Informazione



A Novant'anni Dalla Fine Della Prima Guerra Mondiale.

NEL NOVANTESIMO DELLA ‘REDENZIONE’.

In attesa di sorbirci le nauseanti manifestazioni di nazionalismo imperialista e guerrafondaio che spesso si verificano in taluni anniversari (cade quest’anno il “novantesimo” della “redenzione”, cioè della fine della Prima guerra mondiale), ed in relazione alla conferenza recentemente indetta dalla Federazione di Forza Nuova di Lucca “alla luce delle dichiarazioni di Fini e dei nuovi scenari politici che si sono aperti nella destra radicale” sul tema: “Fascismo: l’incarnazione del bene assoluto, la soluzione che salvò l’Italia”, abbiamo pensato di proporvi una chiave di lettura diversa dei prodromi e degli effetti della cosiddetta “Grande guerra”, con citazioni e stralci da un testo di Peter Tompkins (“Dalle carte segrete del duce”, Marco Tropea Editore 2001).
Quanto segue è tratto dal Capitolo 2, da pag. 23 a pag. 31. 

< Dapprima anche Mussolini si era opposto decisamente all’entrata in guerra dell’Italia. Nel luglio del 1914, come direttore del quotidiano socialista Avanti!, scrisse in modo inequivocabilmente preciso “Se non vuole cadere in rovina, l’Italia può adottare solamente un atteggiamento di assoluta neutralità”.
Cinque giorni prima dell’apertura delle ostilità firmò un manifesto contro la guerra nel quale i socialisti minacciavano di boicottare il conflitto se l’Italia vi fosse rimasta coinvolta. Quando le ostilità iniziarono, dichiarò che la guerra serviva solamente ad aumentare il potere dell’esercito, dello stato e delle dinastie regnanti: istituzioni alle quali si opponeva.
Poche settimane più tardi “Se l’Italia dovesse rompere la neutralità appoggiando gli imperi centrali, tutti i proletari italiani avrebbero il dovere di sollevarsi in rivolta” >
A quel punto, narra Tompkins, Mussolini ed il socialista Pietro Nenni entrarono in azione svellendo tratti di rotaia per impedire il transito delle tradotte. Condotto in tribunale e condannato con l’accusa di istigazione a delinquere, Mussolini dichiarò durante il processo: “se mi assolverete mi farete un piacere. Se mi condannerete mi farete un onore”.
< A quel punto accadde qualcosa che fece cambiare idea a Mussolini (… ) un massone di nome Filippo Naldi direttore del quotidiano Il Resto del Carlino sostanzialmente finanziato dai ricchi proprietari terrieri della Romagna >, il quale, secondo un giornalista dell’Avanti, Eugenio Guarino < “chiese di parlare in privato con Mussolini. Poco dopo Mussolini abbandonò il suo classico abbigliamento da persona di sinistra con cappello floscio nero, cravatta lisa e abito sporco e cominciò a presentarsi con abiti di lusso all’ultima moda”.
Peggio ancora, lo stile polemico degli editoriali di Mussolini cambiò altrettanto radicalmente. In un sorprendente articolo di fondo che pubblicò senza consultare il comitato centrale del Partito socialista, Mussolini si rivelò favorevole all’intervento dell’Italia in guerra a fianco degli alleati dell’Intesa.
I socialisti si infuriarono e chiesero l’espulsione di Mussolini (…) davanti a un congresso dei suoi compagni Mussolini fu accolto da fischi e urla di “traditore! Lacchè! Chi ti paga ora?” >
Mussolini lasciò il partito e si stabilì in una piccola soffitta a Milano, dove iniziò a dirigere con grosso successo un proprio quotidiano, Il Popolo d’Italia.
< Riceveva i finanziamenti grazie agli sforzi del massone Pippo Naldi (…) Per alcuni mesi Naldi aveva ricevuto denaro dal governo francese per fare propaganda sul suo giornale in favore dell’ingresso in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa. A quel punto fece in modo che Mussolini bussasse alla stessa porta, anticipandogli una somma di denaro sufficiente a renderlo presentabile ai nuovi padroni. Chi fossero questi padroni lo rivelò alla fine R. F. Esposito, un massone del gruppo di palazzo Giustiniani, che dimostrò come Naldi non fosse spinto solo dalla massoneria francese, ma anche da un massone italiano in incognito, l’allora ministro degli Esteri marchese Antonio di San Giuliano. Esposito spiegò di essere stato presente a una riunione nel corso della quale Mussolini ebbe del denaro da un rappresentante dell’ambasciata francese a Roma, un certo dottor Boudin, alla presenza dei rappresentanti della massoneria italiana, gli ispettori generali Renzo Carbagni e Francesco Timpanato e il vice gran maestro Alberto Lapegna. 
Nel novembre del 1914 Mussolini si recò segretamente in Svizzera riportandone altre centomila lire per il suo giornale più la promessa di diecimila lire mensili per tenerlo in vita. La grossa somma gli fu consegnata dal signor C. Dumas, segretario del ministro francese per la Propaganda di guerra, Jules Guesde; le somme successive da un intermediario, Ugo Clerici.
(…) L’accordo del 1914 permise a Mussolini di vomitare un editoriale dopo l’altro, denunciando le atrocità commesse dagli imperi centrali e attaccando i socialisti per la loro insistenza sulla neutralità italiana.
Si scoprì allora che Naldi non rappresentava solo gli interessi francesi, ma anche gli industriali e i fabbricanti italiani di armi, munizioni ed equipaggiamenti militari. Questi ultimi erano pronti a guadagnare milioni dall’entrata in guerra dell’Italia contro la Germania e l’Austria-Ungheria. Il coinvolgimento della massoneria nel traffico d’armi sarebbe diventato un fatto normale, durato fino ai nostri giorni.
Nel gennaio 1915 Mussolini (…) diede voce con il suo giornale a un’organizzazione di nazionalisti italiani bellicosi noti come Fasci di azione rivoluzionaria, spingendo i suoi lettori a rivoltarsi contro il governo e persino a sparare letteralmente alla schiena ai parlamentari pacifisti per obbligare l’Italia a entrare in guerra contro la Germania (…) “Noi vogliamo la guerra. E se voi, Sire, che in base all’art. 5 della Costituzione potete chiamare i soldati al fronte, non lo farete, perderete la vostra corona” >.

Così nell’aprile 1915 Vittorio Emanuele convocò il primo ministro Antonio Salandra per dirgli che l’Italia voleva la guerra contro gli imperi centrali, ed alle proteste di Salandra 
< si produsse il primo dei colpi di stato illegali del re. Incapace di ottenere l’appoggio del Parlamento, i cui membri erano quasi unanimemente contrari all’entrata in guerra dell’Italia, il massone Vittorio Emanuele obbligò il massone Salandra a restare in carica e nel maggio del 1915, di fronte all’aperto rifiuto del Parlamento, trascinò illegalmente il paese in guerra contro l’impero austroungarico. 
Una volta compiuto il passo, gli italiani furono costretti, indipendentemente dalle classi di appartenenza e dalle convinzioni politiche, a compiere il proprio dovere in silenzio, in nome del patriottismo. L’alternativa era la prigione o il plotone di esecuzione >
Anche Mussolini fu richiamato alle armi, restò al fronte parecchi mesi ma non partecipò a combattimenti; fu congedato dopo essere stato investito dall’esplosione di una granata che gli provocò diverse ferite, soprattutto ai glutei.

Nel suo testo Tompkins inserisce a questo punto alcune prese di posizione del socialista Giacomo Matteotti (poi massacrato dagli scherani del Fascio nel 1924).
(Matteotti) < dichiarò che la guerra degradava gli uomini e la vita, distruggeva il sistema democratico e portava alla dittatura. Anche la prospettiva di una vittoria (…) non significava altro per i socialisti che la conquista di territori altrui da parte di un governo reazionario. (…) predisse che la guerra avrebbe corrotto i giovani con la violenza, la noia, l’imboscamento, le razzie, le requisizioni, la demagogia, il disprezzo per il lavoro e un atteggiamento di svilimento della vita >.
Matteotti aveva già espresso le proprie valutazioni contrarie alla guerra nel 1911, quando l’Italia aveva iniziato la propria avventura coloniale.
< L’inizio di una piccola guerra, opportunamente lontana dalla patria, avrebbe determinato buoni profitti garantendo un mercato per il continuo spreco di prodotti bellici. (…) un tale sistema portava invariabilmente a un’espansione dell’establishment militare, che a sua volta chiedeva maggiori stanziamenti (…) il risultato era un circolo vizioso nel quale i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri più poveri. I poveri non erano solo costretti a combattere in guerra, ma anche a finanziare la propria stessa carneficina. La Grande Guerra (…) sarebbe stata peggiore. Con la scusa dell’emergenza bellica non c’erano limiti all’orario di lavoro, le ferie erano abolite, donne e bambini erano obbligati a lavorare come schiavi per ore interminabili e con paghe inferiori a quelle degli uomini; gli scioperi erano proibiti. Il cambiamento o l’abbandono di un lavoro, anche nel caso dei bambini, era considerato diserzione (…) punibile con due anni di carcere. L’insubordinazione era punibile con 24 anni di confino. Nel frattempo i profitti dei grandi industriali e degli imprenditori medi salivano alle stelle. 
La Grande Guerra avrebbe portato all’industria italiana profitti del 200-400 %. La Fiat, che produceva automobili, carri armati, ambulanze e motori d’aereo avrebbe aumentato il capitale da 25 a 100 milioni di lire, la Edison, che produceva energia idroelettrica in sostituzione del carbone di difficile reperibilità avrebbe aumentato il capitale da 24 a 180 milioni; la Montecatini (prodotti chimici ed esplosivi) da 30 a 200 milioni, le officine Ansaldo, che costruirono diecimila cannoni in trenta fabbriche con settantamila operai accrebbero il capitale da 100 a 500 milioni di lire. Anche alle banche andò bene: tanto che lo stato fu costretto a pagare un inusitato interesse del 6% in luogo del solito 2-3%.
Per nulla turbati dalla contraddizione in termini di patriottismo, gli industriali continuavano ad esigere i massimi prezzi possibili per i loro prodotti mentre il governo, obbligato a condurre una guerra, non aveva alternativa e doveva accettarli, trasferendo i costi sulla popolazione. Per aumentare i profitti gli industriali giunsero perfino a vendere materiale bellico al nemico, tramite paesi neutrali (…).
Per pagare le spese di guerra il governo fece ricorso all’inflazione inondando il paese con il quadruplo della cartamoneta in circolazione prima (…) i prezzi balzarono a otto volte il loro livello prebellico. Tutto ciò, come sottolineava Matteotti, faceva ricadere sulle spalle dei poveri il 90% degli oneri di guerra >.

Nel frattempo la corruzione avanzava:
< (…) la dolce vita degli speculatori, le cui colossali fortune accumulate in fretta venivano in parte dissipate in un’allegra vita notturna. I soldati erano indignati per l’incredibile sistema di corruzione con il quale gli speculatori e gli “imboscati” ottenevano vantaggi e si proteggevano l’un l’altro . (…) 
Durante l’ultimo anno di guerra perfino i politici avvertirono la tensione tra la popolazione >, quindi iniziarono a fare promesse ai soldati che sarebbero stati smobilitati a breve: riforme agrarie e sociali, ricambio ai vertici politici ed amministrativi, promesse che ben sapevano di non poter mantenere.
Alla fine della guerra la crisi si presentò nella sua pienezza: mentre lo stato di emergenza del periodo bellico aveva permesso di tenere sotto controllo i lavoratori per impedire loro di intaccare i privilegi delle classi industriali, in tempo di pace ciò non era più possibile. Quando sopraggiunse la crisi economica, causata dal fatto che le società industriali arricchitesi con la produzione di materiale bellico si trovavano ora senza mercato, inoltre gli industriali che si erano arricchiti nel corso del conflitto, < invece di fare rientrare i profitti che (…) avevano sottratto e portato all’estero, chiedevano sovvenzioni statali, il che significava altre tasse per i poveri. Tutto ciò nel bel mezzo di una crisi di disoccupazione dovuta non solo ai licenziamenti ma anche alle centinaia di migliaia di reduci che inondavano il mercato del lavoro. 
Come aveva previsto Matteotti, la guerra non aveva fatto altro che impoverire la nazione: a parte i 500.000 morti, aveva ridotto il reddito medio e quello complessivo reale degli italiani. (…) i potenti tentarono di salvare la faccia scaricando le accuse sugli Alleati “che avevano derubato l’Italia dei frutti della vittoria” >.
Nel frattempo il Paese doveva anche fare i conti con tutti quei reduci che, dopo anni di guerra non si sentivano più in grado di tornare alla vita civile, vuoi perché convinti di avere conquistato uno status sociale superiore a quello che avevano prima e non volevano tornare indietro, vuoi perché la situazione economica era cambiata e spesso era materialmente impossibile per il reduce riavere il lavoro che faceva prima.
Fu in questa situazione di scontento, di tensione, di difficoltà materiale alla sopravvivenza, che molti decisero di scaricare il loro astio non contro chi li aveva messi in quella situazione (lo stato, gli industriali, gli interventisti che avevano voluto la guerra); ad esempio la teoria della “vittoria mutilata” servì a spingere molti reduci, avvelenati da anni di propaganda nazionalista e di culto della violenza e del sangue, a riunirsi in associazioni di rivendicazione nazionalista: tutti fattori che contribuirono all’avvento del fascismo. 
Sono anche questi fatti che andrebbero ricordati nel 90° anniversario dalla fine del primo conflitto mondiale, al di là della retorica militarista e nazionalista.

ottobre 2008




Rainews24 presenta Mercoledi 8  Ottobre  alle ore 11 alla Federazione Nazionale della Stampa  in Corso Vittorio Emanuele II   n.349,  l'inchiesta 
L'ACCUSA DEL VETERANO
LA TERZA BOMBA NUCLEARE
di Maurizio Torrealta

Nell'inchiesta   un veterano americano  che ha partecipato a "Dersert Storm" , accusa l'Amministrazione americana di aver utilizzato  una piccola bomba nucleare a penetrazione di 5 chilotoni  di potenza nella zona tra la città irachena di Basra ed il confine con l' Iran.  Per controllare queste dichiarazioni  Rainews24 ha cercato di  verificare  se durante   la prima guerra del Golfo era stato registrato un evento sismico pari a 5 chilotoni  . Consultando  l'archivio "on line" del "Seismological  Internationa Center"  ha trovato che proprio nella zona descritta dal veterano, era stato registrato  un evento sismico di  potenza corrispondente  a 5  chilotoni, l' ultimo giorno del conflitto. Anche se  non è una  prova  dirimente e definitiva -  potrebbe infatti  anche trattarsi di una coincidenza- la redazione ha deciso di trasmettere  questa intervista   perché la situazione  sanitaria a Basra  ha raggiunto  livelli  di pericolosità davvero critici :  i decessi annuali per  tumore, secondo  il responsabile del reparto oncologico dell' ospedale di Basra , Dott Jawad Al Ali , sono aumentati da 32 nel 1989 (prima della guerra del Golfo) a più di 600 nel 2002.
Il Dipartimento della Difesa statunitense chiamato ad esprimersi sulle accuse del veterano ha  dichiarato che durante "Desert Storm" sono state  utilizzate solo armi convenzionali.
L' Inchiesta verrà proiettata  in anteprima durante la conferenza stampa e l' autore risponderà alle domande dei colleghi e del pubblico Maurizio Torrealta. 





IL MANIFESTO
05 OTTOBRE 2008
OPINIONE

BUGIE COMUNISTE E GLI ZORRO DELLA STORIA

ANGELO D'ORSI

Su Antonio Gramsci di solito gli scoop (pretesi) li fa il Corriere della Sera; questa volta è stato bruciato dal grande concorrente milanese, il Sole 24 ore guidato peraltro dall'ex direttore di Via Solferino, Ferruccio De Bortoli. Autore della nuova importante acquisizione storiografica è un ex comunista, Piero Melograni. Dopo l'esperienza, evidentemente poco esaltante, politico-parlamentare sotto le insegne di Forza Italia, si è impegnato nella produzione di libri e articoli di chiacchiericcio pseudostorico, con un chiodo fisso, quello dell'ex: la denigrazione della sua parte. Ossia il comunismo, in genere, il Pci in specie. Il «fondatore del Partito», Antonio Gramsci, da sempre è un oscuro oggetto del desiderio: in tanti hanno provato a possederlo, adattandolo alle loro strategie, più o meno nobilmente politiche, più o meno bassamente clientelari; e si presta magnificamente, nella triangolazione con Stalin e Togliatti, a essere usato come arnese per togliere il coperchio al pozzo nero delle nefandezze comuniste. Di solito, però, gli scoop si fondano su documenti, magari male interpretati, magari decontestualizzati, magari manipolati (chi non ricorda il caso Andreucci e la lettera di Togliatti da Mosca?). 
Ma il Melograni sull'ultimo domenicale del Sole ritiene di poter prescindere dalle fonti. Che sarà mai un documento? Quello che conta è esprimere un giudizio, dire un'opinione, sentenziare. Ed ecco lo storico farsi «rovescista», e imbastire, non solo senza documenti (ce lo aspettiamo, questo), ma senza uno straccio di argomento, il suo filo riparatore della storia.
«Ritengo che la morte di Antonio Gramsci sia avvenuta nel 1937, perché ucciso dai sovietici o per suicidio». Questo lo scoop. Non ci sono documenti, pietosi «argomenti»; non un filo di ragionamento accettabile sul piano della logica. Ma c'è la notizia che, come insegnano i «grandi direttori» di quotidiani, può prescindere assolutamente dal fatto. E qui il fatto manca, mentre la notizia, sebbene passata sotto silenzio, invece c'è. Ed è doppia: il lettore scelga la soluzione del giallo che più gli aggrada. Preferisce la A), per palati forti: un picconatore nascosto in uno sgabuzzino della clinica Quisisana (dove Antonio Gramsci spirò nella notte del 27 aprile 1937) colpisce Nino alla testa, fingendo poi trattarsi di «commozione cerebrale» ovvero introduce, stile assassinio di Pisciotta o Gelli, arsenico nel caffè...; oppure, soluzione B) per signore e stomaci delicati: il povero Nino quando riceve il decreto di libertà, temendo, chissà, che i paparazzi non si sarebbero occupati di lui, e che il suo destino era... «l'Isola dei famosi», beve la cicuta, come Socrate, che così volle sottrarsi alle angherie della moglie Santippe (prossimo scoop di Melograni; lo avvertiamo che ci pensò già Panzini). 
Ma le motivazioni? Facili. Omicidio ordinato da Stalin: «Gramsci non voleva tornare in Russia perché lì sarebbe stato processato e condannato a morte ... Meglio la più tranquilla Sardegna di Mussolini: un affronto che il tiranno sovietico non poteva tollerare». Elementare, Watson. 
Più in difficoltà sulle motivazioni del suicidio, il nostro studioso; ma si sa che ognuno di noi ha una buona ragione per morire. E Gramsci ne aveva più d'una: il Partito, la moglie, il fascismo, Stalin...Il romanziere Melograni ci lascia il beneficio del dubbio: condensato in un articolo di giornale, è un esempio perfetto di «opera aperta». Il lettore è invitato a scegliere il finale e, scendendo nel dettaglio, precisare come fu ucciso Gramsci o si uccise, e nel secondo caso, inventarsi una ragione vagamente plausibile. Quella che più lo convince.
Che fonti orali e scritte, e gli studi, ci mostrino tutt'altro quadro, interessa poco l'ex storico che ora racconta storie. Del resto perché stupirsi? Melograni ha al suo attivo un libello intitolato «Le bugie della Storia», campionario di scoop di questo livello (vi si scopre ad esempio che la Luxemburg fu fatta assassinare da Lenin), con un filo sotteso: la maledetta «egemonia» dei comunisti, che hanno prima compiuto crimini e poi hanno assoldato storici bugiardi. Meno male che ci sono gli Zorro della Storiografia a ristabilire la verità.



Il giorno 01/ott/08, alle ore 15:34, Coord. Naz. per la Jugoslavia ha scritto:


GRAMSCI SUICIDA...


...OVVERO LA STORIA SECONDO PIERO MELOGRANI:
 
"Ritengo che la morte di Antonio Gramsci sia avvenuta nel 1937, perchè ucciso dai sovietici o per suicidio".
La più robusta tra le motivazioni: "Gramsci non voleva tornare in Russia perchè lì sarebbe stato processato e condannato a morte [...] Meglio la più tranquilla Sardegna di Mussolini: un affronto che il tiranno sovietico non poteva tollerare". Dunque, è ovvio, lo ha fatto ammazzare...
Oscure invece le motivazioni del suicidio, tanto più che "Gramsci era relativamente libero dal 1934"...
(P. Melograni, domenicale del Sole 24 Ore, 28.9.2008)

(segnalato da Alexander Hobel)





IL MANIFESTO
07 OTTOBRE 2008

CA U CA S O I N F IAMME La sera del 7 agosto forze georgiane attaccano la regione autonomista dell'Ossezia del Sud. Mosca reagisce e in breve tempo tutto il Caucaso brucia. Ma l'Occidente trepidava per la Georgia, e rapidamente si è scordato dei superstiti all'attacco militare che ha scatenato la crisi 
SUD OSSEZIA Tra gli scampati dell'attacco georgiano

«Spasiba Rossia!» Parola di superstite

Questo testo è un estratto del reportage dall'Ossezia del Sud che verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista mensile PeaceReporter, in vendita nelle librerie Feltrinelli dal 15 ottobre. PeaceReporter e Radio Popolare hanno anche prodotto uno speciale radiofonico sulle vittime dell'aggressione georgiana, trasmesso ieri.
ENRICO PIOVESANA
TSKHINVALI (OSSEZIA DEL SUD)

«Se non arrivavano i russi, a quest'ora saremmo tutti morti». Valentin butta il mozzicone di sigaretta tra i calcinacci che ricoprono il pavimento del suo appartamento, all'ultimo piano di un grande condominio alla periferia di Tskhinvali. Muri e soffitti sono anneriti dal fuoco e sventrati dalle cannonate georgiane. Alle fiamme sono sopravvissute solo le reti contorte dei letti e i cocci delle stoviglie di ceramica. «Questo palazzo è stato colpito dai missili Grad, dalle bombe aeree e dai carri armati. I georgiani hanno usato contro di noi tutte le armi che avevano. Solo in questa scala sono morte due persone. In duecento, per tre notti e tre giorni, abbiamo vissuto nelle cantine, senza luce, acqua né cibo. E ci è andata bene: in centro i soldati georgiani aprivano le botole dei rifugi e ci lanciavano dentro le bombe a mano». 
In centro, in via Stalin, vive Soslan. Ha una trentina d'anni, gli occhi rossi per il pianto e la barba lunga di 40 giorni per il lutto, come vuole la tradizione cristiano-ortodossa. Sta in piedi a braccia conserte nell'orto dietro casa, vicino al tumulo di terra che, tra cetrioli e pomodori, ricopre le spoglie di due donne. «Mia madre Liana e mia nonna Elena sono morte durante i bombardamenti georgiani dell'8 agosto, quando un missile Grad ha colpito la nostra casa. Erano uscite dal rifugio per prendere del cibo per gli altri. Le abbiamo dovute seppellire qui nell'orto perché in città si combatteva: non potevamo portarle in cimitero».
Liana ed Elena sono solo due delle centinaia di vittime dell'attacco georgiano contro Tskhinvali, la capitale dell'Ossezia del Sud. Nonostante la velocità con cui le centinaia di operaie e operai ceceni delle imprese edili russe stanno ricostruendo e ripulendo la città, Tskhinvali mostra ancora tutti i segni dell'attacco georgiano. Gran parte degli edifici del centro - trecento abitazioni civili, scuole, asili, università, biblioteche, palazzi governativi - sono completamente distrutti dalle bombe e dalle fiamme, ricoperti da teli verdi che pare vogliano pudicamente nascondere la violenza subita. Tutte le altre costruzioni sono crivellate dagli spari delle mitragliatrici o squarciati dalle cannonate. 
Ma ciò che più lascia esterrefatti è la vista dell'unico ospedale della città, anch'esso semidistrutto dalle cannonate e dalle mitragliatrici georgiane. «Nemmeno i nazisti sparavano di proposito contro gli ospedali!», si sfoga Tina, l'anziana capoinfermiera, con due occhi celesti ancora arrossati dalla stanchezza. Mostrandoci gli umidi sotterranei dove durante i bombardamenti sono stati trasferiti e curati centinaia di feriti, ci racconta la sua esperienza di quei giorni. «Lavoravamo senza macchinari e senza luce, con pochissime medicine. Sopra di noi continuavano a cadere le bombe. Io non mi sono fermata un minuto, non ho dormito mai, non c'era tempo. Ma ora non mi sento molto bene», dice iniziando a piangere. «Quando siamo riemersi da quell'inferno - continua con la voce rotta - c'è stata una cosa che ci ha fatto più male delle bombe: scoprire che le televisioni internazionali parlavano solo della Georgia e non dicevano una parola della tragedia che abbiamo vissuto qui. Vi prego, almeno voi raccontatela, dite la verità».
«Ma perché i vostri governi hanno appoggiato il regime fascista e criminale di Saakashvili? Perché le vostre istruite opinioni pubbliche non hanno protestato per l'aggressione georgiana contro di noi?», domanda Josiph, laureato in legge ed ex impiegato Osce, con sincero interesse e nostro grande imbarazzo. «Vi rendete conto che hanno bombardato a tappeto una città piena di civili, a freddo, anzi a tradimento, perché un'ora prima avevano detto che non avrebbero mai attaccato. E lo hanno fatto di notte, mentre la gente dormiva nei propri letti. I carri armati georgiani hanno sparato contro obiettivi civili, abitazioni, scuole, ospedali. Sparavano alla cieca, su tutto quello che si muoveva. I soldati georgiani buttavano granate nei rifugi. Hanno sparato con tank e cecchini contro le colonne di auto cariche di civili che cercavano di lasciare la città: tantissima gente è morta così! Non vi dice niente che il nome dell'operazione militare georgiana era 'Campo pulito'? Volevano sterminarci, cancellarci come popolo! E ci sarebbero riusciti se non fosse stato per i russi! Altro che reazione sproporzionata!».
Inal è un rubicondo giornalista locale, poeta a tempo perso. «Voi occidentali ci chiamate 'separatisti', come fanno i georgiani. Ma se si guarda alla storia di questo conflitto e al diritto internazionale è chiaro che i separatisti sono i georgiani, non noi. Nel settembre del 1990, quando c'era ancora l'Unione Sovietica, la regione autonoma dell'Ossezia del Sud, che all'epoca era parte della Repubblica sovietica georgiana, decise di rimanere a far parte dell'Urss. Questa scelta, del tutto legittima e legale, fu poi sancita nel marzo '91 da un referendum che si tenne in tutta l'Unione Sovietica. Un mese dopo, in aprile, la Georgia dichiarò la propria indipendenza da Mosca, pretendendo di mantenere la sovranità sull'Ossezia del Sud con la forza. Tbilisi dichiarò lo stato d'emergenza e ci attaccò: vennero bruciati più di cento villaggi e uccise oltre duemila persone. In trentamila fuggirono in Ossezia del Nord. Solo nel gennaio del '92, dopo la caduta dell'Urss, l'Ossezia del Sud si proclamò stato indipendente nella speranza, vana, di mettersi al riparo dalle aggressioni georgiane».
La campana della vecchia chiesetta ortodossa di Santa Maria, l'unica della città, suona a morto. Dentro, nella penombra e nel silenzio, le fiammelle di centinaia di candele accese in ricordo delle vittime di questa guerra illuminano le icone dorate che tappezzano le pareti. I devoti rendono grazie a San Giorgio, molto venerato da queste parti, il santo che uccise il drago simbolo del male. Sul muro fuori dalla chiesa, dipinte a vernice, le parole di un ringraziamento più terreno: «Spasìba Rossìa», grazie Russia.

© PeaceReporter