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Chi e perché mette a ferro e fuoco la Siria

1) Bahar Kimyongür: Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali
2) Nino Orto: Le Alture del Golan tra guerra e pace
3) PsyOp imminente de l’OTAN contre la Syrie
4) Socialismo siriano
5) Thierry Meyssan: Chi combatte in Siria?


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(En francais: Le terrorisme anti-syrien et ses connexions internationales


Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali


di Bahar Kimyongür

Fin dall’inizio della “primavera” siriana, il governo di Damasco ha affermato di essere in guerra contro bande di terroristi. La maggior parte dei media occidentali denunciano questa tesi come propaganda di Stato, che serve per giustificare la repressione contro i movimenti di protesta. Se è evidente che questa tesi viene calata come sacrosanta dallo Stato baathista, che ha una reputazione di poca tolleranza verso i movimenti di opposizione che sfuggono al suo controllo, va detto comunque che non è falsa. Effettivamente, molteplici elementi senza ombra di dubbio accreditano la tesi del governo siriano.
In primo luogo, esiste il fattore della laicità.
La Siria è in questo caso l’ultimo Stato arabo laico.(1) Le minoranze religiose godono dei medesimi diritti della maggioranza musulmana. Per certe frange religiose sunnite, campioni dell’idea della guerra contro l’«Altro», chiunque egli sia, la laicità araba e l’uguaglianza inter-religiosa, incompatibili con la sharia (legge islamica), costituiscono una offesa contro l’Islam e rendono lo Stato siriano più detestabile di un’Europa «atea» o «cristiana». Ora, la Siria ha almeno dieci diverse chiese cristiane, con sunniti che sono Arabi, Curdi, Circassi o Turcomanni, con cristiani non arabi come gli Armeni, gli Assiri o i Levantini, con musulmani sincretisti e quindi non classificabili, come gli Alawiti e i Drusi. Pertanto, il compito di mantenere salda questa struttura etnico-religiosa fragile e complessa si dimostra così difficile, che solo un regime laico, solido e necessariamente autoritario può assolverlo.
Poi, esiste il fattore confessionale.
In ragione dell’origine del presidente Bachar El-Assad, il regime siriano è indebitamente descritto come «alawita». Questa definizione è totalmente falsa, diffamatoria, settaria, vale a dire razzista. Innanzitutto è falsa, perché lo stato maggiore, la polizia politica, i diversi servizi di informazione, i membri del governo sono nella grande maggioranza sunniti, come pure una parte non trascurabile della borghesia. I nostri media, per fare sensazione, non mancano di sottolineare l’origine sunnita della signora Asma al-Assad, moglie del presidente, con lo scopo di demonizzarla. Ma evitano deliberatamente di citare la vice-presidente della Repubblica araba di Siria, la signora Najah Al Attar, la prima ed unica donna araba al mondo ad occupare una carica così elevata. La signora Al Attar non è soltanto di origine sunnita, ma è anche la sorella di uno dei dirigenti in esilio dei Fratelli Musulmani, esempio emblematico del paradosso siriano.
In realtà, l’apparato statale baathista è il riflesso quasi perfetto della diversità etnico-religiosa che prevale in Siria. Il mito a proposito della «dittatura alawita» è talmente grottesco, che perfino il Gran Mufti sunnita, lo sceicco Bedreddine Hassoune, ed ancora il comandante della polizia politica Ali Mamlouk, anch’egli di confessione sunnita, sono a volte classificati come alawiti dalla stampa internazionale. (2) La cosa più strabiliante è che questa stampa medesima porta acqua al mulino di certi mezzi di informazione siriani salafiti (sunniti ultra-ortodossi), che diffondono la menzogna secondo cui il paese sarebbe stato usurpato dagli alawiti, che, secondo loro, sarebbero agenti sciiti. Questi stessi salafiti accusano gli sciiti di essere negazionisti (Rawafid, Sciiti estremisti eretici che maledicono i Compagni), perché rifiutano, tra le altre cose, la legittimità del Califfato, vale a dire del governo sunnita delle origini dell’Islam.
Tuttavia, da un lato, vi sono notevoli differenze tra alawiti e sciiti, sia sul piano teologico che nelle pratiche religiose. Nello specifico, la deificazione di Ali (nipote di Maometto), la dottrina trinitaria, la credenza nella metempsicosi ed inoltre il rifiuto della sharia da parte degli alawiti sono fonti di critiche da parte dei teologi sciiti, che non mancano mai di accusarli di estremismo (ghulat). D’altro canto, se esiste una religione di stato in Siria, questa è l’Islam sunnita di rito hanafita, rappresentato fra gli altri dallo sceicco Muhammad Saïd Ramadan Al Bouti e dal Gran Mufti della Repubblica, lo sceicco Badreddine Hassoune, i cui saggi discorsi contrastano con gli appelli all’omicidio e all’odio degli sceicchi wahhabiti. Ma tutto questo non importa. Per spiegare l’alleanza contro gli Stati Uniti e contro il sionismo formata dall’asse Damasco – Teheran – Hezbollah, la stampa e i mezzi di informazione agli ordini dei sunniti ultra-conservatori ripetono in coro che la Siria è sotto il dominio degli alawiti, che costituirebbero una «setta sciita». Visto che la Siria riceve l’appoggio della Cina, della Russia, del Venezuela, di Cuba, del Nicaragua e finanche della Bolivia, logicamente bisognerebbe concludere che Hu Jintao, Putin, Chavez, Castro, Ortega e Morales sono essi stessi degli alawiti, o almeno dei cripto-sciiti!
Per terzo, esiste il fattore nazionalista.
Conviene ricordare che per i salafiti la Siria proprio non esiste. Questo nome sarebbe, come quello dell’Iraq, una fabbricazione degli atei. Nel loro gergo ispirato dal Corano, l’Iraq si chiama Bilad al Rafidaïn (la terra dei due Fiumi) e la Siria, Bilad al-Cham (la terra di Cam). Colui che adotta l’ideologia nazionalista, e si consacra alla liberazione del proprio paese, commette un peccato di associazione (shirk). Egli viola il principio deltawhid, l’unicità divina, e per questo merita la morte. Per questi fanatici, la sola lotta approvata da Allah è lajihad, la guerra definita «santa», scatenata nel nome di Allah con l’obiettivo di estendere l’Islam. In quanto corollario del nazionalismo arabo, il pan-arabismo, questa idea progressista di unità e di solidarietà inter-araba, è a fortiori un sacrilegio, in quanto mina il concetto di «Umma», la madre patria musulmana.
Come ha ricordato di recente il presidente Bachar El-Assad in un’intervista accordata al giornale Sunday Telegraph, la lotta che si sta scatenando attualmente sul suolo siriano vede opposte due correnti inconciliabili fra loro: il pan-arabismo e il pan-islamismo (3). Questo conflitto originale introduce un fattore storico, su cui si fonda la minaccia terroristica in Siria. Dal 1963, la Siria baathista conduce in realtà una vera e propria guerra contro i movimenti jihadisti. L’esercito governativo e i Fratelli Musulmani si sono affrontati in numerosi scontri che si sono tutti risolti con la vittoria del potere siriano. Queste vittorie sono state strappate al prezzo di molte vittime, l’esercito non ha esitato a seminare il terrore per raggiungere i suoi scopi. Nel 1982, l’esercito di Hafiz al-Assad ha martellato interi quartieri della città di Hama per superare la resistenza jihadista, massacrando senza distinzione militanti e civili innocenti. Ci sono stati almeno 10 mila morti causati dai bombardamenti e negli scontri per le strade. Si sono susseguite delle vere e proprie cacce all’uomo lanciate contro i Fratelli Musulmani siriani attraverso tutto il paese, costringendoli all’esilio. Comunque, la repressione non è ancora riuscita a sradicare la tradizione guerriera e nemmeno lo spirito di vendetta degli jihadisti siriani.
Ora, analizziamo paese per paese quali sono i movimenti terroristici che le truppe siriane stanno attualmente affrontando.
Il fronte libanese
Nell’aprile 2005, l’Occidente si è rallegrato nel vedere le truppe siriane abbandonare il Libano, dopo 30 anni di presenza ininterrotta. Questo evento era stato attivato dall’attentato che aveva preso di mira l’ex primo ministro libanese-saudita Rafiq Hariri noto per la sua ostilità verso la Siria, attentato immediatamente imputato dall’Europa e dagli Stati Uniti al regime di Damasco, senza la minima prova e prima dell’inizio di una qualsiasi inchiesta. Una «rivoluzione dei Cedri», sostenuta dai laboratori «per i diritti dell’uomo» della CIA, aveva costretto le truppe siriane a lasciare il Libano. Appena i carri armati siriani si erano ritirati, i gruppi salafiti sono riemersi, sguainando le loro spade e la loro predicazione settaria. Questi movimenti si sono insediati nel nord del Libano, dalle parti di Tripoli di maggioranza sunnita, e poi, via via, nei campi palestinesi del Libano, profittando delle divisioni politiche e della debolezza militare delle organizzazioni palestinesi, così come della politica di non-intervento dell’esercito libanese in questi campi.
Tra il 2005 e il 2010, i gruppi jihadisti hanno condotto la guerra contro tutti i sostenitori veri o presunti del regime di Bashar al-Assad, come le popolazioni sciite, alawite o i militanti di Hezbollah. Alcuni di questi movimenti sono arrivati a varcare il confine siro-libanese per bersagliare le truppe del potere baathista sul loro stesso territorio. L’attivismo anti-siriano dei gruppi salafiti libanesi armati ha conosciuto una recrudescenza con l’inizio della crisi siriana del 2011. Comunque, queste formazioni sono state soppiantate da movimenti salafiti non combattenti. Il 4 marzo 2012, circa duemila salafiti guidati da Ahmad Al Assir, un predicatore della città di Saïda (Sidone) divenuto la stella in ascesa del sunnismo libanese, sfilavano a Beirut per protestare contro il regime di Bashar al-Assad. Dietro un imponente cordone di sicurezza composto da poliziotti e militari, alcune centinaia di contro-manifestanti del partito Baath libanese protestavano contro la parata.
Da Aarida a Naqoura, tutto il Libano ha trattenuto il respiro. E il suo cuore si stringe ogni volta che spari risuonano dai quartieri di Tripoli di Bab Tebbaneh e Jebel Mohsen. Dal momento che in questo paese la linea di frattura politica è prevalentemente confessionale, con una maggioranza sunnita anti-Assad e una maggioranza sciita pro-Assad, ed inoltre con i cristiani divisi che si ritrovano nei due campi, l’assillo della guerra civile è onnipresente. Ma il governo di unità nazionale cerca di calmare le acque e di garantire la neutralità rispetto al conflitto siriano. Per questo, certi gruppi salafiti non perdono nemmeno un’occasione per seminare il caos in questi due paesi geograficamente inter-dipendenti e complementari. Ecco una breve descrizione di alcuni di questi movimenti settari attivi in Libano, che minacciano la Siria da molti anni.
Gruppo di Sir El-Dinniyeh
Questo movimento sunnita, diretto fra il 1995 e il 1999 da Bassam Ahmad Kanj, un veterano delle guerre in Afghanistan e in Bosnia, è apparso in seguito alle lotte fra differenti correnti islamiche tendenti a controllare le moschee di Tripoli. Nel gennaio 2000, il gruppo di Dinniyeh ha tentato di creare un mini-Stato islamico nel Nord del Libano. I miliziani hanno assunto il controllo dei villaggi del distretto di Dinniyeh, ad est di Tripoli. 13.000 soldati libanesi sono stati inviati per domare questa ribellione jihadista. I sopravvissuti all’attacco si sono trincerati nel campo palestinese di Ayn el Hilwe, nel Libano meridionale. Dopo il ritiro delle truppe siriane, nell’aprile 2005, i combattenti del gruppo di Dinniyeh sono tornati a Tripoli, dove esistevano ancora delle cellule clandestine. Lo stesso anno, il Ministro degli Interni libanese ad interim, Ahmed Fatfat, che è appunto originario di Sir El-Dinniyeh e che, per altro, ha la cittadinanza belga, si è battuto per la liberazione dei prigionieri del gruppo di Dinniyeh, e questo con lo scopo di ottenere l’appoggio politico dei gruppi sunniti e salafiti del Nord del Libano.
Fatah al Islam
Movimento sunnita radicale del Nord del Libano. Fatah al Islam ha letteralmente occupato la città di Tripoli con la complicità di Saad Hariri e del suo partito, la Corrente del Futuro. Hariri voleva servirsi di questi sunniti radicali per contrastare gli Hezbollah sciiti libanesi e il governo siriano. Tra gli alleati di Hariri, il gruppo chiamato «Fatah el Islam», dissidente del movimento nazionale palestinese, ha assunto il controllo del campo di Nahr El Bared. Questo movimento terrorista ha assassinato 137 soldati libanesi in maniera brutale, soprattutto durante riti satanici che si concludevano con decapitazioni. Il 13 febbraio 2007, Fatah el Islam ha fatto saltare in aria due autobus nel quartiere cristiano di Alaq-Bikfaya. Dal maggio al settembre 2007, l’esercito libanese poneva l’assedio al campo palestinese di Nahr el Bared, dove i combattenti jihadisti si erano rintanati, e solo dopo intensi combattimenti degni dell’operazione siriana di Baba Amro riusciva a neutralizzarli.
Non meno di 30.000 Palestinesi sono fuggiti dai combattimenti. Per quanto riguarda il campo di Nahr el Bared, venne ridotto in macerie.Pochi mesi dopo, Fatah al Islam veniva coinvolto in un attentato mortale che scuoteva Damasco. Infatti, il 27 settembre 2008, il santuario sciita di Sayda Zainab a Damasco diventava l’obiettivo di un attacco suicida che uccideva 17 pellegrini. Fatah Al Islam è spesso citato quando scoppiano combattimenti a Tripoli tra il quartiere sunnita di Bab Tabbaneh e il quartiere alawita di Djébel Mohsen.
Jounoud Al Cham (I soldati del Levante)
Movimento radicale sunnita nel sud del Libano, dalle origini diverse.Alcuni dei suoi membri sarebbero arrivati dal gruppo di Dinniyeh, mentre altri sarebbero veterani dell’Afghanistan, avendo combattuto sotto il comando di Abou Moussab Al Zarqawi. La maggior parte dei suoi combattenti sarebbero Palestinesi «takfiri», vale a dire in conflitto contro le altre religioni e i non credenti. Jounoud Al Cham sarebbe responsabile di un attentato nel 2004 a Beirut, che ha ucciso un dirigente di Hezbollah. Per diversi anni, il gruppo ha cercato di assumere il controllo del campo palestinese di Ain el Hilwe situato vicino alla città di Sidone. Nel 2005, il gruppo fa parlare di sé per le sue scaramucce quotidiane con l’esercito siriano. Jounoud al-Sham si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche pubblicata dalla Russia. Tuttavia, non si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche straniere del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. (4)
Ousbat Al Ansar (la Lega dei partigiani)
Presente sulla lista delle organizzazioni terroristiche, Ousbat al-Ansar si batte per «istituire in Libano uno Stato sunnita radicale». Noto per le sue spedizioni punitive contro tutti i musulmani «devianti», Ousbat al-Ansar ha fatto assassinare personalità sunnite come lo sceicco Nizar Halabi. Per lo stesso motivo, ha fatto saltare in aria strutture pubbliche giudicate empie: teatri, ristoranti, discoteche…Nel gennaio 2000, ha attaccato a colpi di razzi l’ambasciata russa a Beirut.Erede del gruppo di Dinniyeh, questa formazione si infiltra nel campo palestinese di Ain el Hilwe nel Libano meridionale. Quando, nel settembre 2002, ho visitato i campi palestinesi del Libano, l’inquietudine dei resistenti palestinesi era palpabile. Molti di loro erano stati uccisi durante i tentativi di assunzione del controllo dei campi da parte di questo gruppo, considerato essere vicino ad Al Qaeda. Nel 2003, quasi 200 membri di Ousbat Al Ansar hanno attaccato le sedi di Fatah, il movimento palestinese di Yasser Arafat, causando la morte di otto persone, di cui sei membri di Fatah.
Il mito dell’Esercito Libero Siriano (ELS)
Bisogna riconoscerlo: i cacciatori di dittatori che popolano le redazioni delle grandi testate giornalistiche sono diventati abilissimi nell’arte del camuffamento, quando si tratta di presentare i «resistenti» che servono gli interessi del loro campo. Nei panni di veri chirurghi estetici, trasformano l’Esercito Libero Siriano (ELS) in un movimento di resistenza democratica di bravi e simpatici militanti, composto da disertori umanitari disgustati dalle atrocità commesse dall’esercito regolare siriano. Non c’è dubbio alcuno che l’esercito del regime baathista non va tanto per il sottile, e commette imperdonabili abusi contro i civili, che costoro siano terroristi, manifestanti pacifisti o semplici cittadini presi fra due fuochi. A questo riguardo, gli importanti mezzi di comunicazione ci bombardano fino alla nausea dei crimini imputabili alle truppe siriane, qualche volta a ragione, ma più spesso a torto. Perché, in termini di crudeltà, l’ELS non si comporta veramente meglio. Solo qualche raro giornalista, come l’olandese Jan Eikelboom, osa mostrare il rovescio della medaglia, quello di un ELS sadico e ignominioso.
Anche la corrispondente a Beirut di Spiegel, Ulrike Putz, scalfisce la reputazione dell’ELS. In un’intervista pubblicata sul sito web del settimanale tedesco, Ulrike Putz ha evidenziato l’esistenza di una «brigata di becchini» incaricati dell’esecuzione dei nemici della loro sinistra rivoluzione a Baba Amr, il quartiere di Homs, insorto e poi ripreso dall’esercito siriano.(5) Un massacratore intervistato da Der Spiegel attribuisce alla sua brigata di beccamorti da 200 a 250 esecuzioni, quasi il 3% del bilancio complessivo delle vittime della guerra civile siriana dello scorso anno. Per quanto riguarda le agenzie umanitarie, è stato necessario attendere la data fatidica del 20 marzo 2012 perché un’eminente Organizzazione Non Governativa, vale a dire Human Rights Watch, la cui denominazione tradotta significa esattamente «Sentinella dei Diritti Umani», finalmente riconoscesse le torture, le esecuzioni e le mutilazioni commesse dai gruppi armati che si oppongono al regime siriano. Dopo 11 mesi di terrorismo degli insorti … Alla buon’ora dell’infallibile «sentinella»! «Sah Al Naum», come si dice in arabo a qualcuno che si risveglia. Passiamo ad altre informazioni, che vanno ad intaccare ancor di più la reputazione di questo Esercito libero siriano e dei suoi sostenitori atlantisti.
Secondo fonti militari e diplomatiche, l’ELS, questo esercito di cosiddetti «disertori», sarebbe carente di effettivi militari. Per ovviare a questa carenza di combattenti, l’ELS arruolerebbe dei salafiti, senza andare tanto per il sottile. Questo è il caso del battaglione dell’ELS «Al Farouq», che si è reso celebre per i suoi rapimenti di ingegneri civili e di pellegrini iraniani, per i suoi metodi di tortura e per le sue esecuzioni sommarie. La difficoltà di reclutare soldati di leva provenienti dall’esercito regolare è dopo tutto abbastanza logica, dato che un disertore è per definizione un uomo che abbandona il combattimento. Disertare significa abbandonare la guerra. Nel caso siriano, numerosi disertori abbandonano il paese e si costituiscono come rifugiati. La propaganda di guerra occidentale afferma che se costoro abbandonano l’esercito o non rispondono alla chiamata alle armi, questo avviene perché si rifiutano di uccidere manifestanti pacifici. In realtà, queste giovani reclute temono tanto di ammazzare quanto di venire ammazzate. Essi devono affrontare un nemico invisibile, rotto alle tecniche della guerriglia, che spara alla cieca indifferentemente contro i favorevoli o i contrari al regime, e che non esita a liquidare i suoi prigionieri secondo un sordido rituale di decapitazioni e smembramenti.
Il terrore che ispirano questi gruppi armati dissuade legittimamente numerosi giovani dal rischiare la loro vita circolando in uniforme. Ecco che allora fanno la scelta di abbandonare l’esercito regolare e il paese.Per esempio, i disertori Curdi siriani si rifugiano nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Soprattutto a Erbil, in un quartiere popolato da Curdi siriani, che per questo è stato soprannominato «la piccola Qamishli». [Qamishli è una città della Siria, a maggioranza curda e assira, N.d.T.] Altri raggiungono i campi di rifugiati in Iraq, Libano, Turchia o Giordania. Il termine «disertore», che serve a designare i militari che hanno fatto diserzione per raggiungere il campo avverso e sparare contro i loro vecchi camerati, risulta dunque inappropriato in questo caso. Sarebbe più corretto definire «transfughi» questi rifugiati. Ecco un’analisi di Maghreb Intelligence, un’agenzia che non può essere sospettata di collusione con il regime di Damasco, e che sostiene la tesi della smobilitazione dei giovani di leva, della debolezza dell’ELS e della presenza di salafiti armati presenti negli scontri:
«Secondo un rapporto proveniente da una ambasciata europea a Damasco e corroborato da inchieste condotte da centri ricerca francesi alla frontiera turca, l’Esercito Libero Siriano – ELS – nel suo complesso non conterebbe più di 3000 combattenti. Costoro sono per la maggior parte armati di fucili da caccia, diKalachnikov e di mortai di fabbricazione cinese provenienti dall’Iraq e dal Libano. Secondo questo documento, l’ELS non è stata in grado di arruolare la maggioranza dei ventimila militari che avrebbero disertato dall’esercito di Bachar Al Assad. D’altro canto, l’ELS è particolarmente presente nei campi di rifugiati insediatisi sul territorio della Turchia. A Hama, Deraa e Idlib, sono soprattutto gruppi armati salafiti che si contrappongono all’esercito siriano. Questi salafiti, particolarmente violenti e determinati, provengono per la maggior parte dai movimenti sunniti radicali attivi in Libano.»(6)
Oltre ad essere spietato, infiltrato da gruppi settari e in carenza di effettivi, l’Esercito Libero Siriano è disorganizzato. Non presenta una direzione centrale ed unificata.(7) Numerose indicazioni, tra cui importanti sequestri di armi condotti presso diversi posti di frontiera del paese, dimostrano che l’ELS riceve armi dall’estero e questo, sin dall’inizio della rivolta, veniva smentito dall’ELS, prima di arrivare a chiedere apertamente un intervento militare straniero sotto forma di bombardamenti, di supporto logistico, o la creazione di zone cuscinetto. Allo scoppio dell’insurrezione, il gruppo dissidente armato, ovviamente, non voleva fornire l’immagine di una quinta colonna che agisce per conto di forze straniere, nemmeno compromettere i suoi generosi mecenati, che comunque si possono indovinare. Ci si dovrà ricordare che nel documentario di propaganda anti-Bashar realizzato da Sofia Amara, dal titolo «Siria: Permesso di uccidere», e diffuso dalla catena televisiva franco-tedesca Arte nell’ottobre 2011, un soldato dell’ELS stava per rivelare i suoi rifornitori stranieri, quando un suo superiore gli intimava di tacere.
Il fronte giordano
La fedeltà della monarchia hashemita a Washington e a Tel Aviv è ormai un luogo comune.Per soddisfare i suoi alleati, la Giordania è stata anche il primo regime arabo ad invitare Bashar el-Assad ad abbandonare il potere.Il 22 febbraio 2012, il corrispondente de Le Figaro, Georges Malbrunot, rivelava che la Giordania aveva acquistato dalla Germania quattro batterie anti-missili Patriot usamericani «per proteggere Israele contro possibili attacchi aerei condotti dalla Siria.»(8) Questi missili sarebbero stati installati ad Irbid, non lontano dal confine siriano. Già nel 1981, questa Monarchia, sicura alleata degli Stati Uniti, aveva consentito all’aviazione da guerra di Israele di violare il suo spazio aereo per andare a bombardare il reattore nucleare iracheno di Osirak.
In politica interna, la Giordania non mostra un atteggiamento più progressista. Anzi, per decenni, Amman ha incoraggiato i Fratelli musulmani secondo un calcolo politico motivato dal desiderio di sradicare il nemico principale, vale a dire l’opposizione laica di sinistra (comunista, baathista e nasseriana). Secondo M.Abdel Latif Arabiyat, ex ministro ed ex portavoce del Parlamento giordano:«I Fratelli musulmani non rappresentano un’organizzazione rivoluzionaria, ma esaltano la stabilità. Con l’ascesa al potere dei partiti nazionalisti e di sinistra, noi abbiamo stipulato un’alleanza informale con le autorità»(9). Nel 1970, i Fratelli musulmani si sono schierati con la Monarchia quando il re Hussein ordinava l’annientamento dei Fédayins palestinesi. La Fratellanza musulmana non ha detto una parola di fronte al massacro del «Settembre Nero», in cui furono massacrati circa 20 mila Palestinesi. Da questa strategia di manipolazione dei Fratelli musulmani in Giordania, in ultima analisi, sono costoro a risultare i vincitori, visto che attualmente costituiscono il principale movimento di opposizione nel paese. Per il Regno hashemita, i Fratelli musulmani rappresentavano un male minore rispetto sia alla sinistra, ma anche in relazione ai movimenti jihadisti. Questo matrimonio di interesse non è durato per tanto tempo. E alla fine, la Monarchia si è vista costretta a reprimere un movimento diventato troppo potente. Nel frattempo, la Giordania ha subito diversi attentati terroristici. Nel 2005, sono alcuni alberghi della capitale Amman ad essere presi di mira da gruppi salafiti. Abou Moussab Al Zarqawi, l’ex capo di Al Qaïda in Iraq, lui stesso è originario di Zarqa, una città giordana situata a nord-est di Amman.
La rivolta contro il regime siriano è scoppiata a Deraa, una città del sud della Siria vicina al confine con la Giordania, ed ha risvegliato gli appetiti di conquista delle fazioni jihadiste di base in Giordania, che si erano ben moderate in seguito alle numerose perdite subite all’interno dei ranghi di Al Qaïda. Fra le altre, troviamo la Brigata Tawhid, una piccola formazione armata jihadista formata da parecchie decine di combattenti, in precedenza attivi all’interno di Fatah Al-Islam, che si infiltrano in Siria per attaccare l’esercito governativo. (10) Il portale giordano di informazioni liberal Al Bawaba rivela che la città di confine di Ramtha accoglie mercenari libici pagati dall’Arabia Saudita e dal Qatar. D’altronde, essendo situato tra la Siria e l’Arabia Saudita, il Regno hashemita costituisce un passaggio obbligato per tutti gli jihadisti, gli istruttori e i convogli militari inviati da Riyad.
Il fronte saudita
Sull’esempio del Regno hashemita, la lealtà della dinastia Saud allo Zio Sam non è un segreto per nessuno, e questo dal momento del Patto di Quincy firmato sull’incrociatore americano (il Quincy, da cui il nome del Patto) tra Roosevelt e Saud Bin Abdulaziz nel febbraio del 1945. Questo accordo avrebbe permesso agli Stati Uniti di garantirsi un approvvigionamento energetico senza ostacoli in cambio della protezione del suo vassallo nell’affrontare i loro comuni avversari nella regione, in modo particolare il nazionalismo arabo e l’Iran, di cui alcuni territori erano passati sotto l’influenza sovietica.Allo scoppio della crisi siriana, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita stavano festeggiando le loro «nozze di gelsomino» per i loro 66 anni di vita insieme, sigillando il più grande contratto di armamenti nella storia: 90 miliardi di dollari, che prevedono la modernizzazione della marina e dell’aviazione da guerra saudite. Come si può immaginare, lo Stato wahhabita non poteva restava immobile di fronte agli eventi che stanno scuotendo la Siria, un paese faro del nazionalismo arabo ed inoltre amico dell’Iran, nemico giurato dei Sauditi.
Riyad alimenta il terrorismo anti-siriano attraverso diverse modalità: diplomatiche, economiche, religiose, logistiche e, ben s’intende, militari. La Casa di Saud ha sponsorizzato gli jihadisti attivi in Siria, incoraggiandoli attraverso i suoi strumenti di propaganda, e accreditandoli a mettere il paese a ferro e fuoco. Ad esempio, dopo aver autorizzato la jihad in Libia, e aver invocato l’eliminazione di Mouammar Gheddhafi, lo sceicco Saleh Al Luhaydan, una delle più prestigiose autorità giuridiche e fatalmente religiose del paese, si è dichiarato favorevole allo sterminio di un terzo dei Siriani per salvarne gli altri due terzi. Sulla emittente televisiva saudita Al-Arabiya TV, il predicatore Aidh Al-Qarni ha dichiarato che «Ammazzare Bashar è più importante dell’ ammazzare Israeliani!»(11) È sempre da Riyadh, e attraverso la catena relevisiva Wessal TV, che Adnan Al Arour ha lanciato un appello per fare a pezzi gli Alawiti e dare la loro carne ai cani.
Le recenti dichiarazioni cristianofobe dello sceicco Abdul Aziz bin Abdullah, riportate da Arabian Business, sicuramente non giungono a rassicurare i Cristiani di Siria: sulla base di un hadith (narrazione secondo la tradizione orale) che riporta la dichiarazione del profeta Maometto sul letto di morte, «non dovranno esserci due religioni nella penisola arabica», lo sceicco saudita Abdullah, la massima autorità wahhabita al mondo, ne deduce che è necessario distruggere «tutte le chiese presenti nella regione». I Cristiani di Siria, prede dell’odio religioso, trovano in questa affermazione un motivo in più per sostenere Bashar al-Assad.
Molti sono i cittadini siriani ostili al regime di Bashar Assad, che tuttavia si preoccupano del padrinato del loro movimento democratico da parte di una teocrazia, che ancora decapita le donne accusate di stregoneria, che tortura i suoi oppositori politici nelle prigioni, e che non riconosce né un Parlamento né elezioni. Sotto il sole di Riyadh esiste anche Bandar, che non ha bisogno di presentazioni. Il suo ruolo torbido negli attentati di Londra, nel finanziamento di gruppi armati salafiti rivendicato dall’interessato, le sue collusioni con il Mossad, il suo odio verso Hezbollah, verso la Siria e l’Iran fanno del principe saudita Bandar bin Sultan, segretario generale del Consiglio Nazionale per la Sicurezza, un elemento fondamentale del piano per distruggere la Siria laica, multiconfessionale, sovrana e non sottomessa. Non vi è quindi alcun motivo reale per essere sorpresi quando la dittatura saudita si è impegnata ad aiutare il suo vicino e rivale Qatar nel pagare gli stipendi ai mercenari anti-Siriani, in occasione della riunione degli “Amici della Siria” ad Istanbul.
Il fronte del Qatar
Il Qatar è soprattutto una gigantesca base militare degli Stati Uniti, la più grande esistente all’esterno degli Stati Uniti. Ed inoltre, per inciso, è il regno di un piccolo emiro mediocre, falso e avido. Nel suo regno, non c’è Parlamento, nessuna Costituzione, nessun partito, tanto meno le elezioni. Nel 1995, ha organizzato un colpo di Stato contro il suo stesso padre.Appena arrivata al potere, la petromonarchia golpista si lancia in un vasto programma di partenariato economico con Israele, preconizzando in modo speciale la commercializzazione del gas del Qatar verso lo Stato sionista. Nel 2003, l’emiro del Qatar autorizza l’amministrazione Bush a servirsi del suo territorio per scatenare l’aggressione contro l’Iraq. Con il resto della sua famiglia, controlla tutta la vita economica, politica, militare e culturale del paese. La celebre catena televisiva Al Jazeera è il suo giocattolo personale. In poco tempo, ne ha fatto una potente arma di propaganda anti-siriana. Grazie alle notizie false, tendenziose e risibili di Al Jazeera, la CIA e il Mossad possono dedicarsi alle loro vacanze!
Il nome di Sua Maestà: Hamad Ben Khalifa al Thani. La «Primavera araba»? Ne è il principale procacciatore di fondi. Per lui, tutto si compra: lo sport, l’arte, la cultura, la stampa, e perfino la fede. Quindi, potete immaginare, una rivoluzione…! L’anno scorso, l’emiro Hamad ha inviato 5.000 commandos per sostenere la ribellione jihadista contro la Libia, Stato sovrano. Ora, il suo nuovo gioco del casinò è la Siria, e i ribelli di questo paese, gettoni da puntare. Quando questi ultimi hanno subito una battuta d’arresto da parte dell’esercito arabo siriano, l’emiro ha gridato al genocidio. Hamad e la sua cricca, è l’ospedale che si fa beffe della carità. E parlando della carità, egli ha appena assunto un notorio predatore della pace e della democrazia, lo sceicco Al Qardawi, tanto per islamizzare il messaggio dell’emittente televisiva. Ma, malgrado i suoi dollari e le sue campagne di mobilitazione contro la Siria, Al Jazeera è un esercito in rotta. Le colate di disinformazione che si riversano a proposito della Siria dagli studi della catena televisiva hanno determinato le dimissioni dei suoi personaggi più in vista.
Da Wadah Khanfar a Ghassan Ben Jeddo, da Louna Chebel a Eman Ayad, Al Jazeera ha dovuto subire importanti defezioni, che passano inosservate nella stampa occidentale. Nel marzo 2012, anche Ali Hachem e due suoi colleghi hanno abbandonato il bastimento della pirateria informativa del Qatar. Alcune e-mail di Ali Hashem trapelate hanno riguardato misure di censura assunte da Al Jazeera rispetto ad immagini di combattenti contro Bashar, che si infiltravano in Siria dal Libano, in data aprile 2011. Dunque, queste immagini fanno risalire la presenza di un’opposizione armata di natura terroristica agli inizi della cosiddetta «Primavera siriana». La loro pubblicazione avrebbe ridotto a brandelli l’impostura secondo la quale il movimento anti-Bashar non si sarebbe radicalizzato che alla fine dell’anno 2011, una tesi fatta propria da tutte le cancellerie occidentali.Malgrado questi scandali a ripetizione, i «nostri» media continuano a considerare Al Jazeera come una fonte affidabile, e il suo padrone, l’emiro Hamad, come un apostolo della democrazia siriana.
Il fronte iracheno
L’invasione dell’Iraq da parte delle truppe anglo-americane nel marzo 2003 ha svolto un ruolo cruciale nell’aumentare il numero dei jihadisti siriani. I posti di confine come Bou Kamal sono diventati punti di transito per i jihadisti siriani che vanno a combattere contro le forze di occupazione in Iraq. Numerosi sono stati i Siriani che sono accorsi ad ingrossare i ranghi dei battaglioni di Abu Musab al-Zarqawi. Dall’estate del 2011, il processo si è visibilmente invertito dato che ormai sono i miliziani iracheni sunniti ad attraversare la frontiera per andare a combattere contro le truppe siriane.
Al Qaeda
Il ramo iracheno di Al Qaeda denominato «Tanzim al-Jihad fi Bilad Qaidat al-Rafidayn» (Organizzazione della base della Jihad nella Terra dei Due Fiumi) conta molti reclutati provenienti dalla Siria. Si dice che il 13% dei volontari arabi presenti in Iraq erano Siriani.(12) Il terrore da loro scatenato era pari alla loro reputazione. Al Qaeda ha causato tali danni nell’ambito della resistenza sunnita irachena che i resistenti iracheni hanno dovuto rassegnarsi ad aprire un fronte anti-Al Qaeda. Nel 2006, vedeva la luce ad Anbar un Consiglio di emergenza che includeva la maggior parte dei clan e delle tribù della provincia ribelle. Il suo obiettivo era di fare pulizia dei terroristi di Al Qaida presenti nella provincia.(13) A Falloujah e a Qaim, i capi tribali, che inizialmente avevano aperto le braccia alla banda di Zarqawi, sono arrivati al punto da rovesciarle contro le armi. Per aver dichiarato guerra ad Al Qaeda, hanno ricevuto anche il sostegno da parte del governo iracheno.
Il terrore cieco di Al Qaeda ha fortemente neutralizzato la resistenza patriottica irachena. Tutti questi veterani della guerra contro gli Statunitensi, ma anche contro l’Iran, gli sciiti e i patrioti sunniti iracheni hanno trovato una nuova ancora nella guerra contro il regime di Damasco. Dal dicembre 2011 al marzo 2012, le città di Damasco, Aleppo e Deraa sono state bersaglio di numerosi attacchi suicidi o con autobombe, che hanno lasciato sul terreno decine di morti e feriti. Questi attentati sono stati rivendicati da Al Qaeda, o attribuiti all’organizzazione takfirista da parte delle autorità siriane e dagli esperti internazionali in questioni dell’anti-terrorismo, che confermano l’infiltrazione di terroristi provenienti dall’Iraq. [Al Qaeda, come organizzazione takfirista, accusa tutti gli islamici che non la appoggiano di essere apostati punibili con la morte, N.d.T.]
Jabhat Al-Nusra Li-Ahl al-Sham (Fronte di soccorso della popolazione del Levante)
Il 24 gennaio scorso, questa formazione ha annunciato la sua comparsa in vari forum islamici. Ma questa denominazione sembra essere una riduzione del titolo per esteso «Jabhat Al Nusra li Ahl Al Sham min Mujahideen al Sham fi Sahat al Jihad», ossia «Fronte di soccorso della popolazione del Levante dei Moudjahidines di Siria nei luoghi della Jihad». Secondo gli esperti del terrorismo, l’espressione «luoghi della Jihad» suggerisce che i membri di questo gruppo conducono la loro guerra santa su altri fronti come l’Iraq. Questo è anche ciò che viene rivelato dal leader del gruppo, Abu Mohammed al Julani, in un video pubblicato nella metà del mese di marzo. Al Julani significa Golanese, di provenienza dalle alture del Golan, con riferimento esplicito siriano. Come tutti i gruppi terroristici, Jabhat Al Nusra dispone di un organo di stampa: Al Manara al Bayda, il faro bianco.(14) Jabhat Al Nusra riceve l’appoggio di un prestigioso cyber-salafita, denominato Abou Moundhir al Shanqiti. Quest’ultimo ha emesso una fatwa, lanciando un appello a tutti i Musulmani a schierarsi nel campo di coloro che sollevano la bandiera della sharia in Siria.
Il fronte turco
In Turchia, paese membro della NATO da 60 anni, che presto ospiterà le strutture per lo scudo antimissilistico, è l’Esercito Libero Siriano  che detiene il primato ed esercita il sopravvento. Il suo presunto leader, Riyadh Al Assaad, è ospitato nella provincia turca di Hatay, in precedenza siriana, e beneficia della diretta protezione del ministero degli affari esteri. Come tutti sanno, la Turchia è uno dei più acerrimi nemici del regime di Damasco. Temendo di «passare per imperialiste», le forze della NATO incitano Ankara a guadare il Rubicone, meglio dire l’Oronte nella circostanza, per muovere guerra contro la Siria. Numerose sono le fonti che danno conto di un asse Tripoli-Ankara nella guerra contro Damasco. Un trafficante d’armi libico sottolinea l’acquisto di attrezzature militari leggere da parte di Siriani a Misurata (15).
L’ex-ufficiale della CIA e direttore del Consiglio per l’interesse Nazionale degli Stati Uniti Philip Giraldi parla senza mezzi termini di un trasporto aereo di armi dall’arsenale del vecchio esercito libico verso la Siria, via la base militare usamericana di Incirlik situata nel sud della Turchia a meno di 180 km dalla frontiera con la Siria. Egli afferma che la NATO è già clandestinamente impegnata nel conflitto contro la Siria sotto la direzione della Turchia. Giraldi conferma inoltre le informazioni pubblicate lo scorso novembre dal Canard enchaîné, vale a dire che forze speciali francesi e britanniche assistono i ribelli siriani, mentre la CIA e forze speciali statunitensi forniscono loro dispositivi di comunicazione e spionaggio. Un altro agente della CIA, Robert Baer, nelle sue memorie(16) che hanno inspirato il film Syriana di Stephen Gaghan, con George Clooney come protagonista principale, ha dichiarato nell’estate 2011 che armi vengono inviate ai ribelli siriani dalla Turchia.(17)
Sibel Edmonds, l’interprete dell’FBI censurata per aver denunciato abusi commessi da parte dei servizi dello spionaggio degli Stati Uniti, puntualizza che la fornitura di armi ai ribelli siriani viene assicurata dagli Stati Uniti fin dal maggio 2011. Inoltre, gli Stati Uniti avrebbero installato in Turchia una «sezione per la comunicazione», il cui incarico è quello di convincere i soldati dell’esercito siriano a raggiungere le formazioni ribelli.(18) Il coinvolgimento di mercenari libici non sarebbe unicamente di natura logistica. Secondo molti testimoni oculari, fra cui un giornalista del quotidiano spagnoloABC, jihadisti libici e membri del Gruppo Islamico Combattenti Libici (GICL) sono concentrati alle frontiere siro-turche.(19)
Nella regione di Antiochia in Turchia, prevalentemente di lingua araba, che confina con la Siria, la popolazione locale si imbatte in un numero insolitamente elevato di Libici. Occupando gli alberghi più lussuosi della regione, costoro non passano inosservati. Alcuni di questi Libici sono autori di molteplici atti di vandalismo in certe zone turistiche, come ad Antalya. Miliziani libici che stazionano in Turchia hanno più di una volta attaccato e occupato la loro ambasciata ad Istanbul reclamando la loro paga.A questo strano panorama viene ad aggiungersi l’arresto di un Libico di 33 anni all’aeroporto di Istanbul in possesso di 2,5 milioni di dollari. Il primo di aprile, questo Libico faceva scalo ad Istanbul. La sua destinazione finale: la Giordania, un paese dove viene segnalato un numero significativo di Libici mercenari ammassati sul confine siriano. Bene, bene… (20)
E gli Stati Uniti in tutto questo?
Tenuto conto delle affermazioni di alcuni agenti della CIA concernenti il coinvolgimento degli USA nella destabilizzazione della Siria, è ragionevole credere che l’amministrazione Obama sarebbe indifferente, o meglio compiacente, rispetto alla destabilizzazione di un paese che figura ancora nella lista degli «Stati canaglia», dato il suo appoggio alla resistenza palestinese e alla sua alleanza strategica con gli Hezbollah e l’Iran? A questo titolo, la Siria è citata tra i sette paesi contro i quali «l’uso dell’arma nucleare è possibile». A coloro che credono nell’inazione delle forze occidentali in Siria e alla loro buona fede nella loro difesa dei civili siriani, conviene far ricordare che già un anno fa la NATO, l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico sotto comando statunitense, giurava su tutti i santi di volere agire sotto la «responsabilità di proteggere» il popolo della Libia, e prometteva di attenersi alla Risoluzione1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al fine di «impedire al dittatore Gheddafi di bombardare la sua popolazione», e che, immediatamente, la protezione dei cittadini libici si è trasformata in impegno militare in una guerra civile, in un colpo di stato, in attentati mirati e in bombardamenti alla cieca.
Ci si ricorderà anche che dopo aver annientato la città libica di Sirte, dove il leader libico si era trincerato, le forze della NATO lo hanno consegnato a bande di criminali che lo hanno torturato a morte. Questo sordido linciaggio è stato facilitato dagli Stati Uniti e dalla NATO, visto che in precedenza avevano dato la caccia e bombardato il suo convoglio. Tuttavia, Andres Fogg Rasmussen e i suoi compari, che hanno espresso soddisfazione per la morte di Gheddafi, avrebbero ripetuto per mesi che il leader libico non era il loro obiettivo. La cinica strategia degli USA e della NATO in Libia, che consisteva nel «non dire quello che si fa e non fare quello che si dice» è manifestamente quella che è stata scelta per la Siria. Effettivamente, e in via ufficiale, la NATO non ha l’intenzione di intervenire in questo paese. Rasmussen ha anche fatto presente che la sua organizzazione non armerà i ribelli.
Tuttavia, alcune e-mail da parte di una agenzia privata statunitense di spionaggio, la Stratfor Intelligence Agency, diffuse da Wikileaks il 27 febbraio scorso, indicano la presenza di forze speciali occidentali in Siria. Il verbale di una riunione, datato 6 dicembre 2011, sottintende che forze speciali sarebbero state presenti sul terreno alla fine del 2011. A questo proposito, una e-mail del direttore di analisi della Stratfor, Reva Bhalla, è inequivocabile.(21) Si parla di un incontro fra «quattro giovanotti, grado tenente colonnello, tra cui un rappresentante francese e uno britannico». Durante un colloquio della durata di quasi due ore, avrebbero accennato al fatto che squadre di Forze speciali erano già sul terreno, impegnate in missioni di ricognizione e nell’addestramento delle formazione delle forze di opposizione.
Gli strateghi occidentali riuniti negli Stati Uniti sembrano rifiutare l’ipotesi di un’operazione aerea sul modello Libia, e preferirebbero l’opzione di una guerra di logoramento attraverso attacchi di guerriglia e campagne di assassinio, in modo da «provocare un crollo del regime dall’interno». Avrebbero giudicato la situazione siriana molto più complessa di quella della Libia, e il sistema di difesa siriano molto più efficace, soprattutto per i suoi missili terra-aria SA-17 dislocati attorno a Damasco e lungo i confini con Israele e la Turchia. In caso di attacco aereo, l’operazione dovrebbe essere condotta dalle basi della NATO a Cipro. Queste le conclusioni dell’agenzia Stratfor. Se, finora, gli Stati Uniti non hanno mandato i loro bombardieri su Damasco, questo non è perché la conservazione del regime siriano gli conviene, ma perché questo regime non è un boccone facile. Comunque, fornendo il loro supporto ai gruppi armati, gli Stati Uniti si rendono nondimeno complici dei massacri in Siria. La NATO e gli Stati Uniti arrivano quindi a completare il simpatico quadretto familiare del terrorismo anti-siriano, a fianco delle monarchie del Golfo, dei mercenari libici, dei propagandisti salafiti e di Al Qaeda.
Conclusioni
Il terrorismo anti-siriano è una realtà che salta subito agli occhi, in senso proprio come in senso figurato. Il suo esordio arriva ben prima della primavera araba. Durante gli anni ‘70 e ‘80, i Fratelli musulmani siriani ne sono stati i principali attori. Dopo aver messo il paese a ferro e fuoco, furono schiacciati dall’esercito siriano, soprattutto ad Hama nel 1982. Il regime baathista puntava sui mezzi militari per sradicare questo flagello, ma come spesso accade, la repressione ha avuto al contrario l’effetto di prorogare o addirittura amplificare la minaccia. Con il ritiro siriano dal Libano nel 2005, i movimenti jihadisti si sono stabiliti e rafforzati nella regione libanese di Tripoli, quindi nei campi palestinesi del paese dei Cedri. Hanno ritrovato una nuova giovinezza e l’opportunità di prendersi la loro rivinci

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(Sulla disputa linguistica nell'area serbocroata si vedano anche i documenti e i video alla nostra pagina dedicata:



Sul serbo-croato, sulle traduzioni e su altre cose ancora

July 22nd, 2012balkanrock



Nel corso degli anni mi è capitato di fare il traduttore, collaborando occasionalmente con delle agenzie. Si trattava per lo più di documenti di vario genere, manuali o lettere commerciali. Tornava utile per tappare i buchi o per tenersi occupati quando si è senza lavoro, anche se i soldi guadagnati erano sempre pochi. Era più stimolante quando lo facevo volontariamente come ad esempio per la trasmissione Ostavka! di Radio Onda d’Urto condotta da Michelangelo Severgnini tra 1999 e 2001 o facendo da interpretere ad Aleksandar Zograf  quando venne a presentare una sua raccolta di fumetti a Milano sempre in quegli anni. Alcune esperienze erano anche deprimenti come quando feci da interprete in un tribunale durante il processo per direttissima a due rom accusati di tentato furto. Furono condannati ad alcuni mesi di carcere senza aver rubato nulla. Sotto banco uno dei due mi fece passare un biglietto con il numero di telefono di qualche parente in Germania e una scheda telefonica. Al primo tentativo non gli riuscì perché una guardia se ne accorse, ma al secondo a udienza finita quando tutti si alzarono finalmente me lo passò. Telefonai subito dopo e mi sentì un po’ riscattato per aver collaborato con un processo che trovavo imbarazzante. Ultimamente, considerate le difficoltà economiche mi sono messo di nuovo a mandare i curriculum alle agenzie di traduzione e qualcuna ha risposto. Una di queste, Easy Languages, per una sorta di selezione chiedeva un articolo sulle lingue e sul mestiere del traduttore, per essere ammessi al team dei collaboratori. Ho scritto sull’annosa questione che riguarda una lingua che tutti parlano nelle quattro delle sei repubbliche ex jugoslave, ma nessuno riconosce, cioè il serbo-croato.

 

Serbo-croato, quando una lingua diventa scomoda

Quando sono nato, nel 1977, in Jugoslavia si parlava il serbo-croato, la lingua considerata ufficiale e tre lingue utilizzate nelle singole repubbliche federali: sloveno, macedone e albanese. A queste si possono aggiungere le minoranze linguistiche parlate nelle zone di confine come l’ungherese, l’italiano, il valacco, e le lingue parlate dalle comunità rom e goranci. Naturalmente non mancavano i dialetti locali, molto meno numerosi che in Italia ma con  differenze altrettanto marcate, che nel corso del novecento sono stati uniformati e sostituiti dalle parlate regionali che si differenziavano per lo più per l’accento e il gergo. La situazione linguistica può apparire complicata ma in fin dei conti non ha mai rappresentato un problema, anche perché la maggioranza della popolazione parlava appunto il serbo-croato. la lingua “unificante”,  mentre le altre lingue avevano comunque i loro spazi nell’ambito scolastico, mediatico ed editoriale. Successivamente all’ascesa delle correnti politiche egemoniche o disgregazioniste è venuta a mancare questa peculiare pluralità e intercomprensibilità linguistica.

Semmai è oggi che regna la confusione  dato che il serbo-croato, parlato in Serbia, Croazia, Bosnia e Montenegro è stato diviso in serbo, croato, bosniaco e montenegrino, senza un valido fondamento linguistico-filologico ma principalmente su base politica. Quindi nell’area della ex Jugoslavia le lingue si sarebbero raddoppiate anche se un abitante di Podgorica può andare a Sarajevo ed instaurare una conversazione di qualsiasi tipo incontrando tutt’al più qualche decina di termini diversi, comunque conosciuti non solo a coloro che sono nati prima degli anni Ottanta. Lo stesso accade se un abitante di Zagabria va a Belgrado, dove al massimo troverà qualche difficoltà se si reca nei quartieri periferici dove si parla un particolare slang formatosi negli ultimi decenni, ma sono le stesse difficoltà che potrebbe trovare un milanese a zonzo per le borgate di Roma. Dunque oggi si può incorrere nel paradosso di dover tradurre un testo dal serbo al montenegrino, che sono tra l’altro le due varianti più vicine di serbo-croato considerando i fattori storici e culturali che hanno intrecciato le vicende dei due paesi. Infatti l’ultima separazione riguarda proprio queste due repubbliche, per fortuna avvenuta senza esiti  tragici e sanguinolenti come quelli che hanno caratterizzato la guerra civile degli anni novanta, ma comunque con ripercussioni abbastanza pesanti a livello politico e di conseguenza anche sociale ed economico, creando parecchi problemi ai cittadini comuni, abituati a viaggiare, condurre i propri affari, intrattenere rapporti familiari e di amicizia, trovandosi all’improvviso di fronte ai nuovi confini e ostacoli burocratici. Alla luce di questa situazione, come accennavo, vediamo emergere delle speculazioni nell’ambito linguistico. Per fare un esempio banale ma significativo, se guardiamo le etichette di un prodotto qualsiasi, ci tocca leggere gli ingredienti in quattro lingue diverse dove le differenze spesso non esistono o comunque sono minime. Nel maldestro tentativo di sottolineare le diversità si usano dei sinonimi o semplicemente si cambia una preposizione. Per chiunque e in particolare per un traduttore di professione può risultare un po’ scandaloso il fatto che qualcuno venga pagato per fingere di tradurre.

Senza essere dei filologi, ma servendosi solo del buon senso, possiamo, se non concludere che si tratta della stessa identica lingua, avere quanto meno dei fortissimi dubbi che la si possa smembrare in base ai nuovi confini politico-amministrativi. Eppure oggi, il serbo-croato non è più nemmeno oggetto di discussione, si finge che non esista anche se i tentativi di trasformarlo in neo-lingue accentuandone le differenze e puntando alla sovrapproduzione dei neologismi a volte ridicoli, non stanno avendo il successo sperato. Una lingua segue il proprio corso e si adatta alle esigenze umane di natura più pratica ed è ovviamente molto più longeva di una corrente politica che la vorrebbe viva o morta.



(srpskohrvatski / italiano)


=== srpskohrvatski ===


Manipulacija, balvanizacija, integracija?

NOVOSTI, Broj 655
Datum objave: 08.07.2012. Piše: Ranko Milosavljević

Drama preostalih Srba na Kosovu ulazi u završnicu. Nekoliko decenija politički vrh iz Beograda koristio je međuetničke sukobe u ovoj pokrajini za unutrašnju upotrebu. Kosovom su se bavili bukvalno svi. Na rečima. Rezultati su bili sve gori i gori. Konačno, Kumanovskim sporazumom Milošević je Srbima čestitao pobedu nad NATO-om, a Kosovo je stavljeno pod protektorat Ujedinjenih nacija. Pre dve godine, albanska većina je proglasila nezavisnost Kosova. Srbija je to smatrala kršenjem Rezolucije 1244. Stavljanje “svete srpske zemlje” u preambulu Ustava Srbije ništa nije značilo albanskoj većini, kao što nije sprečilo SAD i ogromnu većinu članica EU-a da priznaju nezavisnost Kosova.

Čak i prema izveštajima međunarodnih organizacija, stanje na Kosovu tokom mandata Ujedinjenih nacija nije se bitno popravilo. Srbima je i dalje onemogućeno slobodno kretanje, ugrožen im je goli život. Oteta imovina, u najboljem slučaju, mogla je da se preko stranih posrednika proda, za bagatelu. Nekadašnje društvene firme privatizovane su odlukom Kosovske poverilačke agencije, prema kriterijumima koje osporava Beograd; u bescenje su prodate fabrike u koje je Srbija decenijama ulagala, pomažući razvoj “nerazvijenog Kosova”. Tipičan primer je kragujevačka Zastava, koja je ostala bez Zastave Ramiz Sadiku u Peći, pošto ju je na aukciji kupio bivši liferant oružja Oslobodilačkoj vojsci Kosova (OVK). Pobednici se uvek naplaćuju!

“Maksimalno od mogućeg”

Prošlogodišnji nemiri Srba na severu Kosova zbog odluke Prištine da na graničnim prelazima (srpska strana uvek govori “administrativnim”) Jarinje (prema Leposaviću) i Brnjak (prema Novom Pazaru) postavi kosovsku carinu i policiju, uslovili su teške pregovore između Beograda i Prištine. Svaka strana dala je svoju verziju dogovora, a svoje je viđenje imao i Robert Kuper, evropski izaslanik u pregovorima timova koje su predvodili Borislav Stefanović i Edita Tahiri.

Prema onome što je saopštavala srpska strana, postignuto je “maksimalno od mogućeg”. Priština je pristala da na dva od 31 prelaza, koliko ima Kosovo, neće stajati kosovski carinici nego međunarodni predstavnici, uz prisustvo policije EULEKS-a, koji je preuzeo ovlašćenja UNMIK-a (civilne administracije Ujedinjenih nacija, ustanovljene 1999). Doduše, na ta dva prelaza nije moguć protok komercijalne robe, nego se kamioni iz Srbije koji ulaze na Kosovo usmeravaju na prelaz Merdare kod Podujeva ili na neki od preostalih 29 graničnih prelaza. Srbi sa severa Kosova na ovu su, kako su ocenili, izolaciju prištinskih vlasti i KFOR-a odgovorili probijanjem šumskih puteva prema centralnoj Srbiji. Dok ovaj tekst ide u štampu, u toku su nemiri na granici između Zubinog Potoka i Novog Pazara, jer je KFOR razrušio i postavio betonske zapreke preko puta kod sela Banje, kojim su lokalni Srbi (ali i brojni šverceri) zaobilazili granični prelaz u Brnjaku. Nekoliko dana pre nego što će italijanski pripadnici KFOR-a blokirati taj divlji prelaz, za sada još nepoznati počinici (svi ukazuju na lokalne Srbe) bacili su dve ručne granate na pripadnike KFOR na prelazu Brnjak, kada je lakše povređen jedan vojnik iz KFOR-ova kontingenta.

Od prvog juna, na osnovu dogovora Beograda i Prištine, kosovska policija počela je da oduzima automobilske tablice sa oznakama kosovskih gradova, koje izdaje MUP Srbije u nekoliko policijskih stanica u centralnoj Srbiji; ukazivanje da mogu da imaju samo tablice RKS-a (Republike Kosovo) ili stare tablice KS-a, koje su važile dok su na Kosovu bile privremene institucije i nadležnost UNMIK-a nad policijom, izazvalo je novo uznemirenje među Srbima.

- Mi smo se više od deset godina borili protiv registracija KS, koje su značile priznavanje suvereniteta Kosova, a sada nam Beograd nameće baš takve tablice – poručivalo se sa više protestnih skupova.

- Sporazum koji smo postigli je manjkav, ali je jedino moguć – odgovara Stefanović na optužbe da je beogradski tim izdao interese Srba na Kosovu i da u sporazumu postoje tajni sporazumi, čiji se delovi otkrivaju ovih dana.

- Sve što smo dogovorili dostavili smo Narodnoj skupštini. Problem sprovođenja sporazuma o slobodi kretanja na severu Kosova je u realnom stanju na terenu, gde živi srpska većina – kaže.

Ivica Dačić, lider Socijalističke partije Srbije (SPS) i ključni čovek u formiranju nove vlade, ovih dana bez uvijanja govori da pregovarači treba da kažu šta su još obaveze Beograda prema Brislu; naglašava da se od Beograda traži da u Prištini otvori kancelariju za saradnju sa kosovskom Vladom, kao i da to učini Priština u Beogradu.

- Otvaranje kancelarije nije uopšte bilo na dnevnom redu pregovora – kategoričan je Stefanović.

Lokalni izbori

Dok traje nadmudrivanje ključnih političkih aktera, zanetih kalkulacijama oko sakupljanja parlamentarne većine, iz Brisla stiže vest da je novoizabrani predsednik Srbije Tomislav Nikolić evropskim zvaničnicima izjavio da je spreman na razgovor sa svima iz Prištine osim sa Hašimom Tačijem, predsednikom Vlade koga srpsko tužilaštvo tereti za ratne zločine. Jelko Kacin, evropski izvestilac za Srbiju, u toj izjavi optimistički vidi spremnost srpskog predsednika da razgovara sa Atifetom Jahjaga, predsednicom Kosova.

Najveći nemir među Srbima na severu Kosova izazvala je nedvosmislena poruka Vlade Srbije, pred majske izbore, da ne podržava održavanje lokalnih izbora. Kosovska Vlada saglasila se, doduše posle pritiska međunarodnih faktora, da se republički izbori za predsednika Srbije i Narodnu skupštinu održe i na Kosovu, u organizaciji OEBS-a i uz nadgledanje EULEKS-a, ali uz uslov da se glasovi prebrojavaju van teritorije Kosova. Rukovodstva opština Zvečan i Zubin Potok, međutim, organizovala su lokalne izbore i tokom juna konstituisali opštinske organe, pravdajući to željom i pravom srpske većine, koja se prošle godine izjasnila protiv kosovskih institucija.

Doduše, srpski lokalni lideri, suočeni sa sve jačim pritiskom Prištine, sukobima sa međunarodnim predstavnicima i sve slabijom podrškom Beograda, naročito posle prošlogodišnjeg zahteva Angele Merkel Borisu Tadiću, tadašnjem srpskom predsedniku, da Beograd mora neodložno da prekine finansiranje “paralelnih srpskih institucija na Kosovu”, daju pomirljive izjave.

- Nastavićemo da sarađujemo sa UNMIK-om, OEBS-om, KFOR-om i EULEKS-om, ukoliko budu poštovali Rezoluciju 1244 Saveta bezbednosti UN-a i ukoliko budu statusno neutralni – kaže Dragiša Milović, predsednik Opštine Zvečan. – Održavanjem lokalnih izbora samo su ispoštovani Ustav, Zakon o lokalnoj samoupravi i volja građana.

Sa druge strane, lider Samoopredeljenja Albin Kurti okrivljuje “nesposobnu Vladu Kosova” da je “prodala interese albanskog naroda”. Kurti smatra da kabinet Hašima Tačija, kao i oni pre njega, vode politiku koji se ukapa u “kolonijalistički koncept” međunarodnih faktora, koji Kosovo žele da drže u stanju ni rata ni mira, kao siromašnu regiju, čijoj (albanskoj) većini ne dozvoljavaju da ima suverenitet na celoj teritoriji.

Suočen sa kritikama opozicije, ali i sa neusaglašenim izjavama svog ministra unutrašnjih poslova Bajrama Redžepija (“Na svakom graničnom prelazu biće kosovska policija”), premijer Kosova Tači poručuje da se Kosovo ne odriče suvereniteta, optužuje Beograd za destabilizaciju kroz finansiranje “paralelnih institucija”, u kojima vidi glavnog uzročnika krize.

- U dogovoru sa međunarodnom zajednicom, nećemo vući ishitrene poteze, a probleme ćemo rešavati strpljivo, uz puno uverenje da se ne odričemo celovitosti Kosova – kaže Tači.

Situacija je napeta

Srbi sa severa Kosova ovih su dana uputili pismo komandantu KFOR-a, generalu Erhardu Drevsu i šefu Misije EULEKS-a Gzavijeu de Marnjaku, u kome ih optužuju da su prekršili međunarodne standarde i ljudska prava. Podsećaju na obavezu poštovanja statusne neutralnosti. Kršenjem ljudskih prava smatraju nepoštovanje činjenice da Srbi sa severa Kosova ne priznaju kosovske institucije; smatraju da priznavanje kosovskih institucija vodi u asimilaciju i prinudnu integraciju ovog dela Kosova sa srpskom većinom. Srbi od EULEKS-a i KFOR-a traže da obezbede mir i sigurnost za sve građane Kosova i Metohije, “bez obzira na versku i nacionalnu pripadnost”, da se uzdrže od “jednostranih poteza, stvaranja dodatnih pritisaka i tenzija” te da probleme rešavaju mirnim putem i političkim sredstvima.

Radenko Nedeljković, načelnik Kosovskomitrovačkog okruga, ističe da u KFOR-u i EULEKS-u srpski narod na Kosovu vidi svoje partnere.

- Ali, ne možemo da prihvatimo da srpsku zajednicu stavljaju u geto, da nam KFOR zatvara puteve – dodaje Nedeljković.

Da će kosovsko leto biti vrelo, a jesen puna neizvesnosti, svedoči i Oliver Ivanović, državni sekretar u Ministarstvu za Kosovo i Metohiju, koji predviđa još “sporadičnih incidenata”.

- Dijalogom držimo pod kontrolom situaciju koja je napeta i može svakog momenta da eskalira i da se pretvori u nekakav incident, što nikome nije u interesu – kaže Ivanović.

Dok se javnosti serviraju manje ili više pesimistička predviđanja budućnosti severnog Kosova, prištinski zvaničnici ističu da je oko 37.000 Srba uzelo nove, kosovske lične karte i da je za 55 radnih mesta u novoj kancelariji u Kosovskoj Mitrovici, koja će obavljati poslove opštine, konkurisalo preko hiljadu mladih, među kojima je više od 70 posto iz srpske zajednice.

Srba kao na prvom turskom popisu 1455.

Crnohumorno zvuči da je današnji broj Srba na Kosovu gotovo ravan onome iz prvog turskog popisa 1455: precizni osmalijski popisivači zabeležili su na teritoriji današnjeg Kosova i Metohije 480 naseljenih mesta sa 13.057 srpskih domova, 75 vlaških, 17 bugarskih, jednim grčkim i 46 arbanaških (oko procenat stanovništva). Godine 1871. bilo je 64 procenta Srba i 32 odsto Albanaca, 1899. Albanaca je 48, a Srba 44 procenta. Prema popisu iz 1921. na Kosovu je živelo 439.000 stanovnika, od kojih je bilo 280.000 Albanaca (64 procenta), a prema onome iz 1931. bilo je 562.000 stanovnika (62 procenta su Albanci). Posle Drugog svetskog rata, Srba je svake decenije manje za sedam do osam procenata. Poslednji popis koji Albanci nisu bojkotovali, iz 1981, pokazao je da na Kosovu živi 1.956.196 stanovnika, od toga 1.596.072 Albanaca (81,6 procenata) i 214.555 Srba (11 procenata).

Popis iz aprila 2011. iznenadio je mnoge “procenitelje” demografskog buma, posebno one koji su govorili da u Prištini živi “čak 600.000 stanovnika”; registrovano je 1.733.872 stanovnika ili oko 700.000 manje od procena. Srbi su popis bojkotovali, pa Priština, koja je 1981. imala oko 250.000 stanovnika, ima 198.000 stanovnika. Doduše, u međuvremenu su se od nje odvojili Kosovo Polje i Gračanica, ali se 1999. iselilo i više od 40.000 Srba. Danas u Prištini živi samo 40 Srba!

Na Kosovu sada živi oko 130.000 Srba: u četiri opštine na severu (deo Kosovske Mitrovice, Zvečan, Zubin Potok i Leposavić) 60.000 (uključujući i one izbegle iz gradova i sela južno od Ibra i iz predela Metohije). U Kosovskom pomoravlju (Novo Brdo, Gnjilane, Kosovska Kamenica i Kosovska Vitina) u 73 naselja živi 35.000 Srba. U predelu oko Prištine živi oko 20.000 Srba, u Štrpcu 11.000, a u nekoliko enklava u Metohiji 4.000. U opštinama Kačanik, Mališevo, Dečane, Glogovac, Suva Reka i Štimlje ne živi nijedan Srbin ili Srpkinja! U Đakovici žive četiri srpske starice, Prizrenu 28, Peći 25, Klini 50, Uroševcu četiri, a u južnom delu Kosovske Mitrovice samo jedan (!) stanovnik srpske nacionalnosti.

Iako su i međunarodna zajednica i prištinske institucije obećavali da će pospešiti povratak izbeglih Srba, efekti su zanemarljivi. Broj iseljenih sa Kosova premašuje 220.000 Srba. Pred ovim podacima šuplje zvuči svaka priča o naporima koji se čine da Kosovo bude “multietnička sredina ravnopravnih građana koji, poštujući visoke standarde tolerancije, streme ka zajedničkom domu, Evropskoj uniji”.



=== italiano ===

Manipolazione, ostruzionismo, integrazione?

pubblicato da: Novosti – Samostalni srpski tjednik

http://www.novossti.com/2012/07/manipulacija-balvanizacija-integracija/

Numero 655

Data di pubblicazione 08/07/2012. Giornalista: Ranko Milosavljevic

 

 

 

Il dramma dei serbi rimasti nel Kosovo sta volgendo al termine. Per decenni la classe politica a Belgrado ha strumentalizzato gli scontri etnici di questa regione per i propri scopi e per il Kosovo si sono impegnati un po' tutti. A parole si intende, visto che nella realtà la situazione è andata via via peggiorando. Alla fine, con l'accordo di Kumanovo, l'ex presidente Slobodan Milosevic si è congratulato con i serbi per la loro vittoria sulla Nato e il Kosovo è rimasto sotto protettorato delle Nazioni Unite finché due anni fa la maggioranza albanese ne ha proclamata l'indipendenza del Kosovo. Un fatto considerato dalla Serbia una violazione della risoluzione 1244. Il fatto che l'espressione ”Terra santa serba” fosse stata inserita nel preambolo della Costituzione della Serbia, non ha avuto alcun significato per la maggioranza albanese, né ha potuto impedire agli Usa e a gran parte dei paesi dell'Unione Europea di riconoscere l'indipendenza del Kosovo.

 

Perfino secondo i rapporti delle organizzazioni internazionali, la situazione in Kosovo durante il mandato dell'Onu non è sostanzialmente migliorata. Ai serbi è ancora impedito di circolare liberamente e le loro vite sono costantemente minacciate. Nella migliore delle ipotesi i loro beni personali vengono venduti attraverso intermediari stranieri a prezzi stracciati. Inoltre le ex imprese sociali sono state privatizzate per decisione dell'Agenzia kosovara dei creditori (“Kosovo Trust Agency“ Kta) secondo criteri che Belgrado contesta;  le fabbriche in cui la Serbia ha investito per decenni per aiutare lo sviluppo del “Kosovo sottosviluppato”, sono state vendute a prezzi irrisori. L’esempio tipico è la Zastava di Kragujevac, privata della sua società “Zastava Ramiz Sadiku” a Pec, comprata all'asta dall'ex fornitore di armi dell'Esercito di liberazione del Kosovo (KLA). I vincitori si fanno pagare per le loro vittorie!

 

“Il massimo possibile”

 

Le agitazioni dei serbi lo scorso anno nel Kosovo settentrionale provocate dalla decisione delle autorità locali di stabilire dogane kosovare ai valichi di frontiera (la parte serba la definisce sempre  “amministrativa”) di Jarinje e Brnjak, avevano condizionato i difficili negoziati tra Belgrado e Pristina. Ognuna delle due parti ha dato la sua versione del trattato siglato, mentre ancora diversa era la visione di Robert Cooper, rappresentante UE al tavolo delle trattative dei team guidati da Borislav Stefanovic e Edita Tahiri.

 

Secondo quanto riportato sul fronte serbo, è stato raggiunto ”il massimo possibile”. Pristina ha accettato che in due dei 31 valichi  in Kosovo, non saranno messi funzionari kosovari, ma rappresentanti internazionali, in presenza della polizia Eulex che ha preso il posto dell'Unmik (amministrazione civile dell'Onu dal 1999). A dire il vero, su questi due valichi non è possibile il flusso di merci, quindi i camion che arrivano in Kosovo dalla Serbia, deviano al valico di Merdare vicino Podujevo, o verso uno degli altri 29 valichi. I Serbi del Kosovo settentrionale a questo arroccamento da parte delle autorità di Pristina e della Kfor, hanno risposto aprendosi le strade boschive verso la Serbia centrale. Mentre questo articolo va in stampa, sono in corso scontri al confine tra Zubin Potok e Novi Pazar, dopo che la Kfor ha distrutto e posizionato barriere di cemento lungo la strada nei pressi del villaggio di Banja, che i serbi locali e molti contrabbandieri utilizzano per oltrepassare il confine a Brnjak. Qualche giorno fa prima che il contingente italiano della Kfor interrompesse questo passaggio incontrollato, certe persone ancora non identificate, hanno lanciato due bombe a mano contro la Kfor a Brnjak ferendo un soldato.

 

Dal 1 giugno, in base a un accordo tra Belgrado e Pristina, in Kosovo la polizia ha iniziato a confiscare le targhe automobilistiche riportanti i nomi delle località in Kosovo, rilasciate dal Ministero dell'interno serbo in diversi commissariati di polizia nella Serbia centrale. Infatti, secondo la nuova normativa, sono ammesse solo targhe della Repubblica del Kosovo KSA, oppure le vecchie targhe kosovare KS in vigore fino a che sono rimaste in piedi le istituzioni provvisorie e l'autorità della Unmik sulla polizia. Un fatto che ha scatenato nuove preoccupazioni tra i serbi.

 

- Per più di dieci anni ci siamo battuti contro le immatricolazioni KS che significavano il riconoscimento ufficiale delle autorità kosovare, ovvero contro il riconoscimento della sovranità del Kosovo. Ora Belgrado ci impone proprio queste targhe - questo il messaggio delle varie proteste.

 

- L'accordo che abbiamo raggiunto è imperfetto, ma è l'unico possibile, ha risposto Stefanovic di fronte all'accusa di tradimento degli interessi dei serbi del Kosovo da parte del team belgradese, e dell'esistenza di clausole segrete, alcune delle quali stanno venendo alla luce in questi giorni.

 

- Tutto ciò che abbiamo sottoscritto lo abbiamo trasmesso al parlamento serbo. Il problema dell'attuazione degli accordi sulla libera circolazione nel Kosovo settentrionale, dipende dalla situazione effettiva in loco dove la maggioranza degli abitanti è serba, ha aggiunto.

 

Ivica Dacic, capo del Partito socialista serbo (Sps) e personaggio chiave della nuova compagine governativa, ha detto recentemente senza mezzi termini che chi ha partecipato ai negoziati, deve esporre apertamente quali siano gli obblighi di Belgrado nei confronti di Bruxelles, sottolineando che a Belgrado si chiede di  aprire una sua rappresentanza a Pristina e di collaborare con il governo del Kosovo, e che a Pristina si chiede di fare lo stesso.

 

- Tuttavia, secondo Stefanovic, l’apertura dell’ufficio non è mai stata all'ordine del giorno.

 

Elezioni locali

 

Mentre è in corso la farsa di astuzia dei principali attori politici, impegnati nei loro calcoli sulla creazione di una maggioranza parlamentare per il nuovo governo serbo, da Bruxelles arriva la notizia che il neo-eletto presidente serbo Tomislav Nikolic si è dichiarato pronto al dialogo con tutte le forze politiche di Pristina, tranne che con Hashim Taci, presidente del governo locale accusato di crimini di guerra dalla magistratura serba. Jelko Kacin, relatore europeo per la Serbia, nella dichiarazione di Nikolic, ottimisticamente scorge la volontà del presidente di parlare con Atifet Jahjaga, presidente del Kosovo.

 

La principale preoccupazione tra i serbi del Kosovo settentrionale è stata provocata dal chiaro messaggio del Governo della Serbia, di non dare il sostegno per l’organizzazione delle elezioni locali in Kosovo. Il governo kosovaro ha accettato, anche se a seguito di pressioni internazionali, che anche in Kosovo si potessero svolgere le elezioni presidenziali e parlamentari per il governo serbo. Organizzate dall'Osce e monitorate da Eulex, e a condizione che lo spoglio delle schede avvenisse in Kosovo. Le giunte comunali di Zvecan e Zubin Potok, intanto hanno organizzato le elezioni locali e a giugno hanno messo in piedi le autorità comunali, giustificando la mossa con il desiderio e il diritto della maggioranza serba locale, che lo scorso anno aveva votato contro le istituzioni kosovare.

 

Nondimeno i politici serbi locali hanno rilasciato dichiarazioni concilianti, messi alle strette dalle pressioni di Pristina, dai conflitti con la comunità internazionale e dal calo di sostegno per Belgrado, soprattutto dopo la richiesta dell'anno scorso di Angela Merkel all'ex presidente Boris Tadic di interrompere il finanziamento di ”istituzioni serbe parallele in Kosovo”.

 

- Continueremo a collaborare con Unmik, Osce, Kfor ed Eulex se rispetteranno la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e se saranno neutrali, ha detto Dragisa Milovic, sindaco di Zvecan. - Le elezioni locali rappresentano esclusivamente il rispetto per la Costituzione,la legge sull'autonomia locale e la volontà dei cittadini.

 

D'altra parte il capo del partito Autodeterminazione Albin Kurti, accusa il “governo incompetente del Kosovo” di aver “venduto gli interessi del popolo albanese”. Secondo lui, gli uomini di Hashim Taci, come chi li ha preceduti, adottano una linea politica pervasa dal “concetto colonialista” dei fattori internazionali, che vogliono tenere il Kosovo in uno stato di né pace né guerra, come una regione povera in cui alla maggioranza (albanese) non permettono di avere sovranità sul suo intero territorio.

 

Di fronte alle critiche dell'opposizione e dopo le dichiarazioni ambigue del suo ministro degli interni Bajram Rexhepi (“a ogni valico di frontiera ci sarà la polizia kosovara“), il primo ministro Taci ha detto che il Kosovo non rinuncerà alla sovranità, accusando Belgrado di destabilizzare il nuovo stato attraverso il finanziamento di ”istituzioni parallele”, per lui la principale causa della crisi.

 

- Nelle consultazioni con la comunità internazionale, non condurremo mosse avventate e risolveremo i problemi con la pazienza, nella piena determinazione a non cedere sull'integrità del Kosovo, ha detto.

 

Situazione tesa

 

In questi giorni i serbi del Kosovo settentrionale hanno inviato una lettera al comandante della Kfor, il generale Erhard Drevsu e al capo della missione Eulex Xavier de Marnhac, accusandoli di aver violato le leggi internazionali e i diritti umani e ricordando l'obbligo di rispettare lo status di forze neutrali. Tra le violazioni dei diritti umani annoverano la mancanza di considerazione per la posizione dei serbi del Kosovo settentrionale, che non riconoscono le istituzioni kosovare dal momento che riconoscerle, porterebbe all'assimilazione forzata di questa parte del Kosovo a maggioranza serba. I serbi chiedono a Eulex e Kfor di garantire la pace e la sicurezza di tutti gli abitanti del Kosovo e Metohija “a prescindere dall'appartenenza etnica o religiosa”, di astenersi da “azioni unilaterali che aggravano l’attuale pressione e tensione” e di risolvere i problemi con mezzi pacifici e politici.

 

Radenko Nedeljkovic, capo della municipalità di Kosovska Mitrovica, ha dichiarato che il popolo serbo considera Kfor ed Eulex suoi alleati.

 

- Ma non possiamo accettare che la comunità serba sia ghettizzata, che la Kfor ci blocchi le strade -  ha aggiunto.

 

L'estate in Kosovo sarà calda e l'autunno pieno di incertezze, osserva Oliver Ivanovic, Segretario di Stato nel Ministero per il Kosovo e Metohija, e prevede ancora incidenti sporadici.

 

- Teniamo la situazione sotto controllo con il dialogo, una situazione che di per sé è tesa e può degenerare in ogni momento trasformandosi in un incidente, il che non è nell'interesse di nessuno -  ha precisato.

 

Mentre all'opinione pubblica si formulano previsioni più o meno pessimistiche sul futuro del Kosovo settentrionale, i funzionari di Pristina fanno notare che circa 37.000 serbi hanno ottenuto nuove carte di identità kosovare, e che per l'assegnazione di 55 posti nel nuovo ufficio di Kosovska Mitrovica che avrà la funzione di giunta comunale, hanno partecipato più di mille giovani di cui più del 70% appartiene alla comunità serba.

 

 

Il numero dei serbi come nel primo censimento turco del 1455

 

Suona come umorismo nero che oggi il numero dei serbi in Kosovo, sia quasi uguale a quella del primo censimento turco 1455: i precisi registratori ottomani nel territorio del Kosovo e Metohija, avevano registrato 480 insediamenti con 13.057 case serbe, 75 dei vlasi, 17 dei bulgari, una grecs e 46 abitazioni degli albanesi (circa 1 percento della popolazione). Nel 1871 c’era 64 percento dei serbi e il 32 percento degli albanesi. N nel 1899, 48% degli albanesi e  44% dei serbi. Secondo il censimento del 1921, in Kosovo vivevano 439.000 abitanti, di cui 280.000 erano albanesi (64 percento) e secondo quello del 1931. ci sono stati 562.000 abitanti (62 percento degli albanesi). Dopo la seconda guerra mondiale, ogni dieci anni o meno, si registrava  7-8 percento in meno dei serbi. L'ultimo censimento che gli albanesi non avevano boicottato, quello del 1981, ha dimostrato che in Kosovo vivevano 1.956.196 abitanti, di cui 1.596.072 albanesi (81,6 percento) e 214.555 serbi (11 percento).

 

Il censimento dell’aprile 2011. ha sorpreso molti “stimatori” del boom demografico, in particolare quelli che dicevano che a Pristina, "vivono perfino 600.000 persone"; il censimento ha registrate 1.733.872 abitanti, ovvero circa 700.000 meno di stima. I serbi hanno boicottato il censimento. Pristina che nel 1981 contava circa 250.000 abitanti, ne aveva 198.000. Tuttavia, nel frattempo, dal comune di Pristina si erano separati i municipi di Gracanica e Kosovo Polje, ma nel 1999 da Pristina se ne sono andati più di 40.000 serbi. Oggi a Pristina vivono soltanto 40 serbi!

 

In Kosovo oggi vivono circa 130.000 serbi: in quattro comuni del nord (parte di Kosovska Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok e Leposavic) 60.000 (compresi quelli che sono fuggiti dalla città e villaggi a sud del fiume Ibar e dalle parti di Metohija). Nel Kosovsko Pomoravlje (Novo Brdo, Gnjilane, Kosovska Vitina e Kamenica) in 73 villaggi vivono 35.000 serbi. Nella zona di Pristina vivono circa 20.000 serbi: in Strpce 11.000, e in alcuni enclave in Metohija, loro 4000. Nei comuni di Kacanik, Malisevo, Decani, Glogovac, Suva Reka e Stimlje non c’è nessun serbo o serba! In Djakovica vivono quattro anziane donne serbe, a Prizren 28, a Pec 25, a Klina 50, a Urosevac quattro, mentre nella parte meridionale di Kosovska Mitrovica, un solo (!) abitante di nazionalità serba.

 

Sebbene la comunità internazionale e le istituzioni di Pristina promettessero di favorire il ritorno dei profughi serbi, gli effetti ne sono trascurabili. Il numero di rifugiati provenienti dal Kosovo supera i 220.000 serbi. Prima di questi dati, suona vuota ogni storia circa gli sforzi in corso per rendere il Kosovo un "ambiente multietnico di cittadini eguali, che  osservando elevati standard di tolleranza, si adoperano per la casa comune, l'Unione europea".


(segnalazione di Andrea D., traduzione di Carlotta C., revisione di Dragomir K. per CNJ-onlus)




Escalation militare italiana in Afghanistan: ma chi ne parla?


16 Luglio 2012

di Fausto Sorini, segreteria nazionale, responsabile esteri PdCI

“Dunque la guerra non va in vacanza, nemmeno per gli italiani – scrive Tommaso Di Francesco sul Manifesto di domenica 15 luglio. Ora è ufficiale: i nostri quattro cacciabombardieri Amx del 51esimo stormo dispiegati a Herat stanno bombardando a tappeto il nemico talebano”. 

La conferma ufficiale dell'escalation militare italiana in Afghanistan viene dalle dichiarazioni del generale Luigi Chiapperini, comandante del nostro contingente.

“Chi ha autorizzato l’entrata nella guerra aerea dell’Italia in Afghanistan? È stato il governo «tecnico», sostenuto da Pdl, Udc e Pd. E in particolare il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, il ministro che più tecnico non si può: è ammiraglio ed è stato comandante delle forze Nato. Lo stesso che in questi giorni muove lobby militar-industriali e schieramenti politici connessi per ottenere l’approvazione di ben 90 cacciabombardieri F-35, che ci costeranno 10 miliardi, nella finanziaria rivisitata dalla spending review, che taglia spese sociali, welfare e pensioni. Altro che conflitto d’interessi. È stato lui il 28 gennaio scorso, nel silenzio generale, a informare la Commissione difesa del parlamento della decisione di usare sul campo afghano «ogni possibilità degli assetti presenti in teatro, senza limitazione» armando gli Amx che fino a quel momento volavano senza bombe”.

Così dal 27 giugno i tremila soldati italiani impegnati a terra sono supportati dal cielo anche dagli Amx con armamento micidiale e sistemi sofisticati di precisione.

Ancora una volta è chiaro che l’Italia è in guerra, ma chi ne parla? Il Parlamento tace, non una sola voce critica si è levata. E all'Ammiraglio Di Paola è riuscito oggi, nel silenzio-assenso pressochè generale, quello che ieri non era riuscito al ministro Ignazio La Russa: che nel novembre del 2010 aveva proposto di armare gli aerei italiani in Afganistan, suscitando – all'epoca – una levata di scudi generale. Adesso nulla.

“I pantani di guerra in corso e quelli nuovi che si annunciano – scrive ancora De Francesco - aiutano le leadership occidentali a sostenere il «percorso di guerra» – parola di Monti – dentro la crisi del capitalismo globale, del loro modello di sviluppo. Perché sostengono la spesa militare e le caste collegate, stabiliscono gerarchie e irrobustiscono alleanze militari come la Nato, rendendole l’unico vero strumento attivo, criminale e «democratico», di intervento nella realtà”. 

Ora dal conflitto afghano tutti dichiarano di voler uscire (mentre si prepara la guerra alla Siria..), ma intanto l’obiettivo immediato delle forze NATO, Italia compresa, resta quello di vincere militarmente sul campo. Qualcuno dica che è ora di farla finita, qualcuno prenda la parola per le migliaia di civili straziati dalle bombe dei raid aerei ora anche «nostri».

Il PdCI denuncia l'escalation del coinvolgimento militare italiano nella guerra afghana, chiede il ritiro delle nostre truppe, invita tutte le forze di pace e fedeli al dettato costituzionale, dentro e fuori il Parlamento, a fare la loro parte e a non rendersi complici di questa ennesima barbarie ad utilizzare le risorse risparmiate per fronteggiare i problemi sociali più acuti, provocati dalla crisi capitalistica e da una politica governativa e dell'Unione europea che scarica il peso della crisi sulle spalle dei ceti popolari.