione degli eritrei” sulle sue coste provi a convincere l’Europa, paese garante degli accordi di Algeri, ad intimare all’Etiopia il rispetto del diritto internazionale ed abbandonare i territori sovrani eritrei. Questi problemi sono alla radice della sua imbarazzante e superficiale analisi: “con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa”. Stia pur certo che il fenomeno migratorio eritreo diminuirà drasticamente una volta risolte le sue cause e vedrà anche il ritorno a casa di una miriade di persone perché in tanti si sono già stufati dell’accoglienza italiana stile mafia capitale che ha arricchito persino le strutture religiose.

Ma è sintomatico il suo punto di vista sull’Africa perché esaminando il resto della sua lettera ho notato un uso eccessivo di termini negativi per descrivere il continente africano, sentenze definitive e previsioni quasi apocalittiche senza speranza alcuna: “la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati”, “ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga”, “un regime dittatoriale in guerra contro il popolo”, “il popolo martire dell’Africa”, “in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni”, “uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa”, “dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai, potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera”, “situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti”.

Eppure, io sono convinto che l’Africa sia diversa da come la racconta il bianco Alex. L’Africa è un continente di gente ospitale che si indebita per offrirti cibo, di persone umili che vivono alla giornata, di bambini che sorridono con sguardi innocenti, di popoli con valori autentici e bellissime tradizioni millenarie.  L’Africa è ricca, così ricca che potrebbe sfamare tutti gli africani anche se il numero dei suoi abitanti dovesse quintuplicare. L’Africa non è stupida e ha imparato che non può continuare a mendicare un chilo di farina in cambio di un chilo d’oro.

Ma forse lo scopo di questa sua lettera è quello di tornare protagonista della scena mediatica per sentirsi ancora il salvatore di un intero continente e per avere più visibilità agli occhi dei suoi ignari concittadini e raccogliere da loro l’ennesima beneficenza e, siccome viviamo in un’epoca in cui per mettersi la coscienza a posto basta donare 2 euro con un sms, il santissimo Alex si incaricherà lui stesso di distribuire i soldi degli italiani agli africani più bisognosi e quindi restare sul trono africano vita natural durante. In passato si è visto come venivano distribuiti quegli aiuti umanitari in terra africana, creavano un bacino clientelare, un piccolo gruppo di fedeli all’interno del quale si praticavano il ricatto ed il baratto, in cambio di un chilo di latte in polvere si pretendeva l’anima o la verginità. Quando nell’Eritrea liberata il governo laico eritreo ha deciso di controllare gli “aiuti umanitari” gestiti dai soliti missionari è stato subito chiaro che questi si sarebbero quantomeno irritati. A quanto sembra, anche padre Alex non ha mai digerito questa fastidiosa ingerenza governativa perciò quando egli scrive di Africa la bile gli si contrae e lo stomaco gli provoca degli spasmi che gli offuscano la mente e gli impediscono di esprimere giudizi sereni ed obiettivi.

Per me, la sua lettera non è altro che il delirio di onnipotenza di un missionario colonialista convinto di essere l’unico africanista con l’aureola in testa rimasto in vita su questo pianeta. Uno che ha vissuto l’intera sua vita nel continente africano con il pretesto di fare del bene. E mi chiedo, cosa ha prodotto la sua presenza cinquantennale in Africa? A cosa è servito il suo lavoro, cosa ha migliorato? Che cosa ha risolto? Nulla ha risolto, anzi ha creato dipendenza! Può forse uno spacciatore aiutare le sue vittime ad uscire dalla droga? No, credo proprio di no.

A quanto pare il destino dell’Africa continua con lo stesso trend anche ai nostri tempi, il colonialismo del passato si è trasformato in neo colonialismo. Nulla è cambiato, i predatori del passato sono ritornati indossando altre vesti e i missionari come Alex Zanotelli forniscono informazioni, dati, statistiche, numeri, coordinate geografiche e quant’altro alle potenze colonizzatrici. In breve sono finiti per diventare gli informatori del neo colonialismo. In passato erano proprio i missionari, con fucile a tracolla ed una bibbia in mano, a guidare le carovane dei predatori e mentre questi compivano le razzie loro evangelizzavano i “barbari” distraendoli con qualche nuova preghiera da recitare a memoria. In Eritrea, per esempio, fu il lazzarista Giuseppe Sapeto a favorire la penetrazione italiana nel Mar Rosso dando così il via alla sua colonizzazione.

Facciamo qualcosa per l’Africa” scrive padre Alex e come africano vorrei replicargli e suggerirgli che la scelta migliore per il continente africano sarebbe quella di essere lasciato in pace e da solo, ossia di essere completamente abbandonato al suo destino. Lo so che sembra un azzardo ma l’Africa deve farcela da sola. Deve poter iniziare a camminare con le proprie gambe. E se lui avesse veramente a cuore le sorti di quel continente che l’ha nutrito di fama e di gloria per un intero mezzo secolo, non fosse altro che per una sorta di gratitudine, se ne dovrebbe tornare nella sua terra natia a chiudersi in un convento a coltivare l’orto e al tramonto praticare l’autoflagellazione col cilicio come penitenza per i suoi peccati di tipo narcisistico.

Per citare la sua conclusione in “Rompiamo il silenzio sull’Africa” da africano le vorrei svelare caro Alex che domani saranno i nostri nipoti a dirvi quello che voi oggi dite dei nazisti! Personalmente, lei per me resterà sempre uno di quelli che Jomo Kenyatta ai suoi tempi aveva ben inquadrato:

QUANDO I MISSIONARI VENNERO IN AFRICA LORO AVEVANO LA BIBBIA E NOI AVEVAMO LA TERRA. DISSERO: PREGHIAMO E NOI CHIUDEMMO GLI OCCHI. QUANDO LI RIAPRIMMO, NOI AVEVAMO LA BIBBIA E LORO AVEVANO LA TERRA.


FONTE: L\'appello. Rompiamo il silenzio sull\'Africa (Alex Zanotelli giovedì 20 luglio 2017)


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L’arte della guerra 

Macron-Libia: la Rothschild Connection 

Manlio Dinucci
  

«Ciò che avviene oggi in Libia è il nodo di una destabilizzazione dai molteplici aspetti»: lo ha dichiarato il presidente Emmanuel Macron celebrando all’Eliseo l’accordo che «traccia la via per la pace e la riconciliazione nazionale». Macron attribuisce la caotica situazione del paese unicamente ai movimenti terroristi, i quali «approfittano della destabilizzazione politica e della ricchezza economica e finanziaria che può esistere in Libia per prosperare». Per questo – conclude – la Francia aiuta la Libia a bloccare i terroristi.

Macron capovolge, in tal modo, i fatti. Artefice della destabilizzazione della Libia è stata proprio la Francia, unitamente agli Stati uniti, alla Nato e alle monarchie del Golfo. 

Nel 2010, documentava la Banca mondiale, la Libia registrava in Africa i più alti indicatori di sviluppo umano, con un reddito pro capite medio-alto, l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e del 46% alla terziaria. Vi trovavano lavoro circa 2 milioni di immigrati africani. La Libia favoriva con i suoi investimenti la formazione di organismi economici indipendenti dell’Unione africana. 

Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – si accordarono per bloccare il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa (moneta che la Francia impone a 14 sue ex colonie africane). Fu la Clinton – documenta il New York Times – a far firmare al presidente  Obama «un documento che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino ad allora classificati come terroristi. 

Poco dopo, nel 2011, la Nato sotto comando Usa demolisce con la guerra (aperta dalla Francia) lo Stato libico, attaccandolo anche dall’interno con forze speciali. Da qui il disastro sociale, che farà più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti. 

Una storia che Macron ben conosce: dal 2008 al 2012 fa una folgorante (quanto sospetta) carriera alla Banca Rothschild, l’impero finanziario che controlla le banche centrali di quasi tutti i paesi del mondo. In Libia la Rothschild sbarca nel 2011, mentre la guerra è ancora in corso. Le grandi banche statunitensi ed europee effettuano allo stesso tempo la più grande rapina del secolo, confiscando 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici. 

Nei quattro anni di formazione alla Rothschild, Macron viene introdotto nel gotha della finanza mondiale, dove si decidono le grandi operazioni come quella della demolizione dello Stato libico. Passa quindi alla politica, facendo una folgorante (quanto sospetta) carriera, prima quale vice-segretario generale dell’Eliseo, poi quale ministro dell’economia. 

Nel 2016 crea in pochi mesi un suo partito, 
En Marche!, un «instant party» sostenuto e finanziato da potenti gruppi multinazionali, finanziari e mediatici, che gli spianano la strada alla presidenza. 

Dietro il protagonismo di Macron non ci sono quindi solo gli interessi nazionali francesi. Il bottino da spartire in Libia è enorme: le maggiori riserve petrolifere africane e grosse riserve di gas naturale; 
l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medioriente. 

C’è «il rischio che la Francia eserciti una forte egemonia sulla nostra ex colonia», avverte Analisi Difesa, sottolineando l’importanza dell’imminente spedizione navale italiana in Libia. Un richiamo all’«orgoglio nazionale» di un’Italia che reclama la sua fetta nella spartizione neocoloniale della sua ex colonia.

(il manifesto, 1 agosto 2017) 



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Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa)


di Giuseppe Masala, 31 agosto 2017

L’arresto in Senegal del militante panafricano Kemi Seba (nella foto), di nazionalità francese, reo di aver bruciato, durante una manifestazione, alcune banconote di franchi CFA, ha riaperto il dibattito su questa moneta considerata da molti lo strumento principale con il quale la Francia (ma ora tutti i paesi della zona euro) esercitano il neo colonialismo nell’Africa francofona. 

Il Franco CFA nasce nel 1945 con gli accordi di Bretton Wood; infatti all’epoca si chiamava Franco delle Colonie Francesi Africane. Successivamente nel 1958 cambia nome e diventa Franco della Comunità Francese dell’Africa. 

Fino a qui tutto normale se non per due piccoli particolari. 1) il Franco CFA è una moneta ancorata ad un cambio fisso, prima con il Franco Francese e ora con l’Euro. 2) La piena convertibilitá del Franco CFA è garantita dal Ministero del Tesoro francese, che però chiede il deposito, preso un conto del ministero, del 65% delle riserve estere dei paesi aderenti all’unione monetaria. 

Dietro queste due tecnicalità si nasconde il diavolo del colonialismo. Infatti il cambio fisso azzera il rischio di cambio per gli investimenti delle multinazionali occidentali nel paesi dell’Unione monetaria. Non basta, il cambio fisso (per giunta garantito dal Ministero del Tesoro francese) favorisce l’accumulo nei forzieri delle banche occidentali di immensi tesori frutto della corruzione dei governanti locali (spesso dittatorelli amici dei nostri governi). 

Come se non bastasse, tutto questo avviene a scapito dell’economia reale locale, soffocata dalla rigidità del cambio con una moneta fortissima come l’Euro. 

Il secondo punto probabilmente è anche peggio del primo. Quale nazione sovrana depositerebbe, a garanzia della convertibilitá della propria moneta, ben il 65% delle proprie riserve estere presso il ministero del Tesoro di uno stato estero per giunta quello del paese ex coloniale? Nessun paese sovrano farebbe mai una cosa del genere, che consegna le chiavi dello sviluppo (o del sottosviluppo) ad una nazione straniera. 

Pensiamo basti questo per chiarire come il colonialismo sia ancora un fenomeno reale e pervasivo che tarpa le ali di una qualsiasi opportunità di sviluppo dei paesi africani. Con buona pace di tanti soloni che parlano senza sapere di cambi e monete, e che credono che agli africani sia data una grande opportunità nel venire in Europa (spesso a vendere asciugamani e accendini nelle nostre piazze) grazie alla possibilità di inviare nei loro paesi, a tasso di cambio fisso, rimesse che consentono alle loro famiglie in Africa di campare con pochi euro. 

Grazie a questo sistema le nostre multinazionali hanno invece l’opportunità, a rischio di cambio pari a zero, di depredare le immense riserve di materie prime dell’Africa Occidentale: uranio, metalli rari, oro, petrolio, gas ma anche legname pregiato e derrate alimentari. 

Bell’affare per noi, non certamente per gli africani che ci vendono il “coccobello” sulle nostre spiagge. 

Non basta di certo la carità di alcune ONG per sanare questa forma di neocolonialismo monetario, che azzera le possibilità di sviluppo dei paesi dell’Africa francofona.




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