Informazione


LA GRANDE FESTA DEI DOMOBRANCI


Slovenia: no a bandiere con stella rossa partigiani, proteste

Polemiche su celebrazioni indipendenza di stasera
22 GIUGNO, 12:01

(ANSAmed) - LUBIANA, 22 GIU - Le bandiere con la stella rossa a cinque punte delle formazioni militari partigiane slovene, che hanno lottato durante la Seconda guerra mondiale contro il nazifascismo, sono state per la prima volta vietate alle celebrazioni ufficiali della Giornata dell'Indipendenza della Slovenia, in programma questa sera a Lubiana, in base a una decisione del governo conservatore guidato dal primo ministro Janez Jansa.

Il divieto ha provocato una valanga di proteste da parte delle associazioni antifasciste e di una parte dell'opposizione di sinistra. ''La Slovenia e' fondata sulla guerra antifascista del 1941-1945 e sulla lotta per l'indipendenza nel 1991, e la decisione del governo non e' altro che un tentativo di dividere gli sloveni su basi ideologiche'', si legge in un comunicato stampa di Slovenia Positiva (Ps), maggiore partito di opposizione guidato dal sindaco di Lubiana e ricco imprenditore Zoran Jankovic, che in segno di protesta probabilmente non partecipera' alle celebrazioni ufficiali. Il governo ha spiegato che ai festeggiamenti dell'Indipendenza saranno ammessi solamente i simboli ufficiali dello Stato sloveno e quelli dei veterani della breve guerra del 1991, quando Lubiana dopo dieci giorni di scontri conquisto' la sovranita' da Belgrado. Il Partito democratico sloveno (Sds, conservatori), del premier Jansa, ha spiegato che le bandiere dei veterani partigiani e antifascisti si associano in primo luogo al periodo della dittatura comunista, conclusasi con la sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia, e a un sistema antidemocratico dal quale la moderna Slovenia ha preso le distanze dopo il 1991.(ANSAmed).





LA STORIA DI ANNA LOMBARDA

(raccontino fantapolitico)

Questa è la storia di Anna Lombarda, nata a Milano, molto portata per lo studio e le lettere, si è laureata con ottimi voti e dopo avere lavorato per alcune testate giornalistiche lombarde ha vinto un concorso alla Rai di Roma. Per la sua capacità e bravura ha fatto una carriera velocissima, ed è una delle redattrici più stimate della TV di stato.
Finché...
Il 1° gennaio 201.... il conduttore Bossi proclama l'indipendenza della Padania. Padania libera, dalle Alpi all'Adriatico! gridano nei territori dove ora sventolano le bandiere verdi e le Guardie padane cacciano via la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza e si scontrano con l'Esercito, che pure vorrebbe continuare a controllare il territorio per conto di Roma. I cittadini non padani per diritto di sangue e suolo si guardano intorno straniti e non sanno cosa sarà di loro, delle loro case, del loro lavoro.
A Roma il governo, attraverso la TV di stato, condanna l'atto di secessione, chiede garanzie per i propri dipendenti, amministrativi e militari, ma di fronte agli scontri provocati dai Padani non può fare altro che inviare altri militari, la tensione sale, è guerra civile.
Anna Lombarda, la milanese trapiantata a Roma, non sa che fare. Il suo cuore è a Milano, coi ribelli, ma il suo stipendio viene da Roma ladrona, che le ha finora permesso di vivere alla grande. Decide: prende le ferie e torna a Milano, dove starà per due settimane per vedere cosa succede. Ma allo scadere delle ferie comprende che non può tornare a Roma ladrona, deve restare con la sua gente, e non ha scelta. Si licenzia? macché, si dà malata e rimane a fare la secessionista.
Dopo sei mesi, durante i quali gli scontri continuano, i morti cominciano ad ammucchiarsi e Roma ladrona non sa più come uscire da una situazione di merda, Anna Lombarda viene licenziata, in tronco, perché ha preso parte attiva per i Padani? no perché è un'assenteista che si è finta malata per non tornare al lavoro.
La situazione precipita, Padania e Italia, ambedue insanguinate, non sono più paesi nei quali si può vivere, così Anna Lombarda scappa all'estero, va in Germania dato che conosce bene il tedesco e lì diventa un simbolo della crudeltà nazionalista di Roma ladrona, ottiene un posto in uno dei maggiori quotidiani nazionali ma visto il suo ruolo di testimonial gira il Paese in conferenze e dibattiti dove spara a zero sulla politica genocida di Roma ladrona, accusando l'Italia di crimini contro l'umanità. E viene portata in palma di mano dagli intellettuali, dalla società civile, dalle organizzazioni per i diritti civili.
 
Provate a cambiare un paio di nomi: Anna Lombarda in Azra Nuhefendic, Padania con Bosnia, Italia con Jugoslavia, Germania con Italia...
 
Claudia




LA GUERRA ETNICA DI AZRA NUHEFENDIC CONTRO GLI ARTISTI SERBI


La guerra fratricida in Jugoslavia per alcuni non è finita e non deve finire. 
Esiste in particolare una categoria di intellettuali - giornalisti, scrittori, saggisti, accademici, opinionisti -  che alla guerra fratricida in Jugoslavia devono notorietà, carriera, ospitalità continua sui media occidentali e filo-occidentali, quei media che alternano l'inchiostro e l'uranio impoverito. Se la guerra finisse, anche questi intellettuali finirebbero nel dimenticatoio. Perciò devono mantenere vivo, e se possibile riattizzare, l'odio tra le nazionalità.
Tra questi manipolatori e propagandisti delle secessioni anti-jugoslave, mostra particolare zelo negli ultimi tempi la nazionalista bosgnacca Azra Nuhefendić. La quale non perde occasione per tirare in ballo il cadavere dell'odiato Milošević, ultimo presidente serbo jugoslavo e jugoslavista, e dargli addosso. 

In un articolo recentemente pubblicato dal portale OsservatorioBalcaniCaucaso, al quale affezionatamente collabora, Azra Nuhefendić sferra un attacco frontale al grande attore Bata Živojinović (1). L'accusa è di essere stato "rosso", cioè iscritto al partito socialista serbo (SPS) guidato da Milošević. Con candida sfacciataggine, Azra arruola invece nel partito "bosniaco" il personaggio interpretato da Živojinović nel famosissimo film "Valter brani Sarajevo". Secondo lei, "Valter era un bosniaco" e non un partigiano jugoslavo, morto da eroe per l'unità e la fratellanza tra tutti i popoli della regione. E la principale colpa di Živojinović oggi, secondo Azra Nuhefendić, è che pretende - lui serbo! sacrilegio! - di "difendere di nuovo Sarajevo".

In un altro articolo, pubblicato pochi giorni prima dal quotidiano "Il Piccolo", Azra Nuhefendić ha sparato ancora più in alto: ha attaccato il maggiore regista serbo contemporaneo, Emir Kusturica. Non solo: ha attaccato la città di Trieste, che ha ospitato Kusturica da musicista con il suo gruppo "No Smoking Orchestra" (2). Di nuovo, l'accusa è tutta razziale-razzista: Kusturica "originario di una famiglia musulmana di Sarajevo" avrebbe tradito il suo sangue, perché "si è schierato con quelli che erano contro il suo Paese", il "Paese (BiH) che l’ha fatto diventare famoso". Kusturica è colpevole di non avere appoggiato il secessionismo bosniaco... Peggio: ha fatto una scelta di campo serba e ortodossa! Ma la Nuhefendić con il suo astio contro Kusturica è solo una tarda seguace della scuola di pensiero fondata da Predrag Matvejević, che da un ventennio oramai rimprovera a Kusturica di non essersi allineato alla cagnara anti-jugoslava e anti-serba (3).

La guerra etnica della Nuhefendić contro i serbi risale a molti anni fa. A una manifestazione a Roma nel 2003, "tra i primi a parlare ci fu un’operaia che, annunciavano, portava da Kragujevac 'un messaggio contro la guerra e per la pace'. Mi sentii offesa e ingannata. Una di noi due, quella volta a Roma, non avrebbe dovuto esserci" (4). O loro, o noi, insomma. 

Italo Slavo


(2) «Trieste sbaglia a invitareKusturica» - su "Il Piccolo" di venerdì 8 giugno 2012 a p.40.

Sulla attività di Azra Nuhefendić come propagandista della secessione bosgnacca si vedano anche, ad esempio:

Diffida al Direttore di Osservatorio Balcani Luca Rastello per le bugie e le calunnie di Azra Nuhefendić nei confronti di Jean Toschi Marazzani Visconti (ottobre-novembre 2008)

Azra Nuhefendić prova goffamente a rivoltare la frittata sulla strage del mercato di Markale (1 luglio 2010)




Vince Cuba, per Onu Portorico ha diritto a indipendenza

di  Redazione Contropiano
Domenica 24 Giugno 2012

Il rappresentante cubano, a nome dell'Alba, chiede alla commissione dell'ONU sulla decolonizzazione il riconoscimento del diritto della colonia statunitense di Puerto Rico a scegliere l'indipendenza. E lo ottiene. 

La commissione Onu per la decolonizzazione accoglie la richiesta, avanzata da Cuba, di riconoscere il diritto all'indipendenza di Puerto Rico, attualmente sotto sovranità statunitense. Il testo, presentato dall'Avana con gli auspici di Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Venezuela, é stato ratificato oggi dall'organismo delle Nazioni Unite per la decolonizzazione ed esorta gli Stati Uniti a portare a termine la devoluzione dei poteri al popolo portoricano, riconoscendone il diritto all'autodeterminazione. Nel documento si chiede inoltre la scarcerazione di tre detenuti, reclusi in penitenziari statunitensi per il loro coinvolgimento nella lotta per l'indipendenza della popolazione portoricana. Uno dei tre, Oscar Lopez Rivera, é in carcere ormai da addirittura 31 anni.

La mozione presentata dal rappresentante permanente di Cuba all'interno della Commissione dell'Onu affermava che Portorico è una nazione latinoamericana e caraibica con una propria identità culturale inconfondibile. E quindi Oscar González León ha reclamato l’indipendenza di questa colonia degli Stati Uniti - eufemisticamente definita da Washington uno ”Stato Libero Associato” - con il sostegno dei paesi latinoamericani retti da governi progressisti. Anche in virtù, ha ricordato, di ben 30 risoluzioni delle Nazioni Unite del 1972 ad oggi, mai rispettate dai vari governi statunitensi. 




Siria, la Jugoslavia araba del Medio Oriente

Nicola Nasser* 
Pravda, 2 novembre 2011

Circondata dal membro veterano turco della NATO a nord, dal partner israeliano della NATO e dalle flotte della marina dei suoi Stati membri, che pattugliano il Mediterraneo, ad ovest, dal partner giordano dell’Alleanza a sud, e ad est dall’Iraq che ospita una missione della NATO, di cui dovrebbe diventare il 12° partner arabo, e nuotando solitario in un mare di alleati strategici arabi e israeliano degli Stati Uniti, il regime del presidente siriano Bashar al-Assad si erge come la Jugoslavia del Medio Oriente, che è stata raggiunta dall’espansione verso sud della Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, così come dal “nuovo ordine mondiale”, progettato dalla potenza unipolare degli Stati Uniti; escluso come corpo estraneo regionale, o raggiungendo Iraq e Libia bombardate fino a tornare all’età medievale.
Dopo l’ultimo loro successo militare nell’aprire il cancello libico sull’Africa,  sembra che degli Stati Uniti siano sul punto di assumere il 13° “partner” arabo della NATO, permettendo così di spostare il quartier generale di Africom dalla Germania al continente, dopo la rimozione del regime di Gheddafi, che si oppose sia a questa mossa e che all’Unione per il Mediterraneo (MU) francese, una rimozione che è di per sé, per tutte le ragioni realpolitiche, un avvertimento minaccioso alla vicina Algeria affinché ammorbidisca la sua opposizione  sull’installazione in Africa di Africom e all’espansione verso sud della NATO, e a togliere qualsiasi riserva mentale sulla rinascita della MU, che ha perso il suo co-presidente egiziano, assieme al presidente Nicolas Sarkozy, con la rimozione dell’ex presidente Hosni Mubarak dal potere a Cairo.
Gli Stati Uniti e la NATO sono pronti ora a spostare l’attenzione dal Nord Africa arabo al Levante arabo, per affrontare l’ultimo ostacolo siriano alla loro egemonia regionale. L’amministrazione del presidente Barak Obama sembra ormai decisa a spezzare il regime di al-Assad, allontanandosi dalla politica decennale di gestione delle crisi, perseguita dalle precedenti amministrazioni degli Stati Uniti nei confronti della Siria, che si trova ora nel Medio Oriente come l’ex Jugoslavia si trovava sulla scia del crollo dell’Unione Sovietica, quando una serie di guerre etniche e religiose la rovinarono, creando dai suoi rottami vari stati nuovi, fino a quando il nucleo serbo dell’unione jugoslava venne bombardata dalla NATO nel 1999, per far della Serbia ora un possibile membro dell’alleanza.
Tuttavia fattori strategici geopolitici internazionali e regionali stanno trasformando la Siria in una linea rossa, che potrebbe inaugurare una nuova era di ordine mondiale multipolare che ponga fine all’ordine unipolare degli Stati Uniti, se l’alleanza guidata dagli Stati Uniti non riuscirà a cambiare il regime siriano, o alla completa egemonia regionale USA – NATO, ciò che potrebbe precludere il risultato tanto atteso, in caso di successo, sono:
- Internamente, le infrastrutture dello Stato sono forti, i militari, la sicurezza, la dirigenza diplomatica e politica sono coerenti, unificate e potenti, ed economicamente lo Stato non è gravato dal debito estero ed è autosufficiente per quanto riguarda prodotti petroliferi, alimentari e di consumo. Imporre un completo assedio per soffocare economicamente e diplomaticamente il Paese sembra impossibile. La cosa più importante politicamente è il fatto che la diversità pluralistica delle grandi minoranze religiose e settarie siriane, priva l’opposizione più importante, quella dell’organizzazione islamista dei Fratelli musulmani, del ruolo guida di cui gode nelle proteste di quella che è stata definita “primavera araba” in Tunisia, Egitto e Yemen.
- Contrariamente alle analisi occidentali, che prevedono che il cambiamento dei regimi della “primavera araba” sia un disco motivante per un cambiamento simile in Siria, tali cambiamenti sono stati dei cattivi esempi per i siriani. La distruzione delle infrastrutture dello stato, specialmente in Iraq e Libia, e la cessione del processo decisionale nazionale alla NATO e agli Stati Uniti, almeno per gratitudine verso i loro ruoli nel cambiamento, non sono considerate dalla stragrande maggioranza dei siriani, compresa l’opposizione tradizionale nel paese, un prezzo accettabile e fattibile per il cambiamento e la riforma. L’esimio giornalista veterano egiziano e internazionale, Mohammed Hassanein Heikal, in un’intervista al canale satellitare arabo del Qatar, al-Jazeera, citava i cattivi esempi iracheni e libici, per spiegare l’alienazione della classe media siriana nelle principali città dal sostegno alle proteste che esigono il cambiamento del regime, ed aveva anche accusato al-Jazeera di “istigazione” contro il regime siriano di al-Assad.
- Questa situazione complessiva interna continua a scoraggiare un intervento esterno, da un lato, e dall’altro spiega perché l’opposizione abbia finora fallito nel lanciare anche una sola protesta da milioni di persone nelle strade, come era ed è il caso di Tunisia, Egitto, Bahrain e Yemen, soprattutto nei centri abitati più importanti come la capitale Damasco, Aleppo, che ospitano una decina di milioni di persone.
- Inoltre, l’uscita di una minoranza di islamisti armati, che presumibilmente avrebbe difeso i manifestanti, è fallita, alienando il pubblico in generale, le minoranze, in particolare, ed evidenziando le loro fonti esterne di finanziamento e di armamento, in tal modo sostenendo l’accusa del regime dell’esistenza di una “cospirazione” esterna, ma soprattutto deviando i riflettori dei media dalle proteste pacifiche, indebolendo queste proteste e allontanando sempre più persone dall’unirsi a loro per paura della sicurezza personale, come dimostrato dalla grande diminuzione di manifestanti, e trascinando l’opposizione in battaglia, dove il regime è sicuramente più forte, almeno in assenza di intervento militare esterno, che non è prossimo in un futuro prevedibile; un fatto che è stato confermato nella capitale libica, Tripoli, il 31 ottobre, dal segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen: “La NATO non ha alcuna intenzione (di intervenire). Posso assolutamente escluderlo“, riferiva la Reuters .
- Geopoliticamente, è vero che le potenze occidentali dopo la Prima guerra mondiale riuscirono a ridurre la Siria storica alla sua dimensione attuale, ma l’ideologia siriana pan-araba e la sua influenza si basano ancora sulla Siria storica, ed è ancora coerente con ciò che il defunto studioso di Princeton, Philip K. Hitti aveva chiamato (citato da Robert D. Kaplan su Foreign Policy del 21 aprile 2011) “Grande Siria” – l’antecedente storico della moderna Repubblica – “il più grande piccolo paese sulla mappa, di dimensioni microscopiche, ma dall’influenza cosmica“, che comprende nella sua geografia, alla confluenza di Europa, Asia e Africa, “la storia del mondo civilizzato in miniatura“. Kaplan ha commentato: “Questa non è un’esagerazione, perché non lo sono i disordini in corso in Siria, molto più importanti di quanto abbiamo visto nei disordini in tutto il Medio Oriente.” Il cambiamento di regime in Siria non porterà sicurezza e stabilità nella regione, al contrario, si aprirà un vaso di Pandora regionale. Il presidente siriano al-Assad è assai ben consapevole di questa realtà geopolitica, quando ha detto in Gran Bretagna, in una recente intervista al Sunday Telegraph che la Siria “è una (regione) linea di faglia, e se salti sul suolo, causerai un terremoto“.
- Le ripercussioni regionali di una guerra civile in Siria sono un fattore deterrente, sia contro la militarizzazione delle proteste pacifiche pro-riforma che gli interventi militari a sostegno delle stesse. Pertanto, quando la NATO e gli Stati Uniti fanno pressione o incoraggiano i loro alleati regionali Turchia e paesi arabi del CCG a fomentare conflitti settari sunniti contro l’alleato siriano dell’Iran sciita, come un preludio di guerra civile per il solo  pretesto di un intervento militare, in realtà giocano con il fuoco regionale, che non salverà né i responsabili, né gli interessi “vitali” dei loro sponsor USA-NATO.
- A livello regionale, la possibile perdita per l’Iran del suo ponte siriano sul Mediterraneo, mentre le sue rotte strategiche sul mare potrebbero facilmente essere chiuse nel Golfo, nel Mare Arabico, nello Stretto di Bab-el-Mandeb, nel mar Rosso e nel Canale di Suez da parte della quinta e sesta flotte degli Stati Uniti, nonché dalle flotte degli Stati membri della NATO e d’Israele, e dei governi pro-USA che si affacciano su queste rotte marittime; allora è la linea rossa iraniana il cui sconfinamento potrebbe creare una situazione gravida di rischi potenziali di una guerra regionale.
- Anche Livello regionale, a meno della decisione di Stati Uniti e NATO di andare in guerra contro l’Iran e la Siria, l’intervento militare in Siria non sarebbe all’ordine del giorno, a meno che non ci siano garanzie che Israele resti fuori dalla portata della prevedibile rappresaglia iraniana e siriana.
- I tempi dello spostamento dell’attenzione sulla Siria di USA – NATO coincidono con il punto morto del processo di pace palestinese – israeliano e col fallimento di Barak Obama nel mantenere le sue promesse verso i suoi alleati arabi, allontanando il più moderato di loro, vale a dire il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che è ancora in rotta di collisione con lo sponsor statunitense della campagna internazionale contro il suo processo per garantirsi, in ritardo, il riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Il fallimento della mediazione di pace degli Stati Uniti è più controproducente del processo di pace israelo-siriano. Il regime di al-Assad andò al potere con un colpo di stato, con il preciso intento di essere coinvolto nel processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti in Medio Oriente. Più di quaranta anni dopo gli Stati Uniti vi sono ancora impegnati. Questo fallimento erode l’influenza degli arabi moderati filo-USA, ponendosi come il più grande ostacolo alla costruzione di un fronte israelo-statunitense-arabo contro l’Iran, che è una priorità regionale statunitense e israeliana, aggiunge munizioni e forze al protagonista siriano. L’accordo di riconciliazione di Abbas con un Hamas basato in Siria, è un buon esempio per riflettere su questo contesto, un altro è l’ultima opzione pronunciata dal leader palestinese di sciogliere l’Autorità dell’auto-governo palestinese sotto l’occupazione militare israeliana, cosa che sarebbe un colpo mortale al processo di pace arabo – israeliano.
- Il fallimento della “sponsorizzazione” degli Stati Uniti è stato un fattore importante che ha contribuito ai cambiamenti della “primavera araba” sulla catena di regimi arabi filo-USA di Egitto, Tunisia e Yemen. Tuttavia, questo fallimento rafforza l’ideologia della “resistenza” della Siria, giustifica il suo coordinamento strategico difensivo con l’Iran, rafforza il sostegno popolare a entrambi i paesi nella regione, e dà credibilità alla tesi del regime di Damasco, secondo cui gli Stati Uniti e la NATO stanno alimentando le proteste siriane in nome del cambiamento e della riforma, ma in realtà sfruttando queste proteste “per cambiare il regime” e sostituirlo con uno più disposto ad accettare l’imposizione dei dettati per la pace israelo – statunitense.
- Il ritiro programmato delle forze di combattimento statunitensi dall’Iraq entro la fine dell’anno, è un altro fattore regionale negativo contro l’intervento militare in Siria. Il ritiro senza dubbio lascerà l’Iraq nel quadro di un regime pro – Iran. Il primo ministro Nouri al-Maliki è tra coloro che si oppongono al cambio di regime in Siria, proprio a causa dell’influenza iraniana. L’Iraq sta ormai apertamente sostituendo la Turchia come profondità strategica del suo vicino siriano, fornendo un collegamento strategico tra gli alleati Damasco e Teheran, dopo l’inversione di rotta della Turchia sulla sua “cooperazione strategica” con la Siria, dopo nove anni di “rapporti a zero problemi” con i vicini arabi e islamici, e la sua adesione ai piani della NATO e degli Stati Uniti sulla Siria come membro e alleata rispettivamente.
- A livello internazionale, gli ultimi veti russi e cinesi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sono un’indicazione sufficiente che lo sforzo di Stati Uniti – NATO per cambiare il regime siriano ha superato un’altra linea rossa. Perdendo le sue infrastrutture marittime in Siria, la Russia resterebbe esclusa dal Mar Mediterraneo, che lo renderebbe un lago della NATO e degli Stati Uniti. La Cina, il cui vantaggio competitivo in Africa viene messo in discussione a seguito del cambiamento di regime in Libia, vedrebbe la caduta della Siria, divenendo una base di lancio di Stati Uniti – NATO contro l’Iran, una minaccia reale per la sua competitiva partnership con l’Iran. Cacciando Pechino anche dall’Iran, l’emergente gigante economico cinese sarebbe alla mercé dei partner della NATO, se riuscissero a garantirsi il controllo di Iran e Siria, perché questo  garantirebbe anche il controllo delle riserve strategiche di petrolio in Medio Oriente e Asia centrale. Questo è assolutamente una linea rossa cinese.
- Diplomaticamente, i piani di intervento militare in Siria di USA – NATO, hanno visto negata qualsiasi copertura di legittimità delle Nazioni Unite dai veti russi e cinesi. La legittimità della Lega Araba è ancora carente; per congelare l’adesione di uno Stato membro, come nel caso della Libia, ha bisogno di un consenso che non è in vista.
Due opzioni
Questo è il contesto geopolitico strategico nel quale la trasformazione pro-democrazia siriana sta cercando disperatamente di sopravvivere ai mezzi non democratici di Stati Uniti – NATO per costringere la Siria alla conformità. Sia l’opposizione tradizionale nel paese che il regime al potere hanno quasi un consenso sulle riforme e ai cambiamenti fondamentali che porteranno la Siria a essere ciò che viene oggi definita “seconda repubblica”, attraverso il dialogo.
Sia questa opposizione che il regime, sono contro la militarizzazione delle proteste popolari pacifiche che richiedono riforme e cambiamento, e sono più risolutamente contrarie all’intervento straniero in qualsiasi forma, ed entrambe sono alla ricerca di unità nazionale interna, nonché del supporto estero al pacchetto di riforme che includono l’eliminazione della legge marziale, la limitazione del ruolo dell’intelligence dello Stato sulla sicurezza nazionale, l’abilitazione della società civile, il contrasto alla corruzione politica ed economica, pluralismo politico, elezioni, cambiando delle leggi elettorale, sui partiti e i media, bilanciamento tra esecutivo e legislativo, promozione della magistratura e dello Stato di diritto, e soprattutto, fine del monopolio costituzionale del potere del Partito Baath. Il Carnegie Endowment nella sua “Riforma in Siria: tra il modello cinese e il cambio di regime” del luglio 2006, aveva proposto la maggior parte delle riforme. In meno di sei mesi, il presidente al-Assad ha già emesso i decreti presidenziali che attuano tutte queste riforme.
Tuttavia l’asse dei sostenitori della “responsabilità di proteggere” di Stati Uniti – NATO persiste nel creare fatti sul terreno che comportino l’intervento straniero e li metta in grado di scambiare il loro sostegno a questo pacchetto di riforme interne a un cambiamento dall’esterno dell’agenda politica siriana che ha alimentato, nel corso di quattro decenni di governo al-Assad, la sua rete di alleanze regionali e internazionali hanno permesso alla Siria di mantenere una opzione di difesa nella sua lotta 40ennale per liberare le alture del Golan siriane occupate dagli israeliani, e di rimanere salda contro la dettatura di condizioni a Damasco per fare la pace con Israele, secondo termini israeliani.
Questi fattori negativi lasciano agli Stati Uniti e alla NATO due opzioni:
Primo, fare pressioni sul membro della NATO, la Turchia, affinché abbandoni i suoi nove anni di rapporti a “zero” problemi con i suoi vicini regionali, come descritto da Liam Stack sul New York Times, del 27 ottobre, mentre “ospita un gruppo armato di opposizione che conduce un’insurrezione ... nel mezzo di una più ampia campagna turca per minare il governo di Assad“, nel suo vicino meridionale siriano, la stessa ragione per cui la Turchia da anni conduce incursioni militari in Iraq, e del perché Ankara era sull’orlo della guerra con la Siria, alla fine degli anni ’90.
Secondo, aumentare la militarizzazione delle proteste pacifiche. Il 14 agosto 2011, il notiziario d’intelligence israeliano Debka aveva riferito che gli sviluppi in Siria erano al punto di una vera e propria insurrezione armata, integrata da “combattenti per la libertà” islamisti segretamente supportati, addestrati ed equipaggiati da potenze straniere. Secondo fonti di intelligence israeliane: il quartier generale della NATO a Bruxelles e l’alto comando turco, elaborano piani ... per armare i ribelli con armi controcarro ed anti-elicotteri ... Gli strateghi della NATO stanno pensando a riversare grandi quantità di missili anti-tank e anti-aereo, mortai e mitragliatrici pesanti nei centri di protesta ... La consegna di armi ai ribelli è prevista via terra, vale a dire attraverso la Turchia e sotto la protezione dell’esercito turco ... Secondo fonti israeliane, che restano da verificare, la NATO e l’alto comando turco, contemplano anche lo sviluppo di una “jihad” che comporta l’arruolamento di migliaia di “combattenti per la libertà” islamisti, cosa che ricorda l’arruolamento dei mujahideen per condurre la jihad (guerra santa) della CIA nel periodo di massimo splendore della guerra sovietico-afghana ... è stato anche discusso a Bruxelles e Ankara, affermano le nostre fonti, una campagna per arruolare migliaia di volontari musulmani nei paesi del Medio Oriente e del mondo musulmano, per combattere a fianco dei ribelli siriani. L’esercito turco avrebbe ospitato, addestrato questi volontari e garantito il loro passaggio in Siria!
L’editorialista del Washington Post del 28 settembre 2011, ha fatto una previsione: “La comparsa di tali forze non può essere benaccolta, neanche da coloro che sperano di porre fine al regime di Assad“.
Tuttavia, gli Stati Uniti e la NATO sembrano correre contro il tempo nel perseguire esattamente questo obiettivo, attraverso queste due opzioni, per impedire l’attuazione del pacchetto di riforme siriane, fino a quando il regime al potere sarà costretto a scambiare il suo sostegno a queste riforme con la conformità nell’agenda della politica estera siriana.
Ma poiché la politica estera siriana, come la politica estera di tutti i paesi, serve le prerogative interne in primo luogo, nel caso siriano la liberazione delle terre siriane occupate da Israele, la Siria non è tenuta ad adempiere tale scambio. Pertanto, la “resistenza” siriana continua, e con essa il conflitto regionale.
Nick Cohen ha scritto sul The Jewish Chronicle del 30 agosto 2011: “La Siria è una storia che grida la prima pagina. Ma non sta ricevendo l’interesse che si merita.” Cohen ha ragione, ma deve ancora affrontare la Siria da un approccio completamente diverso.
*Nicola Nasser è un veterano del giornalismo arabo di Bir Zeit, in Cisgiordania, nei territori palestinesi occupati da Israele.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora



Da un ventennio l'Italia pratica politiche guerrafondaie in totale e flagrante spregio del diritto internazionale e nazionale, a partire dalla propria Carta Costituzionale. I giornalisti nostrani, violando il proprio codice deontologico, sussiegosamente preparano la mobilitazione bellica delle masse e si assoggettano all' "embargo" su tutte le notizie e gli approfondimenti che non contribuiscono ad aizzare l'opinione pubblica contro il nemico di turno. Quei professionisti onesti, nei quali la coscienza democratica prevale sulla vigliacca ed egoistica sete di carriera e di denaro, sono fatti oggetto di campagne intimidatorie degne dell'altro oscuro Ventennio vissuto dal nostro paese. 
Tra questi ultimi va annoverata Marinella Correggia, animatrice da alcuni mesi di una importante iniziativa di critica alla informazione "embedded" propinataci dapprima sulla Libia ed ora sulla Siria: il sito di controinformazione e analisi www.sibialiria.org . Il blocco guerrafondaio che attacca Marinella Correggia è composto soprattutto da quegli elementi sciovinisti di ex-sinistra oramai arruolati nel CNS. Il loro unico sogno è quello di vedere Assad linciato brutalmente come già Gheddafi e Saddam; e per esaudire tale desiderio non solo godono dell'informazione falsificata e della propaganda di guerra, ma passerebbero sul cadavere di chiunque osi metterla in discussione. (a cura di Italo Slavo)

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Lettera di denuncia del danno morale e materiale inflittomi pubblicamente da alcune persone per il mio impegno contro la guerra in Siria con la richiesta che ritirino pubblicamente le accuse
Marinella Correggia,  16.06.2012
 
Mi ritengo gravemente danneggiata sul piano umano e materiale da reiterati “articoli” o interventi su facebook e su blog (un parziale elenco si trova più oltre) contro il mio impegno assolutamente gratuito e a mie spese benché quasi a tempo pieno, un impegno contro le guerre e i loro devastanti effetti, impegno iniziato nel 1990-91, e ultimamente volto a scongiurare la guerra Nato in Libia prima e in Siria ora, grazie a una intossicazione mediatica senza pari, alla quale gli autori delle ingiurie nei miei confronti collaborano (nel loro piccolo) e che io da molto tempo cerco di contrastare (nel mio piccolissimo).
Ecco alcuni degli articoli e interventi ai quali mi riferisco (ringrazio chi me li ha segnalati poiché non sono su facebook e la mia navigazione internet non si riferisce a siti di opinione). La libertà di giudizio non deve però arrivare a una disinformazione infamante. Invito le persone e i siti o blog o gruppi facebook nominati a ritirare al più presto le accuse e a scusarsi:
- - Scritto apparso sul sito Vicino Oriente a firma Monti Germano che mi accusa di essere al servizio del regime di Assad e mi affianca a gruppi di estrema destra (accuse entrambe ridicole per chiunque mi conosca; ma non è il caso dell’autore). L’articolo è stato ripreso dal sito di Amedeo Ricucci.
- - L’intervento della signora Aya Homsi nel gruppo facebook “Vogliamo una Siria libera” che fiancheggia il CNS (Consiglio nazionale siriano) e l’Esercito siriano libero; la signora afferma che se io scrivo quel che scrivo è perché “ne traggo un profitto”.
- - Le accuse di essere “embedded” rivoltemi pubblicamente dal signor Enrico De Angelis che lavora al Cairo per un centro di ricerca francese.
1. Gli attacchi ingiuriosi si riferiscono alla ricerca e divulgazione che compio e che in parte viene pubblicata sul sito dedicato www.sibialiria.org. Come chiunque può vedere il sito non dice nemmeno una parola a favore del governo siriano. Ma analizza in tanti episodi i cortocircuiti della disinformazione attuata sin dai massimi livelli (settori dell’Onu che attingono a fonti di parte), la quale sta portando Occidente e petromonarchie a un altro intervento con pretesti “umanitari”, reso possibile dalla creazione del consenso che manipola una realtà di scontri settari con interferenze esterne pesanti fomentati e la fa diventare “un intero popolo massacrato da un dittatore”. Riporto anche testimonianze dirette con nomi e cognomi di vittime alle quali nessuno presta attenzione. Il mio attivismo consiste non tanto nello scrivere articoli (questo non prenderebbe tanto tempo) quanto soprattutto nel networking nazionale e internazionale (rispetto a militanti, siti, gruppi politici, media alternativi) al quale dedico molte ore al giorno; per non dire delle numerose manifestazioni, sit in eccetera nei quali mi attivo da oltre un anno. Ma questo è sconosciuto a chi mi attacca.
2. E’ un grande dolore essere accusati – per la prima volta da quando ho iniziato l’attivismo pacifista nel 1991 - di “pacifismo nero” da parte di persone (vedi oltre) che sostenevano indirettamente i cosiddetti “ribelli” libici, le cui gesta razziste, violente, repressive dei diritti umani, e che ora sostengono il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), il quale è finanziato da stati come Qatar e Arabia Saudita, oltre alle potenze occidentali (“dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei”) e per questo invece di muoversi su una vera strada negoziale chiede ufficialmente interventi armati esterni da parte dei suoi alleati stati capitalisti e sostiene il cosiddetto Esercito siriano libero, delle cui gesta riferiscono ormai gli stessi media mainstream. E’ sorprendente che al tempo stesso i suoi “attivisti” siano presi come fonte di notizie...
3. E’ vergognoso che mi si accusi sul gruppo facebook “Vogliamo una Siria libera” di trarre profitto dai miei scritti. E’ l’esatto contrario, come sa chiunque mi conosca. E’ infatti notevole e ormai quasi insostenibile il danno materiale che traggo dall’impegno per la pace, a causa di (1) mancati introiti dalle mie attività lavorative, pressoché abbandonate da un anno per mancanza di tempo dovendo/volendo dedicarmi solo a questo impegno antiguerra, 2) spese di viaggi in loco (Libia e Siria), e di telefono. A questo si aggiungerà ora 3) il pregiudizio a mie attività future nel campo dell'ecologia di giustizia, a causa di questa diffamazione nei miei confronti. Di pagato in relazione alla Siria ho scritto solo un reportage con foto, per un totale di circa 300 euro. Il resto è stato gratuito e, ripeto, con spese a mio carico. E con una perdita di tempo che mi rallenta diversi progetti anche editoriali. La mia ostinazione è giustificata solo dal non voler vedere più il mio paese partire a bombardare altrui popoli (con effetti che ho verificato in loco più volte) con pretesti umanitari veicolati da menzogne assordanti. Mi muove il desiderio che quella alla Libia sia stata L’ultima delle (nostre) guerre di bombardamenti e massacri. Ma grazie a tanta gente non sarà così.
4. Per me questo è il naturale seguito di un impegno contro le guerre occidentali iniziato nel 1991 e sempre gratuito e autofinanziato (dalle mie attività di autrice di libri e articoli in materia di ecologia, rapporti Nord-Sud, rispetto dei viventi). L’indignazione per il ruolo bellico del paese nel quale purtroppo vivo mi ha portata a essere presente sia in Iraq che in Jugoslavia che in Libia durante i bombardamenti e non certo come inviata di guerra (!) ma come militante. Dal 1991 (prima guerra del Golfo) la propaganda mediatica e la disinformazione creano consenso a interventi bellici. Ora, accertare la verità è cosa difficile, ma cogliere le menzogne e la disinformazione lo è meno. Prende solo molto tempo
5. Con l’occasione denuncio l’opera di demonizzazione contro chiunque esca dal coro assordante e faccia notare esempi lapalissiani di propaganda pro-bellica a tutti i livelli. E’ additato e oltraggiato anche l’impegno di diversi attivisti della Rete NoWar di cui faccio parte.


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Solidarietà alla giornalista e pacifista Marinella Correggia

In questi giorni abbiamo assistito, allibiti, ad una serie di attacchi alla nostra collega Marinella Correggia, giornalista, pacifista dal 1991 e componente di lunga data della Rete NoWar - Roma.   Attacchi che respingiamo con sdegno perché infondati, strumentali e meschinamente ad personam.

Il lavoro che Marinella porta avanti da diversi anni, insieme ad alcuni di noi della Rete, è quello di smontare le bugie contenute in quel diluvio di notizie sensazionalistiche che i mass media usano regolarmente, si direbbe ad arte, per convincerci di sostenere interventi armati in paesi terzi.   Il suo è un lavoro di "pacifismo militante giornalistico", gratuito e a sue spese (e quindi niente affatto “per conto terzi”).

Marinella, nello smontare le falsificazioni dei mass media, dà senz'altro fastidio a qualcuno, non abbiamo dubbi.  E non solo ai giornalisti interessati, ma anche e soprattutto ai ceti dominanti che cercano di promuovere, per profitto, le guerre di conquista fatte passare per interventi "umanitari" in Libia, in Afghanistan, in Iraq, nell'ex-Jugoslavia, ora in Siria.  Marinella sembra infastidire persino molti opinionisti politici che amano dipingere i conflitti in corso in modo semplicistico e del tutto subalterno ai mass media: "popoli coraggiosi che affrontano spontaneamente e a mani nude spietati dittatori i quali, assetati di sangue, non esitano a bombardarli".  Marinella guasta la festa, scoprendo e documentando come, dietro queste sollevazioni senz'altro coraggiose e soggettivamente spontanee, ci siano anche registi occulti che armano i settori più estremisti, inviano nel paese in questione guerriglieri mercenari per aizzare il dittatore di turno e, quindi, provocano guerre civili per giustificare poi i loro interventi "umanitari" a suon di bombe.   E che usano dunque, come i loro "apologeti de facto", questi opinionisti e questi giornalisti compiacenti.

Marinella li denuncia, documenti alla mano; non sorprende, dunque, che qualcuno di loro, per stizza o per partito preso, denuncia Marinella -- e, non avendo documenti di appoggio, ricorre all'insinuazione e all'attribuzione di intenti.  Ma ora basta.  Continuare a spargere queste denigrazioni potrebbe danneggiare seriamente l'attività giornalistica di Marinella.  Pertanto avvertiamo chi vorrebbe continuare a farlo che saremo solidali con Marinella nella tutela del suo nome e della sua professionalità.

Roma, 19 giugno 2012 
                                                 
Rete NoWar – Roma


Firmatari: Nella Ginatempo,  Alessandro Marescotti,  Giulietto Chiesa,  Ufficio Centrale di Alternativa. Claudia Fanti e la redazione Adista,  Giovanni Sarubbi,  Sergio Cararo,  Mila Pernice,  Maurizio Musolino,  Loretta Mussi,  Alessandra Capone,  Alessandro Di Meo,  Andrea Dominici,  Anita Fisicaro,  Anna Farkas,  Antonella Recchia,  Antonio Deplano,  Armando Tolu,  Bassam Saleh,   Blanca Clemente, Luisa Morgantini, Bruna Felici,  Carla Razzano,  David Lifodi,  Dominique Sbiroli,  Enrica Paccoi,  Enza Biancongino,  Enzo Brandi,  Ernesto Celestini,  Flavia Lepre,  Francesco Lussone,  Franco Maresca,  Gianfranco Landi,  Haysha Moore,  Jasmina Radivojevic,  Laura Tussi,  Luciano Manna,  Mahamid Souad, Marco Benevento,  Marco Palombo,  Marco Papacci,  Marco Santopadre,  Maria Antonietta Polidori,  Maria Cristina Lauretti,  Mario Schena,  Marta Turilli,  Massimo Fofi,  Mirella Retico,  Ornella Sangiovanni,  Paola Tiberi,  Patrick Boylan,   Patrizia Cecconi,  Piero Pagliani,  Pietro Raitano,  Pilar Castel,  Roberto  Battiglia,   Roberto  Luchetti,  Rosa Maria Coppolino,  Samantha Mengarelli,  Sancia Gaetani,  Simona Ricciardelli,  Stefania Limiti,  Stefania Russo,  Tiziano Cavalieri,  Tullio Cardia, Francesco Santoianni,  Angelica Romano, Simona Ricciardelli. Francesco Lussone




Da: Iniziativa PARTIGIANI! <partigiani7maggio @ tiscali.it>

Oggetto: Fermo 23/6, Sinalunga 30/6: I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA

Data: 18 giugno 2012 12.14.03 GMT+02.00



I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA
Storie e memorie di una vicenda ignorata

Roma, Odradek, 2011
pp.348 - euro 23,00

Per informazioni sul libro si vedano:


Novità: 

# E' in corso di pubblicazione su “Italia contemporanea” ( http://www.francoangeli.it/riviste/sommario.asp?IDRivista=164 ) l'articolo:

Gaetano Colantuono
"La presenza di partigiani jugoslavi nella Puglia centrale (1943-1945). Il caso del comune di Grumo Appula"

Abstract:
L’autore analizza i caratteri della presenza di ex internati, profughi e partigiani jugoslavi in Italia meridionale – e delle memorie che di essa permangono – nel comune di Grumo Appula, situato nella Puglia centrale, dal settembre 1943 alla fine della seconda guerra mondiale. Sono qui sviluppati e approfonditi i risultati di una laboriosa ricostruzione delle vicende dei gruppi jugoslavi attivi nella lotta partigiana in Italia, esposte nel volume collettaneo I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda ignorata. Sulla base del riesame di fonti di varia natura, il saggio conferma l’importante ruolo svolto dalla Puglia sia come duplice retrovia per coloro che avevano combattuto lungo l’Appennino e per quanti combattevano nei Balcani (luogo di cure mediche, di reclutamento, di addestramento, di formazione delle Brigate d’oltremare che successivamente si sarebbero unite all’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia) sia come area di complessa mediazione fra i diversi soggetti attivi nel periodo dell’occupazione alleata.

# La giunta di San Severino intitola due vie agli eroi della Resistenza
Al comando dell'istriano Mario Depangher molti erano gli antifascisti jugoslavi, sfuggiti dai campi di concentramento fascisti della nostra Penisola

# In Facebook, le nuove segnalazioni sui Partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana d'ora in poi appaiono tutte alla pagina:

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Fermo, sabato 23 giugno 2012
alle 18:00 presso il B.U.C. Machinery del Conservatorio, Via dell'Università 16

nell'ambito delle iniziative per il 68.mo anniversario della Liberazione di Fermo e del Fermano

Saluti del Sindaco e delle Autorità

Presentazione dei volumi
I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana
di Andrea Martocchia, ed. Odradek
e
La sentenza
di Valerio Varesi, ed. Frassinelli

Saranno presenti gli autori. Coordina Samuele Biondi, Presidente ANPI Fermo

scarica la locandina:

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Sinalunga (SI), sabato 30 giugno 2012
alle ore 18:00 presso la libreria della Festa Democratica di Pieve di Sinalunga (zona Stadio) 

 Presentazione del volume

I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana
Storie e memorie di una vicenda ignorata

di e con il dr. Andrea Martocchia

in collaborazione con ANPI Sinalunga


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(srpskohrvatski / english / italiano)

Missione coloniale-suicida in Kosovo

0) Roma 23/6: Ci metto la faccia! 

1) NOTIZIE / NOVOSTI (Fonte / izvor: www.glassrbije.org)
2) Slučajno se ubio italijanski pripadnik KFOR-a / Forse suicida il soldato italiano morto oggi in Kosovo
3) Il Kosovo Metohija a 13 anni dalla fine dell’aggressione NATO (E. Vigna)
4) What Is NATO/KFOR Really Doing In Kosovo? (John Robles)


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da Alessandro Di Meo riceviamo via Facebook:
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Ci metto la faccia! 

Iniziativa a sostegno dei bambini serbi del Kosovo e Metohija promosso da“Un Ponte per...” 

SABATO 23 GIUGNO 
dalle ore 16.00 in poi a Grottaferrata (Rm)
presso Agricoltura Capodarco via del Grottino snc, 
Presentazione iniziativa a sostegno di famiglie e bambini serbi del Kosovo e Metohija (zona di Gnjilane)

Partecipazione musicale di 
Aloha –Yampapaya world music 
Sacchi -Ranieri-Segnegni Trio Jazz 
Temperanova (bossanova) 
I Musicanti Rudari(musica balcanica) 
Massimo Carrano (multipercussioni) 
Michele Martino (Mediterrafrica) 
Rusty Bluesy ensemble (blues ) 
Radici... ritrovare nell’antica musica nera... la forza di liberazione 
per le schiavitù di oggi... (spiritual) 

Proiezione video "Tempo di digiumo" e brevi letture di Alessandro Di Meo (ass. Un Ponte per...) 

A fine serata Gran falo’ della Notte di San Giovanni 
Stand gastronomici con degustazione di piatti tipici 

Un ringraziamento speciale a Guido Manzi per il service 
(Kirghisa Suono www.kirghisa.it
Per info: 0694549191 segreteria@...


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NOTIZIE / NOVOSTI
Fonte / izvor: www.glassrbije.org

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[Sintesi: Anniversario  dell' Accordo di Kumanovo - Il 9 giugno, verso le ore 22, all'aeroporto sportivo di "Acitepe" vicino Kumanovo, in Macedonia, viene firmato l'accordo tecnico-militare per una soluzione pacifica della crisi del Kosmet. Con la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle N.U. il Kosmet rimane parte integrante della Serbia. Nei precedenti 78 giorni di bombardamenti contro la R.F. di Jugoslavia, iniziati il 24 marzo 1999, erano state assassinate più di 2000 persone, mentre quasi 5000 erano state ferite...]

Godišnjica Kumanovskog sporazuma

Sub, 09/06/2012 

Na današnji dan pre 13 godina, predstavnici SR Jugoslavije i NATO-a potpisali su u Kumanovu, Vojno-tehnički sporazum o povlačenju jugoslovenske vojske i policije sa Kosova i Metohije. Time su okončani napadi NATO-a na Saveznu Republiku Jugoslaviju, a na Kosmetu su, na osnovu Rezolucije 1244 Saveta bezbednosti UN, raspoređene međunarodne snage. Dan posle potpisivanja sporazuma, prestalo je Nato bombardovanje Jugoslavije posle 78 dana, a snage Vojske Jugoslavije i MUP-a Srbije počele su povlačenje sa Kosova i Metohije, koje je prema sporazumu trajalo 11 dana. Kumanovskim sporazumom stvorena je i Kopnena zona bezbednosti, koja je formalno još uvek na snazi, čija je dubina pet kilometara, od administrativne linije pokrajine i centralne Srbije. U Nato bombardovanju SRJ koje je počelo 24. marta 1999. više od 2.000 ljudi je poginulo, a gotovo 5.000 ranjeno. Teško su oštećeni infrastruktura, privredni objekti, škole, zdravstvene ustanove, medijske kuće i spomenici kulture.


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[Sintesi: Caro è il prezzo dell' "indipendenza" - Pristina sta pagando a caro prezzo per la sua cosiddetta indipendenza. Ai tanti diplomatici occidentali che hanno già intascato riccamente il loro ingaggio nella realizzazione del progetto del cosiddetto Kosovo indipendente si è aggiunto anche il comandante in pensione Wesley Clark (il bombarolo), interessato alle risorse di carbone nella Regione...]

Visoka cena „nezavisnosti“

Sre, 13/06/2012

Priština, čini se, skupo plaća svoju tzv. nezavisnost. Brojnim zapadnim diplomatama koji su već bogato naplatili svoj angažman na realizaciji projekta tzv. nezavisnog Kosova pridružio se i penzionisani američki general Vesli Klark, koji je posebno zainteresovan za rezerve uglja u Pokrajini. I dok oni zgrću bogatstvo, na Kosovu i Metohiji su sve prisutniji korupcija i organizovani kriminal, a građani sve dublje tonu u siromaštvo, o čemu najbolje govore visoka stopa nezaposlenosti i konstantan pad životnog standarda.

Nije tajna da su tokom proteklih 12 godina mnoge zapadne diplomate vodile veoma uspešan biznis na Kosovu i Metohiji, što im je donelo zaradu od nekoliko stotina miliona dolara. Među njima su bivša američka državna sekretarka Medlin Olbrajt i nekadašnji šef UNMIK-a Bernar Kušner, koji su vodili glavnu reč u telekomunikacionim poslovima. Prema navodima nekih beogradskih listova, Kušner je imao ključnu ulogu u stvaranju prvog i najvećeg operatera mobilne telefonije na Kosmetu “Valja” - konzorcijuma PTT Kosova i francuskog “Alkatela”, sa godišnjim prihodom od 200 miliona dolara."Olbrajt grupa" je 2004. godine preuzela posao specijalnog savetnika predsednika Upravnog odbora "Ipko neta", koju su 1999. godine usred bombardovanja bivše Jugoslavije formirali niko drugi nego čelnici Međunarodnog komiteta za pomoć ugroženima. "Ipko net" je posle dolaska NATO na Kosmet, uz Kušnerov blagoslov, potpisao ekskluzivni ugovor sa Kosovskom energetskom korporacijom, o korišćenju infrastrukture, što mu je omogućilo da postane prvi internet-provajder koji je pokrivao 70 odsto teritorije pokrajine.

Veslija Klarka, u vreme bombardovanja SRJ komandant NATO snaga, a sada rukovodioca kanadske energetske korporacije "Eviditi“ interesuju isključivo rezerve uglja na Kosmetu, iz kojih bi se, kako se procenjuje, dobijalo oko 100 hiljada barela sintetičke nafte dnevno. Ta vest, koju je objavio portal „Život na Kosovu“, možda i ne bi privukla pažnju domaće javnosti, da zakoniti vlasnik tog rudnog bogatstva, kao uostalom svih energetskih potencijala i telekomunikacione infrasturkture, nije upravo Republika Srbija. Prema podacima beogradskog Geozavoda za istraživanje mineralnih sirovina, koji od 2006. godine radi u sklopu Geoinstituta reč je o 7 do 12 milijardi tona uglja u kosmetskom basenu i oko dve milijarde tona u Metohiji. S ozbirom na to može se pretpostaviti koliko je Srbija u proteklih 12 godina izgubila zbog nerešenog kosmetskog problema, odnosno zbog činjenice da nad svojim sirovinskim i energetskim potencijalima u pokrajini nema nadležnosti.

S druge strane, ponovo se nameće zaključak da u osnovi tzv. projekta kosovske nezavisnosti ipak nisu ljudska prava, na čemu insistiraju prištinski mentori na Zapadu, nego strateški, a čini se, ponajviše lični interesi glavnih igrača u međunarodnim političkim i ekonomskim odnosima. Na to je još pre par godina otvoreno ukazao američki profesor Majkl Čosudovski iz Insituta Globar Researchs. On je tada, u svom autorskom tekstu, naveo da je priznanje nezavisnosti Kosmeta deo vojnog plana na realaciji SAD – NATO i da je bombardovanjem Srbije, posebno izgradnjom Bondstila na Kosovu, Amerika stvorila uslove za stalno vojno prisustvo u južnoj Evropi. Jer, kako navodi Čosudovski, jedan od ciljeva formiranja Bondstila je obezbeđivanje projekta izgradnje strateškog naftovoda između Albanije, Makedonije i Bugarske, koji bi naftu iz Kaspijskog jezera trebalo da sprovede do Jadrana, tačnije do albanske luke Drač i dalje do zapadne Evrope i SAD. „Planovi za izgradnju Bondstila bili su poznati još 1997. godine, dve godine pre bombardovanja bivše Jugoslavije, i bili su ugrađeni u ugovor Ministarstva odbrane SAD i firme Kelog, Braun i Rut, ćerke firme petolejske kompanije Halibarton, na čijem čelu se tada nalazio Dik Čejni, kasnije potpredsednik SAD, navodi između ostalog Majkl Čosudovski.

U tom kontekstu, tzv. nezavisnost Kosmeta, čini se, skupo košta Prištinu, ali zbog toga najviše trpi Srbija, jer je očigledno da tu nije reč samo o pokušaju ugrožavanja njenog teritorijalnog integriteta, već o pokušaju nezakonitog prisvajanja i te kako značajnog sirovinskog i energetskog potencijala na Kosovu i Metohiji.

Piše Ivana Subašić


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KFOR: Chiuso il valico vicino Brnjak

16. 06. 2012. - 

Le forze militari internazionali in Kosovo e Metochia hanno comunicato di aver chiuso il valico alternativo nelle vicinanze di Brnjak, con l’obiettivo, come indicato, di prevenire i passaggi illegali della linea amministrativa tra il Kosovo e la Serbia centrale. Nel comunicato posto all’agenzia Tanjug, il Comando della KFOR ha spiegato che l’azione è stata compiuta con l’obiettivo di creare un ambiente sicuro e pacifico. La KFOR attualmente è impegnata nei dialoghi con i rappresentanti della popolazione locale e fa appello che ogni tipo di protesta sia pacifico e che non minacci la libertà di circolazione – viene indicato nel comunicato.

Kosovo settentrionale: serbi e KFOR si sono ritirati dalla strada a Štuoce

16. 06. 2012. - 18:57 -- MRS

Il traffico nel Kosovo settentrionale è stato normalizzato dopo che i serbi hanno interrotto il raduno sulla strada magistrale da Kosovska Mitrovica fino a Ribarić nel villaggio Štuoce, mentre i militari della KFOR hanno rimosso veicoli da combattimento dalla strada. I serbi da Ibarski Kolašin si sono ritirati dalla strada dopo che il presidente del comune di Zubin Potok, Slaviša Ristić, li ha invitati a sciogliersi. I militari italiani della KFOR si sono ritirati da Štuoce in una colonna formata da una quindicina di veicoli da combattimento. Slaviša Ristić ha dichiarato che i rappresentanti della KFOR gli hanno detto che non hanno ottenuto ordini per chiudere le altre strade alternative nel Kosovo settentrionale, eccetto la strada che porta vero il villaggio Banja. Loro hanno detto che quella direzione alternativa era troppo vicino al valico Brnjak e che perciò hanno dovuto chiuderlo e disabilitarlo per il traffico – ha detto Ristić. L’unica cosa che ci rimane è la lotta pacifica e decisiva, ha sottolineato il presidente del comune sperando che molti alla fine dovranno capire che i serbi dal Kosovo settentrionale non vogliono integrarsi nelle cosiddette istituzioni kosovare.

KFOR: La situazione nel Kosovo settentrionale è calma

16. 06. 2012. 

La situazione nel Kosovo settentrionale è calma, dopo che la KFOR ha chiuso la direzione stradale alternativa vicino a Brnjak – è stato comunicato dal Comando delle forze internazionali. I rappresentanti della KFOR hanno indicato che non possono confermare che durante l’incidente di stamane, nelle vicinanze di Brnjak, fosse stato ferito un civile che ha tentato di arrampicarsi sul veicolo di quella missione. I militari della KFOR hanno sparato tre pallottole di gomma in aria in modo da distogliere i manifestanti dall’arrampicarsi sui veicoli da combattimento – viene evidenziato nel comunicato. Il portavoce della KFOR, Marko Marsegna, ha invitato tutte le parti ad astenersi dalle mosse unilaterali, dalle dichiarazioni incendiarie e dalla violenza. Secondo le sue parole, la chiusura della strada alternativa e del passaggio è stata fatta in modo da permettere alle unità della KFOR di completare i loro compiti principali e di favorire le condizioni per un ambiente sicuro e pacifico.


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www.vesti-online.com

18. 06. 2012. 

Slučajno se ubio italijanski pripadnik Kfora


Italijanski pripadnik Kfora poginuo je zbog nestručnog rukovanja oružjem u bazi u selu Čabra u opštini Kosovska Mitrovica.

Sam sebe upucao u vojnoj bazi

Pored tela stradalog 26-godišnjeg vojnika pronađena je puška iz koje se, kako su pokazali prvi rezultati istrage, ubio, javili su prištiniski mediji.

Istraga će pokazati tačan uzrok smrti o čemu će biti izdato naknadno saopštenje. 

Kako prenosi radio KiM meštani sela Zupče kažu da se danas čuo jedan hitac iz punkta u kojem je smešten Kfor na putu Kosovska Mitrovica-Ribariće. Zatim je, kako su izvestili, doleteo jedan vojni helikopter sa medicinskim osobljem. 

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Morto un militare italiano della Nato in Kosovo: forse un suicidio

18 giugno 2012



Si chiamava Michele Padula, aveva 26 anni ed era originario di Montemesola (Taranto) il militare della Kfor, la Forza Nato in Kosovo, morto in una base del contingente italiano nel nord del Kosovo. La notizia, che si è diffusa oggi nel piccolo paese in provincia di Taranto, è stata confermata da fonti vicine alla famiglia.

Si tratterebbe di «un episodio drammatico di suicidio personale». Lo riferiscono a Tmnews fonti da Pristina precisando che «il militare è stato trovato morto stamattina» nella base italiana di stanza a Novo Selo, fra i villaggi di Zupc e Caber, non lontano da Kosovska Mitrovica. Se confermato, sarebbe il primo episodio di sucicidio di un militare italiano in Kosovo, dal dispiegamento della missione Nato, Kfor, nel 1999. Iso 182036 giu 12Si tratterebbe di un incidente, avvenuto .

All'interno del campo, è stato sentito un colpo d'arma da fuoco, e il soldato è stato trovato morto, con il suo fucile vicino.

In Kosovo ancora 5mila militari 
Sono circa 550 i militari italiani impegnati nell'operazione della Nato Kfor in Kosovo, cui partecipano attualmente 31 Paesi, con un impegno complessivo di forze che oggi ammonta a circa 5.500 unità. Il contingente nazionale è schierato a Pristina, Belo Polje, Decane e Dakovica.

L'Italia guida il Multinational Battle Group West nel quale sono inseriti anche i militari di Slovenia e Austria, attualmente strutturato su base 17 Reggimento Artiglieria Controaerei «sforzesca» di Sabaudia (Lt), il cui comando si trova a «Villaggio Italia», base italiana, a Belo Polje (Pec). 

Nell'ambito dell'area ovest del Paese opera, inoltre, un «Joint Regional Detachment» a conduzione nazionale che assicura il continuo monitoraggio delle attività sul terreno e il mantenimento dei collegamenti con le istituzioni locali e le altre organizzazioni internazionali. 

All'Aeronautica Militare è stata affidata la realizzazione e la gestione tecnico-operativa di una struttura aeroportuale all'interno dell'area di responsabilità del contingente nazionale nella zona di Dakovica.



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Il Kosovo Metohija a 13 anni dalla fine dell’aggressione NATO


La “questione Kosovo” continua ad essere, e sempre più, un nodo irrisolto della comunità internazionale occidentale, la quale pensava che con il raggiungimento della cosiddetta “indipendenza” imposta ed avallata finora da soli 89 paesi, ovviamente tutti i sudditi dell’impero, tra cui naturalmente l’Italia...ma pare che anche lo stato di Tonga stia per fare il grande passo...), si sarebbero assopite le forme di resistenza del popolo serbo kosovaro e delle altre minoranze perseguitate; ma non è stato così e lo dimostrano alcuni fatti chiarificatori di quanto sia pericolosa la situazione ed esposta a rischi per nuovi scenari di guerra e turbolenze.

Da ormai quasi nove mesi il nord del Kosovo è bloccato da decine di barricate erette dai serbi, che cercano di impedire il passaggio delle forze NATO_Eulex e della Polizia kosovara (KPS); nonostante decine di scontri con morti e decine di feriti, assalti per smantellarle vengono presidiate notte e giorno, e immediatamente rifatte se perse (... naturalmente il tutto nel più assoluto silenzio dei grandi media di informazione, vedere “Kosovo Notizie 5” del FBItalia).

Proprio nei giorni scorsi la KFOR ha attaccato una barricata per sgomberarla, ma la pronta mobilitazione e reazione di centinaia di serbi ha scatenato uno scontro che ha provocato otto feriti, quattro soldati americani e almeno quattro serbi. In questo clima Germania ed Austria hanno deciso di mandare altre truppe prevedendo una intensificazione delle lotte di resistenza.

Un altro dato su cui riflettere è il Referendum organizzato dalle municipalità serbe del Nord del Kosovo a febbraio, che ha confermato il rifiuto ad accettare le autorità di Pristina e l’esistenza del Kosovo indipendente. Il voto, dichiarato nullo da governo kosovaro e dalle autorità internazionali, ma nche, cosa più grave dal governo quisling serbo, segna però soprattutto un momento di rottura della comunità serba del nord con Belgrado, che temendo ripercussioni sul percorso di integrazione UE ha osteggiato il voto, facendo scendere in campo con ricatti, pressioni e minacce, anche l’allora presidente serbo filo occidentale Tadic.

Secondo i risultati ufficiali il 99.74% dei votanti ha detto “no” nel referendum organizzato in quattro municipalità del Nord del Kosovo. Il quesito su cui dovevano esprimersi era così formulato: “accettate le istituzioni della cosiddetta Repubblica del Kosovo?”

Nonostante il maltempo e l’ostilità di Belgrado, l’alta affluenza alle urne è stato un forte segnale di determinazione.

Altro dato è stata la “provocatoria” richiesta di decine di miglia di serbi kosovari di avere la cittadinanza russa, ritenendo che forse la Russia di Putin potrà avere più a cuore dei governanti filo occidentali di Belgrado, il destino e i diritti di propri cittadini.


Dalla parte albanese del Kosovo guidato dai criminali ( come documentato anche dall’Intelligence occidentale) ex UCK, si continua a gettare benzina sul fuoco con atti e dichiarazioni che alzano le tensioni; l’AKSH (Armata Nazionale Albanese) ha ufficialmente dichiarato a marzo, con un comunicato inviato ai media internazionali l’apertura di un ulteriore confronto con i serbi del Kosovo, nell’ottica di una nuova guerra per la riunificazione di tutti gli albanesi sotto un'unica bandiera, lo stesso primo ministro albanese Thaci ha pubblicamente dichiarato che concorda con questa visione. Mentre in Macedonia questi terroristi dell’AKSH, facenti parte del FBSH (Fronte Unito Nazionale Albanese), hanno attaccato negli ultimi mesi la comunità slava e macedone del paese, con attacchi terroristici che hanno provocato morti e numerosi feriti, costringendo il governo macedone ad indire un coprifuoco. La gravità di questo sta anche nel fatto che il Kosovo è il retrovia di questi terroristi, che dopo gli attacchi si rifugiano di là dal confine senza problemi.

Una ulteriore innalzamento della pericolosità di nuovi scenari di guerra è anche stata la notizia delle scorse settimane, della visita “fraterna e cameratesca”fatta in Kosovo, da una delegazione della cosiddetta “opposizione siriana”, che è giunta riconoscendo alla storia dell’UCK e del Kosovo secessionista un esempio per imparare: “...siamo venuti per imparare, voi possedete un esperienza che potrà esserci molto utile...abbiamo molto da imparare dalla vostra esperienza e dalle vostre capacità di internazionalizzare il vostro conflitto...”. Certo tra criminali ci si intende bene.

Ma la notizia più seria è che la cosiddetta opposizione siriana ha chiesto di poter usare le ex basi UCK, per addestrare i propri combattenti, naturalmente sotto l’addestramento dei capi militari terroristi UCK, che hanno insanguinato e massacrato la regione kosovara.


Qual è la situazione per i popoli che abitavano la provincia serba, dopo tredici anni di “ democrazia e libertà”? Penso si dovrebbe partire dalla dichiarazione che fece la DEA ( Agenzia Antidroga USA), che definì il Kosovo indipendente un “narcostato nel cuore dell’Europa”.

Questo staterello fantoccio, che si regge su due stampelle: una militare: ed è la presenza delle forze di occupazione NATO-Eulex, l’altra economica: ed è il fiorire e proliferare di tutte le attività criminose possibili: dal traffico di eroina, a quello delle donne, degli organi e delle armi.

Quest’area è diventata lo snodo tra Asia ed Europa dei più svariati traffici; dalle varie segnalazioni di molti rapporti di Intelligence, è ormai noto che le raffinerie presenti nella provincia producono oltre dieci tonnellate delle varie droghe, che arrivano poi nel continente soprattutto attraverso Montenegro ed Albania; ed anche lo smistamento delle ragazze avviate alla prostituzione, passa da lì (negli ultimi anni sono state decine le cosiddette “agenzie” chiuse a Pristina, dove venivano offerte e vendute ragazze dell’est ); così come, soprattutto per la clientela dei soldati occidentali lì presenti, si parla di circa 120 bordelli esistenti nella capitale kosovara ed altri 200 sparsi nella provincia.

Anche per il traffico di organi, di cui la mostruosità della famosa “casa gialla” di Burel in Albania è stato l’apice, ma che tuttora prosegue (...l’arresto proprio nelle scorse settimane del trafficante israeliano M. Harel, considerato la mente del traffico internazionale insieme ad altri albanesi locali.

...Nell’autobiografia dell’ex procuratrice Carla Del Ponte del Tribunale Internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia, che ha perseguito per anni, soprattutto i leaders serbi, per le varie guerre balcaniche, è scritto che i rapiti, furono prima rinchiusi in campi a Kukesh e Trpoje, poi dopo essere stati esaminati da dottori albanesi per poter verificare quali fossero i più sani e robusti, venivano portati a Burel e dintorni, nell’Albania centrale, dove erano ben rifocillati, curati e non torturati, in modo da essere pronti per la mutilazione degli organi.

La Del Ponte ha detto che una parte di questi era rinchiusa in una casa gialla, situata a circa 20 chilometri a sud della cittadina albanese di Burel, in una stanza vi era una specie di infermeria, dove venivano asportati gli organi ai prigionieri. Poi questi venivano spediti attraverso l’aeroporto Madre Teresa di Tirana, verso le destinazioni occidentali che avevano pagato per poter effettuare i trapianti. In questi campi vi erano anche molte donne provenienti dalle province kosovare, dalle

repubbliche ex jugoslave, dall’Albania, dalla Russia e altri paesi, anche a loro furono poi estratti gli organi prima di essere uccise...

Dal punto di vista dei diritti universali dell’uomo, per le minoranze non albanesi i dati riferiscono una situazione degradata e terribile, a cominciare dalla situazione delle enclavi, dove decine di migliaia di persone vivono in campi di concentramento a cielo aperto, senza diritti umani minimi garantiti: da quello del lavoro a quello della sanità, dai diritti civili e politici, da quelli per l’istruzione a quelli religiosi, dal diritto al ritorno dei 250.000 espulsi ed esiliati a quello di avere giustizia per i 1.300 serbi e non albanesi rapite ed assassinati dal 1999 ad oggi. Dal diritto alla libertà di movimento al riappropriamento delle proprie case e terre espropriate con la violenza dai terroristi: nel Kosovo liberato e democratico sono TUTTI NEGATI e VIOLATI, compresa la risoluzione ONU 1244 del 1999.

Dal punto di vista sociale la situazione nella provincia serba resta devastata da tutti punti di vista, vige un economia drogata in tutti i sensi, essendo infatti fondata su capitali ed attività criminali, tutto il resto non può che essere marginale e secondario; così la grande maggioranza degli stessi albanesi kosovari onesti non legati agli interessi criminali, vive in una povertà profonda ed in condizioni difficili, con una disoccupazione che sfiora il 50%, le uniche industrie rapinate allo stato serbo come la Centrale elettrica o le miniere Trepca di Zvecan, la Ferronichel, le Poste Telekom del Kosovo (PTK) o il birrificio di Pec sono il bottino che le multinazionali occidentali hanno come premio per l’occupazione del Kosovo, in testa ovviamente USA, Francia, Germania e Gran Bretagna; quindi ulteriori licenziamenti e sfruttamento liberista selvaggio.

Certamente va rilevato che comunque vada, c’è e ci sarà un problema “Methoija”, di quelle migliaia di serbi kosovari cioè, che vivono nella parte del Kosovo a sud di Mitrovica, per essi che sopravvivono nelle enclavi circondati da odio, ostilità e violenze quotidiane, i problemi e le scelte da fare sono molto più complessi e delicati. E questo non è un problema da poco, perché rischia di spaccare la già debole comunità serba della provincia.


C’è un dato nuovo, che non potrà certamente rovesciare a breve termine, la realtà della provincia e del popolo serbo, ma è un dato che potrebbe in prospettiva risultare importante: è la presidenza della Serbia ottenuta nell’ultima tornata elettorale da T. Nikolic, figura non limpida nella progettualità politica, ma sicuramente migliore del quisling precedente B. Tadic, che comunque molto probabilmente, formerà con il suo partito i Democratici e i Socialisti del SPS, il nuovo governo.

Perlomeno Nikolic, rappresenta in una forma certamente moderata ma definita, un retroterra culturale e politico che ha nella difesa dell’identità, dell’interesse e sovranità nazionali i suoi cardini; ma nel panorama politico deficitario delle forze politiche serbe oggi, non è poco.

Probabilmente su questo si è basato l’elettorato serbo, di sicuro disilluso e non fiducioso in chissà che cosa, ma se almeno mantenesse anche solo alcuni punti della sua campagna elettorale, come freno alle politiche liberiste interne devastanti ed alle aggressioni economiche e di rapina della UE e del FMI, come un freno all’arroganza NATO e di riflesso nuove attenzioni al ruolo che una Russia forte e solida con Putin, potrebbe giocare nei Balcani, al fianco di una Serbia meno sottomessa e ricattata dai diktat delle lobby occidentali. Senza dimenticare il nodo dell’entrata nella UE e la questione NATO ( nelle scorse settimane un sondaggio ufficiale ha rivelato che oltre il 60% dei serbi è contrario all’alleanza militare atlantica.

In una fase come questa basterebbe solo un freno: se Nikolic mantenesse pure solo questo orientamento, anche per la questione Kosovo e per i serbi e le minoranze non albanesi della provincia kosovara, si potrebbe riaprire un barlume di speranza in un futuro meno cupo di quello che stanno vivendo e...meno solitudine. Una cosa è certa: il Kosovo resta una spina nel fianco dei politici “mercanti” di Belgrado, ma anche una spina nell’anima del popolo serbo intero.

“...Kosovo tredici anni dopo...

ma piange ancora, seppure senza più lacrime, il Kosovo Methoija assassinato, massacrato, violentato dall’arroganza NATOccidentale. Con esso piangono i 250.000 esiliati e profughi, i familiari dei 1300 rapiti, le vedove di guerra con i loro bambini oggi ragazzi.
Piange il Kosovo Methoija davanti alle tombe scoperchiate ed ai resti umani dati in pasto alle bestie che pascolano; davanti ai monasteri e alle chiese ortodosse bruciate e distrutte, dove oltre ai muri, la volontà era di sradicare memorie ed identità storiche antiche.
Piange il Kosovo Methoija e la NATO veglia ma tace con indifferenza...davanti alle macerie materiali e quelle nelle anime del popolo serbo.
Piange il Kosovo Methoija e noi con esso, uomini e donne alla ricerca della pace, della verità, della giustizia.
Piange il Kosovo Methoija ma non si è ancora arreso,seppure vessato e circondato nelle enclavi assediate da odio e ostilità; e noi con esso, nel resistere e perseverare al suo fianco nella limitatezza delle possibilità e forze, ma con coerenza e tenacia. Piange il Kosovo Methoija ma dalle barricate continua indomito a urlare e chiedere GIUSTIZIA.”

A cura di Enrico Vigna, portavoce del Forum Belgrado, per “Kosovo Notizie 6”

Info: sosyugoslavia @ libero.it


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http://english.ruvr.ru/2012_06_17/78430201/

Voice of Russia - June 17, 2012

What is NATO/KFOR really doing in Kosovo?

John Robles


What exactly is NATO doing in Kosovo? Who or what are they protecting and what are they stationed there for? When we look at what they have been doing since June of 1999, in reality it does not look good.

We must not forget that NATO is a military organization and military organizations are designed for one thing, the legalized killing of the opponents of a state. No matter how noble NATO tries to paint itself it is an organization that should have been disbanded at the end of the Cold War and it has in itself become one of the most destabilizing factors and causes of death and destruction in modern times.

We must also not forget that NATO operates as a proxy for the US in promoting US interests in areas of the world where the US can not rightfully interfere, although this in reality does little to stop them.

Putting aside for the moment the destruction of Afghanistan, Iraq, Libya, and other countries obliterated by Western “intervention,” let’s take a look for a moment at Kosovo.

What exactly is the US, I mean NATO, I mean KFOR, doing in Kosovo? What is their objective in the country? Who or what are they protecting and what are they stationed there for?

When we look at what they have been doing since June of 1999, in reality it does not look good.

Wanting to be fair and impartial when gathering material for this piece, one of the first places I went to was their own site. Not surprisingly it is filled with the usual Western catchphrases and pseudo-reasoning that many in the West gobble up to justify the killing and destruction they wreak on the world. Words and phrases like multi-ethnic force, assistance to civil authorities, civil protection and, my favorite sentence, “KFOR is cooperating with and assisting the UN, the EU and other international actors, as appropriate, to support the development of a stable, democratic, multi-ethnic and peaceful Kosovo.” Sounds good, but it is poppycock.

First of all who are these “other international actors”? The drug dealers and traffickers in human organs? The Mafia killers? The US imperial paymasters? The US-sponsored war criminals? As for a stable blah-blah multi-ethnic Kosovo, well, obviously, that means one free of Serbs, and this my dear reader is what it is all about.

Let’s go back in time a bit to February 2008. This was the month when, after protesters attacked the US Embassy in Belgrade, the former Bush administration finally admitted after starting two wars of aggression and the subsequent occupations of sovereign nations, the extensive use of torture, extraordinary renditions, the illegal prison at Guantanamo and extensive black sites worldwide, there was such a thing as international law.

The destruction, dismantling and dividing up of Yugoslavia into ethnically-pure sections was the crowning achievement of Hillary’s husband, former president Bill Clinton, so the final seal on the destruction of the former Yugoslavia, namely the “independence” of Kosovo, was something she wholeheartedly embraced. Like Hillary’s famous quote on the occasion of the death of Muammar Gaddafi, “we came, we saw, he died,” her statement on the occasion of Kosovo’s separation from Serbia also showed monumental callousness and complete disregard for human life and dignity.

Pretending to be so wise as to the local language, as her State Department did with the “overload” button disgrace, she used the Albanian word for Kosovo, “Kosova”; she referred to Kosovo by the Albanian spelling "Kosova" and stated: "It will allow the people of Kosova to finally live in their own democratic state. It will allow Kosova and Serbia to finally put a difficult chapter in their history behind them and to move forward." The only problem, it was ripping the heart out of the Serbian people.

According to Nebojsa Malic at Global Research.ca, there can be no doubt that the March 1999 attack on Yugoslavia was illegal. In an article the following articles, treaties and citations were listed.

Violated articles: 

Article 2, section 4 of the UN Charter clearly says: "All Members shall refrain in their international relations from the threat or use of force against the territorial integrity or political independence of any state…”

Article 53 (Chapter VIII) of the UN Charter clearly says that: "[N]o enforcement action shall be taken under regional arrangements or by regional agencies without the authorization of the Security Council".

From NATO's own charter, the North Atlantic Treaty of 1949, Article 1: "The Parties undertake...to settle any international dispute...by peaceful means…”

Article 7: "This Treaty...shall not be interpreted as affecting...the rights and obligations under the Charter of the Parties which are members of the United Nations, or the primary responsibility of the Security Council for the maintenance of international peace and security."

Other laws and treaties: the Helsinki Final Act of 1975 for violating the territorial integrity of a signatory state.

The 1980 Vienna Convention on the Law of Treaties for using coercion to compel a state to sign a treaty i.e., the Rambouillet ultimatum.

Finally, Yugoslavia did not attack any NATO member nor was it a security threat to any country in the region. What NATO perpetrated on March 24, 1999 was a war of aggression and a crime against humanity.

So if the invasion was illegal, then obviously the ensuing occupation was as well and everything KFOR/NATO/US is doing there is also illegal.

So what does KFOR do in Kosovo? With an almost total and complete media blackout, and I have seen this with my own eyes, there is little news we receive from the area. However the reports we get are of constant and methodical limitation to the freedom of movement and supplies to the Serbian population, in particular in Northern Kosovo, and reports of the continued practice of limiting Serbs to certain areas or ghettos, making them refugees in their own country. This serves to ethnically cleanse and divide the country along ethnic and racial lines, like most American cities, a comparison that I can not help but make.

KFOR also protects, enables and provides support for the belligerent side they have chosen to support in this conflict. What are the reasons? They are many but one of the main ones is money, huge money, which has been filling KFOR coffers for years on end, and according to countless media reports going back for years, from countless illicit sources. (That is a topic for a later discussion.)

On Friday there was another incident of KFOR opening fire, this time with rubber bullets, on peaceful Serbs as they blocked an important road and attempted to make Serbs accept Kosovo license plates for their cars, an obviously transparent attempt to make them recognize Kosovo as an independent entity.

A press release from the Raška-Prizren Eparchy stated that they are concerned about KFOR’s latest actions in northern Kosovo and stated “attempts to force the Serbs in the north to accept Kosovo license plates by using combat vehicles and blocking roads that are the main channel for supplies and medicines are creating a serious humanitarian crisis that could have immense consequences”.

The Eparchy also strongly urged all sides to work constructively to find solutions that contribute to the survival of the Serbian people in the entire territory of Kosovo and Metohija.

For the Serbian people, they are fighting for their very existence. For KFOR and the “West”, Kosovo is just another pawn in a filthy game of geopolitical influence and power. As soon as it is used up, or no longer needed, they will throw it away as well.





LJUBO CUPIC: una foto ritrovata



Sappiamo che questa foto che abbiamo recuperato [ http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/1942.jpg ] non è inedita (era già presente a pagina 73 di Report on italian crimes against Yugoslavia and its people [ http://www.diecifebbraio.info/2012/03/pubblicazioni-sui-crimini-italiani-in-jugoslavia/ ]), ma vale sicuramente la pena conoscerne la storia. Siamo nella primavera del 1942 nel Montenegro protettorato italiano sotto occupazione miltare, solo pochi mesi dopo l’invasione dell’aprile 1941 e la proclamazione nel luglio sucessivo del ”libero e indipendente” Regno del Montenegro che fece invece scatenare una vasta insurrezione popolare. In conseguenza di ciò venne nominato Governatore civile e militare  il Generale Alessandro Pirzio Biroli che attuò da quel momento una feroce repressione che comprendeva rastrellamenti su larga scala, bombardamenti e distruzione di interi villaggi, fucilazioni di massa non solo di partigiani ma anche di civili, donne e bambini compresi. In questa ottica fu particolarmente importante l’alleanza con i nazionalisti monarchici cetnici, ma per tutti questi crimini alla fine della guerra così come per tutti gli altri casi nei territori occupati lo Stato italiano non autorizzò mai l’estradizione dei colpevoli.

Tutto questo fece crescere la reazione partigiana e grosso ruolo ebbe nell’organizzazione delle formazioni il Partito Comunista. Come altri giovani anche il protagonista della nostra storia si unisce ai partigiani diventando in poco tempo comandante di un battaglione. Ljubo Cupic [ http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/ljubocupic.jpg ] era nato nel 1913 da una famiglia montenegrina emigrata in Nord America e all’età di 14 anni torna con i genitori in Montenegro. Terminati gli studi superiori si trasferisce a Belgrado dove studia legge e diventa membro del Partito Comunista Jugoslavo. Nel 1941, dopo la capitolazione del paese, torna in Montenegro per unirsi ai partigiani ma nell’aprile del 1942 viene catturato durante una battaglia dai cetnici e imprigionato. In carcere fu torturato, ma insieme ai suoi compagni riesce a resistere, sfidando apertamente e mettendo in ridicolo i cetnici nazionalisti come servi degli invasori e impedisce alla sua famiglia di muovere alcuna richiesta di grazia nei suoi confronti. Condannato a morte da un tribunale fantoccio assieme ad altri combattenti e comunisti, viene fucilato a Trebjšje, nei dintorni di Nikšić [il 9 maggio]. Il motivo che ha reso famoso il suo nome è la foto scattata dopo la condanna a morte, in un atteggiamento di aperto contrasto e derisione verso gli organizzatori del processo farsa, un sorriso di sfida alla morte che ha reso celebre quell’immagine.

Le ultime parole gridate contro i suoi carnefici ed alla popolazione costretta ad assistere alle esecuzioni di comunisti e patrioti, “Živjela slavna komunistićka partija!”, “Lunga vita al glorioso partito comunista!”, sembrano risaltare dalla foto che abbiamo pubblicato, dove si vedono in grande numero alpini e soldati italiani.

Un ulteriore motivo di interesse  per questa storia potrebbe venire, se confermato, da un articolo del giornale Vesti del 23 maggio 2010, dove viene pubblicata la foto numero 3 di questa serie di “Ricordo Comunista Fucilato 9.5.1942 XX Niksic M.Negro” [ http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/ljubocupic3.jpg ] e dove veniamo a conoscenza dell’autore di quegli scatti: Carlo Ravnich.

http://www.vesti-online.com/Stampano-izdanje/23-05-2010/Od-nasih-dopisnika/54926/Nasmejao-se-streljackom-vodu

All’epoca di questi scatti forse era ancora un soldato semplice con la passione per la fotografia, ma all’8 settembre 1943 Carlo Ravnich comandava il Gruppo artiglieria alpina “Aosta” che partecipò alla spontanea rivolta contro i nazisti. Successivamente comandò la Brigata partigiana Aosta e alla fine lo Stato Maggiore del nuovo Esercito Italiano lo nominò, con il grado di maggiore, a guidare l’intera Divisione italiana partigiana Garibaldi dal 2 luglio 1944 fino al rientro in Italia avvenuto l’8 marzo 1945.

In questa intervista del 1980 [ http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/ravnich.htm ] Carlo Ravnich racconta la sua esperienza in Jugoslavia, mentre in questo articolo da Storia Illustrata n.284 del luglio 1981 [ http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/Storia-Rivelazione-del-Gen.-Ravnich-comandante-della-Garibaldi-in-Jugoslavia-1945.pdf ] con rivelazioni sulla “corsa per Trieste” ci sono numerosi scatti dello stesso autore, più una breve biografia.

Ljubo Cupic è stato nominato  eroe nazionale Jugoslavo  il 10 Luglio 1953.


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LINKS:

Biografija Čedomira-Ljuba Čupića

Sedam decenija osmjeha Ljuba Čupića
Polaganjem cvijeća i svečanim akademijama obilježen 9. maj, najsvečanije bilo u Nikšiću

Un articolo di viaggiareibalcani.it menziona Ljubo Cupic
http://www.viaggiareibalcani.it/articoli/144/sentieri-partigiani-in-montenegro-prima-parte.html
http://www.viaggiareibalcani.it/articoli/752/sentieri-partigiani-in-montenegro-seconda-parte.html

In rete si trovano immagini che mostrano la sua popolarità:

In Montenegro oggi la sua immagine viene utilizzata per promuovere il paese o per campagne politiche...




Appello dell’ANPI di Roma

NON SI DEVE CELEBRARE PUBBLICAMENTE CHI HA FATTO STRAGE DI PARTIGIANI E CIVILI ITALIANI, IN COLLABORAZIONE CON L’ OCCUPANTE NAZISTA

Il prossimo 19 giugno nella sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini sarà ospitata la terza edizione del “premio Duelli-Gallitto”, un evento dedicato alla memoria dell’ausiliaria scelta Raffaella Duelli e del comandante fascista Bartolo Gallitto, entrambi della X MAS, organizzato dall’associazione X flottiglia MAS e da quelle Campo della Memoria ed Armata Silente. Queste sono organizzazioni di chiara matrice nostalgica e revisionista, nate per celebrare la famigerata repubblica sociale italiana e riabilitare la dittatura fascista.
In particolare, l’associazione che promuove il premio è intitolata alla X MAS (anche se fittiziamente il nome fa riferimento a quello della struttura militare della Marina Reale, dalla quale prese il nome la formazione fascista), una delle più famigerate formazioni repubblichine attiva dal 1943 al 1945, che operò con i reparti nazisti sia in operazioni militari ed in attività antipartigiane, durante le quale impiegò metodi di repressione violenti e terroristici macchiandosi di numerosi crimini di guerra, sia in rastrellamenti e deportazioni di ebrei ed altri civili italiani. Essa fu fondata in seguito all'armistizio dell'8 settembre da Junio Valerio Borghese, condannato nel 1949 per concorso nell'omicidio di otto partigiani a Valmozzola e per il reato di collaborazione militare con i tedeschi per aver fatto eseguire ai suoi uomini continue e feroci azioni di rastrellamento ai danni dei partigiani che, di solito, si concludevano con la cattura, le sevizie particolarmente efferate, la deportazione e l'uccisione degli arrestati, allo scopo di rendere tranquille le retrovie dell'esercito invasore. Lo stesso Borghese fu poi tra i promotori del fallito colpo di stato del 1970.

Già è difficile giustificare perché una associazione che celebri questa famigerata formazione, in palese contrasto con la nostra Costituzione e le leggi della Repubblica Italiana, possa ancora essere tollerata ma è ancora più assurdo constatare che il sindaco Alemanno ne ospiti le iniziative nelle sale più prestigiose del Campidoglio.
La celebrazione di chi ha fatto, in collaborazione con i nazisti, strage di partigiani e civili italiani non deve avvenire nel silenzio dei democratici e degli antifascisti. L’ANPI si fa perciò promotrice, nello stesso giorno, di una manifestazione di tutti gli antifascisti romani ai piedi del Campidoglio, che denunci a tutta la città (che rischia di non accorgersene, come è successo per le edizioni degli scorsi due anni di questa squallida iniziativa) ed ai turisti che la visitano, questo scempio della memoria di una città Medaglia d’Oro della Resistenza, ribadendo altresì l’indegnità del sindaco che la governa. 
A questa manifestazione chiamiamo le forze politiche e sindacali, il mondo dell’associazionismo, la società civile, tutti i sinceri antifascisti che hanno partecipato alla grande, bellissima manifestazione del 25 aprile, i quali siamo convinti che aderiranno al nostro appello perché lo spirito antifascista è ancora forte a Roma. Il sit-in si svolgerà dalle h 16:30 del 19 giugno in Piazza Madonna di Loreto (a fianco della Colonna Traiana). Sempre il 19 giugno, alle 11:30 è convocata una conferenza stampa nella Sala Conferenze Stampa della Camera, che illustrerà le ragioni dell’iniziativa.

V.F. POLCARO
PRESIDENTE ANPI ROMA




(italiano / english / francais)

In Syria like in Kosovo


1) Market Economy for Syria
2) La NATO prepara una vasta operazione di intossicazione mediatica


More Links:

Houla massacre carried out by Free Syrian Army, according to Frankfurter Allgemeine Zeitung

Les « Amis de la Syrie » se partagent l’économie syrienne avant de l’avoir conquise



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Market Economy for Syria 

2012/05/30

DAMASCUS/BERLIN
 
(Own report) - Berlin is preparing for Syria's transformation to a liberal market economy. Under German leadership, a multinational "Working Group" began its work late last week. Immediately following the overthrow of the Assad regime, this "Working Group" is planning to launch urgent economic measures, including the coordination of aid projects and the implementation of economic reforms. Together with the United Arab Emirates, the German government is establishing a "secretariat," under the leadership of a German with Afghanistan experience. In cooperation with the Assad regime, Berlin had already promoted the Syrian economy's privatization. However, the nascent liberalization drove sectors of the population into bankruptcy, thereby contributing to insurgence against the regime. Berlin has already received first drafts for Syria's new economic order. They were written by an activist of the Syrian National Council (SNC), which is under strong criticism by a large part of the opposition because of the pre-eminence of the Muslim Brotherhood. Washington-based Syrian exile politicians hold leading positions in the SNC. They are demanding a Kosovo-style western intervention and consider Kosovo's KLA to be a model for the Syrian opposition.

Self-Empowered

Late last week, a multinational "Working Group," co-chaired by Germany, met for the first time in Abu Dhabi, with the aim of launching urgent economic measures for immediately following the overthrow of the Assad regime. The "Working Group on Economic Recovery and Development of the Friends of the Syrian People" was established April 1 in Istanbul by the "Group of Friends of the Syrian People," an alliance of western and pro-western countries, which support the Syrian opposition in the civil war and are cooperating mainly with the exiled Syrian National Council (SNC). The UN Security Council has neither legitimized the "Group of Friends of the Syrian People" nor this "Working Group on Economic Recovery and Development of the Friends of the Syrian People," which has empowered itself to serve as a "central forum" for launching necessary economic measures.[1]

Germany in Charge

According to German diplomat, Clemens von Goetze, who, along with a colleague from the United Arab Emirates, had co-chaired the meeting last week, the "Working Group" not only has plans for emergency aid for the immediate aftermath of the regime change, but he finds "it is a good time already to start now for a long-term perspective of the country once change comes in Syria."[2] The Marshall Plan, implemented by the United States after World War II, to provide the material foundation for the establishment of the Western alliance, serves as a model. The "Working Group" set up several sub-committees along the lines of special issues. The member countries have officially agreed on an international division of labor, with Germany in charge of "economic policy and reform." According to reports, the explicit goal is a "long term strategy" [3] for the transition "from a centralized economy to a market economy." The "Working Group" will set up a secretariat, with Germany and the United Arab Emirates each providing 600,000 Euros. It will be headed by Gunnar Wälzholz, of Germany, who had been the director of the Afghanistan branch of the German Development Bank (KFW).

Carrot and Stick

According to a participant at last week's meeting, the measures to be taken under German management will also include short-term goals. The economic projects are aimed at "attracting the silent sectors in Syria which did not completely join or which are still hesitant in supporting the revolt."[4] These projects are therefore a sort of counterpart to the economic sanctions, which are also aimed at inciting entrepreneurs, loyal to the regime, to change sides - under pressure rather than through incentive. Thus, the "Working Group" has declared that the sanctions can be lifted "as soon as their objectives have been achieved" - i.e. after Assad's overthrow, which would be facilitated if interested business circles would change sides.[5]

Consequences of Liberalization

For years, Berlin has been promoting the privatization of the Syrian economy, now being conferred to the "Working Group" - for an extended period in close cooperation with Assad's regime. In 2006, the German development organization GTZ (today GIZ) had initiated a special program entitled "Supporting economic reform in Syria." According to its description, "in 2000, the Syrian Government decided to switch to a social market economy," but "the institutions involved do not have sufficient knowledge," which is why the GTZ has to aid the government.[6] The reform's "expected impact on income and employment will improve the lives of the Syrian population," continues the GTZ - an prognosis that simply did not materialize. Quite to the contrary: the liberalization of the Syrian economy had "harmful effects" on the local manufacturing trade, as the International Crisis Group confirmed last year. For example in Duma, a suburb of Damascus, the residence or numerous artisans, who, facing ruin by the liberalization, renounced their loyalty to the regime.[7] In fact, today Duma is considered a hotbed of protest. Last January, the insurgents briefly took complete control of the town.

Visions

The SNC's "National Economic Vision" was presented in Abu Dhabi to the German led "Working Group" by Osama Kadi, executive director of SNC's Finance and Economic Affairs Bureau. This vision indicates that the liberalization would provide a higher living standard only "in the long run." A reliable framework for foreign investments must first be established, the productivity of Syrian workers must be increased, the establishment of industries, accelerated, the bank sector, reformed and new foreign business deals, sought. The "Marshall Syrian Recovery Plan," which should be implemented as soon as possible, could attract more direct investments from the West. The "Working Group's" German led "secretariat" will assist in the implementation of the plan, following Assad's overthrow and a regime change in Damascus.

As in Kosovo

The SNC, which is working in close cooperation with the West within the framework of the "Working Group" and whose staff members are willful candidates for future leadership positions, is heavily contested within the opposition. Secular oriented opponents of the regime are resolutely protesting the predominance of the Muslim Brotherhood in the SNC. Large sectors of the Syrian opposition are resenting the fact that leading SNC members are openly calling for western military intervention. For example, the National Coordination Committee (NCC), an alliance of oppositional forces inside Syria strictly opposes western military operations. The West hardly takes notice of the NCC. Radwan Ziadeh, the SNC's "Director of Foreign Relations," who, like SNC's economic specialist Osama Kadi, works for the Washington based Syrian Center for Political and Strategic Studies, has repeatedly pronounced himself in favor of Kosovo-style operations. "Kosovo shows how the west can intervene in Syria," declared Ziadeh, who had already visited Berlin's foreign ministry in July 2011, in the Financial Times last February.[8] Soon afterwards he explained that the Free Syrian Army militia plays the same role, as the KLA had in Kosovo.[9] Syrian oppositional forces recently visited Kosovo for instructions on KLA operations in 1999. (german-foreign-policy.com reported [10]). The "Houla massacre," to extend the metaphor, could take on the significance of the "Racak massacre" in early 1999. Soon after the "Racak massacre," evidence was uncovered pointing toward it having been a provocation to furnish a casus belli. It has never been credibly invalidated, but this did not hamper NATO's military intervention.

Further information and background to German policy toward Syria can be found here: War Threats against SyriaIran's Achilles HeelWar Scenarios for SyriaWar Scenarios for Syria (II) and With the UN toward Escalation.

[1] Chairman's Conclusions. Second Conference of The Group of Friends of the Syrian People, Istanbul, 1 April 2012
[2] Donors Mull Marshall Plan for Post-Conflict Syria; www.naharnet.com 25.05.2012
[3] Assad verbreitet Zuversicht; www.faz.net 24.05.2012
[4] Donors Mull Marshall Plan for Post-Conflict Syria; www.naharnet.com 25.05.2012
[5] Chairmen's Conclusions of the International Meeting of the Working Group on Economic Recovery and Development of the Group of Friends of the Syrian People, Abu Dhabi, 24 May 2012 
[6] Unterstützung der syrischen Wirtschaftsreform; www.gtz.de
[7] Popular Protest in North Africa and the Middle East (VI): The Syrian People's Slow Motion Revolution; International Crisis Group Middle East/North Africa Report No 108, 6 Juli 2011
[8] Kosovo shows how the West can intervene in Syria; www.ft.com 14.02.2012
[9] Radwan Ziadeh: Have We Learned Nothing From the Nineties? Syria is the Balkans All Over Again; www.tnr.com 22.03.2012
[10] see also With the UN toward Escalation


=== 2 ===

VIDEO : Thierry Meyssan sur le projet de coup d'État médiatique en Syrie
http://www.voltairenet.org/Video-Thierry-Meyssan-sur-le
 ]



La Nato  prepara una vasta operazione di intossicazione mediatica

di Thierry Meyssan * 10 giugno 2012, Réseau Voltaire

Alcuni Stati membri della Nato e del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) preparano un colpo di Stato e un genocidio settario in Siria. Se volete opporvi a questi crimini, muovetevi subito : fate circolare questo articolo in internet e allarmate i vostri rappresentanti nelle istituzioni democratiche.(t.m.)

Fra qualche giorno, forse a partire da venerdì 15 giugno a mezzogiorno, i siriani, accendendo i televisori, scopriranno che le loro emittenti abituali sono state rimpiazzate da trasmissioni mandate in onda dalla Cia. Vedranno dei filmati in cui truppe governative compiono massacri; vedranno manifestazioni popolari; vedranno ministri e generali mentre si dimettono; vedranno il presidente Assad darsi alla fuga e vedranno infine un nuovo governo installarsi nel palazzo presidenziale di Damasco. Ma saranno immagini false: realizzate dalla Cia. Parte in studi televisivi appositamente allestiti, come stiamo per vedere, e per il resto manipolate al computer ricorrendo ai cosiddetti effetti speciali.
Questa messinscena è direttamente condotta da Washington. Il regista-manipolatore è Ben Rhodes, consigliere aggiunto alla Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti. Obiettivo : demoralizzare i siriani per propiziare un colpo di Stato.
La Nato, che si scontra con il doppio veto della Russia e della Cina, riuscirebbe così a conquistare la Siria senza attaccarla illegalmente. Quale che sia il giudizio che si può formulare sugli avvenimenti attualmente in corso in Siria, un colpo di Stato metterebbe fine a ogni speranza di democratizzazione.
Molto ufficialmente, la Lega Araba ha chiesto agli operatori satellitari Arabsat e Nilesat di sospendere la ritrasmissione dei media siriani, sia pubblici sia privai: Syria TV, Al-Ekbariya, Ad-Dounia, Cham TV, eccetera. In questo modo le emittenti nazionali vengono accecate, perché in Siria non esiste una rete televisiva tradizionale (come l’analogico in Italia, ndt); per cui l’unico modo di vedere la televisione è la parabola, irraggiata appunto dai satelliti gestiti da Arabsat e Nilesat.
Non è la prima volta che dei golpisti disattivano dei satelliti: alla vigilia dell’aggressione alla Libia, la Lega Araba aveva censurato la televisione libica per impedire ai dirigenti della Jamahiriya (il governo di Gheddafi, ndt) di comunicare con il popolo.
Questa decisione ufficiale della Lega Araba è però soltanto la parte emersa dell’iceberg. Secondo nostre informazioni, infatti, nella scorsa settimana si sono svolte riunioni internazionali al fine di coordinare l’operazione di intossicazione mediatica. I primi due di questi incontri, a carattere tecnico, si sono svolti a Doha (Qatar); un terzo, politico, si è invece tenuto a Riyad, in Arabia Saudita.
Il primo incontro ha riunito i militari esperti in guerra psicologica, embedded (aggregati), alle redazioni di alcune reti televisive satellitari, come Al-Arabiya, Al-Jazeera, BBC, CNN, Fox, France 24, Future TV, MTV.
Anche questo arruolamento di militari nelle redazioni televisive non è una novità : è notorio che, dal 1998, ufficiali dell’United States Army’s Psychological Operations Unit (PSYOP) (la divisione di guerra psicologica dell’esercito americano, ndt) sono stati incorporati nella redazione della CNN; da allora, questa pratica è stata estesa, dalla Nato, ad altre emittenti strategiche.
Tutti questi “giornalisti in divisa” hanno redatto in anticipo una serie di false informazioni, secondo una traccia (storytelling) elaborata dall’équipe di Ben Rhodes (il citato regista-manipolatore) alla Casa Bianca. Per accreditare le loro menzogne, i manipolatori ricorrono a una sorta di tecnica autoreferenziale, dove ogni emittente coinvolta cita le menzogne di ogni altra per renderle tutte credibili agli occhi dei telespettatori.
Gli organizzatori della messinscena mediatica non si sono limitati a requisire le reti televisiva della Cia per la Siria e il Libano (Barada, Future TV, MTV, Orient News, Syria Chaab, Syria Alghad), ma anche una quarantina di catene religiose wahabite [1], che esorteranno i fedeli al massacro confessionale al grido di: «I cristiani a Beirut, gli alawiti nella fossa!».
La seconda delle tre riunioni preparatorie del golpe ha radunato ingegneri e tecnici per pianificare la fabbricazione dei filmati falsi, in parte  da realizzarsi tramite riprese filmiche (in studio o in esterno), il resto ricorrendo a immagini di sintesi computerizzata. A questo scopo sono stati allestiti, durante le ultime settimane, studi cinematografici in Arabia, dove sono stati ricostruiti i due palazzi presidenziali siriani e le piazze principali di Damasco, Alep e Homs. Studi cinematografici del genere esistevano già, a Doha (dove furono girate, con migliaia di comparse, le scene della conquista del palazzo di Gheddafi, ndt), ma questi impianti sono stati giudicati inadeguati alla manipolazione che si prepara in Siria.
Veniamo alla terza riunione preparatoria del golpe. Vi hanno partecipato il generale James B. Smith, ambasciatore degli Stati Uniti, un rappresentante della Gran Bretagna e il principe Bandar Bin Sultan (soprannominato dalla stampa americana «Bandar Bush», per via dell’abitudine del presidente George Bush padre di considerarlo proprio figlio adottivo).  In questa riunione ci si è occupati di coordinare l’azione dei media con quelle della cosiddetta Armata Siriana Libera (ASL), di cui i mercenari del principe Bandar costituiscono il grosso degli effettivi.
L’operazione golpista era in gestazione da mesi. Il Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti l’ha fatta scattare dopo che il presidente russo Putin ha notificato alla Casa Bianca che la Russia si opporrebbe con la forza a ogni intervento militare illegale della Nato in Siria.
L’operazione comporta due iniziative simultanee : da un lato, diffondere false informazioni, dall’altro censurare ogni possibilità di controbatterle.
Il fatto di oscurare televisioni satellitari allo scopo di condurre una guerra non è nuovo, si diceva. Così, sotto la pressione di Israele, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno via via neutralizzato le televisioni libanese, palestinese, irachena, libica e iraniana. Un oscuramento che non ha toccato le trasmissioni provenienti da alcun altro Paese.
Neppure la diffusione di notizie false è una novità. Per ben quattro volte vi si è fatto ricorso nell’ultimo decennio:
• Nel 1994, un’emittente di musica pop, Radio libre des Mille Collines (RTML), ha lanciato il segnale del genocidio ruandese esortando gli ascoltatori al grido di: «Uccidere gli scarafaggi!».
• Nel 2001 la Nato ha utilizzato i media per imporre la propria versione degli attentati dell’11 settembre e giustificare così l’aggressione all’Afghanistan e all’Iraq. Già all’epoca Ben Rhodes era stato incarico dall’amministrazione Bush di redigere il Rapporto della Commission Kean/Hamilton sugli attentati.
• Nel 2002 la Cia ha fatto ricorso a cinque reti televisive del Venezuela (Televen, Globovision, Meridiano, ValeTV e CMT) per far credere che erano state le oceaniche manifestazioni popolari a indurre alle dimissioni il presidente eletto, Hugo Chavez, mentre in realtà era caduto vittima di un colpo di Stato militare.
• Nel 2011, durante la battaglia di Tripoli, la Nato ha fatto realizzare in studio, e diffondere da Al-Jazeera et Al-Arabiya, immagini di ribelli libici che entravano nella piazza centrale della Capitale; in realtà i ribelli erano ancora lontani dalla città. Scopo della messinscena era persuadere il popolo che la guerra era ormai perduta e che dunque non aveva più senso continuare a resistere agli invasori.
Ormai i media non si limitano più a sostenere la guerra. La fanno.
Questo dispositivo di falsificazione mediatica viola i principi fondamentali del diritto internazionale. A cominciare dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, relativo al fatto «di ricevere e di diffondere, a prescindere dalle frontiere, le informazioni e le idee diffuse per qualsiasi strumento di espressione».
Soprattutto, l’offensiva mediatica degli Stati Uniti e dei loro alleati viola le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, adottate all’indomani della Seconda guerra mondiale per prevenire le guerre. Le risoluzioni110381 e 819 bandiscono «gli ostacoli al libero scambio delle informazioni e delle idee» (nel nostro caso: l’oscuramento delle reti televisive siriane) e «la propaganda atta a provocare o incoraggiare ogni minaccia alla pace, o rottura della pace od ogni altro atto di aggressione».
Giuridicamente la propaganda di guerra è un crimine contro la pace, il più grave dei crimini, poiché rende possibili i crimini di guerra e i genocidi.

[1] Il wahabismo è la religione dell’Arabia Saudita e del Qatar, e dei loro sostenitori in Libano e in Siria. Gli alawiti sono i musulmani predominanti in Siria. La crociata lanciata dalle monarchie arabe contro la Siria si connota di “guerra agli infedeli”, primi fra tutti Assad, che è appunto alawita (ndt).

*
Thierry Meyssan, intellettuale francese, presidente e fondatore di Réseau Voltaire e della Conferenza Axis for Peace, è docente di Relazioni Internazionali al Centro di studi strategici di Damasco. Ultima opera pubblicata in francese: L’Effroyable imposture : Tome 2, Manipulations et désinformations (éd. JP Bertand, 2007).

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Welcome to the Balkan Propaganda Machine

By David Gibbs

 

Some of the most salient events of the past 20 years were the NATO interventions in the Balkans, notably in Bosnia in 1995 and Kosovo in 1999. These interventions were crucial in reviving the importance of the North Atlantic Treaty Organization, an organization that previously had been seen as a Cold War anachronism, destined to irrelevance. After the Balkan interventions, NATO gained a renewed sense of purpose and prestige. And these interventions gave a whole new rationale for U.S. military action, which is increasingly viewed as a humanitarian enterprise, aimed at stopping ethnic cleansing, atrocities, genocide, crimes against women, and the like. The Balkan interventions laid the political groundwork for later intervention, most recently in Libya.

The Balkan story has nevertheless been distorted in public discussion. Important facts have been suppressed, notably that Western intervention in Yugoslavia was a major cause of the country’s breakup and made possible all the wars that followed. Later rounds of intervention in Bosnia and Kosovo helped intensify the violence and increase the destruction, a point that is well documented even if little known. And contrary to popular belief, the Serbs were not the only ethnic group that contributed to Yugoslavia’s demise.

What I term the “Balkan propaganda machine” comprises academics, journalists, and bloggers who hold tenaciously to a simplified version of the Balkan wars as being caused almost entirely by Serbs; they view the later NATO interventions against the Serbs positively. For these activists, the Balkan conflict has become a great crusade, one that defies rational analysis. Any deviation from the prescribed narrative is considered an act of immorality, deserving of punishment. In addition, this crusade dovetails nicely with a neoconservative political agenda, which celebrates the Balkan interventions as historic achievements for US hegemony.

A key figure in this propaganda effort is Marko Attila Hoare, a reader in history at Kingston University in England and a purported Balkan specialist. His technique is intimidation, a predilection that is shared by a wider community of propagandists with whom he collaborates. Hoare openly boasts that writers who disagree with his positions are “like lambs to the slaughter” who will surely “sacrifice any reputations they might have.” He is not subtle.

My own encounter with Hoare arose from my book First Do No Harm: Humanitarian Intervention and the Destruction of Yugoslavia, published by Vanderbilt University Press in 2009. Clearly, Hoare did not like the book, which was critical of the interventions. On his website, Hoare soon launched a blistering attack against me titled “The Bizarre World of Genocide Denial.”

The characterization of me as a genocide denier was quickly picked up by others on the Internet. An anonymous posting to the Srebrenica Genocide Blog referred to me as “David N. Gibbs, genocide denier.” According to another posting, at the website of the Congress of North American Bosniaks: “Gibbs’ pernicious denial of genocide calls into question not only his academic credibility, but his very qualifications to hold tenure at a university at all. … [Gibbs] has made a deliberate misinterpretation of facts.”

Yet another site, Balkan Witness, placed me on their long list of “war crimes deniers.” Several of these attacks prominently featured my photograph, presumably to ensure that their readers would recognize my face.

When I first saw Hoare’s attack, I was not unduly concerned, since it was written with such sensationalist language and key points used to sustain the attack were clearly false and easily provable as such. I wrote an extended response, in which I documented the falsity of Hoare’s claims, and expected this would end the matter. After all, a purveyor of obvious falsehoods would lose credibility — right? This turned out to be a naïve assumption in the irrational world of Internet chat rooms.

After I replied, Hoare began churning out new attacks against me. He made no serious effort to refute my evidence that his earlier attacks had been false; he simply created more extravagant falsehoods, often presented at great length. One of his reviews began by strongly implying that my book was the equivalent of The Protocols of the Elders of Zion and Nazi propaganda, along with an associated insinuation that I must be an anti-Semite. This was presented without a shred of evidence.

These incendiary references to anti-Semitism connect with the larger attack on me as a supposed genocide denier, and all this rhetoric serves to raise the emotionalism of the controversy — which is presumably Hoare’s overarching intention.

The insinuation that I am somehow an anti-Semite is ironic, given that I am a practicing Jew from a refugee background (my father was born in Berlin). I have no respect for Hoare’s manipulative use of the Holocaust to silence discussion on the Balkans, just as I have no respect for those who use the Holocaust to silence discussion on the Middle East.

In addition, Hoare repeatedly made claims about my writing that had no connection to anything I had actually written, and in several cases were the opposite of my stated views. What I present below about Hoare’s falsifications constitutes the proverbial tip of the iceberg. I could easily have provided more examples. Whether these resulted from incompetence or intentional deception is hard to say.

Particularly troubling was his repeated use of fake quotations from my work. The first example of fakery is a message that Hoare posted to an Internet discussion: “Your [Gibbs’] account of the background to the Srebrenica massacre presents the Muslims/Bosnian army as the ones principally guilty of the atrocities in the region, and of having ‘created the hatred’ there (pp. 153-154).”

Note that he attributes to me the phrase “created the hatred,” which is presented as a direct quote, with quotation marks. In reality, this phrase appears in none of my writings — not on the pages 153-154 that Hoare cites or anywhere else — and the essence of its meaning corresponds to nothing I have ever said. It is a fabrication.

At another point, Hoare attributes to me the phrase “creating the hatred,” again presented as a direct quote. The quote is once again a fabrication. And there is a third fake quote, which appears in the very title of one of Hoare’s attack reviews:“First Check Their Sources 2: The Myth that ‘Most of Bosnia Was Owned by the Serbs Before the War.’”

The first part of the title (“First Check Their Sources”) is a play on words from the title of my book, which is First Do No Harm. The embedded phrase in Hoare’s title (“Most of Bosnia Was Owned…”) is presented as a direct quote, with quotation marks. This quote is another fabrication, which falsifies both the literal wording of my book and also the substance of my stated views.

Over a period of two months, Hoare’s attacks against my work became voluminous. I found that Hoare could attack much faster than I could respond. He had a key advantage: whereas I felt a need to check the facts in my posts, Hoare seemed indifferent to whether his postings were true or false. He repeatedly contradicted himself. In the end, Hoare posted four extended attack reviews on his own website, totaling some 26 single-spaced pages when printed out. In addition, he followed up with numerous additional attacks on me in Internet chat rooms, which sparked yet further attacks by the anonymous posters who frequent such venues.

The tone became venomous, especially among the anonymous posters, some of whom clearly had emotional problems. Several of the posters reminded me of extremist figures I encounter in my home state, which I did not find reassuring. Attacks began appearing all over the Internet, each seeming to be more ludicrous than the last. A review of my book posted to BarnesAndNoble.com stated: “The author is a self-declared supporter of Serbia and Russia. … Gibbs’ friendship with KGB agent and The Guardian writer [name redacted] speak about the author.” In reality, I had never even heard of this person, whose name I have redacted to avoid repeating a slur.

The smears are having some effect. If one performs a Google search of my name, the various attack postings by Hoare and others are among the very first to emerge, and this has remained consistent over a period of many months. Thus, if anyone is interested in searching my work, “David N. Gibbs, genocide denier” is among the first hits.

This is not the first time that smear tactics have been used. If one peruses the various Balkan websites, one finds numerous attacks directed against large numbers of prominent academics, journalists, and public figures.

These smears are not just confined to the Internet. In 2005, The Guardianpublished an attack article on Noam Chomsky, which included a sensational allegation that Chomsky had denied that any massacre had occurred at Srebrenica.The Guardian’s main evidence was that Chomsky had referred to the Srebrenica massacre with quotation marks around the word “massacre.”

In reality, Chomsky had never used scare quotes to describe the Srebrenica massacre, and The Guardian’s allegation to the contrary was false (moreover, Chomsky had never denied that what happened at Srebrenica was a massacre). Because of this and other egregious flaws, The Guardian‘s editors retracted the article from their website and issued an apology. This episode proved a major embarrassment for the newspaper.

Hoare protested the editors’ decision to apologize, and he used extravagant language to make his points: the author of the Guardian attack on Chomsky had been “stabbed in the back” by the editors and subjected to “an unparalleled campaign of vilification.” In addition, Hoare insinuated that the editors were caving in to the “Milosevic lobby,” rather than responding to legitimate complaints about falsification. There was just one nagging problem: Hoare did not dispute that the article contained false information regarding Chomsky’s characterization of the Srebrenica massacre; instead, he dismissed the falsehood as “one small error of detail,” barely worthy of criticism.

This incident illustrates Hoare’s casual attitude regarding the importance of accuracy.

I have filed a complaint against Hoare with his home institution, Kingston University, requesting an apology for the multiple falsehoods in his attacks against me. Kingston’s dean of arts and social sciences, Martin McQuillan, perfunctorily acknowledged receiving my complaint over seven months ago. Apart from this, he has not responded to me.

Dean McQuillan’s failure to respond is curious. Repeatedly making up false statements and then declining to retract them — as Hoare has clearly done — seem like serious academic violations. Note that McQuillan has not denied my claims against Hoare, nor has he defended Hoare in any way; he has simply failed to respond.

Hoare probably feels protected by his association with a larger network of writers who share much of his perspective, especially among the Balkan diaspora in Britain and the U.S. Hoare is a former student of Yale professor Ivo Banac, who later became a minister in the Croatian government. He is also close to Josip Glaurdic, another former student of Banac and an up-and-coming figure among pro-Croatian academics. At various times, Hoare has been active in neoconservative political groups, notably the Henry Jackson Society, as well as the Bosnian Institute. The latter is directed by Hoare’s father (with his mother also listed on the Institute masthead as a consultant). Both organizations have been major sources of interventionist propaganda, influential on both sides of the Atlantic. In addition, Hoare has associated with academics at Oxford and Cambridge — partly through his parents’ Bosnian Institute network. His writing has appeared in David Horowitz’s FrontpageMag.com.

These connections no doubt give Hoare the confidence to undertake his attacks, which have been highly effective in intimidating free discussion.

Consider the 1995 Srebrenica massacre. The basic facts of the massacre — and that the Serb forces bear the overwhelming responsibility for perpetrating it — are widely acknowledged. However, there remains debate among legal specialists about whether this massacre should be classed as a genocide or a war crime, with no clear consensus on this question. By frivolously hurling the smear phrase “genocide denier” against critics, Hoare seeks to suppress this debate, in order to preserve a simplified version of the Srebrenica massacre and of the Balkan wars more generally.

And the circumstances that led to the massacre are considerably more complicated than is popularly believed. For example, there is little doubt that the Muslim government of Alija Izetbegović allowed Srebrenica to fall to Serb militias, as part of their policy of encouraging Serb atrocities and thus shocking the Western powers into intervening against the Serbs; in doing this, the government contributed to the massacre that followed. Yet these facts remain suppressed in public discussions of the Bosnia war, which typically celebrate the virtues of the Muslim government. Once again, the intimidation campaigns have obscured vital information.

In a sense, Hoare and his colleagues have no choice but to intimidate. They cannot sustain their claims about the Balkan wars through logical arguments, because the facts do not support their case. Hence, they resort to character assassinations, which serve to distract from the facts and debase public discussion.

The widespread use of character assassination to stifle discussion is not just confined to those who write on Yugoslavia. Indeed, this tactic has become standard practice among neoconservatives generally, a point recently emphasized by Harvard’s Stephen Walt:

U.S. neoconservatives have long demonstrated [that] the best defense is sometimes a good offense. No influential political faction in America is more willing to engage in character assassination and combative politics than they are. … I’m talking about the tendency to accuse those with whom they disagree of being unpatriotic, morally bankrupt, anti-Semitic, or whatever. Their willingness to play hardball intimidates a lot of people, which in turn protects them from a full accounting for their past actions.

The Balkan propaganda machine fits perfectly into this overall pattern. And like the neocons described above, Hoare seems to view himself as above accountability, even for his use of false statements and fake quotations.

I assume Hoare will respond in his usual way, by launching ever more vitriolic attacks against me, along with renewed allegations of genocide denial, insinuations of anti-Semitism, and the like. But before doing this, he might want to explain all the falsehoods that have so marred his previous efforts, as specified in my letter to Kingston University. And perhaps the Kingston administrators can explain whether they have any standards at all with respect to academic fraud.