Informazione
Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali
La Siria è in questo caso l’ultimo Stato arabo laico.(1) Le minoranze religiose godono dei medesimi diritti della maggioranza musulmana. Per certe frange religiose sunnite, campioni dell’idea della guerra contro l’«Altro», chiunque egli sia, la laicità araba e l’uguaglianza inter-religiosa, incompatibili con la sharia (legge islamica), costituiscono una offesa contro l’Islam e rendono lo Stato siriano più detestabile di un’Europa «atea» o «cristiana». Ora, la Siria ha almeno dieci diverse chiese cristiane, con sunniti che sono Arabi, Curdi, Circassi o Turcomanni, con cristiani non arabi come gli Armeni, gli Assiri o i Levantini, con musulmani sincretisti e quindi non classificabili, come gli Alawiti e i Drusi. Pertanto, il compito di mantenere salda questa struttura etnico-religiosa fragile e complessa si dimostra così difficile, che solo un regime laico, solido e necessariamente autoritario può assolverlo.
In ragione dell’origine del presidente Bachar El-Assad, il regime siriano è indebitamente descritto come «alawita». Questa definizione è totalmente falsa, diffamatoria, settaria, vale a dire razzista. Innanzitutto è falsa, perché lo stato maggiore, la polizia politica, i diversi servizi di informazione, i membri del governo sono nella grande maggioranza sunniti, come pure una parte non trascurabile della borghesia. I nostri media, per fare sensazione, non mancano di sottolineare l’origine sunnita della signora Asma al-Assad, moglie del presidente, con lo scopo di demonizzarla. Ma evitano deliberatamente di citare la vice-presidente della Repubblica araba di Siria, la signora Najah Al Attar, la prima ed unica donna araba al mondo ad occupare una carica così elevata. La signora Al Attar non è soltanto di origine sunnita, ma è anche la sorella di uno dei dirigenti in esilio dei Fratelli Musulmani, esempio emblematico del paradosso siriano.
Conviene ricordare che per i salafiti la Siria proprio non esiste. Questo nome sarebbe, come quello dell’Iraq, una fabbricazione degli atei. Nel loro gergo ispirato dal Corano, l’Iraq si chiama Bilad al Rafidaïn (la terra dei due Fiumi) e la Siria, Bilad al-Cham (la terra di Cam). Colui che adotta l’ideologia nazionalista, e si consacra alla liberazione del proprio paese, commette un peccato di associazione (shirk). Egli viola il principio deltawhid, l’unicità divina, e per questo merita la morte. Per questi fanatici, la sola lotta approvata da Allah è lajihad, la guerra definita «santa», scatenata nel nome di Allah con l’obiettivo di estendere l’Islam. In quanto corollario del nazionalismo arabo, il pan-arabismo, questa idea progressista di unità e di solidarietà inter-araba, è a fortiori un sacrilegio, in quanto mina il concetto di «Umma», la madre patria musulmana.
(Message over 64 KB, truncated)
Sul serbo-croato, sulle traduzioni e su altre cose ancora
Nel corso degli anni mi è capitato di fare il traduttore, collaborando occasionalmente con delle agenzie. Si trattava per lo più di documenti di vario genere, manuali o lettere commerciali. Tornava utile per tappare i buchi o per tenersi occupati quando si è senza lavoro, anche se i soldi guadagnati erano sempre pochi. Era più stimolante quando lo facevo volontariamente come ad esempio per la trasmissione Ostavka! di Radio Onda d’Urto condotta da Michelangelo Severgnini tra 1999 e 2001 o facendo da interpretere ad Aleksandar Zograf quando venne a presentare una sua raccolta di fumetti a Milano sempre in quegli anni. Alcune esperienze erano anche deprimenti come quando feci da interprete in un tribunale durante il processo per direttissima a due rom accusati di tentato furto. Furono condannati ad alcuni mesi di carcere senza aver rubato nulla. Sotto banco uno dei due mi fece passare un biglietto con il numero di telefono di qualche parente in Germania e una scheda telefonica. Al primo tentativo non gli riuscì perché una guardia se ne accorse, ma al secondo a udienza finita quando tutti si alzarono finalmente me lo passò. Telefonai subito dopo e mi sentì un po’ riscattato per aver collaborato con un processo che trovavo imbarazzante. Ultimamente, considerate le difficoltà economiche mi sono messo di nuovo a mandare i curriculum alle agenzie di traduzione e qualcuna ha risposto. Una di queste, Easy Languages, per una sorta di selezione chiedeva un articolo sulle lingue e sul mestiere del traduttore, per essere ammessi al team dei collaboratori. Ho scritto sull’annosa questione che riguarda una lingua che tutti parlano nelle quattro delle sei repubbliche ex jugoslave, ma nessuno riconosce, cioè il serbo-croato.
Serbo-croato, quando una lingua diventa scomoda
Quando sono nato, nel 1977, in Jugoslavia si parlava il serbo-croato, la lingua considerata ufficiale e tre lingue utilizzate nelle singole repubbliche federali: sloveno, macedone e albanese. A queste si possono aggiungere le minoranze linguistiche parlate nelle zone di confine come l’ungherese, l’italiano, il valacco, e le lingue parlate dalle comunità rom e goranci. Naturalmente non mancavano i dialetti locali, molto meno numerosi che in Italia ma con differenze altrettanto marcate, che nel corso del novecento sono stati uniformati e sostituiti dalle parlate regionali che si differenziavano per lo più per l’accento e il gergo. La situazione linguistica può apparire complicata ma in fin dei conti non ha mai rappresentato un problema, anche perché la maggioranza della popolazione parlava appunto il serbo-croato. la lingua “unificante”, mentre le altre lingue avevano comunque i loro spazi nell’ambito scolastico, mediatico ed editoriale. Successivamente all’ascesa delle correnti politiche egemoniche o disgregazioniste è venuta a mancare questa peculiare pluralità e intercomprensibilità linguistica.
Semmai è oggi che regna la confusione dato che il serbo-croato, parlato in Serbia, Croazia, Bosnia e Montenegro è stato diviso in serbo, croato, bosniaco e montenegrino, senza un valido fondamento linguistico-filologico ma principalmente su base politica. Quindi nell’area della ex Jugoslavia le lingue si sarebbero raddoppiate anche se un abitante di Podgorica può andare a Sarajevo ed instaurare una conversazione di qualsiasi tipo incontrando tutt’al più qualche decina di termini diversi, comunque conosciuti non solo a coloro che sono nati prima degli anni Ottanta. Lo stesso accade se un abitante di Zagabria va a Belgrado, dove al massimo troverà qualche difficoltà se si reca nei quartieri periferici dove si parla un particolare slang formatosi negli ultimi decenni, ma sono le stesse difficoltà che potrebbe trovare un milanese a zonzo per le borgate di Roma. Dunque oggi si può incorrere nel paradosso di dover tradurre un testo dal serbo al montenegrino, che sono tra l’altro le due varianti più vicine di serbo-croato considerando i fattori storici e culturali che hanno intrecciato le vicende dei due paesi. Infatti l’ultima separazione riguarda proprio queste due repubbliche, per fortuna avvenuta senza esiti tragici e sanguinolenti come quelli che hanno caratterizzato la guerra civile degli anni novanta, ma comunque con ripercussioni abbastanza pesanti a livello politico e di conseguenza anche sociale ed economico, creando parecchi problemi ai cittadini comuni, abituati a viaggiare, condurre i propri affari, intrattenere rapporti familiari e di amicizia, trovandosi all’improvviso di fronte ai nuovi confini e ostacoli burocratici. Alla luce di questa situazione, come accennavo, vediamo emergere delle speculazioni nell’ambito linguistico. Per fare un esempio banale ma significativo, se guardiamo le etichette di un prodotto qualsiasi, ci tocca leggere gli ingredienti in quattro lingue diverse dove le differenze spesso non esistono o comunque sono minime. Nel maldestro tentativo di sottolineare le diversità si usano dei sinonimi o semplicemente si cambia una preposizione. Per chiunque e in particolare per un traduttore di professione può risultare un po’ scandaloso il fatto che qualcuno venga pagato per fingere di tradurre.
Senza essere dei filologi, ma servendosi solo del buon senso, possiamo, se non concludere che si tratta della stessa identica lingua, avere quanto meno dei fortissimi dubbi che la si possa smembrare in base ai nuovi confini politico-amministrativi. Eppure oggi, il serbo-croato non è più nemmeno oggetto di discussione, si finge che non esista anche se i tentativi di trasformarlo in neo-lingue accentuandone le differenze e puntando alla sovrapproduzione dei neologismi a volte ridicoli, non stanno avendo il successo sperato. Una lingua segue il proprio corso e si adatta alle esigenze umane di natura più pratica ed è ovviamente molto più longeva di una corrente politica che la vorrebbe viva o morta.
Manipulacija, balvanizacija, integracija?
Drama preostalih Srba na Kosovu ulazi u završnicu. Nekoliko decenija politički vrh iz Beograda koristio je međuetničke sukobe u ovoj pokrajini za unutrašnju upotrebu. Kosovom su se bavili bukvalno svi. Na rečima. Rezultati su bili sve gori i gori. Konačno, Kumanovskim sporazumom Milošević je Srbima čestitao pobedu nad NATO-om, a Kosovo je stavljeno pod protektorat Ujedinjenih nacija. Pre dve godine, albanska većina je proglasila nezavisnost Kosova. Srbija je to smatrala kršenjem Rezolucije 1244. Stavljanje “svete srpske zemlje” u preambulu Ustava Srbije ništa nije značilo albanskoj većini, kao što nije sprečilo SAD i ogromnu većinu članica EU-a da priznaju nezavisnost Kosova.
Čak i prema izveštajima međunarodnih organizacija, stanje na Kosovu tokom mandata Ujedinjenih nacija nije se bitno popravilo. Srbima je i dalje onemogućeno slobodno kretanje, ugrožen im je goli život. Oteta imovina, u najboljem slučaju, mogla je da se preko stranih posrednika proda, za bagatelu. Nekadašnje društvene firme privatizovane su odlukom Kosovske poverilačke agencije, prema kriterijumima koje osporava Beograd; u bescenje su prodate fabrike u koje je Srbija decenijama ulagala, pomažući razvoj “nerazvijenog Kosova”. Tipičan primer je kragujevačka Zastava, koja je ostala bez Zastave Ramiz Sadiku u Peći, pošto ju je na aukciji kupio bivši liferant oružja Oslobodilačkoj vojsci Kosova (OVK). Pobednici se uvek naplaćuju!
“Maksimalno od mogućeg”
Prošlogodišnji nemiri Srba na severu Kosova zbog odluke Prištine da na graničnim prelazima (srpska strana uvek govori “administrativnim”) Jarinje (prema Leposaviću) i Brnjak (prema Novom Pazaru) postavi kosovsku carinu i policiju, uslovili su teške pregovore između Beograda i Prištine. Svaka strana dala je svoju verziju dogovora, a svoje je viđenje imao i Robert Kuper, evropski izaslanik u pregovorima timova koje su predvodili Borislav Stefanović i Edita Tahiri.
Prema onome što je saopštavala srpska strana, postignuto je “maksimalno od mogućeg”. Priština je pristala da na dva od 31 prelaza, koliko ima Kosovo, neće stajati kosovski carinici nego međunarodni predstavnici, uz prisustvo policije EULEKS-a, koji je preuzeo ovlašćenja UNMIK-a (civilne administracije Ujedinjenih nacija, ustanovljene 1999). Doduše, na ta dva prelaza nije moguć protok komercijalne robe, nego se kamioni iz Srbije koji ulaze na Kosovo usmeravaju na prelaz Merdare kod Podujeva ili na neki od preostalih 29 graničnih prelaza. Srbi sa severa Kosova na ovu su, kako su ocenili, izolaciju prištinskih vlasti i KFOR-a odgovorili probijanjem šumskih puteva prema centralnoj Srbiji. Dok ovaj tekst ide u štampu, u toku su nemiri na granici između Zubinog Potoka i Novog Pazara, jer je KFOR razrušio i postavio betonske zapreke preko puta kod sela Banje, kojim su lokalni Srbi (ali i brojni šverceri) zaobilazili granični prelaz u Brnjaku. Nekoliko dana pre nego što će italijanski pripadnici KFOR-a blokirati taj divlji prelaz, za sada još nepoznati počinici (svi ukazuju na lokalne Srbe) bacili su dve ručne granate na pripadnike KFOR na prelazu Brnjak, kada je lakše povređen jedan vojnik iz KFOR-ova kontingenta.
Od prvog juna, na osnovu dogovora Beograda i Prištine, kosovska policija počela je da oduzima automobilske tablice sa oznakama kosovskih gradova, koje izdaje MUP Srbije u nekoliko policijskih stanica u centralnoj Srbiji; ukazivanje da mogu da imaju samo tablice RKS-a (Republike Kosovo) ili stare tablice KS-a, koje su važile dok su na Kosovu bile privremene institucije i nadležnost UNMIK-a nad policijom, izazvalo je novo uznemirenje među Srbima.
- Mi smo se više od deset godina borili protiv registracija KS, koje su značile priznavanje suvereniteta Kosova, a sada nam Beograd nameće baš takve tablice – poručivalo se sa više protestnih skupova.
- Sporazum koji smo postigli je manjkav, ali je jedino moguć – odgovara Stefanović na optužbe da je beogradski tim izdao interese Srba na Kosovu i da u sporazumu postoje tajni sporazumi, čiji se delovi otkrivaju ovih dana.
- Sve što smo dogovorili dostavili smo Narodnoj skupštini. Problem sprovođenja sporazuma o slobodi kretanja na severu Kosova je u realnom stanju na terenu, gde živi srpska većina – kaže.
Ivica Dačić, lider Socijalističke partije Srbije (SPS) i ključni čovek u formiranju nove vlade, ovih dana bez uvijanja govori da pregovarači treba da kažu šta su još obaveze Beograda prema Brislu; naglašava da se od Beograda traži da u Prištini otvori kancelariju za saradnju sa kosovskom Vladom, kao i da to učini Priština u Beogradu.
- Otvaranje kancelarije nije uopšte bilo na dnevnom redu pregovora – kategoričan je Stefanović.
Lokalni izbori
Dok traje nadmudrivanje ključnih političkih aktera, zanetih kalkulacijama oko sakupljanja parlamentarne većine, iz Brisla stiže vest da je novoizabrani predsednik Srbije Tomislav Nikolić evropskim zvaničnicima izjavio da je spreman na razgovor sa svima iz Prištine osim sa Hašimom Tačijem, predsednikom Vlade koga srpsko tužilaštvo tereti za ratne zločine. Jelko Kacin, evropski izvestilac za Srbiju, u toj izjavi optimistički vidi spremnost srpskog predsednika da razgovara sa Atifetom Jahjaga, predsednicom Kosova.
Najveći nemir među Srbima na severu Kosova izazvala je nedvosmislena poruka Vlade Srbije, pred majske izbore, da ne podržava održavanje lokalnih izbora. Kosovska Vlada saglasila se, doduše posle pritiska međunarodnih faktora, da se republički izbori za predsednika Srbije i Narodnu skupštinu održe i na Kosovu, u organizaciji OEBS-a i uz nadgledanje EULEKS-a, ali uz uslov da se glasovi prebrojavaju van teritorije Kosova. Rukovodstva opština Zvečan i Zubin Potok, međutim, organizovala su lokalne izbore i tokom juna konstituisali opštinske organe, pravdajući to željom i pravom srpske većine, koja se prošle godine izjasnila protiv kosovskih institucija.
Doduše, srpski lokalni lideri, suočeni sa sve jačim pritiskom Prištine, sukobima sa međunarodnim predstavnicima i sve slabijom podrškom Beograda, naročito posle prošlogodišnjeg zahteva Angele Merkel Borisu Tadiću, tadašnjem srpskom predsedniku, da Beograd mora neodložno da prekine finansiranje “paralelnih srpskih institucija na Kosovu”, daju pomirljive izjave.
- Nastavićemo da sarađujemo sa UNMIK-om, OEBS-om, KFOR-om i EULEKS-om, ukoliko budu poštovali Rezoluciju 1244 Saveta bezbednosti UN-a i ukoliko budu statusno neutralni – kaže Dragiša Milović, predsednik Opštine Zvečan. – Održavanjem lokalnih izbora samo su ispoštovani Ustav, Zakon o lokalnoj samoupravi i volja građana.
Sa druge strane, lider Samoopredeljenja Albin Kurti okrivljuje “nesposobnu Vladu Kosova” da je “prodala interese albanskog naroda”. Kurti smatra da kabinet Hašima Tačija, kao i oni pre njega, vode politiku koji se ukapa u “kolonijalistički koncept” međunarodnih faktora, koji Kosovo žele da drže u stanju ni rata ni mira, kao siromašnu regiju, čijoj (albanskoj) većini ne dozvoljavaju da ima suverenitet na celoj teritoriji.
Suočen sa kritikama opozicije, ali i sa neusaglašenim izjavama svog ministra unutrašnjih poslova Bajrama Redžepija (“Na svakom graničnom prelazu biće kosovska policija”), premijer Kosova Tači poručuje da se Kosovo ne odriče suvereniteta, optužuje Beograd za destabilizaciju kroz finansiranje “paralelnih institucija”, u kojima vidi glavnog uzročnika krize.
- U dogovoru sa međunarodnom zajednicom, nećemo vući ishitrene poteze, a probleme ćemo rešavati strpljivo, uz puno uverenje da se ne odričemo celovitosti Kosova – kaže Tači.
Situacija je napeta
Srbi sa severa Kosova ovih su dana uputili pismo komandantu KFOR-a, generalu Erhardu Drevsu i šefu Misije EULEKS-a Gzavijeu de Marnjaku, u kome ih optužuju da su prekršili međunarodne standarde i ljudska prava. Podsećaju na obavezu poštovanja statusne neutralnosti. Kršenjem ljudskih prava smatraju nepoštovanje činjenice da Srbi sa severa Kosova ne priznaju kosovske institucije; smatraju da priznavanje kosovskih institucija vodi u asimilaciju i prinudnu integraciju ovog dela Kosova sa srpskom većinom. Srbi od EULEKS-a i KFOR-a traže da obezbede mir i sigurnost za sve građane Kosova i Metohije, “bez obzira na versku i nacionalnu pripadnost”, da se uzdrže od “jednostranih poteza, stvaranja dodatnih pritisaka i tenzija” te da probleme rešavaju mirnim putem i političkim sredstvima.
Radenko Nedeljković, načelnik Kosovskomitrovačkog okruga, ističe da u KFOR-u i EULEKS-u srpski narod na Kosovu vidi svoje partnere.
- Ali, ne možemo da prihvatimo da srpsku zajednicu stavljaju u geto, da nam KFOR zatvara puteve – dodaje Nedeljković.
Da će kosovsko leto biti vrelo, a jesen puna neizvesnosti, svedoči i Oliver Ivanović, državni sekretar u Ministarstvu za Kosovo i Metohiju, koji predviđa još “sporadičnih incidenata”.
- Dijalogom držimo pod kontrolom situaciju koja je napeta i može svakog momenta da eskalira i da se pretvori u nekakav incident, što nikome nije u interesu – kaže Ivanović.
Dok se javnosti serviraju manje ili više pesimistička predviđanja budućnosti severnog Kosova, prištinski zvaničnici ističu da je oko 37.000 Srba uzelo nove, kosovske lične karte i da je za 55 radnih mesta u novoj kancelariji u Kosovskoj Mitrovici, koja će obavljati poslove opštine, konkurisalo preko hiljadu mladih, među kojima je više od 70 posto iz srpske zajednice.
Srba kao na prvom turskom popisu 1455.
Crnohumorno zvuči da je današnji broj Srba na Kosovu gotovo ravan onome iz prvog turskog popisa 1455: precizni osmalijski popisivači zabeležili su na teritoriji današnjeg Kosova i Metohije 480 naseljenih mesta sa 13.057 srpskih domova, 75 vlaških, 17 bugarskih, jednim grčkim i 46 arbanaških (oko procenat stanovništva). Godine 1871. bilo je 64 procenta Srba i 32 odsto Albanaca, 1899. Albanaca je 48, a Srba 44 procenta. Prema popisu iz 1921. na Kosovu je živelo 439.000 stanovnika, od kojih je bilo 280.000 Albanaca (64 procenta), a prema onome iz 1931. bilo je 562.000 stanovnika (62 procenta su Albanci). Posle Drugog svetskog rata, Srba je svake decenije manje za sedam do osam procenata. Poslednji popis koji Albanci nisu bojkotovali, iz 1981, pokazao je da na Kosovu živi 1.956.196 stanovnika, od toga 1.596.072 Albanaca (81,6 procenata) i 214.555 Srba (11 procenata).
Popis iz aprila 2011. iznenadio je mnoge “procenitelje” demografskog buma, posebno one koji su govorili da u Prištini živi “čak 600.000 stanovnika”; registrovano je 1.733.872 stanovnika ili oko 700.000 manje od procena. Srbi su popis bojkotovali, pa Priština, koja je 1981. imala oko 250.000 stanovnika, ima 198.000 stanovnika. Doduše, u međuvremenu su se od nje odvojili Kosovo Polje i Gračanica, ali se 1999. iselilo i više od 40.000 Srba. Danas u Prištini živi samo 40 Srba!
Na Kosovu sada živi oko 130.000 Srba: u četiri opštine na severu (deo Kosovske Mitrovice, Zvečan, Zubin Potok i Leposavić) 60.000 (uključujući i one izbegle iz gradova i sela južno od Ibra i iz predela Metohije). U Kosovskom pomoravlju (Novo Brdo, Gnjilane, Kosovska Kamenica i Kosovska Vitina) u 73 naselja živi 35.000 Srba. U predelu oko Prištine živi oko 20.000 Srba, u Štrpcu 11.000, a u nekoliko enklava u Metohiji 4.000. U opštinama Kačanik, Mališevo, Dečane, Glogovac, Suva Reka i Štimlje ne živi nijedan Srbin ili Srpkinja! U Đakovici žive četiri srpske starice, Prizrenu 28, Peći 25, Klini 50, Uroševcu četiri, a u južnom delu Kosovske Mitrovice samo jedan (!) stanovnik srpske nacionalnosti.
Iako su i međunarodna zajednica i prištinske institucije obećavali da će pospešiti povratak izbeglih Srba, efekti su zanemarljivi. Broj iseljenih sa Kosova premašuje 220.000 Srba. Pred ovim podacima šuplje zvuči svaka priča o naporima koji se čine da Kosovo bude “multietnička sredina ravnopravnih građana koji, poštujući visoke standarde tolerancije, streme ka zajedničkom domu, Evropskoj uniji”.
pubblicato da: Novosti – Samostalni srpski tjednik
http://www.novossti.com/2012/07/manipulacija-balvanizacija-integracija/
Numero 655
Data di pubblicazione 08/07/2012. Giornalista: Ranko Milosavljevic
Il dramma dei serbi rimasti nel Kosovo sta volgendo al termine. Per decenni la classe politica a Belgrado ha strumentalizzato gli scontri etnici di questa regione per i propri scopi e per il Kosovo si sono impegnati un po' tutti. A parole si intende, visto che nella realtà la situazione è andata via via peggiorando. Alla fine, con l'accordo di Kumanovo, l'ex presidente Slobodan Milosevic si è congratulato con i serbi per la loro vittoria sulla Nato e il Kosovo è rimasto sotto protettorato delle Nazioni Unite finché due anni fa la maggioranza albanese ne ha proclamata l'indipendenza del Kosovo. Un fatto considerato dalla Serbia una violazione della risoluzione 1244. Il fatto che l'espressione ”Terra santa serba” fosse stata inserita nel preambolo della Costituzione della Serbia, non ha avuto alcun significato per la maggioranza albanese, né ha potuto impedire agli Usa e a gran parte dei paesi dell'Unione Europea di riconoscere l'indipendenza del Kosovo.
Perfino secondo i rapporti delle organizzazioni internazionali, la situazione in Kosovo durante il mandato dell'Onu non è sostanzialmente migliorata. Ai serbi è ancora impedito di circolare liberamente e le loro vite sono costantemente minacciate. Nella migliore delle ipotesi i loro beni personali vengono venduti attraverso intermediari stranieri a prezzi stracciati. Inoltre le ex imprese sociali sono state privatizzate per decisione dell'Agenzia kosovara dei creditori (“Kosovo Trust Agency“ Kta) secondo criteri che Belgrado contesta; le fabbriche in cui la Serbia ha investito per decenni per aiutare lo sviluppo del “Kosovo sottosviluppato”, sono state vendute a prezzi irrisori. L’esempio tipico è la Zastava di Kragujevac, privata della sua società “Zastava Ramiz Sadiku” a Pec, comprata all'asta dall'ex fornitore di armi dell'Esercito di liberazione del Kosovo (KLA). I vincitori si fanno pagare per le loro vittorie!
“Il massimo possibile”
Le agitazioni dei serbi lo scorso anno nel Kosovo settentrionale provocate dalla decisione delle autorità locali di stabilire dogane kosovare ai valichi di frontiera (la parte serba la definisce sempre “amministrativa”) di Jarinje e Brnjak, avevano condizionato i difficili negoziati tra Belgrado e Pristina. Ognuna delle due parti ha dato la sua versione del trattato siglato, mentre ancora diversa era la visione di Robert Cooper, rappresentante UE al tavolo delle trattative dei team guidati da Borislav Stefanovic e Edita Tahiri.
Secondo quanto riportato sul fronte serbo, è stato raggiunto ”il massimo possibile”. Pristina ha accettato che in due dei 31 valichi in Kosovo, non saranno messi funzionari kosovari, ma rappresentanti internazionali, in presenza della polizia Eulex che ha preso il posto dell'Unmik (amministrazione civile dell'Onu dal 1999). A dire il vero, su questi due valichi non è possibile il flusso di merci, quindi i camion che arrivano in Kosovo dalla Serbia, deviano al valico di Merdare vicino Podujevo, o verso uno degli altri 29 valichi. I Serbi del Kosovo settentrionale a questo arroccamento da parte delle autorità di Pristina e della Kfor, hanno risposto aprendosi le strade boschive verso la Serbia centrale. Mentre questo articolo va in stampa, sono in corso scontri al confine tra Zubin Potok e Novi Pazar, dopo che la Kfor ha distrutto e posizionato barriere di cemento lungo la strada nei pressi del villaggio di Banja, che i serbi locali e molti contrabbandieri utilizzano per oltrepassare il confine a Brnjak. Qualche giorno fa prima che il contingente italiano della Kfor interrompesse questo passaggio incontrollato, certe persone ancora non identificate, hanno lanciato due bombe a mano contro la Kfor a Brnjak ferendo un soldato.
Dal 1 giugno, in base a un accordo tra Belgrado e Pristina, in Kosovo la polizia ha iniziato a confiscare le targhe automobilistiche riportanti i nomi delle località in Kosovo, rilasciate dal Ministero dell'interno serbo in diversi commissariati di polizia nella Serbia centrale. Infatti, secondo la nuova normativa, sono ammesse solo targhe della Repubblica del Kosovo KSA, oppure le vecchie targhe kosovare KS in vigore fino a che sono rimaste in piedi le istituzioni provvisorie e l'autorità della Unmik sulla polizia. Un fatto che ha scatenato nuove preoccupazioni tra i serbi.
- Per più di dieci anni ci siamo battuti contro le immatricolazioni KS che significavano il riconoscimento ufficiale delle autorità kosovare, ovvero contro il riconoscimento della sovranità del Kosovo. Ora Belgrado ci impone proprio queste targhe - questo il messaggio delle varie proteste.
- L'accordo che abbiamo raggiunto è imperfetto, ma è l'unico possibile, ha risposto Stefanovic di fronte all'accusa di tradimento degli interessi dei serbi del Kosovo da parte del team belgradese, e dell'esistenza di clausole segrete, alcune delle quali stanno venendo alla luce in questi giorni.
- Tutto ciò che abbiamo sottoscritto lo abbiamo trasmesso al parlamento serbo. Il problema dell'attuazione degli accordi sulla libera circolazione nel Kosovo settentrionale, dipende dalla situazione effettiva in loco dove la maggioranza degli abitanti è serba, ha aggiunto.
Ivica Dacic, capo del Partito socialista serbo (Sps) e personaggio chiave della nuova compagine governativa, ha detto recentemente senza mezzi termini che chi ha partecipato ai negoziati, deve esporre apertamente quali siano gli obblighi di Belgrado nei confronti di Bruxelles, sottolineando che a Belgrado si chiede di aprire una sua rappresentanza a Pristina e di collaborare con il governo del Kosovo, e che a Pristina si chiede di fare lo stesso.
- Tuttavia, secondo Stefanovic, l’apertura dell’ufficio non è mai stata all'ordine del giorno.
Elezioni locali
Mentre è in corso la farsa di astuzia dei principali attori politici, impegnati nei loro calcoli sulla creazione di una maggioranza parlamentare per il nuovo governo serbo, da Bruxelles arriva la notizia che il neo-eletto presidente serbo Tomislav Nikolic si è dichiarato pronto al dialogo con tutte le forze politiche di Pristina, tranne che con Hashim Taci, presidente del governo locale accusato di crimini di guerra dalla magistratura serba. Jelko Kacin, relatore europeo per la Serbia, nella dichiarazione di Nikolic, ottimisticamente scorge la volontà del presidente di parlare con Atifet Jahjaga, presidente del Kosovo.
La principale preoccupazione tra i serbi del Kosovo settentrionale è stata provocata dal chiaro messaggio del Governo della Serbia, di non dare il sostegno per l’organizzazione delle elezioni locali in Kosovo. Il governo kosovaro ha accettato, anche se a seguito di pressioni internazionali, che anche in Kosovo si potessero svolgere le elezioni presidenziali e parlamentari per il governo serbo. Organizzate dall'Osce e monitorate da Eulex, e a condizione che lo spoglio delle schede avvenisse in Kosovo. Le giunte comunali di Zvecan e Zubin Potok, intanto hanno organizzato le elezioni locali e a giugno hanno messo in piedi le autorità comunali, giustificando la mossa con il desiderio e il diritto della maggioranza serba locale, che lo scorso anno aveva votato contro le istituzioni kosovare.
Nondimeno i politici serbi locali hanno rilasciato dichiarazioni concilianti, messi alle strette dalle pressioni di Pristina, dai conflitti con la comunità internazionale e dal calo di sostegno per Belgrado, soprattutto dopo la richiesta dell'anno scorso di Angela Merkel all'ex presidente Boris Tadic di interrompere il finanziamento di ”istituzioni serbe parallele in Kosovo”.
- Continueremo a collaborare con Unmik, Osce, Kfor ed Eulex se rispetteranno la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e se saranno neutrali, ha detto Dragisa Milovic, sindaco di Zvecan. - Le elezioni locali rappresentano esclusivamente il rispetto per la Costituzione,la legge sull'autonomia locale e la volontà dei cittadini.
D'altra parte il capo del partito Autodeterminazione Albin Kurti, accusa il “governo incompetente del Kosovo” di aver “venduto gli interessi del popolo albanese”. Secondo lui, gli uomini di Hashim Taci, come chi li ha preceduti, adottano una linea politica pervasa dal “concetto colonialista” dei fattori internazionali, che vogliono tenere il Kosovo in uno stato di né pace né guerra, come una regione povera in cui alla maggioranza (albanese) non permettono di avere sovranità sul suo intero territorio.
Di fronte alle critiche dell'opposizione e dopo le dichiarazioni ambigue del suo ministro degli interni Bajram Rexhepi (“a ogni valico di frontiera ci sarà la polizia kosovara“), il primo ministro Taci ha detto che il Kosovo non rinuncerà alla sovranità, accusando Belgrado di destabilizzare il nuovo stato attraverso il finanziamento di ”istituzioni parallele”, per lui la principale causa della crisi.
- Nelle consultazioni con la comunità internazionale, non condurremo mosse avventate e risolveremo i problemi con la pazienza, nella piena determinazione a non cedere sull'integrità del Kosovo, ha detto.
Situazione tesa
In questi giorni i serbi del Kosovo settentrionale hanno inviato una lettera al comandante della Kfor, il generale Erhard Drevsu e al capo della missione Eulex Xavier de Marnhac, accusandoli di aver violato le leggi internazionali e i diritti umani e ricordando l'obbligo di rispettare lo status di forze neutrali. Tra le violazioni dei diritti umani annoverano la mancanza di considerazione per la posizione dei serbi del Kosovo settentrionale, che non riconoscono le istituzioni kosovare dal momento che riconoscerle, porterebbe all'assimilazione forzata di questa parte del Kosovo a maggioranza serba. I serbi chiedono a Eulex e Kfor di garantire la pace e la sicurezza di tutti gli abitanti del Kosovo e Metohija “a prescindere dall'appartenenza etnica o religiosa”, di astenersi da “azioni unilaterali che aggravano l’attuale pressione e tensione” e di risolvere i problemi con mezzi pacifici e politici.
Radenko Nedeljkovic, capo della municipalità di Kosovska Mitrovica, ha dichiarato che il popolo serbo considera Kfor ed Eulex suoi alleati.
- Ma non possiamo accettare che la comunità serba sia ghettizzata, che la Kfor ci blocchi le strade - ha aggiunto.
L'estate in Kosovo sarà calda e l'autunno pieno di incertezze, osserva Oliver Ivanovic, Segretario di Stato nel Ministero per il Kosovo e Metohija, e prevede ancora incidenti sporadici.
- Teniamo la situazione sotto controllo con il dialogo, una situazione che di per sé è tesa e può degenerare in ogni momento trasformandosi in un incidente, il che non è nell'interesse di nessuno - ha precisato.
Mentre all'opinione pubblica si formulano previsioni più o meno pessimistiche sul futuro del Kosovo settentrionale, i funzionari di Pristina fanno notare che circa 37.000 serbi hanno ottenuto nuove carte di identità kosovare, e che per l'assegnazione di 55 posti nel nuovo ufficio di Kosovska Mitrovica che avrà la funzione di giunta comunale, hanno partecipato più di mille giovani di cui più del 70% appartiene alla comunità serba.
Il numero dei serbi come nel primo censimento turco del 1455
Suona come umorismo nero che oggi il numero dei serbi in Kosovo, sia quasi uguale a quella del primo censimento turco 1455: i precisi registratori ottomani nel territorio del Kosovo e Metohija, avevano registrato 480 insediamenti con 13.057 case serbe, 75 dei vlasi, 17 dei bulgari, una grecs e 46 abitazioni degli albanesi (circa 1 percento della popolazione). Nel 1871 c’era 64 percento dei serbi e il 32 percento degli albanesi. N nel 1899, 48% degli albanesi e 44% dei serbi. Secondo il censimento del 1921, in Kosovo vivevano 439.000 abitanti, di cui 280.000 erano albanesi (64 percento) e secondo quello del 1931. ci sono stati 562.000 abitanti (62 percento degli albanesi). Dopo la seconda guerra mondiale, ogni dieci anni o meno, si registrava 7-8 percento in meno dei serbi. L'ultimo censimento che gli albanesi non avevano boicottato, quello del 1981, ha dimostrato che in Kosovo vivevano 1.956.196 abitanti, di cui 1.596.072 albanesi (81,6 percento) e 214.555 serbi (11 percento).
Il censimento dell’aprile 2011. ha sorpreso molti “stimatori” del boom demografico, in particolare quelli che dicevano che a Pristina, "vivono perfino 600.000 persone"; il censimento ha registrate 1.733.872 abitanti, ovvero circa 700.000 meno di stima. I serbi hanno boicottato il censimento. Pristina che nel 1981 contava circa 250.000 abitanti, ne aveva 198.000. Tuttavia, nel frattempo, dal comune di Pristina si erano separati i municipi di Gracanica e Kosovo Polje, ma nel 1999 da Pristina se ne sono andati più di 40.000 serbi. Oggi a Pristina vivono soltanto 40 serbi!
In Kosovo oggi vivono circa 130.000 serbi: in quattro comuni del nord (parte di Kosovska Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok e Leposavic) 60.000 (compresi quelli che sono fuggiti dalla città e villaggi a sud del fiume Ibar e dalle parti di Metohija). Nel Kosovsko Pomoravlje (Novo Brdo, Gnjilane, Kosovska Vitina e Kamenica) in 73 villaggi vivono 35.000 serbi. Nella zona di Pristina vivono circa 20.000 serbi: in Strpce 11.000, e in alcuni enclave in Metohija, loro 4000. Nei comuni di Kacanik, Malisevo, Decani, Glogovac, Suva Reka e Stimlje non c’è nessun serbo o serba! In Djakovica vivono quattro anziane donne serbe, a Prizren 28, a Pec 25, a Klina 50, a Urosevac quattro, mentre nella parte meridionale di Kosovska Mitrovica, un solo (!) abitante di nazionalità serba.
Sebbene la comunità internazionale e le istituzioni di Pristina promettessero di favorire il ritorno dei profughi serbi, gli effetti ne sono trascurabili. Il numero di rifugiati provenienti dal Kosovo supera i 220.000 serbi. Prima di questi dati, suona vuota ogni storia circa gli sforzi in corso per rendere il Kosovo un "ambiente multietnico di cittadini eguali, che osservando elevati standard di tolleranza, si adoperano per la casa comune, l'Unione europea".
Escalation militare italiana in Afghanistan: ma chi ne parla?
La conferma ufficiale dell'escalation militare italiana in Afghanistan viene dalle dichiarazioni del generale Luigi Chiapperini, comandante del nostro contingente.
“Chi ha autorizzato l’entrata nella guerra aerea dell’Italia in Afghanistan? È stato il governo «tecnico», sostenuto da Pdl, Udc e Pd. E in particolare il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, il ministro che più tecnico non si può: è ammiraglio ed è stato comandante delle forze Nato. Lo stesso che in questi giorni muove lobby militar-industriali e schieramenti politici connessi per ottenere l’approvazione di ben 90 cacciabombardieri F-35, che ci costeranno 10 miliardi, nella finanziaria rivisitata dalla spending review, che taglia spese sociali, welfare e pensioni. Altro che conflitto d’interessi. È stato lui il 28 gennaio scorso, nel silenzio generale, a informare la Commissione difesa del parlamento della decisione di usare sul campo afghano «ogni possibilità degli assetti presenti in teatro, senza limitazione» armando gli Amx che fino a quel momento volavano senza bombe”.
Così dal 27 giugno i tremila soldati italiani impegnati a terra sono supportati dal cielo anche dagli Amx con armamento micidiale e sistemi sofisticati di precisione.
Ancora una volta è chiaro che l’Italia è in guerra, ma chi ne parla? Il Parlamento tace, non una sola voce critica si è levata. E all'Ammiraglio Di Paola è riuscito oggi, nel silenzio-assenso pressochè generale, quello che ieri non era riuscito al ministro Ignazio La Russa: che nel novembre del 2010 aveva proposto di armare gli aerei italiani in Afganistan, suscitando – all'epoca – una levata di scudi generale. Adesso nulla.
“I pantani di guerra in corso e quelli nuovi che si annunciano – scrive ancora De Francesco - aiutano le leadership occidentali a sostenere il «percorso di guerra» – parola di Monti – dentro la crisi del capitalismo globale, del loro modello di sviluppo. Perché sostengono la spesa militare e le caste collegate, stabiliscono gerarchie e irrobustiscono alleanze militari come la Nato, rendendole l’unico vero strumento attivo, criminale e «democratico», di intervento nella realtà”.
Ora dal conflitto afghano tutti dichiarano di voler uscire (mentre si prepara la guerra alla Siria..), ma intanto l’obiettivo immediato delle forze NATO, Italia compresa, resta quello di vincere militarmente sul campo. Qualcuno dica che è ora di farla finita, qualcuno prenda la parola per le migliaia di civili straziati dalle bombe dei raid aerei ora anche «nostri».
Il PdCI denuncia l'escalation del coinvolgimento militare italiano nella guerra afghana, chiede il ritiro delle nostre truppe, invita tutte le forze di pace e fedeli al dettato costituzionale, dentro e fuori il Parlamento, a fare la loro parte e a non rendersi complici di questa ennesima barbarie ad utilizzare le risorse risparmiate per fronteggiare i problemi sociali più acuti, provocati dalla crisi capitalistica e da una politica governativa e dell'Unione europea che scarica il peso della crisi sulle spalle dei ceti popolari.