Informazione

L'INGERENZA POLITICO-MEDIATICA DELLA UE IN BIELORUSSIA

Bruxelles - Le trasmissioni di un apposito consorzio di
mass media per la Bielorussia, finanziato dall'Ue,
inizieranno in tempo per seguire le elezioni presidenziali del 18
marzo. Lo ha assicurato oggi a Bruxelles Emma Udwin, portavoce
del commissario Ue alle Relazioni Esterne, precisando però che
all'inizio si tratterà soltanto di "trasmissioni elettorali
specifiche", mentre il pieno palinsesto entrerà in funzione in un
secondo tempo.
La Commissione europea si adegua dunque alle pressioni
delle scorse settimane, che chiedevano di sostenere apertamente
la cosiddetta l'opposizione bielorussa nello scontro
contro il governo del presidente Aleksandr Lukashenko. Il progetto
media Ue per il lancio di una nuova stazione indipendente nel
Paese sarebbe dovuto partire il 1 gennaio, ma secondo quanto
appreso da fonti comunitarie la scorsa settimana, è stato
ritardato per alcuni "problemi tecnici". Udwin ha annunciato oggi
che la decisione finale sul consorzio vincitrice per l'appalto di
2 milioni di euro sarà raggiunta "entro la fine di gennaio".

10-GEN-06 (Fonte: Mauro Gemma)


www.resistenze.org - popoli resistenti - bielorussia - 03-01-06

Una "rivoluzione arancione" anche per la Bielorussia?

di Mauro Gemma

L'articolo è stato pubblicato nella rivista comunista L'Ernesto (N. 6
Novembre/Dicembre 2005)


Con l'avvicinarsi delle elezioni presidenziali in Bielorussia (1),
previste per la primavera del 2006, stiamo assistendo ad un
impressionante crescendo delle pressioni esercitate da parte di
numerosi paesi e istituzioni internazionali nei confronti dell'unico
paese europeo che continua ad essere incluso nella "lista nera" di
quelli che l'amministrazione USA ha qualificato come "paesi canaglia".

L'ultima iniziativa in questo senso risale alla fine di settembre
2005. Ed ha il sapore di un vero e proprio ultimatum che dimostra fino
a che punto si sono spinte le ingerenze esterne, provocate dalla ferma
determinazione dell'imperialismo (manifestata da Bush in persona) a
creare a Minsk una situazione simile a quella che ha portato tra il
2004 e il 2005 alla vittoria della "rivoluzione arancione" nella
confinante Ucraina.

Tutto, nella più recente occasione, è sembrato essere coordinato dalla
medesima "cabina di regia". A Vilnius, in Lituania – considerata
ormai, anche in virtù della scarsa considerazione delle regole
democratiche da parte della sua leadership, concretizzatasi in
violente persecuzioni anticomuniste, uno dei più zelanti attori
dell'Alleanza Atlantica -, alla presenza di importanti personalità
della Nato, si riunivano i raggruppamenti della cosiddetta
"opposizione democratica" bielorussa per discutere molto concretamente
e, peraltro, senza mascheramenti, dell'individuazione delle forme di
lotta ("sia legali che illegali", è stato ineffabilmente riconosciuto
da coloro che ritengono ormai unica norma di diritto internazionale la
"legge della jungla", imposta al pianeta dall'Amministrazione USA) in
grado di portare al rovesciamento del quadro istituzionale nel loro
paese. Esattamente nello stesso momento, il Parlamento europeo si
scagliava – come sempre in nome della difesa dei "diritti umani" e in
sintonia con analoga presa di posizione della Commissione Europea,
assunta il mese precedente - contro le autorità di Minsk, con toni
talmente duri da provocare una secca accusa di ingerenza da parte non
solo del presidente bielorusso in persona, ma anche dello stesso
ministero degli esteri della Russia (2).

E questo non rappresenta altro che l'ultimo episodio di una campagna
che, a più riprese, da quando, appena eletto nel 1994, il nuovo
presidente della "Repubblica di Belarus" Aleksandr Lukashenko diede
l'avvio ad una politica che sarebbe presto entrata in rotta di
collisione con gli interessi della NATO nella regione, è stata
sviluppata attraverso minacce e sanzioni decretate all'unisono da USA
e alleati europei, e con almeno due tentativi di rovesciamento delle
attuali autorità del paese (3). Tutto ciò è avvenuto con il sostegno
esplicito (con lo stanziamento di centinaia di milioni di dollari da
parte di autorità e istituzioni nordamericane, in particolare la
Fondazione Soros) ad un'opposizione sparuta e inetta, priva di
qualsiasi sostegno di massa, infiltrata da elementi fascisti (gli
eredi di quel collaborazionismo filo-nazista, assolutamente privi di
qualsiasi base di massa in una repubblica ex sovietica, che ha pagato
con la vita di un quarto della sua popolazione l'eroica resistenza
all'aggressione di Hitler), chiassosa e violenta, e addirittura
sospettata dell'attuazione di attentati terroristici avvenuti negli
ultimi mesi in alcune località del paese.

Non si può certo negare che le autorità bielorusse abbiano utilizzato
a volte metodi poco "ortodossi" e deprecabili nei confronti di alcuni
esponenti dell'opposizione e che le strutture dell'apparato statale
siano attualmente tenute sotto un rigido controllo. O che siano state
messe in atto misure pesanti di ritorsione (anch'esse deprecabili) nei
confronti di giornalisti e osservatori stranieri (in particolare
polacchi e statunitensi, ma anche esponenti della destra liberale
russa, scoperti a trasferire finanziamenti ai loro amici bielorussi),
accusati di interferire nelle questioni interne del paese. Quanto al
sistema informativo, va rilevato tuttavia che, accanto a media statali
largamente controllati, è consentita la libera circolazione degli
organi di opposizione e la larga diffusione di giornali ed emittenti
russi, nella gran parte ostili al regime bielorusso.

Per quanto riguarda poi le denunce di persecuzioni e persino di
sparizioni di oppositori, le autorità di Minsk hanno sempre seccamente
smentito, confortate in questo dalla testimonianza di quelle
organizzazioni umanitarie occidentali che non hanno l'abitudine di
ricorrere al finanziamento delle amministrazioni imperialiste (4).

Lo studioso francese Bruno Drweski, uno dei più autorevoli osservatori
europei della Bielorussia (5), che non può essere certo accusato di
aver risparmiato le sue critiche ai metodi utilizzati dalle autorità
bielorusse, ha osservato a riguardo che "tali metodi "duri" non
differiscono molto da quelli applicati nella maggioranza degli Stati
post-sovietici o in altre parti del mondo e che le "rivoluzioni
teledirette attraverso Interflora" non hanno cambiato molto in questo
senso, come dimostra la Georgia" e che "il potere personale del
presidente Lukashenko si appoggia anch'esso su una costituzione
comparabile a quella in vigore a Mosca ed in molti altri Stati
considerati pienamente democratici secondo i criteri che predominano
oggi nel mondo"(6).

Le ragioni di tanto accanimento occidentale nei confronti delle
attuali autorità bielorusse e, in particolare, di Aleksandr Lukashenko
sembrano in verità essere ben altre ed avere ben poco a che vedere con
la "preoccupazione per i diritti umani".

E per comprenderlo occorre sicuramente sgombrare il campo da tutte le
letture propagandistiche, sia da quelle "demonizzanti", assolutamente
prevalenti in Occidente (anche nella sinistra, sia moderata che
"alternativa"), che da quelle, a nostro avviso francamente "mitiche",
che caratterizzano alcuni settori del movimento comunista russo, per i
quali la Bielorussia si presenta come una sorta di ultimo "avamposto"
del socialismo.

Forse la definizione più appropriata dell'attuale esperimento
bielorusso è stata fornita proprio da Drweski, quando sostiene che la
longevità del governo di Lukashenko, al potere da oltre 11 anni, può
essere sostanzialmente spiegata in quanto "frutto di un compromesso di
fatto tra una società poco nazionalista e generalmente diffidente nei
confronti del modello liberale e una nomenklatura legata a settori
industriali che necessitano generalmente della partecipazione dello
Stato (industria spaziale, militare, di trasformazione)"(7).

Sono le specifiche modalità, attraverso cui è avvenuta la "costruzione
socialista" nella Bielorussia sovietica che permetterebbero di capire
almeno in parte le ragioni dell'attuale consenso attorno al "fenomeno
Lukashenko".

E' ancora Drweski a descrivere efficacemente il quadro storico che ha
accompagnato la nascita e lo sviluppo dell'esperienza sovietica nella
piccola repubblica, essenziale per comprendere almeno in parte
l'attuale situazione:

"Storicamente, la Bielorussia ha subito le conseguenze della sua
situazione di passaggio aperto a Ovest verso la Polonia e l'Europa
occidentale, e ad Est in direzione della Russia e della massa
continentale eurasiatica. Le elites locali erano tradizionalmente
polacche o russe. La società bielorussa, quasi totalmente contadina
fino al 1920, era stata attirata dalla cultura russa in virtù
dell'emergere al suo interno delle componenti populiste più
rivoluzionarie. Le rivoluzioni russe del 1905, del febbraio 1917 e
dell'ottobre 1917 non avevano incontrato un'eco particolare, sebbene
contemporaneamente emergesse una corrente nazionalista.

Dopo un breve periodo di autonomia politica, negli anni '20, il potere
staliniano eliminò la maggioranza delle elites letterarie della
repubblica, industrializzò in maniera forzosa il paese, favorendo
l'ascesa sociale di massa di quadri di origine contadina.

I massacri nazisti provocarono immediatamente un possente movimento di
resistenza che ha contribuito a radicare in questa "repubblica di
partigiani" un patriottismo con basi territoriali e "multinazionali".

I veterani, ricollocati nell'industria militare e nell'esercito alla
fine della guerra, hanno costituito fino ai giorni nostri, un ambiente
sociale dotato di grande influenza poiché hanno contribuito a
legittimare il poderoso settore militare-industriale"(8).

E' proprio a partire dal secondo dopoguerra che la Bielorussia ha
conosciuto uno sviluppo impetuoso che le ha addirittura permesso di
sopravanzare gli standard della stessa Russia, e di trasformarsi in
uno dei poli industriali di avanguardia di tutta l'Unione Sovietica.

Il dispiegarsi, a partire dal 1985, della "perestrojka" (che è stata
segnata in Bielorussia dai tragici effetti della catastrofe nucleare
di Chernobil, in Ucraina a pochi chilometri dal confine), e, dopo il
fallimento dell'esperimento gorbacioviano, nell'agosto 1991,
l'affermazione di forze nazionaliste tanto aggressive, quanto prive di
un reale consenso di massa, hanno diffuso nel paese la paura della
perdita definitiva di quei vincoli economici tradizionali con lo
spazio sovietico – che in quel momento veniva scientemente spinto al
dissolvimento dalla dissennata politica delle elites "compradore"
giunte al potere in Russia, sotto la guida di Boris Eltsin -
considerati vitali dalla maggioranza della società locale.

L'adesione acritica delle elites nazionaliste, impadronitesi del
potere, all'ideologia neoliberale, e, allo stesso tempo, l'avvio di
una politica estera improntata alla totale subalternità alle strategie
di aggressiva penetrazione imperialista nel nuovo immenso mercato
emerso dalle macerie dell'URSS, hanno provocato, fin dall'inizio, una
resistenza sociale al "processo di riforme", sconosciuta allora nelle
altre repubbliche ex sovietiche, a cominciare dalla Russia, dove
neppure il Partito Comunista, messo fuorilegge senza alcuna resistenza
e apparentemente in preda alla paralisi e allo sbando, sembrava in
grado di prospettare alcuna alternativa alle ricette dei locali
"Chicago boys".

A limitare il consenso attorno alle forze di governo, raccolte attorno
al movimento separatista "Adradzennie" (Rinascita) e capeggiate dallo
speaker del locale Soviet Supremo Stanislau Suskievic, contribuiva
anche il loro nazionalismo esasperato, caratterizzato da un richiamo
astratto ad un'identità della "Belarus", assolutamente estraneo alla
stragrande maggioranza dei cittadini bielorussi, agitato
fondamentalmente da movimenti dell'emigrazione antisovietica e da
gruppi eredi del collaborazionismo filo-nazista, e accompagnato da un
programma di violenta "derussificazione" di una società, in cui ciò
avrebbe significato danneggiare quasi la metà dei nuclei famigliari.
Questa nuova artificiosa "ideologia di Stato" è apparsa così
improponibile per la stragrande maggioranza dei bielorussi e continua
ad esserlo tuttora, nonostante tutti gli sforzi profusi
dall'opposizione per tentare di convincere del contrario i propri
protettori occidentali.

E' in questo contesto che ha potuto affermarsi una figura come quella
di Aleksandr Lukashenko.

Lukashenko, tra i pochi coraggiosi parlamentari che, nel dicembre
1991, si erano pronunciati contro la dissoluzione dell'URSS, e noto
per il suo rigore nella lotta contro la corruzione dilagante con
l'avvento del nuovo regime, nelle elezioni presidenziali del 1994,
sbaragliava, ottenendo l'81,7% dei voti, il suo avversario, il primo
ministro Viaceslau Kiebic.

Il nuovo presidente indicava da subito quello che sarebbe stato
l'obiettivo strategico di tutta la sua azione, da lui perseguito con
ostinata coerenza: l'avvio del processo di ricomposizione dell'unità
politica ed economica almeno delle repubbliche europee dell'ex URSS, a
cominciare dalla Russia (9).

Nello stesso tempo, Lukashenko non si limitava a pronunciarsi
apertamente contro il processo di allargamento della NATO ad Est,
allora in pieno dispiegamento, ma denunciava il carattere aggressivo
di tale alleanza, tutti i suoi tentativi di prevaricare la volontà dei
popoli e degli stati che non intendono assoggettarsi al "nuovo ordine
mondiale" e la sua intenzione di attentare all'integrità territoriale
non solo del suo paese, ma della stessa Federazione Russa.

Nel 1995 e 1996, un vero e proprio plebiscito ha ratificato alcuni
quesiti referendari da lui proposti, nei quali venivano fissati i
capisaldi programmatici della nuova amministrazione.

L'80% dei bielorussi si pronunciava allora positivamente sulle
richieste di unione economica con la Russia, di ripristino della
simbologia sovietica, di adozione del russo quale seconda lingua
ufficiale.

Lukashenko è stato rieletto alla presidenza nel 2001 e, probabilmente
(ovviamente, se non saranno esercitate, come è invece prevedibile,
massicce pressioni dall'esterno), verrà agevolmente riconfermato per
quel terzo mandato, a cui oggi può aspirare dopo l'approvazione
popolare della sua ricandidatura, ottenuta in un apposito referendum
svoltosi nel 2004.

Fin dall'inizio del suo mandato, pur non interrompendo i processi di
privatizzazione, Lukashenko, che può fare affidamento su un capillare
apparato amministrativo di decine di migliaia di funzionari (40.000 a
livello statale e 80.000 nelle amministrazioni locali), si è sforzato
di mantenere sotto il controllo dello Stato le risorse strategiche
ereditate dall'URSS, cercando allo stesso tempo, in un primo momento,
di ripristinare e, in seguito, di rafforzare gli storici legami con il
mercato dei paesi eredi dell'Unione Sovietica, tradizionale sbocco
delle produzioni bielorusse.

Tale politica (che ha, ovviamente, sempre visto il presidente
bielorusso attivissimo nella promozione di progetti di collaborazione
economica nell'ambito della Comunità degli Stati Indipendenti) ha
permesso, nell'ultimo scorcio dello scorso secolo, di contenere i
costi sociali derivanti dal crollo economico seguito all'applicazione
delle ricette di "liberalizzazione" e "privatizzazione" applicate nel
resto dello spazio post-sovietico, e in particolare nelle vicine
Russia e Ucraina.

Aleksey Prigarin, noto intellettuale marxista "critico" russo (10),
nell'invitare le sinistre russe a difendere l'esperimento bielorusso
"dagli attacchi dei sostenitori dell'oligarchia", ha così provato a
formulare una definizione di questo esperimento: "Con Aleksandr
Lukashenko in Bielorussia si è affermato il capitalismo di stato che,
indubbiamente, è meglio del capitalismo oligarchico che ha prevalso
nella maggioranza delle ex repubbliche sovietiche (…) Nonostante tutte
le insufficienze del capitalismo di stato come sistema sociale, è
comunque indispensabile considerare che esso permette di assicurare ai
cittadini solide garanzie sociali e livelli di occupazione stabile. La
Bielorussia, unica tra le ex repubbliche sovietiche, si inserisce tra
gli stati altamente sviluppati secondo le valutazioni delle
commissioni dell'ONU che si occupano degli indici dello sviluppo umano.

(...) Tale qualità della vita rappresenta un'indubbia conquista della
dirigenza bielorussa che, come è noto, non può contare su
significative riserve di minerali utili, ma solo sullo sviluppo
dell'agricoltura e della produzione industriale.

(…) Naturalmente, la politica condotta da Lukashenko talvolta provoca
critiche non prive di fondamento anche da parte delle sinistre…In
Bielorussia effettivamente si è formata una società, in cui i
principali strumenti di informazione e le istituzioni politiche sono
controllati dalla burocrazia dominante. Tale sistema è tipico del
capitalismo di stato. Ma, allo stesso tempo, non bisogna mai
dimenticare che un indebolimento del controllo burocratico, nelle
attuali condizioni, può solo provocare la trasformazione del
capitalismo di stato in capitalismo oligarchico.

In ultima analisi, nello spazio post-sovietico, il capitalismo di
stato rappresenta oggi l'unica alternativa concretamente esistente al
capitalismo oligarchico. Per questo è interesse delle sinistre
difendere il capitalismo di stato dagli attacchi dei sostenitori
dell'oligarchia, nello stesso tempo in cui operano per preparare la
coscienza sociale all'accettazione di un'alternativa socialista" (11).

Anche gli osservatori più ostili all'esperienza bielorussa (e basta
scorrere la stessa stampa "liberale" di Mosca) sono costretti a
riconoscere che la Bielorussia non ha mai conosciuto gli stessi
livelli di degradazione dei servizi sociali, sanitari, educativi, di
previdenza raggiunti nei paesi emersi dallo sfascio del "sistema
socialista" in URSS e nell'est europeo.

Del resto, della devastazione prodotta dal modello adottato dai paesi
ex sovietici vicini ed anche dei drammatici costi sociali
dell'esperimento attuato nella confinante Polonia, è cosciente la
grande maggioranza della popolazione bielorussa, in misura ben più
rilevante di quanto siamo indotti a credere in Europa occidentale. E'
fuori di dubbio che anche questo fattore può spiegare la relativa
facilità con cui il regime di Minsk riesce a far fronte alla massiccia
pressione propagandistica che viene esercitata dall'Occidente.

Ancora oggi, pur in un quadro di ripresa dell'economia del grande
vicino russo, parzialmente risollevatosi dall' "abisso" eltsiniano e
che può contare sulla felice congiuntura di un mercato energetico
tornato in larga parte sotto controllo statale, la Bielorussia mostra
risultati economici di tutto rispetto e una sostanziale tenuta dello
"stato sociale".

Il già citato Prigarin, nell'analizzare le statistiche fornite dagli
stessi organismi dell'ONU, afferma che la stessa Russia "stando ai
risultati del 2004, segue la Bielorussia di otto posizioni, pur
trovandosi in testa al gruppo dei paesi mediamente sviluppati" (12).

Tali dati sono ben conosciuti nei paesi dell'ex URSS e non mancano di
suscitare le simpatie di parte considerevole della loro opinione
pubblica. Ad esempio, un sondaggio, effettuato ai primi di novembre
2005 da un autorevole istituto demoscopico russo (l' "Istituto
nazionale di inchieste regionali e tecnologie politiche") rilevava
che, tra i cittadini della Federazione Russa, Lukashenko è attualmente
di gran lunga il più popolare tra i leader dei paesi della
Confederazione degli Stati Indipendenti (quasi il 60% delle preferenze
contro il 20% di Juschenko). Del presidente bielorusso verrebbero
apprezzati proprio lo spirito di indipendenza nei confronti delle
pressioni esterne, la coerenza con cui si batte per i processi di
integrazione nello spazio post-sovietico e la cura con cui ha inteso
preservare il sistema di garanzie sociali, ereditato dal passato
sovietico.

Naturalmente le linee di politica estera della Bielorussia e le sue
relazioni commerciali con il resto del mondo sono apparse pienamente
coerenti con le scelte sociali ed economiche della politica interna.
Anche questo contribuisce a spiegare le ragioni della dura ostilità
occidentale. In un continente europeo, ormai integrato nella NATO e
soggetto agli obblighi derivanti dall'adesione al sistema di alleanze
dell'imperialismo, è difficile rassegnarsi alla presenza di un governo
che "rifiuta di applicare una politica di privatizzazioni senza limiti
e che coopera con la Russia, la Cina, l'Iran, il Vietnam, il
Venezuela, che continua a produrre e ad esportare armi, pezzi per
l'industria aeronautica e prodotti relativamente poco costosi per i
mercati del terzo mondo"(13).

Ma, come abbiamo già detto, gli sforzi più intensi della Bielorussia
sono stati comunque indirizzati alla realizzazione dell'obiettivo
strategico rappresentato dal compimento del processo di unificazione
con il grande vicino russo.

Gli sforzi bielorussi ottenevano un primo successo il 2 aprile 1996,
con la stipula del "Trattato di Unione Russo-Bielorussa", passo
fondamentale verso la realizzazione dell'unificazione politica,
economica e militare tra i due paesi nell'ambito di uno stato unitario.

Al trattato sono seguiti ulteriori passi, attraverso il
perfezionamento di molteplici accordi, soprattutto in materia
economica e doganale, mentre è andata rafforzandosi la collaborazione
anche sul piano militare, fino alla programmazione per la primavera
del 2006 di imponenti manovre congiunte in territorio bielorusso.

Con tenacia, in questi anni, Lukashenko ha dovuto far fronte alle
reticenze e, a volte, anche all' ostilità delle elites che si sono
succedute al governo della Russia, soprattutto nella fase di avvio del
processo di integrazione, quando ad opporsi duramente erano i clan
oligarchici legati alla "famiglia Eltsin". Anche nel periodo
dell'amministrazione Putin, soprattutto nella prima fase, la Russia
non ha nascosto di preferire a Lukashenko "un dirigente più
"presentabile" nell'arena internazionale, e soprattutto meno
indipendente nelle sue iniziative" (14).

Ma l'evidente fallimento della politica di apertura verso gli Stati
Uniti (che era sembrata affermarsi dopo il settembre 2001),
specialmente dopo lo scatenamento delle "rivoluzioni colorate" nello
spazio post-sovietico e l'uso strumentale della "questione cecena", ha
tolto qualsiasi dubbio sulle intenzioni dell'amministrazione USA di
voler puntare direttamente al rovesciamento dell'attuale leadership di
Mosca, favorendo l'ascesa al potere di un regime meno indipendente, e
ha contribuito a determinare un evidente riavvicinamento tra Putin e
il presidente bielorusso.

Negli ultimi mesi abbiamo così assistito ad un'accelerazione del
processo di unificazione. Nel settembre scorso, il progetto di
costituzione dell' "Unione tra Russia e Bielorussia" è stato definito
nelle sue linee essenziali e il referendum previsto per la sua
approvazione potrebbe già svolgersi nell'ottobre-novembre 2006. Subito
dopo, avverrebbe l'elezione del parlamento e verrebbero creati gli
organi esecutivi dello stato unitario.

Sarà sufficiente tutto ciò per prevenire la realizzazione dei
programmi previsti dagli USA e dalla NATO per la piccola Bielorussia?
E' difficile al momento fare previsioni. Ma una cosa è certa. La
Russia ha tratto lezioni esemplari dall'estendersi delle "rivoluzioni
colorate", individuando le lacune e le sottovalutazioni che hanno
caratterizzato la sua politica estera nei confronti degli inaffidabili
interlocutori occidentali.

Ha ragione un altro studioso, Paul Labarique, quando afferma in un suo
articolo apparso nel sito di "Reseau Voltaire", che per la leadership
russa "la Bielorussia si presenta oggi come l'ultimo avamposto. Un
avamposto solido perché ha già resistito due volte ai tentativi di
rovesciamento. Ed è anche certo che Vladimir Putin è oggi alla ricerca
degli strumenti che possano rafforzare ulteriormente la capacità di
resistenza dei suoi alleati…E' probabile che la recente evoluzione
nella regione costringa presto Mosca a sviluppare i propri mezzi di
ingerenza allo scopo di conservare la propria sfera di influenza e
soprattutto la propria integrità territoriale"(15).


NOTE

1) La Bielorussia (Russia Bianca), stato "cuscinetto" tra la Russia e
i paesi dell'Europa orientale e baltica, si estende per 207.600 Kmq. I
bielorussi, che parlano una lingua slava orientale come il russo e che
praticano per l'80% la religione cristiana ortodossa, costituiscono il
78% della popolazione di circa 10 milioni di abitanti. La parte
restante è rappresentata da 1.400.000 russi, da 400.000 ucraini e da
alcune centinaia di migliaia di polacchi. In virtù di un plebiscitario
voto referendario, il bielorusso e il russo sono considerati lingue
ufficiali dello stato. Dall'agosto 1991, il paese, divenuto
indipendente, ha assunto il nome di "Repubblica di Belarus". Tale
denominazione, tuttora in uso, ha provocato numerose riserve, in
quanto riprende la trascrizione tedesca di "Bielorussia", adottata
durante l'occupazione nazista.

2) Una cronaca dettagliata di questi ultimi avvenimenti è stata
fornita dalle agenzie ufficiali russe: in particolare in
http://www.rian.ru e http://www.strana.ru

3) Paul Labarique. « La Biélorussie sous pression ». 15 février 2005.
http://www.voltairenet.org/article16220.html#article16220

4) Ad esempio, John Laughland, fiduciario del "British Helsinki Human
Rights Group", ha dimostrato l'infondatezza delle accuse rivolte a
Lukashenko di aver commissionato l'assassinio di alcuni oppositori
politici, scoprendo che essi risiedevano tranquillamente a Londra.
www.guardian.co.uk , 22 novembre 2002. La traduzione dell'articolo,
con il titolo "Il racket di Praga" in http://www.resistenze.org/ -
popoli resistenti – bielorussia – 16-12-02.

5) Bruno Drweski è Maitre de conférences all'Institut national des
langues et civilisations orientales (INALCO). Direttore della rivista
Le Pensée Libree amministratore di Réseau Voltaire. Tra i suoi lavori,
La Biélorussie, PUF, Paris, 1993.

6) Bruno Drweski. « Les Biélorusses redoutent la « démocratie de
marché ».28 avril 2005.
http://www.voltairenet.org/article16928.html#article16928

7) Ivi

8) Ivi

9) Lukashenko, ancora recentemente nella sede autorevole del Vertice
ONU dei Capi di Stato, ha voluto esprimere un giudizio positivo in
merito all'esperienza storica sovietica: "L'Unione Sovietica,
nonostante tutti gli errori dei suoi dirigenti, rappresentava allora
fonte di speranza e di sostegno per molti stati e popoli. L'Unione
Sovietica assicurava l'equilibrio del sistema globale". Intervento di
Aleksandr Lukashenko al vertice ONU, 15 settembre 2005.

http://www.un.org/webcast/summit2005/statements15/belarus0509115eng.pdf,
tradotto per http://www.resistenze.org dal Centro di Cultura e
Documentazione Popolare.

Affermazioni di aperto apprezzamento del passato sovietico furono
fatte, alla presenza di Eltsin, dal leader bielorusso nel 1999 in un
intervento davanti ai deputati della Duma di Stato della Federazione
Russa, noto per la sua vis polemica nei confronti dei deputati della
destra liberista: "La gente si pone un interrogativo più che logico:
perché voi, politici, avete dissolto l'Unione in una sola notte, senza
consultare i vostri popoli?Convenite che è un legittimo interrogativo?
(…) Che cosa è stato fatto di degno per l'uomo comune nello spazio
post-sovietico nei dieci anni trascorsi dalla dissoluzione dell'URSS?
Ma guardiamo la verità negli occhi: non è stato fatto assolutamente
nulla. Certo oggi possiamo dire che nell'URSS non tutto rappresentava
l'ideale (…) Ma solo uno spudorato mentitore può affermare che oggi il
popolo vive meglio che in quel paese. E' di moda sbeffeggiare i
bielorussi, che avrebbero il torto di mantenere una robusta nostalgia
per i tempi sovietici. Ma di ciò occorrerebbe solo essere orgogliosi".

Intervento di Aleksandr Lukashenko alla Duma della Federazione Russa.
L'Ernesto. N. 1/2000. Il testo è stato ripreso in
http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti –bielorussia – 21-10-04.

10) Aleksey Prigarin, organizzatore della cosiddetta "Piattaforma
marxista" nel PCUS, ai tempi del suo ultimo congresso, è un
economista, esponente di una tendenza marxista russa che formula un
giudizio articolato e critico della complessa esperienza sovietica,
mettendone in rilievo la grandezza, ma non nascondendo i limiti e gli
errori che ne hanno determinato la fine.

11) http://www.atvr.ru/experts/2005/10/1/6204.html. La traduzione in
Il dibattito tra i marxisti russi sull'esperienza della Bielorussia.
http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti – russia 07 -10-05.

12) Ivi

13) Bruno Drweski. « Les Bielorusses redoutent la « democratie de
marché ». 28 avril 2005.
http://www.voltairenet.org/article16928.html#article16928

14) Ivi

15) Paul Labarique. « Les Biélorusses défendent leurs intérets ».18
février 2005.

http://www.voltairenet.org/article16277.html#article16277

HUMANITARIAN IMPERIALISM, interview with Jean Bricmont

[ cette texte en francais: Droits de l'Homme ou droit du plus fort?
Interview de Jean Bricmont, auteur d'Impérialisme humanitaire
ICI:
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2006-01-06%2010:02:17&log=articles
OU ICI:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4686 ]


HUMANITARIAN IMPERIALISM

Interview with Jean Bricmont

By Joaquim Da Fonseca and Michel Collon

In his new book, Humanitarian Imperialism, Jean Bricmont denounces the
use of the human rights pretext to justify attacks against countries
in the South. He is a pacifist and a committed intellectual.


How is it that a professor of theoretical physics has just written a
book on imperialism?

J.B. I have always been interested in politics, if only passively. I
really became involved in 1999 during the war against Yugoslavia. The
humanitarian reasons invoked by the United States left me puzzled. I
was also shocked by the lack of opposition from the left, even some of
the extreme left, to this aggression.
I was asked to address conferences in all kinds of circles: Protestant
churches, Muslim movements, student groups, ATTAC, etc. My
humanitarian imperialism book is, among other things, a reaction to
the concerns and proposals put forward by individuals and groups
encountered during these conferences. The book is also a reaction to
the attitude of certain political militants claiming to be of the
left. In the name of human rights they legitimize aggression against
sovereign countries. Or they moderate their opposition so much that it
becomes only symbolic.

Human rights is for the rubbish bin, then?

J.B. I defend the aspirations in the Universal Declaration on Human
Rights of 1948. It contains a collection of economic, social,
political and individual rights. The problem arises when lack of
respect, real or presumed, serves to legitimize war, embargoes and
other sanctions against a country and when human rights becomes the
pretext for a violent assault on that country. Moreover it often
happens that only part of the Declaration is cited. When people talk
of human rights, economic and social rights are often considered
relatively unimportant compared with individual and political rights.
Take, for example, the quality of health care in Cuba. This is a
remarkable development of a socio-economic right. But it is totally
ignored.
While it is true that Cuba conforms perfectly to the very critical
description given it by Reporters without Frontiers, this in no way
reduces the importance of the quality of its health care. When
speaking of Cuba, if you express reservations about lack of respect
for political and individual rights you must at least mention the
importance of economic and social rights from which the Cubans
benefit. What is more important, the rights of individuals or health
care? But no-one reasons like this. The right to housing, food,
existence and health: these are usually ignored by the defenders of
human rights.

In fact, your book shows that these rights are ignored in the media
campaigns against Socialist countries, like Cuba or China. You write
that four million lives could have been saved if India had adopted the
Chinese path.

J.B. The economists Jean Drèze and Amartya Sen estimate that,
departing from a similar base, China and India have followed different
development paths and that the difference between the social systems
of these two countries results in about 3.9 million extra deaths in
India every year. In Latin America 285,000 lives would be saved each
year if Cuban health and food policies were applied.
I am not saying that social and economic performance can justify
deficiencies in other fields of human rights. But no-one would
maintain that the contrary is true: respect for individual and
political rights does not justify flouting social and economic rights.
Why do the defenders of human rights never say so? Let us come back to
Cuba. Can the lack of individual freedoms be justified by effective
health care? That can be discussed. If, in Cuba, there was a
pro-Western regime, it is certain that health care would not be so
effective. This can be deduced from the state of people's health in
the "pro-Western" countries of Latin America. Hence, in practical
terms there is a choice between the different types of human rights:
what are most important, the social and economic ones, or the
political and individual ones?
It would of course be best to have both together. The Venezuelan
president Chávez, for example, is trying to reconcile them. But the US
interventionist policy makes this reconciliation difficult in the
Third World. What I would like to emphasize is that it is not for us,
in the West, who benefit from the two kinds of rights, to lay down
what choice is to be made. We should rather put our energies into
enabling the Third World countries to carry out their development
independently, in the hope that this will eventually help these rights
to emerge.

Is there not a great difference between how human rights and the duty
to intervene are perceived according to whether you come from the
North or the South of the planet?

J.B. In 2002, not long before the war against Iraq, I went to Damascus
in Syria and Beirut in Lebanon. I met quite a few people. To say that
they opposed the war against Iraq is putting it mildly. And that was
the case even at the American University of Beirut. Anti-Americanism
and fierce opposition against Israel was tremendous.
When I returned to Belgium I saw no evidence of this at all. Take the
question of the disarmament of Iraq. Certain members of the CNAPD
(Belgian anti-war coordinating body) told me that this disarmament had
to be imposed, although not of course by military, but through
peaceful means. If these proposals were advocated in the Middle East,
people would immediately reply: "And Israel, why should it not be
disarmed?"
In Latin America, and in the Arab-Muslim world particularly, the
perception of international law is totally different from ours here,
even among the left and the extreme left. The latter do not appear to
be interested to know what the populations immediately concerned think
about our interventions.

Why is that? Is it a question of navel-gazing? Or of ethnocentricity?

J.B. During decolonization and the Vietnam War, the left adopted a new
attitude. It defended an anti-imperialist policy in economic, military
and social affairs. Since then this attitude has been undermined by
intervention in the name of human rights. The opposition to
neo-colonialism has been replaced by the desire to help the peoples of
the South to fight against their dictatorial, inefficient and corrupt
governments...Those who support this position are not aware of the
chasm that separates them from the peoples of the Third World, who do
not generally accept the intervention of the Western governments into
their internal affairs.
Of course many of them desire more democratic and more honest
governments. But why? Because such rulers would manage their natural
resources more rationally, obtain better prices for their primary
commodities, protect them from control by the multinationals and even
build up powerful armies.
When certain people here speak about more democratic governments, they
do not mean any of these things. Truly democratic governments in the
South would be more like that of Chávez than that of the current Iraqi
government.

Is there not a background of colonial ideology in all this?

J.B. Perhaps, but it is presented in a post-colonial language.
Everyone condemns colonialism. Those who defend the current wars
insist that humanitarian intervention is "totally different" from
colonialism. However, one can only remark the continuity in this
change. Intervention was first legitimized by Christianity, then by a
civilizing mission - also by anti-Communism. Our claim to superiority
has always authorized us to commit a series of monstrous actions.

What is the role of the media in propagating this "humanitarian
imperialism"?

J.B. It is fundamental. In the case of the Yugoslav war, the media was
used to prepare public opinion for such attacks. As with Iraq, the
journalists are constantly repeating "all the same, it is a good thing
that Saddam Hussein has been overthrown." But to what extent is it
legitimate for the United States to overthrow Saddam Hussein? This
question is never posed in the newspapers. Do the Iraqis consider that
this intervention benefits them? If this is the case, why do more than
80 per cent of them desire the departure of the United States? The
press criticizes the United States, but its criticism is mostly about
the methods used during the war and the occupation, not about the very
principle of intervention.

Would the United States be less likely to make war under a Democratic
president?

J.B. That largely depends on the way in which the occupation of Iraq
winds up. There are many voices in the United States that call for the
withdrawal of the troops and there is a climate of panic in many
sectors of the society. If, as in Vietnam, the Iraq war concludes with
a catastrophe, there could be a considerable interlude from such
policies for a while. If the retreat goes smoothly, if there is not
too much damage, they could then rapidly go off to war again. But it
is a widespread illusion that the Democrats are less aggressive and
that they do not support military interventions.

Why is the reaction to the war by progressive Europeans so weak?

J.B. The ecologists, the Socialist left, the traditional Communist
parties, the Trotskyites and most of the NGOs have opposed the war
very feebly. Their positions have been undermined by the ideology of
humanitarian intervention and all serious references to socialism in
their programme have been abandoned. Part of this left has substituted
the struggle for human rights for its initial aims of social
improvements or revolution.
As it is difficult for these movements to defend the war of the USA
against Yugoslavia and Iraq, they adopt the rather convenient position
of "Neither, nor". "Neither Bush nor Saddam": this enables them to
avoid any criticism. Of course I can understand why Saddam Hussein is
not liked. But the implications of the "Neither, nor" position go well
beyond this.
First, it does not recognize the legitimacy of international law. It
does not distinguish between the aggressors and the aggressed. Just to
make a comparison: it would have been difficult, during the Second
World War, to affirm "Neither Hitler, nor Stalin" without being
considered a collaborator.
Second, this approach underestimates the extent of the damage caused
by the United States since 1945. Since the end of the Second World
War, they have been intervening everywhere in the world to support or
install conservative and reactionary forces, from Guatemala to the
Congo, from Indonesia to Chile. They have been busy killing the hope
of the poor for social change everywhere. It is they, and not Saddam
Hussein, who want to overthrow Hugo Chávez. The Vietnam War was
nothing to do with Saddam Hussein. Even if it is admitted that
Milosevic and Saddam Hussein have been demonized, putting them in the
same category as the USA at the world level is, for them, totally
unjust and false.
Finally, what upsets me most with this "Neither, nor" attitude is the
position that we assume, by adopting such slogans, towards our own
responsibility.
When we see policies that don't like in the Third World, we must begin
by discussing them with the people who live there, and do this with
organizations that represent large sections of the population, not
with little groups or isolated individuals. We must try to see if
their priorities are the same as ours. I hope that the alternative
world movement will create channels of communication that promote a
better understanding of the viewpoints of the South. For the time
being, the Western left tends to stay in its corner, having very
little influence in its own home base and indirectly playing the game
of imperialism by demonizing the Arabs, the Russians, the Chinese - in
the name of democracy and human rights.
What we are mainly responsible for is the imperialism of our own
countries. Let us start by tackling that - and effectively!


Thanks to Victoria Bawtree for the translation!

Jean Bricmont. Impéralisme humanitaire. Droits de l'Homme, droit
d'ingérence, droit du plus fort?, Ed. Aden, 2005, 253 pages, 18 euros.
Can be ordered from éditions Aden :
http://www.rezolibre.com/librairie/detail.php?article=98

See also (in French) : Biography of Jean Bricmont
http://www.michelcollon.info/bio_invites.php?invite=Jean%20Bricmont

Jean Bricmont - Quelques remarques sur la violence, la démocratie et
l'espoir:
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2005-03-16%2017:32:42&log=invites

Jean Bricmont - Européens, encore un effort si vous voulez vous
joindre au genre humain!
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2003-02-16%2018:24:22&log=invites

Jean Bricmont and Diana Johnstone - Les deux faces de la politique
américaine
http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2001-11-07%2018:35:48&log=invites

On the war on Iraq and its causes, see also the new book:
"Bush, le cyclone" : http://www.michelcollon.info/bush_le_cyclone.php

MIMUN, ITALIANO O ISRAELIANO?


--- In ita-jug "Alberto Tarozzi" ha scritto:

cara redazione del manifesto, sono un vostro lettore da una vita e
proprio per questo approfitto dell'articolo di norma rangeri su
'l'italiano mimun' per rivolgervi una domanda che da tempo mi pongo,
su una delle poche questioni mediatiche che vedono, a mio avviso,
l'allineamento autocensorio del manifesto con quello di una stampa ben
piu' conformista di voi.
è mai possibile che nessuno, nemmeno voi, scriva mai a chiare lettere
che nel curriculum di mimun, nel suo ipotetico motto di 'dio, patria e
famiglia', ci sta un servizio militare svolto, correggetemi se
sbaglio, in qualita' di volontario nell'esercito israeliano?
per carita', liberissimo mimun di averlo fatto per le piu' nobili
delle ragioni, ma è anche doveroso che i cittadini che vengono
informati dai suoi tg, soprattutto in materia di politica estera in
medio oriente, conoscano da quale fonte l'informazione provenga.
paradossalmente, mentre sui sentimenti di gad lerner per israele
chiunque si interessi di media ne sa qualcosa e si puo' documentare
facilmente, sull'appartenenza di un soggetto mediaticamente ben piu'
potente come mimun nessuno sa nulla.
credo che sarebbero in primo luogo il popolo ebreo e gli amici di
israele a trarre giovamento dal conoscere di avere 'silenziosamente'
al proprio fianco un soggetto che non credo risulterebbe gradito a
tutti loro.
senza demonizzazioni, ma solo per poterne interpretare con maggiore
consapevolezza i messaggi e giudicarli di conseguenza.
cordialmente.

alberto tarozzi.

--- Fine messaggio inoltrato ---

ALTRI TEMPI


"Io sono stato nel Libano. Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila.
E' una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le
vittime di quell'orrendo massacro. Il responsabile dell'orrendo
massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di
questo massacro compiuto. E' un responsabile che dovrebbe essere
bandito dalla società"

Sandro Pertini
messaggio presidenziale agli italiani
31 dicembre 1983


erano altri tempi ... altri uomini ... altri presidenti


ISRAELE: FINI E VELTRONI ALLA VEGLIA PER SHARON ALLA SINAGOGA DI ROMA
QUESTA SERA ALLE 20.30 IN LUNGOTEVERE DE' CENCI
Roma, 5 gen. (Adnkronos) - Il vicepresidente del Consiglio e ministro
degli Esteri Gianfranco Fini e il sindaco di Roma Walter Veltroni
saranno presenti questa sera alle 20.30 alla Sinagoga di Roma in
lungotevere de' Cenci, per la veglia di preghiera per il premier
israeliano Ariel Sharon. Tra i presenti -come informa una nota della
comunita' ebraica romana- anche il deputato della Margherita Riccardo
Milana e Beatrice Lorenzin, coordinatrice regionale di Forza Italia
per il Lazio.

Veglia di preghiera questa sera in Sinagoga (5 gennanio 2006)
http://www.adnkronos.com/3Level.php?cat=Cronaca&loid=1.0.263360734

galleria d'immagini:
http://www.repubblica.it/2003/e/gallerie/esteri/sinagoga/1.html

(fonte: G. Zambon)