Informazione


ITALIANI BRAVA GENTE


AFFILE, GRANDE FESTA PER IL "MARESCIALLO D'ITALIA"... ORA AFFILE COME PREDAPPIO

Una gran bella festa come quelle che si vivono nei piccoli paesi come e' Affile, che con le sue 1.500 anime ha attirato tutta l'attenzione della politica dell'intero Lazio su di se' per il fatto che si e' dedicato un sacrario al generale Rodolfo Graziani, cittadino di Affile, militare, "maresciallo d'Italia" e ministro della Guerra della Repubblica di Salo'. Un fiume di gente in cammino verso il sacrario, il sindaco Pdl Ercole Viri e' in testa alla coda di istituzioni e cittadini. C'e' anche l'assessore regionale ai Trasporti Francesco Lollobrigida, l'assessore regionale Teodoro Buontempo, il senatore Oreste Tofani e molti sindaci della provincia romana: da Tivoli, a Morlupo, a Vallepietra a diversi Comuni non lontani da Affile. Il sacrario e' pronto ad attendere il bagno di folla, ci sono persone che sorreggono bandiere d'Italia all'ingresso. In piazza San Sebastiano, nel paese della Valle Aniene, è comparsa anche qualche bandiera della Giovane Italia, organizzazione giovanile del Pdl. C'e' un tricolore che sventola in cima alla struttura che separa le parole "Patria" e "Onore".  Poi arriva la benedizione di don Ennio Innocenti, autore del libro "disputa sulla conversione del Duce". E' un momento solenne per i concittadini del generale Graziani. Per il monumento alla memoria e la riqualificazione del parco di Radimonte e' stato speso un finanziamento regionale, stanziato dalla giunta Marrazzo, di 130 mila euro, "in realta' - dice l'assessore Lollobrigida - il finanziamento era di 230 mila euro ma si e' riusciti a risparmiare e il sindaco ne ha restituiti 100 mila". Tra l'altro, come spiega Lollobrigida, si e' inteso riqualificare un Parco divenuto pubblico oltre che ricordare  un illustre cittadino che ha dato la vita per l'esercito e ha pagato le sue scelte in termini personali. Non e' stato un criminale di guerra ma un soldato italiano pluridecorato". Questo voler rimarcare da parte di Lollobrigida il ricordo di Graziani come valoroso militare e illustre concittadino affiliano e' probabilmente voluto per mettere a tacere una volta per tutte "le sterili polemiche", cosi' le ha definite l'assessore,, sollevate da esponenti di sinistra, "gli stessi - dice l'assessore alla Mobilita' della Regione - che il 15 gennaio del 2007 erano ad Affile a commemorare i 50 anni dalla morte di Graziani con un sindaco Ds e oggi strumentalizzano un evento promosso da un primo cittadino democraticamente eletto". Mette a tacere le "chiacchiere" anche il sindaco di Affile, orgoglioso e sereno in un giorno atteso dai suoi cittadini: “Il progetto che abbiamo realizzato - ha detto Viri - ha suscitato vane chiacchiere. L'opera era attesa non solo qui ma anche dall'Italia intera”.  Dopo la conferenza e' stata deposta una corona sulla tomba di Graziani, sepolto nel vecchio cimitero affiliano.

autore: Chiara Rai


GRAZIANI Rodolfo.

Governatore della Libia dal 1930 al 1934, dove “pacificò” la Cirenaica mediante deportazione di circa 100.000 persone, bombardamenti all’iprite, esecuzioni sommarie e torture anche di vecchi donne e bambini; il comandante della resistenza libica, il settantatreenne Omar el-Muktar, il “leone del deserto”, fu impiccato dopo un processo sommario il 16/9/31.
Tra il 1935 ed il 1936 comandò le operazioni militari contro l’Abissinia, utilizzando anche le bombe all’iprite. Nominato viceré d’Etiopia nel 1937, sfuggito ad un attentato il 19/2/37, ordinò una repressione che provocò 3.000 morti secondo le fonti britanniche e 30.000 secondo quelle etiopiche. Si ricorda in particolare il massacro del monastero di Debre Libanos, dove furono uccisi più di 1.500 monaci, molti dei quali giovanissimi diaconi.
Rientrato in Italia, nel 1938 firmò il Manifesto per la difesa della razza e dal settembre 1943 ricoprì la carica di ministro delle Forze armate della RSI.
Fu denunciato alle Nazioni unite come criminale di guerra. Processato nel 1948, fu condannato a 19 anni di reclusione di cui 17 condonati. Aderì al MSI fin dal momento della sua fondazione.
Padre di Clemente Graziani, il dirigente di Ordine Nuovo che in un’intervista pubblicata su “Panorama” del 19/12/74 dichiarò “Siamo i veri eredi della Repubblica sociale italiana e del nazismo. Vogliamo distruggere la democrazia e duellare politicamente gli ebrei e l’ebraismo, abolire il voto, affidare la guida dello Stato a pochi aristocratici dell’intelligenza”.

a cura della redazione de La Nuova Alabarda (Trieste)


(srpskohrvatski / francais / italiano)

Olimpiadi

1) La Jugoslavia alle Olimpiadi 2012
2) Doping politico (Manlio Dinucci)
3) Olimpiadi e minoranza italiana in Croazia (Fabio Muzzolon)
4) Olimpiadi: il sogno infranto degli atleti kosovari (Jacopo Corsini)
5) LONDONSKE OLIMPIJSKE IGRE - IGRE SMRTI (Ljubodrag Simonović Duci)


ALTRI LINK:

OLIMPIJSKE IGRE – MIT I STVARNOST
Ljubodrag Duci Simonović - јун 10, 2012 · by nedjeljnilistborba

L'horreur économique des Jeux Olympiques
Par Daniel Salvatore Schiffer - 26 Juillet 2012 

La Jugoslavia alle Olimpiadi 2004
JUGOINFO 3 settembre 2004

La Jugoslavia alle Olimpiadi 2008
JUGOINFO 28 agosto 2008

Su alcune questioni sportive si veda anche la documentazione alla nostra pagina:


=== 1 ===

La Jugoslavia alle Olimpiadi 2012


Il numero riportato tra parentesi indica la posizione del paese nella graduatoria dei corrispondenti giochi olimpici.

oro argento bronzo totale

LONDRA 2012

(25) Croazia 3 1 2 6
(42) Slovenia 1 1 2 4
(42) Serbia 1 1 2 4
(69) Montenegro 0 1 0 1
( - ) Bosnia-Erzegovina 0 0 0 0
( - ) FYROM 0 0 0 0

totale 5 4 6 15


A confronto:


Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia

( 14 ) Parigi 1924 2 0 0 2
( 21 ) Amsterdam 1928 1 1 3 5
( 25 ) Berlino 1936 0 1 0 1
( 24 ) Londra 1948 0 2 0 2
( 21 ) Helsinki 1952 1 2 0 3
( 26 ) Melbourne 1956 0 3 0 3
( 18 ) Roma 1960 1 1 0 2
( 19 ) Tokyo 1964 2 1 2 5
( 16 ) Città del Messico 1968 3 3 2 8
( 20 ) Monaco 1972 2 1 2 5
( 16 ) Montreal 1976 2 3 3 8
( 14 ) Mosca 1980 2 3 4 9
( 9   ) Los Angeles 1984 7 4 7 18
( 16 ) Seul 1988 3 4 5 12


Slovenia

( 52 ) Barcellona 1992 0 0 2 2
( 55 ) Atlanta 1996 0 2 0 2
( 35 ) Sydney 2000 2 0 0 2
( 64 ) Atene 2004 0 1 3 4
( 41 ) Pechino 2008 1 2 2 5


Croazia

( 44 ) Barcellona 1992 0 1 2 3
( 45 ) Atlanta 1996 1 1 0 2
( 48 ) Sydney 2000 1 0 1 2
( 44 ) Atene 2004 1 2 2 5
( 57 ) Pechino 2008 0 2 3 5


Bosnia-Erzegovina

( - ) Barcellona 1992 0 0 0 0
( - ) Atlanta 1996 0 0 0 0
( - ) Sydney 2000 0 0 0 0
( - ) Atene 2004 0 0 0 0
( - ) Pechino 2008 0 0 0 0


Repubblica ex-jugoslava di Macedonia - FYROM

( - ) Atlanta 1996 0 0 0 0
( 70 ) Sydney 2000 0 0 1 1
( - ) Atene 2004 0 0 0 0
( - ) Pechino 2008 0 0 0 0


Repubblica Federale di Jugoslavia,
dal 2004: Unione di Serbia-Montenegro

( 41 ) Atlanta 1996 1 1 2 4
( 42 ) Sydney 2000 1 1 1 3
( 62 ) Atene 2004 0 2 0 2


Serbia

( 62 ) Pechino 2008 0 1 2 3


Montenegro

( - ) Pechino 2008 0 0 0 0
http://www.athens2004.com/en/OlympicMedals/medals
http://www.olympic.it/italian/country )


=== 2 ===

Doping politico

 

Fonte: il manifesto, 7.08.2012

Autore: Manlio Dinucci 

Tra le squadre alle Olimpiadi di Londra ce n’è una multinazionale, formata da giornalisti che, allenati da coach politici, eccellono in tutte le discipline della falsificazione. La medaglia d’oro va ai britannici, primi nello screditare gli atleti cinesi, descritti come «imbroglioni, scherzi di natura, robot». Un secondo dopo che la nuotatrice Ye Shiwen ha vinto, la Bbc ha insinuato il dubbio del doping. Il Mirror parla di «brutali fabbriche di addestramento», in cui gli atleti cinesi vengono «costruiti come automi» con tecniche «ai limiti della tortura», e di «atleti geneticamente modificati». 
La medaglia d’argento va al Sole 24 Ore che, tramite l’inviata Colledani, descrive così gli atleti cinesi: «La stessa faccia squadrata, la stessa concentrazione militaresca, fotocopia l’uno dell’altro, macchine senza sorriso, automi senza eroismo», creati da una catena di montaggio che «sforna ragazzini come bulloni», costringendoli alla scelta «piuttosto che fame e povertà, meglio disciplina e sport». C’è nostalgia a Londra dei bei tempi andati, quando nell’Ottocento i cinesi venivano «scientificamente» descritti come «pazienti, ma pigri e furfanti»; quando gli imperialisti britannici inondavano la Cina col loro oppio, dissanguandola e asservendola; quando, dopo che le autorità cinesi ne proibirono l’uso, la Cina fu costretta con la guerra a cedere alle potenze straniere (tra cui l’Italia) parti del proprio territorio, definite «concessioni»; quando all’entrata del parco Huangpu, nella «concessione» britannica a Shanghai, c’era il cartello «Vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi». Liberatasi nel 1949, la nuova Cina, non essendo riconosciuta dagli Usa e dai loro alleati, venne di fatto esclusa dalle Olimpiadi, alle quali poté partecipare solo nel 1984. Da allora è stato un crescendo di successi sportivi. Non è però questo a preoccupare le potenze occidentali, ma il fatto che la Cina sta emergendo come potenza in grado di sfidare il predominio dell’Occidente su scala globale. Emblematico che perfino le uniformi della squadra Usa alle Olimpiadi siano made in China. Dal 2014 saranno usate solo quelle made in America, ha promesso il Comitato olimpico Usa, organizzazione «non profit» finanziata dalle multinazionali. 
Che, con le briciole di quanto ricavano dallo sfruttamento delle risorse umane e materiali di Asia, Africa e America latina, finanziano il reclutamento di atleti da queste regioni per farli gareggiare sotto la bandiera a stelle e strisce. La Cina invece considera «lo sport come una guerra senza uso di armi», accusa il Mirror. Ignorando che la bandiera olimpica è stata issata da militari britannici, che hanno usato le armi nelle guerre di aggressione. La Cina è l’ultima ad avere «atleti di stato», accusa Il Sole 24 Ore. Ignorando che, dei 290 olimpionici italiani, ben 183 sono dipendenti statali in veste di membri delle forze armate, poiché solo queste (per una precisa scelta politica) gli permettono di dedicarsi a tempo pieno allo sport. Una militarizzazione dello sport, che il ministro Di Paola chiama «binomio sport-vita militare, fondato su un’etica condivisa, caratteristica dell’appartenenza ad un corpo militare così come ad un gruppo sportivo». Allora quella contro la Libia non è stata una guerra, ma l’allenamento per le Olimpiadi.



=== 3 ===

Da: Fabio Muzzolon
Data: 13 agosto 2012 20.05.45 GMT+02.00

in margine alle Olimpiadi (e alle vacanze), un fatto sfuggito sul croato bilingue che ha battuto la nostra medaglia d'argento Massimo Fabbrizi nel tiro a volo... 


SULLA MINORANZA ITALIANA IN CROAZIA.
Mi trovavo da quelle parti quando il tiratore croato, medaglia d'oro olimpica, Giovanni Cernogoraz, professione cameriere di famiglia, veniva festeggiato nella sua Città Nova, in slavo Novi Grad, sulla costa istriana. Il cronista della RAI era un po'  imbarazzato davanti a questo nome  un po' ibrido ed esotico. Un cognome forse strano per un atleta della minoranza italiana che in casa parla dialetto veneto-istriano, cognome scritto in grafia italiana ma che in serbo-croato significa "montenegrino" o di qualche altro Monte Nero nei paraggi, a conferma che le identità non sono mai del tutto separate e definitive.
Qualcuno avrà pensato: ma come può esserci un italiano in Croazia, ex Tito-slavia, non erano stati tutti cacciati o "infoibati"? Eppure da fonti croate si sa che gli italiani dichiarati (senza timori o pigrizie di dichiararsi!) sono almeno 20.000 nella sola Croazia, ma il rappresentante della Comunità Italiana (Talijanska Zajednica) di Dignano-Vodnjan dice che potrebbero aggirarsi sui 35.000, ma la presenza di moltissimi "misti" -tipica eredità jugoslava- rende il conto molto difficile. Tanto più arduo contare gli Istriani e Dalmati che usano l'italiano o il croato in modo bilingue nonostante il crescente centralismo croato. Intanto sempre di più da noi si sente dire "Vado a Porec in Croazia" quando in italiano sarebbe preferibile "Vado in Istria, a Parenzo".


=== 4 ===

NB. Riportiamo l'articolo seguente per le informazioni attuali in esso contenute, benché la sua impostazione sia fuorviante in quanto, storicamente e al presente, non esiste alcuna "aspirazione nazionale kosovara" ma solamente la aspirazione irredentista del nazionalismo pan-albanese che mira a strappare la provincia del Kosovo dalla Serbia allo scopo di annetterla alla Repubblica di Albania, realizzando quella "Grande Albania" etnicamente intesa che fu già effimera creazione del nazifascismo.



Olimpiadi: il sogno infranto degli atleti kosovari


Non è un problema recente. Per gli atleti kosovari è impossibile difendere i colori della propria bandiera. E' accaduto anche alla judoka Majlinda Kelmendi, alle olimpiadi di Londra. "Ma a Rio 2016 gareggerò per il Kosovo"

Il Presidente bielorusso Lukashenko, cui venne rifiutato sia il visto per recarsi in Gran Bretagna sia l’accreditamento dal Comitato Olimpico Internazionale, già prima dell’inizio dei giochi sentenziò: “non sono sport ma politica, sporca politica”.
Anche se siamo distanti dalla tensione politica internazionale che aleggiava su Mosca ’80 o Los Angeles ’84, l’edizione di quest’anno ha sollevato non poche polemiche nella regione dei Balcani Occidentali, in particolare Kosovo e Serbia, a causa della decisione di non far partecipare gli atleti kosovari all’interno di una rappresentanza nazionale kosovara.

Il veto di Divac

Il Presidente del Comitato Olimpico serbo ed ex stella internazionale del basket, Vlade Divac, si pronunciò in merito già nel marzo scorso quando disse chiaramente che se gli atleti kosovari, di etnia albanese o serba, avessero voluto partecipare ai giochi olimpici di Londra lo avrebbero potuto fare solo ed esclusivamente all’interno della delegazione serba.
Di diversa opinione fu invece il Parlamento di Strasburgo che pochi giorni dopo, il 29 marzo, adottò una Risoluzione in cui chiese ufficialmente l’inizio dei negoziati di adesione con la Serbia, che già da un anno aveva ottenuto lo status di paese candidato, e allo stesso tempo sollecitava Belgrado perché desse nuovo impulso ai negoziati diretti con Pristina, bloccati ormai da alcune settimane (e ancora oggi non ripresi); nello stesso documento fece appello al Comitato Olimpico Internazionale affinché lasciasse partecipare atleti kosovari sotto la propria bandiera.
A maggio la questione venne portata a Losanna, sede del Comitato, il quale sentenziò che, secondo lo statuto, per poter partecipare ai giochi olimpici uno stato deve essere riconosciuto dalla Comunità internazionale, cioè dalle Nazioni Unite. E il Kosovo, ad oggi riconosciuto ufficialmente da 91 Paesi, deve fare i conti con l’opposizione della Serbia sostenuta dalla protettrice Russia che detiene il potere di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza.

Non solo le olimpiadi

In questi giorni a Londra solo un’atleta kosovara, la famosa judoka Majlinda Kelmendi, ha preso parte ufficialmente alle olimpiadi sfilando all’interno della rappresentativa di Tirana. Medaglia d’oro ai campionati mondiali junior di Parigi di tre anni fa, negli ultimi mesi la giovane atleta nata nel maggio del 1991, si è dovuta scontrare con le resistenze del Comitato il quale, oltre a negarle la possibilità di gareggiare sotto la propria bandiera nazionale, le ha proibito anche quella di gareggiare come atleta indipendente sotto la bandiera olimpica, a differenza di quanto è stato concesso a quattro altri atleti provenienti dal neonato Stato del Sud-Sudan e dalle ex Antille olandesi. Senza possibilità di rappresentare ufficialmente il proprio Paese, Majlinda si è ritrovata così costretta a partecipare all’interno della delegazione albanese. E' scesa sul tatami nella categoria del judo femminile dei 52 kg.
La non partecipazione ai giochi olimpici di Londra è solo il più clamoroso dei tanti dinieghi che Pristina si è vista presentare in campo sportivo. L’isolamento internazionale in questo campo è generalizzato e neppure il recente accordo con Belgrado sul famoso “asterisco”  sembra sia stato sufficiente. L’accordo, raggiunto nel febbraio scorso, consentiva la partecipazione del Kosovo ad eventi internazionali a patto che il nome fosse seguito da un asterisco che rimandasse ad una nota a piè di pagina in cui si menzionava la Risoluzione 1244 e il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia.
È evidente come l’isolamento internazionale di Pristina in ambito sportivo abbia anche ricadute politiche: molti atleti di etnia albanese sono stati allenati e sono cresciuti in Kosovo e successivamente “dati” alla vicina Albania per poter competere in eventi internazionali con la conseguenza che si stanno facendo sempre più numerose le richieste di una maggiore integrazione, quando non una vera e propria fusione, delle federazioni sportive kosovare con quelle albanesi.

Arrivederci a Rio

Nel frattempo, i sogni di Majlinda di dedicare una medaglia olimpica al proprio Paese sono stati infranti sul tatami: arrivata tra le 16 atlete di finale dopo aver battuto la finlandese Jaana Sundberg, si è dovuta arrendere alla judoka delle Mauritius, Christianne Legentil. Nonostante questo, la ventunenne kosovaro-albanese ha affermato che continuerà la battaglia per realizzare il sogno di gareggiare, alle prossime olimpiadi di Rio de Janerio, con la bandiera kosovara cucita sul proprio kimono.

--

La nota a margine 

Dopo un accordo raggiunto tra Belgrado e Pristina nel febbraio 2012, con la mediazione dell'UE, il Kosovo potrà essere rappresentato nei summit regionali e potrà siglare accordi commerciali con Paesi terzi. Ad una condizione però: il nome dovrà essere seguito da un asterisco che rimanda ad una nota a piè pagina dove si fa riferimento sia alla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che garantisce l'integrità territoriale della Serbia, sia alla decisione con cui la Corte internazionale di giustizia ha sancito che la dichiarazione di indipendenza di Pristina non è contraria al diritto internazionale.


=== 5 ===


("Le Olimpiadi di Londra. Olimpiadi della morte." 
Dello stesso autore - filosofo ed ex giocatore di pallacanestro - sullo stesso sito:


LJUBODRAG SIMONOVIĆ: OLIMPIJSKI PLAMEN




LONDONSKE OLIMPIJSKE IGRE. IGRE SMRTI.

 

Piše: Ljubodrag Simonović Duci

 
 

Olimpijske igre.

Najznačajnija svetkovina kapitalističkog sveta.

„Plava loža“ je puna.

Dželati čovečanstva su na okupu.

Tu je i kraljica.

Britanska kraljevska kuća…

Najkrvavija zločinačka organizacija za koju istorija zna.

London slavi!

Bojni brodovi, avioni, rakete, policajci, komandosi…

Pravi olimpijski ambijent.

Fanfare, olimpijska koračnica…

Roboti marširaju.

Ave cæsar! Morituri te salutant!

Kraljica maše.

Kraljica se smeje.

Kraljica zeva.

„Golubi mira“ nestaju u tami otrovanog neba.

To su Olimpijske igre, budalo!

Smej se!

Svi moraju biti srećni!

„Sport je najjeftinija duhovna hrana za radne mase -

koja ih drži pod kontrolom.“

Stari, dobri Kuberten.

Znao je kako treba vladati.

Olimpijske igre.

Bile su „festival mladosti“.

Sada su festival smrti.

Kraljica je zadremala.

Neka je.

Neka utone u večni san.

Kao i Bler, Buš, Klinton, Sarkozi, Obama…

Kao i svi kapitalistički zlikovci.

Spavajte! – olimpijski anđeli.

Spavajte! – olimpijski gadovi.

I nikada se nemojte probuditi.

 

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Le Conseil de sécurité refuse de condamner un attentat contre ses casques bleus


RÉSEAU VOLTAIRE | 17 AOÛT 2012

Sergey Lavrov, ministre russe des Affaires étrangères, a indiqué sur Twitter « ne pas comprendre la position » des membres occidentaux du Conseil de sécurité qui ont refusé de condamner l’attentat perpétré, le 15 août 2012, à l’arrière de l’hôtel Rose de Damas où résident les observateurs de l’ONU.
C’est la première fois dans l’histoire de l’Organisation que le Conseil de sécurité refuse de condamner une action terroriste visant ses propres observateurs.




Il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia onlus si unisce al cordoglio per la scomparsa di Spartaco Ferri, cristallina figura di partigiano comunista e di internazionalista appassionato. 
Spartaco mosse i primi passi della lotta armata antifascista nelle file della Brigata Gramsci dell'Umbria, sotto il comando di combattenti jugoslavi sfuggiti ai campi di concentramento sulla nostra penisola. Dopo la Liberazione si formò soprattutto sui testi di Engels, maturando una convinta adesione al materialismo storico e dialettico e ponendosi fermamente in contrasto contro le derive opportunistiche e anti-scientifiche di gran parte del movimento comunista italiano. Nei decenni successivi fu tra l'altro impegnato in iniziative internazionaliste e di amicizia "con la Cina di Mao, con l'Albania di Hoxha, con la Jugoslavia di Tito, con la Corea di Kim Il Sung, con Cuba", come ricorda la sua compagna di vita, la partigiana Miriam Pellegrini, alla quale va il nostro più affettuoso abbraccio in questo momento.
Con Miriam, nel 1998 Spartaco è stato tra i fondatori del GAMADI (Gruppo Atei Materialisti Dialettici) (1), organizzazione con cui CNJ-onlus da anni collabora ad esempio attraverso la redazione di un foglio comune sulle questioni jugoslave (2), nonché nell'organizzazione di iniziative (3) e nella gestione della sede romana. Come CNJ-onlus siamo fieri di avere avuto Spartaco tra i componenti del nostro Collegio dei Garanti. 
Porteremo avanti gli ideali internazionalisti e di giustizia sociale di Spartaco, facendo tesoro dell'esempio e dell'insegnamento che ci ha trasmesso.

Per CNJ-onlus, il Consiglio Direttivo

(3) Tra tutte ricordiamo la due-giorni organizzata nel 60.mo della Liberazione dell'Europa dal nazifascismo, cui intervennero ex combattenti, studiosi ed antifascisti da molti paesi: https://www.cnj.it/PARTIGIANI/resoconto.htm


Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Miriam" <gamadilavoce @ aliceposta.it>
Data: 14 agosto 2012 21.18.08 GMT+02.00
Oggetto: [vocedelgamadi] Lutto assai doloroso

 

Il Partigiano, il comunista, il combattente contro  tutte le ingiustizie in ogni parte del mondo: Spartaco Ferri non é più con noi.
Aveva la tessera del partito comunista nel 1943, quando aveva solo 19 anni. Diffondeva l' Unità (un solo fogio clandestino) cosa che avrebbe potuto costargli la vita.e imparò a sparare al nemico dal suo comandante che era un valido jugoslavo, quando partì per  essere partigiano nelle montagne umbre  Aveva creduto e sperato nel Partito comunista di Gramsci. Ma quando nel 1968 i burocrati del partito   chiamavano la polizia contro gli studenti in lotta, anzichè ascoltarli, capirli e indirizzarli alle teorie scientifiche della classe, Spartaco  non esitò a lasciare il Partito. Lavorò per l' amicizia con la Cina di Mao, con l' Albania di Hoxha, con la Jugoslavia di Tito,con la Corea di Kim Il Sung, con Cuba. Accolse con grande entusiamo la proposta  della sua compagna di vita e di lotta, Miriam, madre dei suoi figli, che ideò di fondare il G.A.MA.DI. per la diffusione della cultura scientifica della nostra classe.
Nel suo lavoro di Perito industriale specialista in cemento precompresso, é stato premiato con medaglia dal ministero dei Lavori Pubblici per aver collaborato alla costruzione del Ponte in Tor di Quinto in Roma. Il tentativo più volte fallito di costruire l' autocamionale della CISA, che unisce il parmense a La Spezia, é stato realizzata con la direzione di Spartaco e a tutt'oggi (dopo più di trent' anni) é funzionante.Spartaco é stato un uomo nel senso più pieno del termine per la sua intelligenza per la sua onestà, per la sua lealtà e per l' impegno politico e sociale per il quale é stato sempre protagonista.  Insieme alla sua compagna, Egli ha scritto una delle pagine d' amore più belle e più intense vissute nel corso della loro unione durata oltre sessant' anni.
Addio Spartaco!!! Non ti dimenticheremo e continueremo a lottare!!!
 
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*** http://www.gamadilavoce.it ***

La lista [vocedelgamadi] e' di supporto a "La Voce",
notiziario del Gruppo Atei Materialisti Dialettici (GAMADI).
Per informazioni sul GAMADI e per abbonarsi al mensile "La Voce":
telefono e fax: 06-7915200;
indirizzo: Piazza L. Da Vinci, 27 - 00043 Ciampino (Roma)
POSTA ELETTRONICA gamadilavoce @ aliceposta.it


(deutsch / english.

Il fotografo della polizia tedesca Henning Hensch, che nel gennaio 1999 riprese le vittime degli scontri tra polizia serba e terroristi pan-albanesi dell'UCK a Rugovo in Kosovo, ha rilasciato nuove sensazionali dichiarazioni alla giornalista della "Voce della Russia" Iovana Vukotic. Secondo Hensch, l'allora Ministro della Difesa tedesco Rudolf Scharping manipolò le sue fotografie, mostrando all'opinione pubblica solamente quelle in cui non era chiara l'affiliazione all'UCK dei morti albanesi, per spacciarli come "civili albanesi innocenti" e spianare così la strada alla criminale aggressione della NATO - aggressione cui partecipò anche l'Italia governata da Massimo D'Alema... La giornalista chiude l'articolo notando come tecniche di disinformazione di massa identiche siano utilizzate oggi per destabilizzare la Siria e provocare nuovi bagni di sangue.)



NATO war against Yugoslavia based on lies


Blokhin Timur, Vukotic Iovanna

Aug 10, 2012

Germany joined the war against Yugoslavia under the pretense of fabricated facts. Sensational confession of German policeman Henning Hentz [wr. Hensch] who served in the OSCE in Kosovo in the 90s confirmed that.

The reason here is that photographs taken by Hentz [wr. Hensch] in late January 1999 were used by then German Defence Minister Rudolf Scharping to justify the immediate interference of NATO in the Kosovo conflict. He presented the photographs of the militants killed in Rugovo as photos of innocent Albanian victims.

What did really happen in Kosovo in late January of 1999, several months before NATO launched its operation against Yugoslavia? According to Serbian sources, more than two dozens of Kosovo Liberation Army terrorists were killed in Rugovo, while the Western mass media insisted that at least nine of them were civilians. Particularly, the daily New York Times wrote with the reference to a local field commander that there were only four KLA militants in the village and he knew nothing about other people. January 29, on that day OSCE mission representative Henning Hentz [wr. Hensch] was in Rugovo. He shared his impression of the visit with the Voice of Russia correspondent Iovanna Vukotic which gives a real picture of what happened. He said that this had nothing to do with the killing of Albanian civilians.

“We discovered 25 bodies, including 11 in a bus and some others near the vehicle. Several other bodies were laying in a barn which was used as a garage. The territory around the barn was covered with snow but there were no traces. I thought that the bodies were brought there from another location, and most likely, a day before the clash between Serb police and KLA militants,” Henning Hentz [wr. Hensch] said.

At the time, German Defence Minister Rudolf Scharping showed only some of the photos taken by Henning Hentz [wr. Hensch] and for some reason said those were taken by a German officer. He deliberately ignored the photos that clearly showed the dead bodies of KLA militants. So, Scharping managed to convince the public that “bad guys” or Serbs were again killing innocent Albanians and provoked a wave of refugees, says Hentz [wr. Hensch].

“For Germans, this meant that they would be involved in a military operation for the first time after the Second World War. My impression is that the situation in Kosovo at the time was exaggerated. When I visited Kosovo, there was no necessity for Albanians to leave their homes en mass. A real exodus started with the beginning of bombing. A major part of the report on the Kosovo situation was exaggerated and was always against Serbs,” Henning Hentz [wr. Hensch] added.

Ethnic cleansing in Kosovo was used as a pretext for bombing Yugoslavia. And the incident in the village of Rugovo shows once again that the PR campaign against Belgrade was organized using obvious forgeries. Reportedly, NATO started thinking about an invasion after the killing of 40 civilian Albanians in Rachak. However, experts who studied the forensic reports concluded that there was no evidence proving that the killed were civilians, and that they were killed by Serbian servicemen.

This technology is being used even now. For example, the photos taken in Iraq in 2003 are used in news broadcasts to show the deaths of Syrian civilians. The dramatic effect is achieves by using photo editing programmes. For example, a Syrian family walking in the streets of an ordinary city, photo is shown on a background of ruined buildings. Ultimately, they achieve the necessary effect. In the 19th century, a prominent Russian gnomic poet Kozma Prutkov said: If you read the world buffalo on a cell of an elephant, please, do not believe it. Truly, in the 19th century, there was no high-tech to make a fly from an elephant as well as genocide from contract killing.



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Massaker in Rugovo: Nato-Aggression unter einem Vorwand


Jovana Vukotic

8.08.2012


Deutschland ist in den Nato-Krieg gegen Jugoslawien unter einem Vorwand eingetreten. Davon zeugen sensationelle Aussagen des deutschen Polizisten Henning Hensch, der Ende der 1990er bei der OSZE im Kosovo arbeitete. Ende Januar 1999 machte Hensch einige Aufnahmen, mit denen der damalige deutsche Verteidigungsminister Rudolf Scharping für einen dringlichen Nato-Eingriff in den Konflikt plädierte. Dabei gab er die Bilder der im Dorf Rugovo vernichteten kosovarischen Militanten für Fotos von harmlosen albanischen Opfern aus.

Was ist tatsächlich im Januar 1999, also wenige Monate vor dem Beginn der Nato-Operation gegen Jugoslawien, in Rugovo geschehen. In Serbien spricht von der Vernichtung von über 20 Terroristen aus der Befreiungsarmee des Kosovo. In den westlichen Medien wird dagegen behauptet, dass mindestens 9 Opfer Zivillisten waren. So schrieb die Zeitung „New York Times“ unter Berufung auf einen Kommandeur der UÇK, dass in Rugovo nur vier bewaffnete Kämpfer umgebracht worden seien. Dabei habe der Mann nicht gewusst, wer die anderen waren.

An jenem Tag, den 29. Januar 1999 war der OSZE-Beobachter Henning Hensch in Rugovo. Seine Erinnerungen, die er mit Jovana Vukotic, Korrespondentin der Stimme Russlands, teilte, werfen ein Schlaglicht auf die Geschehnisse im Dorf. Dass es ein Mord an Zivilisten war, schließt Hensch mit Sicherheit aus:

Dort fanden wir insgesamt 25 Leichen. Alle Menschen waren auf unterschiedliche Weise ums Leben gekommen. Es war mir als Polizist sofort klar, dass das so nicht gewesen sein konnte. Es lagen elf Leichen in einem roten Transporter und um das Fahrzeug herum lagen fünf weitere Tote. Die Fläche dahinter war frei von Spuren auf dem Schnee. Also von dort aus konnte es nicht gekommen sein. Ich hatte gleich den Eindruck, dass dort die Leichen abgelegt worden waren. Die Menschen müssen an einer anderen Stelle getötet worden sein. Außerdem gab es schon vor zwei Tagen – am 27. oder 28. – Scharmützel zwischen serbischen Sicherheitstruppen und der albanischen UÇK.“

Der deutsche Verteidigungsminister Rudolf Scharping präsentierte seinerzeit nur einen Teil von den Aufnahmen, die Hensch in Rugovo gemacht hatte. Scharping zufolge stammten die Bilder von einem deutschen Offizier. Dabei wurde der OSZE-Beobachter Hensch nicht einmal erwähnt. Die Fotos, auf denen sich die Umgebrachten als UÇK-Terroristen erkennen ließen, wurden vom Minister bei der Präsentation ausgelassen. So konnte Scharping die Weltgemeinschaft davon überzeugen, dass böse Serben wehrlose Albaner ermordeten und somit neue Fluchtwellen auslösten. Henning Hersch fährt fort:

Für die Deutschen bedeutete das, dass sie das erste Mal nach dem Zweiten Weltkrieg an einem militärischen Einsatz beteiligt werden sollten. Und ich behaupte – so war es zumindest mein Eindruck – dass man damals die Situation im Kosovo überzogen dargestellt hat. Erstens hatten die Albaner zu dem Zeitpunkt, als ich im Kosovo war, keine Gelegenheit in dieser großen Zahl zu fliehen. Dieses passierte erst nach den Bombenangriffen, weil sie möglicherweise vor serbischen Zugriffen oder auch vor den Bomben Angst hatten. Das war also mein Eindruck und ich weiß, dass es so war. Es war also maßlos übertrieben dargestellt worden – und nach meiner Auffassung auch einseitig zulasten der Serben. Tatsächlich wurden die UÇK und ihre Führung nie verfolgt. Vor dem Internationalen Strafgerichtshof habe ich bisher mit einer Ausnahme (Haradinay wurde freigelassen) noch keinen albanischen Führer gesehen.“

Als Grund für Luftangriffe auf Jugoslawien dienten die sogenannten massenhaften ethnischen Reinigungen im Kosovo. Die bekannt gemachten Informationen über den Massenmord in Rugovo zeigen deutlich, dass die PR-Kampagne gegen Belgrad auf offensichtlichen Fälschungen beruhte. Die Nato startete bekanntlich ihre Mission nach dem Massaker an 40 Albanern im kosovarischen Dorf Racak. Doch eine forensische Untersuchung konnte nicht bestätigen, dass es bei den Ermordeten um zivile Personen ging. Mehr noch: Es gab auch keinen Beweis dafür, dass für das Massaker serbische Soldaten verantwortlich waren. Diese Ergebnisse wurden aber erst nach der Katastrophe in Jugoslawien bekannt, zu der „Barmherzige Engel“ der Allianz das Land verdammte.

Die jugoslawischen Erfahrungen bleiben auch heute aktuell. Die Aufnahmen, die 2003 im Irak gemacht wurden, werden für die Darstellung der Zerstörungen in Syrien benutzt. So wurde ein Foto einer Familie mit dem Hintergrund zerstörter Fassaden kombiniert. Henning Hensch befürchtet, dass sich in Syrien das kosovarische Szenario abspielen wird:

Es ist alles hilflos: Die UNO tagt, der Sicherheitsrat tagt, doch die Entscheidungen kommen nie. In Syrien passiert auch nichts. Man ist hilflos, das war auch so im Kosovo der Fall, so war es in Libyen gewesen. Es muss irgendetwas gemacht werden, damit das Töten und Vernichten aufhören. Es bringt ja auch nichts, im Kosovo und im Irak ist alles niedergebombt worden. Jetzt wird in Syrien niedergebombt. Was soll darauf folgen? Wiederaufbau?“



=== FLASHBACK (aus: JUGOINFO vom 17.3.2012.) ===

http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2012&mm=02&dd=28&nav_id=79007

B92 - February 28, 2012

"NATO bombed Serbia because of lies"


VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=sy9JZk8GBlw


BELGRADE: NATO launched its 1999 war against Serbia "because of German Defense Minister Rudolf Scharping's lies", claims a former member of an OSCE mission in Kosovo.
Belgrade-based Blic newspaper writes, quoting the Vestionline website, that ahead of the start of the war, Scharping falsely presented members of the ethnic Albanian KLA "rebels" as civilian victims.
The Serbian authorities considered the KLA to be a terrorist group. 
Scharping was accused by former German police official Henning Hensch, an OSCE observer in Kosovo before the war, who spoke for Germany's NDR television. 
This OSCE observer was personally present during the investigation of the scene in Rugovo in Kosovo in January 1999, where Serbian police units fought against KLA members. 
The German television program featuring an interview with Hensch also showed Scharping in a news conference in early 1999, where he presented photographs from Rugovo of KLA members killed in battle, claiming they depicted massacred civilians. 
Furthermore, the German minister told reporters that the OSCE photos of the scene were made "secretly by a German officer", and that he would have "gladly presented him (to reporters)", but that the officer is question was "receiving medical treatment because of the traumatic experiences" that he underwent in Kosovo. 
13 years later, NDR journalists asked the German Defense Ministry to confirm that "a German officer" was in the area at the time secretly taking photoraphs, to after several weeks receive a reply that this was not the case. 
Scharping himself, said the television, could not be reached for comment. 
NATO's aerial war lasted for 78 days in the spring of 1999, and ended with the signing of the Kumanovo Agreement, and the adoption of Resolution 1244 at the UN Security Council. 

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Istina o razlozima napada NATO na Srbiju 1999-te i glavnom krivcu tadašnjem ministru odbrane Nemačke Rudolfu Šarpingu.
U ovom prilogu ćete videte svedočenje gospodina Heninga koji je tada na Kosovu bio posmatrač OEBS-a i lično je prisustvovao uviđaju u Rugovu, gde se desila borba između srpskih policijskih jedinica i UČK pobunjenika.
Tadašnji ministar Rudolf Šarping je zloupotrebio čitavu situaciju i predstavio UČK pobunjenike kao civilne žrtve, što je dovelo i opravdavalo vojni napad na Srbiju.




All’ombra di Hiroshima


Fonte: www.znetitaly.org | Autore: Noam Chomsky 

Il 6 agosto, anniversario di Hiroshima, dovrebbe essere un giorno di sobria riflessione, non solo sugli eventi terribili di quel giorno del 1945, ma anche su ciò che essi hanno rivelato: che gli esseri umani, nella loro appassionata ricerca di ampliare le proprie capacità di distruzione, avevano alla fine trovato un modo per avvicinarsi al limite estremo.

Quest’anno le commemorazioni del 6 agosto hanno un significato speciale. Hanno luogo poco prima del cinquantesimo anniversario del “momento più pericoloso della storia umana”, nelle parole dello storico e consigliere di John F. Kennedy, Arthur M. Schlesinger Jr., con riferimento alla crisi dei missili cubani.

Graham Allison scrive sull’ultimo numero di Foreign Affairs che Kennedy “ordinò azioni che sapeva avrebbero aumentato il rischio non solo di una guerra convenzionale ma anche di una guerra nucleare”, con una probabilità forse del 50%, riteneva, una stima che Allison considera realistica.

Kennedy dichiarò uno stato di allerta nucleare di alto livello che autorizzava “velivoli della NATO con piloti turchi … (o altri) … a decollare, volare fino a Mosca e sganciare una bomba.”

Nessuno fu più sconvolto dalla scoperta dei missili a Cuba degli uomini che avevano la responsabilità di missili simili che gli Stati Uniti avevano segretamente dislocato a Okinawa sei mesi prima, certamente puntati sulla Cina, in un momento di elevate tensioni regionali.

Kennedy portò il presidente Nikita Krusciov “proprio sull’orlo di una guerra nucleare, guardò oltre il ciglio del baratro e gli mancò il coraggio,” secondo il generale David Burchinal, allora ufficiale di alto rango del personale di pianificazione del Pentagono. E’ arduo poter contare in eterno su una simile ragionevolezza.

Krusciov accettò una formula ideata da Kennedy ponendo fine alla crisi evitando la guerra. L’elemento più sfacciato della formula, scrive Allison, fu “un contentino segreto consistente nella promessa di ritiro dei missili statunitensi dalla Turchia entro sei mesi dalla soluzione della crisi.” Si trattava di missili obsoleti che erano già in corso di sostituzione con i molto più letali, e invulnerabili, sottomarini Polaris.

In breve, anche se correndo un elevato rischio di una guerra di devastazioni inimmaginabili, fu ritenuto necessario rafforzare il principio che gli Stati Uniti avevano il diritto unilaterale di dispiegare missili nucleari dovunque, alcuni puntati sulla Cina o ai confini della Russia, che in precedenza non aveva dislocato missili al di fuori dell’URSS. Naturalmente sono state offerte delle giustificazioni, ma non penso che esse resistano all’analisi.

Un principio accompagnatorio è che Cuba non aveva diritto di avere missili di difesa contro quella che sembrava un’invasione statunitense imminente. I piani di Kennedy, piani terroristici, l’Operazione Mongoose [Mangusta], prevedano “la rivolta aperta e il rovesciamento del regime comunista,” nell’ottobre 1962, il mese della crisi dei missili, riconoscendo che “il successo finale richiederà il deciso intervento militare statunitense.”

Le operazioni terroristiche contro Cuba sono comunemente scartate dai commentatori come insignificanti bravate della CIA. Le vittime, non sorprendentemente, vedono le cose in modo piuttosto diverso. Possiamo finalmente udirne le voci nel libro di Keith Bolender “Voices from the Other Side: An Oral History of Terrorism Against Cuba” [Voci dall’altra parte: storia orale del terrorismo contro Cuba].

Gli eventi dell’ottobre 1962 sono diffusamente celebrati come il momento più alto di Kennedy. Allison li presenta come “una guida su come disinnescare conflitti, gestire rapporti tra grandi potenze e prendere decisioni valide in politica estera in generale.” In particolare, oggi, nei conflitti con l’Iran e la Cina.

Il disastro fu pericolosamente vicino nel 1962 e non c’è stata mancanza di momenti pericolosi da allora. Nel 1973, negli ultimi giorni della guerra arabo-israeliana, Henry Kissinger decise un allerta nucleare di alto livello. L’India e il Pakistan sono arrivati vicini alla guerra nucleare. Ci sono stati innumerevoli casi in cui l’intervento umano ha bloccato un attacco nucleare solo pochi momenti prima del lancio dopo informazioni errate dei sistemi automatici. C’è molto da riflettere il 6 agosto.

Allison si unisce a molti altri nel considerare i programmi nucleari iraniani come la più grave crisi attuale, “una sfida anche più complessa, per i decisori della politica statunitense, della crisi dei missili cubani” a causa della minaccia dei bombardamenti israeliani.

La guerra contro l’Iran è già bene in corso, compresi gli assassinii di scienziati e le pressioni economiche che hanno raggiunto il livello di una “guerra non dichiarata”, a giudizio dello specialista dell’Iran, Gary Sick.

Si ricava grande orgoglio dai sofisticati attacchi informatici diretti contro l’Iran. Il Pentagono considera gli attacchi informatici come “un atto di guerra” che autorizza il bersaglio “a reagire utilizzando la forza militare tradizionale”, riferisce il Wall Street Journal. Con la solita eccezione: non quando i perpetratori sono gli Stati Uniti o i loro alleati.

La minaccia iraniana è stata recentemente delineata dal generale Giora Eiland, uno dei pianificatori militari israeliani di vertice, descritto come “uno dei più geniali e prolifici pensatori che [l’esercito israeliano] abbia mai prodotto.”

Delle minacce che egli descrive la più credibile è che “qualsiasi scontro ai nostri confini avrà luogo sotto l’ombrello nucleare iraniano”. Israele potrebbe perciò essere costretto a ricorrere alla forza. Eiland concorda con il Pentagono e i servizi segreti statunitensi, che considerano anch’essi la deterrenza come la maggiore minaccia posta dall’Iran.

L’attuale intensificazione della “guerra non dichiarata” contro l’Iran accresce la minaccia di una guerra accidentale su larga scala. Alcuni di pericolo sono stati illustrati nel mese scorso quando una nave statunitense, parte dell’enorme spiegamento nel Golfo, ha sparato contro una piccola imbarcazione da pesca, uccidendo un membro indiano dell’equipaggio e ferendone almeno altri tre. Non ci vorrebbe molto per scatenare una grande guerra.

Un modo sensato per evitare tali conseguenze orribili consiste nel perseguire “l’obiettivo di creare in Medio Oriente una zona libera da armi di distruzione di massa e da tutti i missili per il loro trasporto e l’obiettivo di un bando globale alle armi chimiche”, secondo la formulazione della risoluzione 687 del 6 aprile 1991 del Consiglio di Sicurezza, che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno invocato nel loro tentativo di dare una tenue copertura legale alla loro invasione dell’Iraq dodici anni dopo.

L’obiettivo è un obiettivo arabo-iraniano dal 1974, regolarmente riconfermato e a questo punto ha un sostegno globale quasi unanime, almeno formalmente. A dicembre potrà aver luogo una conferenza internazionale per prendere in considerazione modi per attuare un simile trattato.

Un progresso è improbabile salvo che ci sia un forte sostegno in occidente. Non cogliere l’opportunità allungherà, una volta di più, l’ombra sinistra che ha oscurato il mondo da quel 6 agosto fatale.

© 2011 Noam Chomsky

Distribuito dal The New York Times Syndicate.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

traduzione di Giuseppe Volpe

(segnalato da Renato Caputo)



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Il caso Stubner

Da "Menzogne di guerra" di J. Elsasser (1) alcune cose saltano agli occhi, specie in "BND e HNA", i servizi di intelligence tedesco e austriaco (dove il primo comandava e il secondo ubbidiva), e soprattutto nella sezione "Operazione vento del sud".
Si parla tra l'altro di Helmut Stubner, estremista nazista austriaco collegato all'FPO e ad Haider. Stubner risulta uomo dei servizi austriaci e quindi tedeschi, con un ruolo importante nel lavoro che precedette, istruì e poi mise in atto il "percorso di di autodeterminazione di Slovenia e Croazia" nel 1991 e seguenti (pagg. 89-91 nell'edizione italiana edita da "La città del Sole").
E guarda un po', lo Stubner, che lavorava sulle questioni etniche europee in seno al partito FPO, e sempre in organico nell'HNA, nel '91 salta in aria in Sud Tirolo mentre lavora alla costituzione di un gruppo terrorista-secessionista in Alto Adige. I suoi bolzanini compagni di ventura, interrogati ad Innsbruck, vantarono il suo lavoro come determinante per la preparazione e l'addestramento della Difesa territoriale slovena in preparazione alla secessione e all'inevitabile scontro con l'Armata federale jugoslava. Nel suo computer viene trovato un file, "Operazione Sudwind", e un elenco di contatti tra i quali quello di Renato Krajnc, al capo dei servizi sloveni all'epoca. I contatti del gruppo di Stubner interno all'FPO risalgono fino al Ministero della Difesa austriaco.
Nelll'interrogatorio di Innsbruck del 1991, anno di secessione della Slovenia, la banda armata di Bolzano afferma:
"Se la Slovenia ha potuto ottenere senza azioni militari di rilievo l'indipendenza questo è da ricondurre alla buona preparazione militare durata anni, che è stata attuata tramite il servizio informativo dell'esercito austriaco (HNA). Per il giorno X (guerra civile o conflitto bellico con la Serbia) Strubner avrebbe [sic], per conto dell'HNA e insieme ad altri alti ufficiali austriaci, costruito e formato cellule di difesa territoriale, dotate di armi e di addestramento militare. Il successo, il fatto che oggi la Slovenia è indipendente, sarebbe dovuto soprattutto a questa buona preparazione".
Come dire: stiamo parlando di cose serie...

(a cura di Jure Ellero)

1) Cap. V: "Wag the dog" - https://www.cnj.it/documentazione/bibliografia.htm#elsaes02 .


Inizio messaggio inoltrato:

Da: jugocoord
Data: 05 agosto 2012 09.47.18 GMT+02.00
A: JUGOINFO
Oggetto: [JUGOINFO] Los von Rom (Via da Roma)

(La crisi in Europa rinfocola le tendenze separatiste del Sudtirolo, a loro volta sostenute da determinati settori dell'establishment germanico...)

http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58391

Der Zentralstaat als Minusgeschäft

03.08.2012
BOLZANO/ROM/BERLIN (Eigener Bericht) - Unter dem Druck der Eurokrise spitzt sich der von Berlin geförderte Autonomiekonflikt in der italienischen Provinz Bolzano/Alto Adige ("Südtirol") zu...

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7411

(La crisi in Europa rinfocola le tendenze separatiste del Sudtirolo, a loro volta sostenute da determinati settori dell'establishment germanico...)

http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58391

Der Zentralstaat als Minusgeschäft

03.08.2012
BOLZANO/ROM/BERLIN (Eigener Bericht) - Unter dem Druck der Eurokrise spitzt sich der von Berlin geförderte Autonomiekonflikt in der italienischen Provinz Bolzano/Alto Adige ("Südtirol") zu. Die italienische Regierung muss aufgrund des deutschen Spardiktats umfangreiche Kürzungen im Staatshaushalt vornehmen und dringt nun darauf, dass auch Südtirol sich angemessen beteiligt. Die Regierung der Provinz, die zu den wohlhabendsten Italiens gehört, sucht nach einem Ausweg; ein Regierungsmitglied fordert eine wirtschaftliche "Vollautonomie", um die Mittel-Umverteilung an Süditalien zu stoppen. Sezessionistenkreise preschen voran, verlangen ein Referendum über die vollständige Abspaltung Südtirols von Italien und schließen den Anschluss an Österreich nicht aus. Die Autonomiebestrebungen in Teilen der deutschsprachigen Minderheit Norditaliens werden seit Jahrzehnten aus der Bundesrepublik gefördert - teilweise von Vorfeldorganisationen der deutschen Außenpolitik, teilweise von Aktivisten der extremen Rechten. Für die 1960er Jahre wird außerdem von direkten Kontakten höchstrangiger bundesdeutscher Politiker zu Südtirol-Terroristen berichtet. Unter dem Krisendruck nähern sich die damaligen Bemühungen ihrem Ziel stärker denn je zuvor.

Eine Folge des Spardiktats

Ursache für die neuen Autonomie- und Sezessionsforderungen der deutschsprachigen Minderheit Norditaliens ist das von Berlin in der Eurokrise durchgesetzte Spardiktat, das Italien zu massiven Haushaltskürzungen zwingt. Von diesen ist auch die norditalienische Provinz Bolzano/Alto Adige ("Südtirol") betroffen, eine der wohlhabendsten Provinzen des Landes, die bereits seit mehreren Jahrzehnten außergewöhnlich umfangreiche Autonomierechte innehat. Bolzano ist nun aber nicht bereit, die von Rom geforderte Summe zur Etatsanierung beizutragen; diese übersteige die Mittel, die die italienische Regierung ihrerseits in Südtirol ausgebe, und verursache damit für die Provinz ein Minusgeschäft, heißt es zur Begründung. Die Provinzregierung sucht nun nach Möglichkeiten, die Forderungen Roms abzuwehren - und findet diese im Streben nach noch größerer Autonomie.

Wirtschaftlich nicht vergleichbar

Bereits im Januar ist der Südtiroler Wirtschaftslandesrat Thomas Widmann mit der Forderung nach einer "Vollautonomie" in Sachen Wirtschaft vorgeprescht. Widmann verlangte, Südtirol solle ökonomisch gänzlich von Rom unabhängig sein; nur noch die Außen- und die Verteidigungspolitik dürften von der Zentralregierung gestaltet werden. Bekomme Südtirol eine solche "Vollautonomie", dann sei man bereit, die Provinz mit einem einmaligen Beitrag zur Tilgung der Schulden Italiens gleichsam freizukaufen. Die "Vollautonomie" in Wirtschaftsfragen werde es ermöglichen, die im gesamtstaatlichen Vergleich recht kräftige Südtiroler Ökonomie von jeglicher Notwendigkeit zur Rücksichtnahme auf den schwächeren Süden zu befreien und ihr ein Wachstum zu verschaffen, das demjenigen Österreichs oder Deutschlands nahekomme. Auch könne man dann Unternehmen, die wegen der hohen Steuerbelastung ins Ausland abgewandert seien, nach Südtirol zurückholen. Das alles aber "geht nur, wenn wir uns selbst verwalten", erklärte Widmann bereits zu Jahresbeginn.[1] Anlässlich der jüngsten Herabstufung von 13 Banken und von 23 lokalen Körperschaften in Italien durch die Ratingagentur Moody's hat der Wirtschaftslandesrat seine Forderung jetzt bekräftigt. Im Falle Südtirols sei, äußert er, die Herabstufung "völlig ungerechtfertigt, weil unsere Wirklichkeit mit jener der anderen Regionen Italiens absolut nicht vergleichbar" sei.[2]

Los von Rom

Die Lage droht zu eskalieren. Der Südtiroler Landeshauptmann Luis Durnwalder zieht in Betracht, Österreich, das sich als Schutzmacht der deutschsprachigen Minderheit Italiens begreift, gegen die Forderungen der italienischen Regierung zu mobilisieren: "Wir werden die österreichische Bundesregierung informieren und notfalls Wien einschalten, sollte Rom nicht einlenken."[3] Noch weiter gehen traditionell deutsch-völkische Kräfte, die seit je die Abspaltung Südtirols von Italien ("Los von Rom") und gegebenenfalls seinen Anschluss an Österreich ("Wiedervereinigung Tirols") fordern. "Mit diesem Staat gibt es keine Zukunft für Südtirol", heißt es bei der Separatistenpartei "Süd-Tiroler Freiheit" [4]: Man müsse deshalb staatliche "Selbstbestimmung einfordern" [5]. Die "Süd-Tiroler Freiheit" gehört zur Organisation "European Free Alliance", die im Europaparlament mit Bündnis 90/Die Grünen in einer Fraktionsgemeinschaft kooperiert (german-foreign-policy.com berichtete [6]). Der Traditionsverband "Südtiroler Schützenbund" plädiert für ein Referendum über die Abspaltung Südtirols von Italien und den Anschluss des Gebiets an Österreich: "Wir Schützen treten ganz klar für die Wiedervereinigung mit Tirol ein", teilt der Schützen-Landeskommandant mit; ein Verbleib bei Italien sei für ihn "nicht mehr vorstellbar". Ihm zufolge werden ganz ähnliche Pläne hinter den Kulissen auch in der bisher dominierenden Polit-Organisation Südtirols diskutiert: "Ich weiß, dass auch in der Südtiroler Volkspartei schon hinter vorgehaltener Hand über eine Loslösung von Italien nachgedacht wird."[7]

Völkische Internationale

Die Südtiroler Volkspartei (SVP), die - in Abgrenzung zum offenen völkischen Separatismus - seit je als Partei des Verbleibs in Italien bei allerdings weitestreichender Südtiroler Autonomie galt, hält enge Beziehungen nach Deutschland. So kooperiert sie mit der bayerischen Regierungspartei CSU; ihr Personal ist in der "Föderalistischen Union Europäischer Volksgruppen" (FUEV) aktiv, die in Flensburg beheimatet ist, kräftig aus staatlichen deutschen Haushalten unterstützt wird und sich für ethnisch begründete Sonderrechte von Sprachminderheiten ("Volksgruppen") einsetzt.[8] Innerhalb der FUEV sind deutschsprachige Minderheiten aus ganz Europa und Zentralasien in einem eigenen Verband zusammengeschlossen; an dieser "Deutschtums"-Internationale, die politisch direkt an das Bundesinnenministerium angeschlossen ist (german-foreign-policy.com berichtete [9]), nehmen für die Autonome Provinz Südtirol Politiker der SVP teil. Dass mittlerweile sogar aus dieser Partei von offenen Sezessionsgelüsten berichtet wird, lässt klar erkennen, dass der "Deutschtums"-Avantgarde staatliche Grenzen auch im Westen Europas nicht mehr als unveränderlich gelten. Damit kommen Abspaltungspläne wieder ins Gespräch, die in den 1960er Jahren in Südtirol von Terroristen verfolgt wurden - mit Bombenanschlägen, unterstützt auch aus der Bundesrepublik.

Zünder aus Deutschland

Wie jüngere Recherchen bestätigen, handelte es sich bei dieser Unterstützung nicht nur um diverse Aktivitäten insbesondere aus dem Milieu ultrarechter Burschenschafter, von denen einige bis heute unbehelligt im deutschen Exil leben, obwohl sie in Italien wegen Sprengstoffverbrechen und Mord zu langjährigen Haftstrafen verurteilt worden sind. Zu den Kontaktpersonen der einstigen Südtirol-Terroristen gehörten laut einer aktuellen Buchpublikation etwa der Völkerrechtler Felix Ermacora, dessen Werke über ein angebliches Recht auf staatliche Selbstbestimmung für ethnisch-rassistisch definierte Blutsgemeinschaften in der völkischen deutschen Rechten bis heute eine spürbare Rolle spielen. "Eine wichtige Bezugsperson" für Bombenleger in Südtirol sei beispielsweise der CSU-Politiker Josef Ertl gewesen, seit 1961 Bundestagsabgeordneter, später Landwirtschaftsminister: Er habe "flüchtigen Tirolern mit Aufenthaltsgenehmigungen, Arbeit und Unterkunft" ausgeholfen. Der CSU-Politiker Franz Josef Strauß, zeitweise Bundesverteidigungsminister, hat demnach Terroristen in Südtirol nicht nur über Kontaktleute, sondern auch persönlich unterstützt. Er sei, heißt es, einmal "bei einer Probesprengung vorbeigekommen", die Südtirol-Terroristen zur Übung abhielten, und er habe sich erkundigt, "ob alles in Ordnung sei". Auf die Antwort, "die Zünder seien nicht gut", habe er "versprochen, bessere zu liefern".[10] Das Ergebnis: "Eine Serie zumindest kam tatsächlich aus Deutschland." Unter dem Druck der Krise droht die damalige Saat nun aufzugehen.

Bitte lesen Sie auch unsere Doppelrezension zum Thema Südtirol-Terrorismus.
[1] Landesrat will Südtirol um 15 Milliarden "freikaufen"; diepresse.com 12.01.2012
[2] Auch Südtirol von Moody's herabgestuft; www.tt.com 18.07.2012
[3] "Notfalls muss ich Wien einschalten"; www.tt.com 18.07.2012
[4] "Südtiroler Freiheit": Mit diesem Staat gibt es keine Zukunft; www.stol.it 11.07.2012
[5] Autonomie war Zwischenlösung - Jetzt gemeinsam Selbstbestimmung einfordern! www.suedtiroler-freiheit.com 25.07.2012
[6] s. dazu Europa driftet (II)
[7] Schützen wollen Volk befragen; www.tt.com 28.07.2012
[8] s. dazu Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen und Tragsäulen der Zukunft (IV)
[9] s. dazu Beziehungen pflegen
[10] Hans Karl Peterlini: Feuernacht. Bozen 2011. S. dazu unsere Doppelrezension


http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58390

Doppelrezension: Südtirol-Terrorismus
03.08.2012

Hans Karl Peterlini: Feuernacht
Südtirols Bombenjahre
Bozen 2011 (Edition Raetia)
512 Seiten
47 Euro
ISBN 978-88-7283-390-2

Herlinde Molling: So planten wir die Feuernacht
Protokolle, Skizzen und Strategiepapiere aus dem BAS-Archiv
Mit einer Einführung von Hans Karl Peterlini
324 Seiten
26 Euro
ISBN 978-88-7283-406-0

Dass der Südtirol-Terrorismus der 1960er Jahre von Aktivisten aus der Bundesrepublik unterstützt wurde, ist bekannt. Rechte Kräfte, die Südtirol von Italien abspalten und an Österreich anschließen wollten, sprengten damals Strommasten in die Luft, plazierten Bomben in italienischen Bahnhöfen und in Zügen und griffen italienische Repressionskräfte mit Maschinenpistolen an. Beteiligt waren nicht wenige Burschenschafter aus Österreich und aus der Bundesrepublik. Einer der bekanntesten damaligen Bombenleger ist Peter Kienesberger. Über ihn schreibt der Publizist Hans Karl Peterlini aus Südtirol, er habe sich zu Beginn der 1960er Jahre "zum Synonym für den entfesselten Terror" entwickelt: "Seine Spezialität" sei "der Kampfeinsatz im Hochgebirge" gewesen. Bald habe er sich zum Bomben-Experten gemausert, habe "als Könner im Basteln von Sprengfallen" gegolten. Italienische Gerichte verurteilten ihn schließlich für einen Anschlag, bei dem 1967 vier italienische Grenzer ums Leben kamen. Kienesberger lebt bis heute unbehelligt in der Bundesrepublik im Exil. Erst jüngst hat ein in Italien anhängiges Gerichtsverfahren bestätigt, dass sein Südtirol-Aktivismus ungebrochen ist: Ihm wird vorgeworfen, im Rahmen seiner Arbeit für eine gemeinnützige Stiftung alte Südtirol-Seilschaften auch weiterhin finanziell bedient zu haben.
Peterlini, einer der besten Kenner der Thematik, fasst in "Feuernacht" zahlreiche Ergebnisse seiner Recherchen zum Südtirol-Terrorismus zusammen. Er liefert dabei auch Erkenntnisse, die bis in die Bundesrepublik führen - über die Kreise ultrarechter Burschenschafter und ihres unmittelbaren, an den Anschlägen in Norditalien beteiligten Umfeldes hinaus. Felix Ermacora etwa, erklärt Peterlini, habe wichtige Fäden gezogen. Als Völkerrechtler sei er "Mitglied der meisten österreichischen Experten- und Verhandlungsdelegationen" in Sachen Südtirol gewesen; dank dieser Tätigkeit habe er die Bombenleger-Szene stets über den Stand staatlicher Verhandlungen über das Gebiet auf dem Laufenden halten können. "Ermacora hätte am liebsten mitgesprengt, wenn wir ihn gelassen hätten, aber er war als Diplomat viel wichtiger", zitiert Peterlini einen der damals Beteiligten. Ermacora ist in der völkischen Rechten in Deutschland nicht unbekannt; er hat Gutachten für die "Vertriebenen"-Verbände verfasst und Papiere für die in Flensburg ansässige "Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen" (FUEV) angefertigt. Anhänger eines angeblichen Rechts auf "Selbstbestimmung" für ethnisch-rassistisch definierte Blutsgemeinschaften berufen sich bis heute auf ihn.
Kontakte in die Südtiroler Terror-Szene hatte auch Josef Ertl, "zunächst Abgeordneter im Kreistag München-Land, 1961 in den Bundestag gewählt", später bundesdeutscher Landwirtschaftsminister. "Er hilft flüchtigen Tirolern mit Aufenthaltsgenehmigungen, Arbeit und Unterkunft aus", berichtet Peterlini. In Ertls Münchener Umfeld war das "Kulturwerk für Südtirol" tätig, das sich offiziell "an der Finanzierung deutscher Kindergärten und Kulturstätten" beteiligte; "das Spendengeld", schreibt Peterlini vielsagend, sei tatsächlich jedoch höchst "unterschiedliche Wege" gegangen. Man habe es häufig "für die Kriegskasse" der Terror-Szene verwendet. Ertl ist nicht der einzige Bundesminister gewesen, der Kontakte zu den Südtirol-Attentätern unterhielt. Ein enger Freund des CSU-Politikers und zeitweiligen Bundesverteidigungsministers Franz Josef Strauß, der Münchener Opel-Generalvertreter Josef Kuttendrein, habe die Bombenleger "finanziell stark unterstützt" und mindestens einen Sprengkurs in Oberbayern organisiert, berichtet Peterlini. Strauß sei "einmal bei einer Probesprengung vorbeigekommen" und habe sich erkundigt, "ob alles in Ordnung sei". Auf die Antwort, "die Zünder seien nicht gut, habe Strauß versprochen, bessere zu liefern". "Eine Serie zumindest kam tatsächlich aus Deutschland."
Einige Erkenntnisse liefert auch die Dokumentensammlung, die Herlinde Molling letztes Jahr bei Edition Raetia veröffentlicht hat. Molling gehörte selbst der Terror-Szene an; so manches Detail, das sie schildert, liefert näheren Einblick in die Entwicklung der damaligen Geschehnisse. Das gilt unter anderem für einen gewissen Hans Steinacher, der um 1960 in Südtirol aktiv war. Steinacher war in der Weimarer Republik und während der NS-Zeit ein maßgeblicher deutscher "Volkstums"-Aktivist und in der Führung des "Vereins für das Deutschtum im Ausland" tätig. Nach 1945 beriet er Bonner Regierungsstellen bei der Wiederaufnahme der alten "Volkstums"-Politik; im Jahr 1960 tauchte er in Südtirol auf. Vollkommen freiwillig hat sich der Mann mit besten Verbindungen in die Bundesrepublik offenbar nicht von dort zurückgezogen. In dem von Molling publizierten Band findet sich ein Dokument, laut dem Steinacher "in der Form bei der italienischen Polizei denunziert worden" sei, dass er als "militärische(r) Berater" der Terror-Szene fungiere. "Dr. St. erklärte sich unter diesen Umständen außerstande, seine Tätigkeit in ST fortzusetzen", heißt es in dem Papier, dessen Autor "Innsbruck", also österreichische Kreise, als Urheber der Denunziation vermutet. Wer da genau welche Fäden zog, bleibt offen. Dokumentiert ist damit jedoch einmal mehr, dass bereits damals der Bundesrepublik Kanäle nach Südtirol - auch wenn sie gelegentlich sabotiert wurden - offenstanden.

(francais / italiano. Sullo stesso argomento, si veda anche ad esempio:



Da: Andrea Fioretti 

Oggetto: E nel frattempo che succede in Libia?

Data: 02 agosto 2012 13.50.59 GMT+02.00

A: comunistiuniti @ yahoogroups.com


Mentre i mercenari e i "ribelli" in Siria ad Aleppo hanno scatenato la fase della guerra aperta, delle epurazioni ideologiche, etniche e religiose (persino contro alcune tribù e imam sunniti non "embedded") che succede nella Libia già "democratizzata" dalla NATO?

- Inquisizione salafita contro membri delle organizzazione umanitarie
- Ammissione del finanziamento di 2mld dollari della petromonarchia del Qatar per i mercenari anti-Gheddafi
- Attentati
- Reclutamento di mercenari per la guerra santa salafita in Siria

Fonti: AFP, Euronews, Quryna (giornale libico filo-regime), Pana, Europe 1



TRIPOLI — Les sept membres du Croissant-Rouge iranien enlevés mardi à Benghazi, dans l'est de la Libye, sont détenus et interrogés par une milice locale, a indiqué mercredi à l'AFP un responsable de la sécurité.

"Des membres de la brigade détenant les Iraniens sont en train de les interroger pour déterminer si leurs activités (...) visaient à prêcher la doctrine de l'islam chiite", a indiqué le responsable sous le couvert de l'anonymat.
Le chiisme, l'une des principales branches de l'islam, est vu par certains comme un culte hérétique en Libye, où la majorité de la population est de confession sunnite.

"Ils seront relâchés après la fin de l'interrogatoire", a-t-il ajouté, soulignant que "l'équipe est bien traitée et n'a pas été soumise à de mauvais traitements".

Le responsable n'a pas donné le nom de la brigade détenant les Iraniens mais a noté que ses membres étaient connus pour être des "islamistes extrémistes".

Wanas Sharif, un responsable au ministère de l'Intérieur, a confirmé que l'équipe du Croissant-Rouge iranien était "saine et sauve".
Le Croissant-Rouge libyen avait fait état mardi de leur enlèvement par des hommes armés et avait demandé leur libération.
La délégation était arrivée lundi en Libye à l'invitation du Croissant-Rouge libyen pour discuter "des perspectives de coopération dans le domaine de l'aide humanitaire", selon le Croissant-Rouge libyen.

Des associations de défense des droits de l'Homme s'alarment régulièrement des arrestations arbitraires menées par les milices composées d'ex-combattants anti-Kadhafi, ainsi que de leurs centres de détention secrets.

L'armée et la police n'étant toujours pas entièrement opérationnelles en Libye, ces milices en profitent souvent pour faire la loi dans le pays depuis la chute du régime de Mouammar Kadhafi en octobre 2011.

Amnesty International a appelé mercredi à la libération des Iraniens.

Dans un communiqué, la directrice adjointe du département Moyen-Orient/Afrique du Nord, Hassiba Hadj Sahraoui, a par ailleurs exhorté la milice qui les détient à les autoriser à communiquer avec l'extérieur.
"Leur sort souligne la nécessité urgente pour les autorités libyennes de contenir les milices armées qui agissent en dehors de tout contrôle", a-t-elle ajouté.

Copyright © 2012 AFP. Tous droits réservés.


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http://www.qurynanew.com/39448
http://www.gnet.tn/revue-de-presse-internationale/abdeljalil-revele-le-plan-de-liberation-de-tripoli-a-ete-prepare-au-qatar/id-menu-957.html

Abdeljalil : "Le plan de libération de Tripoli a été préparé au Qatar"

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Publié le Jeudi 02 Août 2012 à 08:37

Mustapha Abdeljalil, président du conseil national de transition libyen, a déclaré que le Qatar a dépensé plus de deux milliards de dollars pour la révolution de son pays, révélant pour la première fois que le plan de libération de la capitale Tripoli a été préparé dans cette monarchie pétrolière du Golfe.

Abdeljalil a minimisé de la portée de l’intervention qatarie en Libye, estimant qu’elle a été  beaucoup amplifiée, rapporte le site du journal libyen quryna

Le chef du CNT a ajouté en marge des séances culturelles ramadanesques organisées par la faculté des études islamiques dans la ville d’Al-Bayda, que le Qatar appuie les courants islamistes et sa vision penche vers la construction d’un système arabe fondé sur la Charia comme mode de gouvernance. 

Il a encore dit qu’aucun Libyen n’est allé au Qatar, sans qu'il ne  lui octroie une somme d’argent, certains l’ont livré à l’Etat, et d’autres l’ont gardé pour eux-mêmes. 

"Je dis toujours que celui qui nie le rôle du Qatar est réellement un ingrat", a-t-il encore souligné.  



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En Libye, une bombe a explosé tôt ce mercredi matin dans la ville de Benghazi. Aucune victime n’est à déplorer. L’attentat visait le quartier général des renseignements militaires, qui a été sérieusement endommagé. Aucune revendication pour l’heure.
“L’explosion a eu lieu juste après la prière du matin, explique un des résidents de Benghazi. Les témoins disent avoir vu un individu sortir d’une voiture dont la portière était endommagée. Il portait un sac. Puis la voiture est partie, et peu après, il y a eu l’explosion, sans qu’on en sache davantage”.
La sécurité a du mal a être rétablie depuis la fin de la guerre, avec des milices qui sévissent dans plusieurs régions. Ainsi, toujours à Benghazi, sept employés du Croissant-Rouge iranien ont été kidnappés ce lundi par un groupe d’hommes armés.



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http://www.afriquejet.com/libye-un-officier-des-renseignements-assassine-a-benghazi-2012073042484.html

Libye: Un officier des renseignements assassiné à Benghazi


Sécurité en Libye - Assassinat à Benghazi d’un ancien officier des renseignements libyens - Un agent des Services de renseignements militaires, le colonel Sleiman Bouzyreda, a été tué, samedi  soir à Benghazi, au moment où il effectuait les prières de Tarawih à la mosquée Amer Bin Yas.

Sleiman Bouzyreda a été atteint à la tête, d'une balle  tirée d’une voiture  à vive allure, a rapporté le journal Qurayna.

Transporté au centre médical de Benghazi, il a succombé à ses bléssures avant d'atteindre le centre médical de la ville.

Plusieurs anciens officiers appartenant au Service de sécurité interne  de la ville de Benghazi ont été assassinés, le dernier en date, Abdelhamid Ali Kandouz, ayant été tué par  l'explosion de sa voiture piégée, tout comme le sous-officier Ibrahim Al-Araibi, mort dans un attentat à  la bombe placée sous le siège de sa voiture.

Pana 30/07/2012



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Dimanche, 29 Juillet 2012 12:58  


Libye - Nouvel attentat à l’explosif contre un tribunal de Benghazi


Des inconnus ont tenté de jeter vendredi à l'aube une grenade sur la façade de la cour d’Appel de la ville de Benghazi, apprend-on de sources sécuritaires libyennes. La tentative n'aurait pas causé de dégâts, à part un petit trou dans le mur contre lequel la grenade a été jetée, rapporte le journal Qurayna.


On rappelle qu'une explosion avait secoué à la fin du mois d’avril dernier les bâtiments du tribunal de première instance du nord de Benghazi, dans le centre de la ville, causant des dégâts importants et la dispersion des dossiers et documents.

La déflagration n’avait pas fait de victimes, mais sa puissance avait soufflé les verres des fenêtres de bâtiments résidentiels et un hôpital situé en face du tribunal.

Selon certains analystes et observateurs de la situation en Libye, l’incident est lié à l’infiltration en avril dernier à l'intérieur de la prison de Al-Koueyfiya d’hommes armés qui l’ont attaquée pour faire évader quelques prisonniers impliqués dans des affaires criminelles.

Pana



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http://www.europe1.fr/International/Mahdi-de-la-Libye-a-la-Syrie-1188487/

Mahdi, de la Libye à la Syrie

Par Fançois Clauss, envoyé spécial d'Europe 1 dans le nord de la Syrie, et Anne-Julie Contenay
Publié le 31 juillet 2012 à 12h35 Mis à jour le 31 juillet 2012 à 19h42


REPORTAGE
 - L'un des héros de la libération de Tripoli prête main forte à l'armée libre syrienne.
Au milieu d'une cour d'école transformée en camp d'entraînement, au nord de la Syrie, ils sont quelque 200 combattant, en armes et en rangs serrés, à invoquer Dieu. L'homme qui les harangue est un Libyen : le légendaire commandant Mahdi, héros de la libération de Tripoli, est en Syrie depuis un peu plus d'un an.
Avec 35 de ses hommes, il est venu apporter son expérience du terrain à la révolution syrienne. "Ici c'est comme en Libye, tous les combattants sont des civils", explique-t-il au micro d'Europe 1. "Nous avons des médecins, des ingénieurs, des gens comme tout le monde. Il faut absolument les former au combat, à la tactique militaire, avec ce qui a été notre propre expérience de la révolution en Libye".

"La bannière de la nation"

En un an, il a fédéré l'un des groupes de combattants les plus importants au nord du pays. La brigade Liwa al-umma, soit la "la bannière de la nation" compte 6.500 combattants venus parfois du monde entier participer à la révolution syrienne.
C'est le cas de Mahmoud, 22 ans, né de parents égyptiens et installé en Irlande. Du jour au lendemain, le jeune homme a quitté son appartement et son métier de consultant à Dublin pour venir au nord de la Syrie. "Pendant trop longtemps, nous nous sommes contentés de regarder, d'être en dehors, alors que nous savions tous quelle était la nature des régimes dans le monde arabe".

90% des combattants sont syriens

"J'ai tout abandonné parce que mes frères et mes sœurs étaient en train de mourir. Il fallait que je vive ce qu'ils vivaient, que je les aide", raconte-t-il, ajoutant : "être debout contre l'oppression, c'est ma vie. C'est devenu ma mission".
Le commandant Mahdi affirme que 90% de ses combattants sont syriens. Mais il est devenu un symbole, celui de l'infiltration des combattants venus de l'extérieur, dénoncée par Bachar al-Assad. Et il sait qu'il est désormais en tête de la sinistre liste établie par le régime, celle des hommes à abattre.


 



SLOVENIA "INDIPENDENTE": TUTTO IN SVENDITA


La Slovenia in crisi vende i “gioielli di famiglia”

Decine di immobili sul mercato. Tra essi spicca Vila Bled che fu [residenza ufficiale, non proprietà personale] di Josip Broz Tito. Per acquistarla servono 3 milioni di euro ma si può affittare a 7mila euro al mese

di Mauro Manzin
da Il Piccolo del 2 agosto 2012

TRIESTE. La norma è passata praticamente inosservata all’interno del voluminoso pacchetto di restrizioni varato dal Parlamento per fronteggiare la crisi economica. I media sloveni si chiedono addirittura se i deputati si siano accorti su che cosa hanno votato. Tant’è che la “cartolarizzazione” degli immobili, anche di pregio, dello Stato è partita. Se si va a consultare la Finanziaria appena entrata in vigore si legge al capitolo beni immobili un ricavo stimato di 125 milioni, 762mila e 702 euro.
La Slovenia, dunque, mette in vendita i suoi gioielli. C’è un problema però: finora nessuno li compra. Due anni fa furono messi in vendita sei castelli ma nessun acquirente si è fin qui fatto avanti. In questa tornata il “pezzo” più pregiato è costituito senza dubbio da Vila Bled, sull’omonimo lago, ex residenza del Maresciallo Tito. Costo, 3 milioni e 34mila e 700 euro.
E se nessuno si fa avanti per l’acquisto ecco pronta dallo Stato sloveno un’altra modalità d’offerta: la villa si può affittare per 7mila euro al mese, neanche tanto se si pensa agli affitti chiesti ad alcuni commercianti triestini. E poi il posto è veramente da favola.
È in vendita anche il castello di Borl per 1 milione 934mila e 94 euro. Aggiungendo 262.406 euro si acquista anche il terreno circostante il maniero. In tutto dunque una spesa di circa 2,2 milioni di euro ben 100mila euro in meno di quanto era stato chiesto per lo stesso obiettivo due anni fa nella prima fase di vendita.
Il ministero della Difesa della Slovenia mette in vendita abitazioni per un valore complessivo di 20,3 milioni di euro. Si tratta di immobili che non servono più all’esercito o che non vengono momentaneamente utilizzati. Lo stesso ministero ha affittato numerosi terreni al prezzo di 50 euro al mese. L’evidenza dei terreni e delle abitazioni non è stata resa nota. Tra i beni in vendita c’è sempre anche l’aereo del governo, un Falcon del valore di 14 milioni 817mila e 715 euro, spesa mai digerita dall’opinione pubblica slovena.
Ma ce n’è per tutti i gusti. Come ad esempio il locale per affari di 30 metri quadrati in affitto per 90 euro al mese. Conveniente, certo, peccato che l’immobile si trovi all’interno dell’ospedale psichiatrico di Ormož. E, senza nulla togliere a Basaglia, crediamo, al lume della ragione, che un negozio stenterebbe a chiudere i bilanci in verde.
La Slovenia uno Stato in mutande che deve vendere i gioielli di famiglia per sbarcare il lunario? Non proprio. Infatti assieme ai super saldi di fine stagione di illustri immobili ecco che spuntano però anche una lista di acquisti non certo a buon prezzo. Molti riservati alla casta dei deputati. Il Parlamento, infatti, acquisterà 3270 metri quadrati di uffici per garantire un comodo lavoro agli onorevoli del Paese ai quali si aggiungeranno 1640 metri quadrati di parcheggi riservati alle automobili degli stessi nella centralissima piazza della Repubblica, sulla Erjavčeva ulica (sede di governo e presidenza della Repubblica) e in Kongresni Trg.
Quest’anno solo per pagare i parcheggi il Parlamento sloveno spenderà 250mila euro. E il contribuente ingoia e schiuma di rabbia.




L’ESODO – STRUMENTALIZZAZIONE E REALTA’

di Alessandro (Sandi) Volk


LE PARTENZE

Zara, fine marzo - inizio aprile 1941. Le autorità militari italiane, preoccupate di un attacco alla città al momento dell’aggressione delle forze dell’Asse alla Jugoslavia, decretano lo sfollamento di tutta la popolazione non indispensabile alla difesa. E’ il primo atto – ed il primo di una serie di fatti e circostanze “dimenticati” dalla storiografia più accreditata – di quel processo di ondate migratorie che coinvolsero Zara, Fiume e l’Istria e che vengono comunemente definite “l’esodo”. In questo caso, passata la paura, gli sfollati poterono tornare a Zara, anche se si trattò solo di un rinvio. L’esodo definitivo iniziò, infatti, già nel novembre del 1943, dopo il primo dei ben 54 bombardamenti alleati cui la città fu sottoposta e che spinsero il comando tedesco a emettere il 24 maggio del 1944 l’ordine di sfollamento della città. Nell’ottobre del 1944, quando Zara venne liberata dalle truppe dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo (EPLJ), se n’erano già andati quasi 12.000 dei 21.372 abitanti censiti prima della guerra, seguiti nei mesi successivi anche dalla gran parte di coloro che erano rimasti. La seconda ondata coinvolse Fiume dall’estate del 1945. Secondo alcune fonti tra il 1945 e il 1958 la città sarebbe stata abbandonata da circa 38.000 persone. Seguì l’ondata che coinvolse Pola e quella parte dell’Istria assegnata alla Jugoslavia con il Trattato di pace del 1947. Tra il dicembre del 1946 ed il marzo del 1947 lasciarono la città (che contava quasi 32.000 abitanti) tra le 25.000 e le 30.000 persone. Tra i partenti non tutti erano polesani: circa 5.000 provenivano dalle isole di Cherso, Lussino e Veglia e altri da Zara. Poco dopo, a partire dal 1948, nei territori dell'Istria assegnati alla Jugoslavia si ebbe una massiccia presentazione di domande di opzione per l'Italia, tale da sorprendere le autorità jugoslave e da far si che, su richiesta italiana, il termine per la presentazione delle opzioni, inizialmente fissato al settembre del 1948, venne spostato una prima volta fino al febbraio del 1949 e in seguito al marzo del 1951. L'ultima ondata coinvolse invece la Zona B, la parte amministrata dall'esercito jugoslavo, del mai nato staterello „Territorio libero di Trieste“ (TLT). Essa ebbe inizio nel 1953 a seguito della nota dell'8 ottobre con cui gli anglo americani annunciavano l'intenzione di abbandonare l'amministrazione della Zona A del TLT, che avrebbero consegnato all'Italia. Si trattava del preannuncio di quanto sarebbe poi effettivamente avvenuto un anno dopo con il Memorandum di Londra. La popolazione della Zona B accolse la nota come l'annuncio della soluzione definitiva del problema del confine italo-jugoslavo e, anche a causa dell'inasprimento dei rapporti tra Italia e Jugoslavia (con la chiusura delle frontiere e l'afflusso di truppe), iniziò ad emigrare. Questo flusso continuò quasi ininterrottamente anche dopo il ritorno della Zona A all'amministrazione italiana nell'ottobre del 1954. Entro il gennaio del 1956, quando scadeva il termine per potersi trasferire da un paese all'altro, le persone che avevano lasciato la Zona B sarebbero state circa 40.000.(1)

STORIA E POLITICA

L’uso politico della questione dell’esodo ha finora pesantemente condizionato la ricerca storica, arrivando a bloccare sul nascere ricerche che andassero fuori e contro il racconto stereotipato della vicenda, come nel caso del volume Storia di un esodo (Istria 1945 – 1956)(2), edito nell’ormai lontano 1980 dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli – Venezia Giulia di Trieste. Si trattava, nonostante i limiti dovuti all’inaccessibilità di numerose ed importanti fonti, del primo studio di tipo scientifico in cui venivano individuati tutti i principali aspetti e problemi della questione, nei suoi presupposti, svolgimento e protagonisti, con però una pecca imperdonabile: l’esodo era visto in un ottica non esclusivamente nazionale. Ciò metteva in discussione non solo quella che era l’interpretazione corrente (in funzione politica) dell’esodo, ma la stessa impostazione ideologica su cui la borghesia che si riconosceva come italiana ed il suo ceto politico avevano costruito la loro egemonia a Trieste, nel Goriziano e in Istria (come pure a Fiume e in Dalmazia) fin dal periodo asburgico: la trasposizione dello scontro sociale, politico ed anche nazionale su un piano esclusivamente di scontro di nazionalità.(3) Una egemonia che a Trieste e Gorizia ancora durava (e dura) e che ebbe come conseguenza che quella ricerca rimase un momento isolato senza alcun seguito. Di fatto furono così gli ambienti che oggi più si sgolano per la scarsa attenzione che storiografia ed opinione pubblica avrebbero prestato all'esodo (e più in generale alle vicende del dopoguerra in Istria, Fiume e Zara) a bloccare la ricerca che andasse al di la dell'interpretazione sostenuta dagli ambienti delle organizzazioni degli esuli. E che con l'istituzione della Giornata del ricordo è diventata l'interpretazione ufficiale dello Stato italiano. Determinante per il raggiungimento di questo risultato è stato il contributo di ambienti e personaggi della storiografia accademica, in particolare di Raoul Pupo, accreditato come il maggiore esperto dell'esodo (ma anche uno degli ultimi segretari della Democrazia cristiana triestina, in cui era egemone la componente esule)(4), che hanno semplicemente ripreso, senza alcun nuovo apporto di ricerca, le vecchie letture di tipo nazionale e, dopo averle ripulite degli aspetti più indigeribili e rivestite di una nuova terminologia, contorta quanto vuota, le hanno proposte come interpretazioni nuove, legittimandole da un punto di vista scientifico.(5)
In questo modo l'ottica nazionalista delle organizzazioni dei profughi ed i miti ad essa legati sono diventati »storia«. E così sono diventati dei dogmi il carattere forzato dell'esodo, la sua spontaneità e la sua motivazione esclusivamente nazionale. Dogmi dalle basi fragili, che solo le »trascuratezze« e »dimenticanze« di una certa storiografia italiana hanno permesso si affermassero come verità.

PROBLEMI D'INTERPRETAZIONE

Esiste però un problema preliminare, legato alla questione della quatificazione del fenomeno: chi sono le persone che vanno conteggiate tra gli esuli? Per il suo censimento dei profughi, effettuato negli anni '50, l'Opera per l'assistenza ai profughi giuliani e dalmati (OAPGD) ha dichiarato di aver posto come discriminante (non rispettata(6)) il possesso del certificato di profugo rilasciato dalle prefetture. Un criterio a prima vista oggettivo, ma che tale in realtà non è, perchè le condizioni per l'ottenimento del certificato sono variate nel corso degli anni, tanto che alla fine esso veniva rilasciato anche a persone che avevano preso la residenza nei territori ceduti addirittura dopo la fine della guerra o che avevano abbandonato la Dalmazia già subito dopo la prima guerra mondiale. Mentre dall'altra parte non lo ottenne nessuno dei quei comunisti italiani che erano rimasti in Istria fino alla rottura tra Tito e Stalin e se ne andarono a causa delle persecuzioni a cui furono sottoposti per essersi schierati con i sovietici.(7)
Il fatto che questa questione venga generalmente dimenticata non è casuale. Il motivo principale è che affrontarla seriamente significa mettere in discussione la cifra ormai canonica di 350.000 esodati. Una cifra discutibilissima. Per verificarlo basta fare una operazione semplice quanto banale, sommare i numeri più alti che vengono riportati (in genere dalle organizzazioni dei profughi e da ambienti ad esse vicini) per ogni singola ondata (Zara 21.000, Fiume 38.000, Pola 30.000, Zona B del TLT 40.000): si arriva a un totale di 129.000. A tale cifra andrebbero aggiunti coloro che se ne andarono dal resto dell'Istria, esclusa Pola, dopo il Trattato di Pace, ma per arrivare ai 350.000 dovrebbero essere stati per lo meno 221.000. Non impossibile, certo, visto che la popolazione dell'Istria all'epoca si aggirava sulle 350.000 unità, ma significherebbe che l'Istria sarebbe rimasta quasi completamente spopolata, cosa che non è mai avvenuta. Ancora più difficilmente ciò sarebbe compatibile con le motivazioni di carattere nazionale delle partenze, visto che un ricercatore non certo sospettabile di simpatie „titoiste“, Olinto Mileta Mattiuz, stima che nel 1941 in Istria ci fossero in tutto 184.860 italiani (compresi i 30.000 di Pola ed i 40.000 della Zona B, naturalmente).(8)
Ma come si arriva ai canonici 350.000? Tutto parte dal censimento portato a termine dall'OAPGD nel corso degli anni '50. I dati raccolti vennero resi pubblici nel 1958: i profughi sarebbero stati „almeno 250.000“. Criterio fondamentale (come già detto) fu il possesso del certificato rilasciato dalle prefetture. In realtà i rilevatori riuscirrono a rintracciare solo 150.627 profughi che rispondevano a tale criterio, mentre di 23.124 profughi con certificato sosteneva esistessero »notizie limitate, tuttavia inequivocabili, quanto a prova della loro esistenza« e di altri 23.136 affermava che erano emigrati dall'Italia (per una parte, non quantificata, i nominativi erano stati forniti dai famigliari rimasti in Italia, mentre per i restanti si era ricorso agli schedari dell'International Refugge Organization (Iro), che assisteva i rifugiati nell'emigrazione, senza però aver avuto la possibilità di accedere ai loro fascicoli personali perché distrutti al momento della cessazione dell'assistenza). A questo punto però l'OAPGD decise di non rispettare il criterio del possesso del certificato di profugo. Infatti inserì nel conteggio anche 10.536 persone che per esplicita ammissione “pur non avendo maturato la richiesta residenza domiciliare ai fini del riconoscimento della qualifica, non potevano essere esclusi dalla rilevazione”. Non ci è dato sapere perché costoro (e solo loro) non potevano essere esclusi dal conteggio, di fatto ciò significò (per esplicita ammissione dell'OAPGD) che vennero conteggiate tra i profughi non solo persone che non avevano ottenuto il certificato, ma anche i parenti – non Istriani, Fiumani o Dalmati - acquisiti dopo l’esodo, e che quindi con l’Istria, Fiume e la Dalmazia avevano ben poco a che fare, ed i figli nati dopo l’esodo, che si trovavano nella medesima situazione. Ad ogni modo la somma di tutti questi soggetti rilevati era di 207.423 profughi. Ma la sorpresa vera arriva ora: a questo punto infatti i „rilevatori“ dell'OAPGD affermarono che tale cifra in realtà rappresentava solo l'80% del totale (ci si chiede perché sia stato effettuato un censimento se l'OAPGD sapeva in partenza il numero totale dei profughi!), per cui aggiunsero il 20% „mancante“ (cioè circa 40.000 profughi) ed arrivavano agli „almeno 250.000“.
Fu da questa cifra che partì l'opera di padre Flaminio Rocchi, reputato negli ambienti delle organizzazioni dei profughi come una sorta di storico ufficiale dell'esodo, che ha portato a livelli eccelsi la „matematica creativa“ praticata dall'OAPGD. Padre Rocchi ha aggiunto agli „almeno 250.000“ altri 95.000 profughi, della cui esistenza l’unica conferma è la sua parola. Ma non basta, perché la vetta più alta l'ha raggiunta nell'edizione del 1990 del suo “L'Esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati”, i cui i profughi sono lievitati a oltre 450.000 (strano che nel titolo abbia lasciato la cifra più bassa). Una cifra impressionante, a cui arriva aggiungendo numeri su numeri, la cui esattezza e credibilità si basa anche qui esclusivamente sulla ...fede in padre Rocchi! Ed ecco così che ai precedenti 350.000 profughi si aggiungono 60.000 “slavi” che avrebbero abbandonato la regione perché non sopportavano il regime di Tito (10.000 di essi si sarebbero sistemati in Italia mentre gli altri 50.000 si sarebbero trasferiti altrove). Non pago di essere arrivato a 410.000 profughi, Rocchi crea addirittura una nuova categoria di profughi, i profughi potenziali: afferma infatti che bisogna conteggiare tra i profughi anche i circa 10.000 italiani (la cui esistenza e sempre certificati solo ed esclusivamente dalla sua parola) ai quali le autorità jugoslave rigettarono le domande d'opzione, ed i 90.000 anziani, donne e ammalati, che si sentivano italiani ma non ebbero la forza e il coraggio di lasciare la propria terra! L'apice lo raggiunge però quando crea la categoria dei profughi post-mortem: a suo dire, infatti tra i profughi andrebbero inclusi anche i 23.000 Giuliani (termine molto usato per designare gli
abitanti della Venezia Giulia al di là della loro nazionalità, ma proprio per questo del tutto arbitrario e senza un vero significato) caduti durante la guerra (evidentemente il suo stato sacerdotale gli consente di aver contezza delle scelte che avrebbero fatto i trapassati)!(9
Nonostante queste cose siano di dominio pubblico, gli storici italiani più »accreditati« (e ci si chiede a questo punto in base a cosa) hanno accettato senza fiatare e legittimato con il loro supposto „rigore scientifico“ la cifra di 350.000 profughi, che è diventata così »la« cifra. Altri ricercatori, forse meno accreditati, ma evidentemente più seri, hanno voluto riprendere la questione arrivando a un totale di emigrati tra i 188.000 e i 250.000.(10) Si tratta di numeri comunque considerevoli, ma che per le esigenze dello stato italiano e delle organizzazioni degli esuli andavano gonfiati quanto più possibile: per dimostrare l'attaccamento plebiscitario all'Italia della popolazione dei territori ceduti quale presupposto per una possibile revisione del tracciato dei confini e per accreditare il ceto dirigente delle organizzazioni dei profughi come rappresentante non solo dei profughi, ma della popolazione istriana, fiumana e zaratina in toto.
Ancora più »dimenticata« è la questione dell'articolazione interna della massa degli esuli. Da un lato si evita accuratamente di distinguere tra esuli originari dell'Istria e della Dalmazia e immigrati dopo la prima guerra mondiale. Eppure tale distinzione è utilizzata dagli stessi organi dello Stato italiano, come il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, che in una relazione sull’arrivo a Venezia dei profughi da Pola, rilevava che su 916 profughi sbarcati il 10 febbraio 1947 ben un terzo erano persone immigrate nella città istriana dalle vecchie province dopo il 1918(11). Alcuni ricercatori hanno tentato di quantificare in maniera più precisa la presenza di immigrati: Vladimir Žerjavić stima che su un totale di 188.000 profughi dall’Istria croata, da Fiume e dalla Dalmazia gli italiani immigrati dopo il 1918 siano stati ben 46.000(12); Nevenka Troha ha accertato che la quasi totalità delle 21.322 persone che abbandonarono i territori annessi alla Slovenia con il Trattato di Pace erano immigrate dopo il 1918(13); Olinto Mileta Mattiuz calcola che nel 1941 nella sola Istria gli italiani immigrati da altre province del regno dopo il 1918 erano 18.500 (su un totale di 184.860 italiani)(14). Quella della presenza tra i profughi di persone immigrate dopo il 1918 non è una questione di scarsa importanza. Essa infatti non solo toglie drammaticità al fenomeno (tra gli immigrati moltissimi erano impiegati e funzionari dello stato che in pratica con la fine della guerra seguirono il proprio impiego o fecero ritorno ai luoghi d’origine), ma testimonia anche della politica di vera e propria colonizzazione portata avanti dallo stato italiano nei territori redenti(15). Una politica che ebbe come risultato l’emigrazione di circa 120.000 persone (di cui circa 100.000 sloveni e croati) e l’immigrazione di circa altrettanti italiani delle vecchie province(16). Ma che naturalmente è meglio non ricordare per evitare di andare ad intaccare i miti dell’italianità delle terre annesse dopo la prima guerra mondiale e di quella guerra come completamento del Risorgimento e far emergere la sua sostanza imperialista.
In funzione della rappresentazione dell’esodo come “plebiscito d’italianità” ci si “dimentica” poi di approfondire la questione dell’appartenenza nazionale degli esuli. Va innanzitutto sottolineato che una determinazione univoca dell’identità e dell’appartenenza nazionale della popolazione era all’epoca (e forse lo è tuttora) almeno per buona parte dell’Istria una forzatura.(17) D’altra parte la possibilità di esercitare il diritto all’opzione non era subordinata né all’essere di nazionalità italiana e nemmeno di lingua materna italiana, bensì al fatto di avere quale lingua d’uso quella italiana. Considerando che l’italiano (e prima il dialetto veneto) era stato la lingua della classe dominante (e quindi si era imposto come lingua degli affari) e che con il fascismo l’uso pubblico dello sloveno e del croato venne totalmente cancellato, è chiaro che l’intera popolazione dell’Istria poteva dichiararsi di lingua d’uso italiana, anche sloveni e croati.(18) E sloveni e croati approfittarono di tale possibilità. Certamente lo fecero qualche migliaio di sloveni del Goriziano annesso alla Slovenia;(19) una volta in territorio italiano una parte di loro iscrisse però i figli alle scuole con lingua d’insegnamento slovena di Gorizia, suscitando per questo le ire delle organizzazioni degli esuli e l’intervento del Ministero della Pubblica Istruzione, che li obbligò a trasferire i figli alle scuole italiane. Va inoltre considerato che le organizzazioni dei profughi potevano determinare l’esclusione dei profughi ritenuti “non affidabili” dall’assistenza dello stato.(20) Mi sembra evidente che in queste condizioni per la gran massa dei profughi l’opzione significò fare una scelta di appartenenza nazionale univoca, definitiva e irrevocabile, perché cercare di rinnegarla poteva costare caro – dal perdere l’assistenza dello stato a vedersi revocata la cittadinanza (misura richiesta da alcune organizzazioni dei profughi per i profughi del Goriziano che avevano iscritto i figli alle scuole slovene).
A smentire la tesi della motivazione esclusivamente nazionale dell’esodo sono anche le stesso organizzazioni dei profughi. Il Gruppo esuli istriani (Gei), costituito a Trieste nell'estate/autunno del 1945, che si occupava anche di assistenza ai profughi, divise, infatti, i suoi assistiti in tre categorie, distinte in base ai motivi per cui avevano lasciato l'Istria: gli esuli, che erano coloro che avevano dovuto lasciare l'Istria per la loro attività a favore dell'Italia e non erano compromessi con il fascismo;(21) i profughi, partiti perché non volevano collaborare con gli jugoslavi; gli sfollati, che avevano abbandonato l'Istria per motivi diversi da quelli politici. E il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Istria (CLNI),(22) che del Gei fu erede e continuatore, affermò che tra i profughi della Zona B del Territorio libero di Trieste (TLT) almeno 3.000 erano sloveni.
Nonostante un gruppo di studiosi guidati dai già citati Raoul Pupo e Pio Nodari abbia avuto e abbia accesso a una fonte molto utile sulla questione, come le schede del censimento dell’OAPGD, la questione dell’appartenenza nazionale degli esodati non è stata approfondita, per cui dobbiamo accontentarci di stime: il Žerjavić ritiene che dei 188.000 profughi che abbandonarono i territori annessi alla Corazia 25.000 fossero di nazionalità croata (23), mentre il Mileta valuta che dei 224.000 profughi istriani (cifra che in realtà riguarda la popolazione mancante, che include le persone decedute durante la guerra) gli italiani fossero il 77,3% (173.100) mentre il restante 22,7% era composto da 36.950 croati (16,5%) e da 13.950 sloveni (6,2%)(24). Se è quindi vero che l'emigrazione coinvolse in misura molto maggiore la popolazione italiana (25), la tesi che individua la ragione della partenza esclusivamente nell'appartenenza nazionale delle persone risulta del tutto infondata.
Una questione centrale è sicuramente quella della forzosità del fenomeno. I sostenitori di questa tesi si aggrappano a una definizione coniata da Theodor Veiter, secondo il quale sarebbe da considerarsi espulso chiunque »rifiutandosi di optare (26) o non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa, o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine«.(27) Una definizione molto ambigua e discutibile,(28) ricorrendo alla quale non si riesce comunque a modificare la realtà dei fatti. Innanzitutto che non si trattò di un ondata unica (come ci si potrebbe attendere in caso di espulsione e come avvenne ad es. per i tedeschi dei Sudeti), ma di diverse ondate succedutesi in un periodo di ben 13-14 anni. Ma sopratutto è tutt'altro che dimostrata l'esistenza di un preciso intento persecutorio nei confronti degli italiani in quanto tali,(29) ed è anzi accertato che nel periodo dal Trattato di Pace alla rottura tra Tito e Stalin (grosso modo tra il 1946-47 ed il 1948-49) le autorità jugoslave cercarono di impedire la partenza di tutti gli optanti, anche degli italiani. Come racconta una esule (riferendosi al 1949):

»Prima del fascismo il nostro nome era Baicich poi fu italianizzato durante il regime. Al momento di dover lasciare l'Istria però, siccome mia madre aveva cognome italiano, Negri, e mio padre i miei fratelli ed io avevamo di nuovo il cognome Baicich abbiamo dovuto scegliere tra la nazionalità italiana e quella jugoslava. I miei genitori optarono per la prima essendosi da sempre ritenuti Italiani. La prima volta fummo bocciati [la domanda di opzione venne respinta dalle autorità jugoslave, nda] in pieno come del resto la seconda, mio padre infatti occupava un posto da dirigente in quella che era allora la parte elettrica dell'Arsa. La terza volta acconsentirono ma solo in parte poiché avrebbero permesso di passare la frontiera solo a mia madre che aveva cognome italiano. Poi per vie traverse mio padre riuscì a procurarsi un passaporto per farci uscire tutti insieme. Facemmo arrivare un camion da Trieste sul quale caricammo le nostre cose e sul quale saremmo dovuti finalmente andare in Italia ma, quando la milizia vide che il camion era targato Trieste si oppose nuovamente. Quella sera pregammo Santa Rita appoggiati alle poche casse che costituivano tutto quello che ci rimaneva. Alle quattro di mattina mio padre andò a piedi in paese alla caserma di Albona dove finalmente ottenne di farci espatriare.(30)

Né si può sostenere che i poteri popolari jugoslavi abbiano portato avanti una politica di interdizione totale dell'italiano e di espulsione del personale italiano dagli uffici pubblici. L'unico intervento che ci fu, fu la (ri)conversione in scuole slovene e croate di una quota delle scuole esistenti, ma si trattava del ripristino della situazione esistente prima della completa italianizzazione delle scuole operata dal fascismo. Probabilmente gli italiani iniziarono ad essere guardati con un certo sospetto, per la posizione filosovietica assunta dal Partito comunista italiano e le concrete attività »antititoiste« da esso portate avanti in territorio jugoslavo dopo la rottura tra Tito e Stalin, in seguito alla quale la parola d'ordine della fratellanza tra italiani, croati e sloveni venne sostituita da quella della difesa dell'indipendenza jugoslava. Né si può attribuire a tutte le articolazioni dell'amministrazione statale jugoslava una volontà persecutoria univoca nei confronti degli italiani. Da quanto emerge da uno documento proveniente dal fondo del Ministero degli esteri jugoslavo, parrebbe che ancora nel 1955 l'atteggiamento da assumere nei confronti degli italiani fosse argomento di discussione tra i vari livelli dell'amministrazione e che ci fossero in proposito opinioni nettamente contrastanti. Dal documento infatti risulta che le autorità locali slovene fossero favorevoli alla partenza degli italiani rimasti, mentre quelle croate erano nettamente contrarie (perché gli elementi reazionari se ne sarebbero già andati tutti) e quelle federali tenevano una posizione d'attesa (il documento infatti rimanda la soluzione della questione a una successiva riunione, sulla quale però non possediamo documentazione)(31). Va comunque detto che atteggiamenti persecutori certamente ci furono, come pure violenze ed espulsioni vere e proprie (con tanto di accompagnamento alla frontiera da parte della polizia), ma non sono generalizzabili né riguardarono solo italiani. Come va detto che un esodo in buona misura forzato ci fu, ma riguardò categorie sociali particolari (e anche in questo caso non composte esclusivamente da italiani) e nel quadro di politiche generali del nuovo potere jugoslavo. Esso riguardò la borghesia ed il ceto intellettuale. La prima se ne andò in quanto il suo permanere in quanto classe era incompatibile con il sistema socialista e per il processo di espropriazione indiretta (in quanto avvenuto senza una legislazione diretta esplicitamente al suo esproprio ma tramite misure mirate ad esempio a colpire i proprietari assenti e le propietà dei collaborazionisti e dei nemici del popolo) a cui fu sottoposta. La seconda partì per ragioni più specifiche: si trattava di ceti che avevano detenuto il monopolio nell'accesso a tutta una serie di impieghi pubblici e privati in virtù della loro nazionalità, o meglio, del loro padroneggiare la lingua italiana, unica lingua ufficiale dello stato italiano. Con il mutamento politico avvenuto con la fine della guerra questo monopolio era venuto a cadere e l'accesso a questi impieghi e ruoli era ora aperto anche a chi l'italiano non lo padroneggiava. Per il ceto medio e intellettuale italiano, educato a considerarsi appartenente ad una civiltà superiore, l'unica feconda per l'Istria e la Dalmazia, e a considerare sloveni e croati quali appartenenti a civiltà inferiori, si trattava di una evidente e spesso inaccettabile declassamento. E che spesso si trattava di persone immigrate negli anni tra le due guerre come impiegati delle varie amministrazioni dello stato.
Una questione strettamente correlata alla precedente è quella che riguarda l'atteggiamento tenuto da parte italiana rispetto all'esodo. Se da un lato le massime autorità politiche non si espressero mai apertamente ed esplicitamente a favore dell'esodo (va però rilevato che fu l'Italia a richiedere l'inclusione della possibilità dell'opzione nel Trattato di Pace), anche se non fecero nulla per evitarlo (tranne forse gestire in maniera insufficente l'aiuto ai profughi al loro arrivo in Italia, cosa che poteva avere effetti dissuasivi) e, in particolare nel caso di Pola, mise a disposizione i mezzi per attuarlo, diverso è il discorso per quanto riguarda le organizzazioni che rappresentavano lo schieramento filoitaliano in Istria e che si sarebbero poi trasformate in organizzazioni dei profughi. Il ceto dominante italiano, che in esse si organizzerà, ricorse all'argomento dell'esodo (e delle foibe, ovvero degli intenti genocidi degli slavocomunisti nei confronti delgi italiani in quanto tali) già nell'ultima fase della guerra, quando fu chiaro che all'inevitabile crollo tedesco il potere sarebbe stato assunto dal movimento di liberazione. E ciò avrebbe indubbiamente significato per questo ceto, tra l'altro pesantemente compromesso con il fascismo, la perdita del suo ruolo sociale dominante. L'unico evento che avrebbe potuto evitare tale prospettiva era la liberazione/occupazione da parte delle truppe angloamericane e la conseguente assunzione del potere da parte di un governo militare alleato che avrebbe garantito la conservazione degli equilibrii e dei rapporti sociali (e nazionali) preesistenti. Perciò vennero indirizzati al governo italiano numerosi e pressanti appelli in cui si chiedeva che le truppe alleate (e possibilmente anche quelle del regio esercito) precedessero le formazioni dell'EPLJ e ad esso legate, giustificando la richiesta con la necessità di impedire che venissero messi in atto gli intenti genocidi e persecutori che gli »slavocomunisti« avrebbero avuto nei confronti di tutti gli italiani indistintamente. E si sottolineava che di fronte a tale prospettiva nel caso il potere fosse stato assunto dai filojugoslavi la popolazione italiana tutta avrebbe abbanodnato la regione.(32) Ma queste argomentazioni non erano proprie solo degli esponenti italiani dell'Istria, ma di tutta la borghesia e dell'élite tradizionale italiana della regione, con in testa quello che è stato probabilmente il vero leader dello schieramento filoitaliano, il vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin, che nel giugno del 1945 scrisse al Papa che nel caso l'Istria fosse stata assegnata alla Jugoslavia gran parte della sua popolazione si sarebbe trasferita in Italia.(33)
Dopo la fine della guerra si passò dal preannuncio dell’esodo agli appelli all’esodo e alla sua organizzazione. Fu a Fiume che un organismo filoitaliano invitò per la prima volta apertamente la popolazione all’esodo. Nel settembre del 1945 il locale Comitato di Liberazione Nazionale (CLN, costituito dopo la fine della guerra quale rappresentante dei sostenitori del ritorno di Fiume all'Italia) diffuse un volantino in cui invitava la poplazione all'»esodo generale dalla città« e sosteneva che ciò sarebbe servito a convincere gli alleati ad assegnare la città all'Italia, e quando ciò fosse avvenuto anche la popolazione avrebbe potuto farvi ritorno (34).
L'esodo venne invece organizzato a Pola. Anche qui venne costituito, sempre dopo la fine della guerra, un CLN (e come quello fiumano privo dei rappresentanti del PCI), che in un primo momento cercò di utilizzare la minaccia dell'esodo (vennero raccolte le firme di tutti coloro che nel caso la città fosse stata assegnata alla Jugoslavia intendevano andarsene) come mezzo di pressione sulla conferenza della pace, per poi passare ad organizzare – con il sostegno dello stato italiano - il trasferimento in massa della popolazione in Italia. In ciò sostenuto anche del vescovo della città, mons. Radossi, che all'avvio dell'esodo nel gennaio del 1947 invitò dal pulpito la popolazione ad andarsene, per poi partre anch'egli.(35)
I dirigenti dello schieramento filoitaliano erano però ben consci del fatto che era molto probabile che la Conferenza della pace assegnasse buona parte dell'Istria, compresa Pola, alla Jugoslavia e iniziarono a progettare l'utilizzo dei futuri esodati almeno a partire dall’estate del 1946. Venne allora deciso che gli emigrati sarebbero stati insediati nella maniera più massiccia possibile nella Zona A del TLT, rimasto sotto l'amministrazione del Governo militare alleato (GMA) e la cui sorte definitiva non era ancora decisa, e nella parte del Goriziano che sarebbe stato assegnato all'Italia dal Trattato di Pace, al fine di rafforzarvi lo schieramento filoitaliano, allora minoritario. A Trieste e nella Zona A del TLT ciò venne fatto anche contro la volontà del GMA, che amministrava la zona e temeva che un insediamento massiccio dei profughi avrebbe aggravato le condizioni sociali vanificando la sua politica assistenziale volta al mantenimento della pace sociale e a togliere consensi ai comunisti.(36) Per Gorizia i progetti furono molto più radicali: i profughi dovevano subentrare agli filojugoslavi, che si prevedeva si sarebbero trasferiti in massa in Jugoslavia. Per aiutare concretamente l'avverarsi di questa previsione i rappresentanti istriani organizzarono squadre di profughi che dovevano convincere i filojugoslavi ad andarsene. Ma le cose andarono ben oltre e nel settembre del 1947, al momento del passaggio dei poteri dal GMA all’amministrazione italiana, a Gorizia (e in misura un po minore a Monfalcone (37)), grazie sopratutto alla fattiva collaborazione delle organizzazioni paramilitari filoitaliane locali, si verificò un vero e proprio pogrom contro sloveni e filojugoslavi, con assalti a sedi di organizzazioni slovene e/o comuniste, a pubblici esercizi e abitazioni private; si giunse alla affissione manifesti di proscrizione con nomi, cognomi e indirizzi delle persone cui si ingiungeva di andarsene.(38)
Come già detto l'insediamento massiccio dei profughi nei territori del confine orientale e nella Zona A del TLT aveva come fine la bonifica nazionale ed il rafforzamento dell’italianità in zone evidentemente considerate insicure per l’Italia, ma doveva porre anche le basi per mantenere viva e aperta la questione della revisione dei confini tracciati dal Tratato di pace, la cui revisione rimane tutt'ora l'obiettivo finale delle organizzazioni degli esuli.(39)
Sempre per quanto riguarda l’attività e l’atteggiamento dello stato italiano e delle organizzazioni dei profughi, è accertato che in Istria operavano organizzazioni clandestine filoitaliane, che si dedicarono anche ad attentati e sabotaggi.(40) Ma si tratta di un altro degli aspetti “dimenticati” (probabilmente quello meno considerato in assoluto) della vicenda dell’esodo. Dagli scarni dati disponibili emerge però come, almeno indirettamente, l’attività di queste organizzazioni un suo peso nell’influenzare la scelta di partire l’abbia avuta. Il fatto, ad esempio, che l’Ente incremento studi educativi (EISE), strettamente legato al CLNI, avesse cessato di distribuire i sussidi corrisposti clandestinamente agli insegnanti delle scuole italiane in Zona B già prima del Memorandum di Londra per utilizzare tale denaro al fine di sostenere i profughi a Trieste, non può non aver contribuito a spingere questa particolare categoria ad andarsene in massa.(41)
Per quanto riguarda questo aspetto della vicenda dell'esodo possiamo concordare con quanto affermato nel 1976 da Guido Miglia, che era stato direttore del quotidiano dello schieramento filoitaliano di Pola, L’Arena di Pola, fino al suo trasferimento a Gorizia dopo l’esodo dalla città. Egli si dichiarò convinto 

“... che il nostro esodo è stato favorito, indipendentemente dalla sensibilità di De Gasperi o di Nenni, da tutte le forze conservatrici e fasciste italiane, in funzione polemica verso le sinistre ... Il nostro esodo divenne un fatto di politica interna italiana ... e finì per ridare fiato ai fascisti risorgenti, che si servirono del nome di Trieste per fermare il corso della storia italiana, per resuscitare l’odio nazionalistico al confine orientale, per togliere credibilità e prestigio a chi auspicava un dialogo incisivo con Belgrado ...(42).

PER CERCARE DI CAPIRE 

Da quanto fin qui detto mi pare chiaro che le interpretazioni correnti dell'esodo poggiano su basi molto labili e sono funzionali più al suo uso politico che non alla comprensione di quanto avvenuto. Per liberare il campo da equivoci voglio però precisare che ritengo altrettanto fuorvianti le letture che del fenomeno diedero le autorità jugoslave e a lungo anche il Pci. Se è vero che l'esodo venne utilizzato politicamente e anche favorito dalle forze politiche italiane più conservatrici, non è assolutamente vero che se ne andarono solo fascisti e sfruttatori del popolo. E se è altrettanto vero che le organizzazioni filoitaliane operarono in determinati momenti anche per spingere la gente ad andarsene, altrettanto fuorviante è il voler presentare l'esodo come la partenza di coloro che furono abbagliati dalla propaganda e dalle promesse di queste organizzazioni e del governo italiano.
Le ragioni di un trasferimento così massiccio di popolazione, che ha contribuito in maniera determinante a modificare la composizione sociale e nazionale della popolazione ai due lati del confine italo-jugoslavo, vanno ricercate in un complesso di fattori, di breve come di lungo periodo. La vera e propria rivoluzione dei rapporti sociali e nazionali portata dalla presa di potere dei poteri popolari jugoslavi fu il detonatore che fece scoppiare contradizioni presenti da tempo e che si erano acquite nel corso degli anni. La lunga definizione delle nuove delimitazioni territoriali tra gli stati e la possibilità di emigrare legalmente e con l'assistenza dello stato italiano accelerarono, concentrandolo in un arco di tempo (relativamente) breve un fenomeno migratorio che era già presente nel periodo tra le due guerre (43) e per il quale la realtà economica e sociale dell'Istria fungeva di per se da stimolo (44). Si trattava di una realtà ulteriormente aggravata dalle distruzioni della guerra, dall'inserimento in un contesto quale quello jugoslavo, più arretrato economicamente ma anche più duramente colpito dalla guerra, dalle misure economiche (soprattutto per certe categorie come commercianti, pescatori e altri) introdotte dai poteri popolari e dalla sua esclusione dagli aiuti degli alleati occidentali (45). L'Istria venne inoltre separata da quello che per una sua buona parte era il centro urbano di riferimento economico (sia come mercato per i suoi prodotti che come luogo di occasione di impiego), Trieste, tradizionale luogo d'immigrazione per gli istriani fin dall'epoca austriaca. A tutto ciò si aggiungeva il fatto che di fronte alla dura realtà dell'Istria stava la realtà sicuramente difficile, ma certamente migliore della Zona A del TLT in cui gli aiuti occidentali affluivano in abbondanza e dove, allo scopo di mantenere la pace sociale e togliere spazio ai comunisti, il GMA praticava una politica economica di tipo assistenziale (46).
Le cause di lungo periodo riguardano invece le basi ideologiche e mentali della borghesia italiana e dello schieramento politico-nazionale in cui si riconosceva. Espressione di un patriziato che era stato dominante in Istria almeno dall'epoca veneta e dei ceti intellettuali di lingua italiana, questo schieramento fondò teoricamente fin dal suo nascere alla metà dell'800 la propria pretesa al monopolio nella gestione del potere sul fatto di essere l'erede di quelli che erano stati i dominantori del passato, romani e veneziani. Negando al contempo allo borghesia slovena e croata e allo schieramento politico-nazionale in cui si riconosceva qualsiasi leggittimità al potere in quanto espressione di popoli senza storia, che al più erano stati oggetto dell'attivita civilizzatrice di Roma e Venezia (47). Questo tipo di concezzione idologica di tipo coloniale aveva messo profonde radici nella componente italiana della popolazione istriana (48), anche tra i socialisti istriani che guardavano al movimento nazionale di sloveni e croati come a un movimento reazionario di masse contadine arretrate, sostenuto e diretto a scopi conservatori dal clero, e concepivano il socialismo solo ed esclusivamente in un contesto italiano (49). Allo scoppio della guerra e dopo l’invasione della Jugoslavia tale atteggiamento aveva portato numerosi autorevoli dirigenti comunisti italiani dell’Istria a rifiutare a lungo la collaborazione con il neonato movimento partigiano croato perché giudicato frutto del nazionalismo borghese (50). Con la fine della guerra naturalmente questa impostazione venne mantenuta e rinnovata dai dirigenti dello schieramento filoitaliano. Sintomatico di questo atteggiamento è il fatto che i rappresentanti istriani, triestini e goriziani aggregati alla rappresentanza diplomatica italiana alla conferenza della pace di Parigi utilizzassero regolarmente il termine dispregiativo sciavi (51) per indicare gli jugoslavi (52).
A tutto questo vanno aggiunti altri fattori che ebbero la loro influenza, come ad esempio l’effetto a catena provocato da quella che in alcuni casi divenne una vera e propria psicosi da esodo e che spinse molti ad andarsene perché se ne andavano gli altri. O il fatto che in molti casi venne adottata una sorta di strategia emigratoria, con una parte della famiglia che si trasferiva in Italia – spesso a brevissima distanza, a Trieste, Gorizia - mentre un'altra rimase in Istria a “presidiare” casa, terreni e quant’altro.
Solo considerando tutti questi fattori e aspetti – nonché tenendo sempre presente che dalla fine dell'800, accanto ai due schieramenti nazionali esisteva (ed era prevalente in certi ambiti), anche uno schieramento socialista e internazionalista, che uscì dalla seconda guerra mondiale come egemone - e dando il giusto peso a quelle che erano le particolarità dei diversi ambiti geografici di partenza, si può iniziare a ricostruire una storia dell’esodo che sappia superare visioni angustamente determinate da esigenze nazionali e/o politiche.
Come è necessario, per avere una visione completa e a tutto tondo del fenomeno, prendere in considerazione anche quello che è stato il destino degli esodati e l’uso che di essi è stato fatto. E che è probabilmente uno degli aspetti finora più trascurati della questione esodo.(53)

LA SISTEMAZIONE DEI PROFUGHI IN ITALIA

Della sistemazione dei profughi si occuparono organizzazioni ed uffici privati e pubblici strettamente collegati tra loro a formare un vero e proprio apparato che seppe imporre e mantenere il proprio monopolio nella gestione dell’assistenza. Esso era composto in primo luogo da uffici governativi: l’Ufficio Venezia Giulia, costituito nel gennaio 1946 presso il Ministero degli Interni a cui nel novembre dello stesso anno succedette l’Ufficio zone di confine (Uzc) presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (Pcm). L’UZC ebbe il compito di coordinare e sostenere l’attività di tutte le organizzazioni “patriottiche” nei territori di confine e in tale quadro promosse e sollecitò l’unificazione dei vari comitati profughi sorti in varie parti d’Italia in quella che è l’attuale Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd).(54) Diretta da quello che era stato il ceto dirigente in Istria, Fiume e Zara in epoca fascista non a caso l’Anvgd dichiarò immediatamente superata la pregiudiziale antifascista.(55) A Trieste venne invece costituito il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria (CLNI), fino al 1954 organismo di rappresentanza non tanto dei profughi quanto dei filoitaliani in Istria. Composto dai rappresentanti dei partiti che avevano formato i CLN in Italia durante la guerra (ad eccezione del Partito comunista italiano (PCI)) godeva perciò di particolare credito e udienza presso gli ambienti del governo italiano. Per il fatto di avere una dirigenza più giovane, non compromessa con il fascismo e anzi spesso di derivazione antifascista, il CLNI si trovò spesso in contrasto con l’Anvgd sulle prospettive da dare alla questione dei profughi. Accanto a loro venne poi costituita la già citata OAPGD. Nata come ente privato con il sostegno indiretto del governo ed esplicito (e concreto) dei massimi rappresentanti della politica (tranne quelli di sinistra) e dell’economia nel 1947, ben presto si vide riconoscere dallo stato finanziamenti ed il ruolo di gestore di tutta la politica assistenziale nei confronti dei profughi; alla fine degli anni ’50 si occupava dell’educazione e della salute dei figli dei profughi, dell’assistenza ai profughi anziani, della costruzione e assegnazione di alloggi per profughi nonché della sistemazione lavorativa dei profughi.
L’esodo da Pola, che ebbe vasta eco nell’opinione pubblica (sull’episodio venne realizzato anche un film, La città dolente), portò in Italia un’ondata di alcune decine di migliaia di profughi e pose la questione di come provvedere alla loro sistemazione definitiva. Le proposte furono diverse: da chi chiedeva venissero insediati tutti assieme in una “Nuova Pola” da costruire ex novo, a chi chiedeva venissero inseriti individualmente nel tessuto sociale dei luoghi d’insediamento, senza la creazione di insediamenti esclusivamente profughi. La scelta che prevalse fu quella di non concentrarli in uno o più mega insediamenti ma di creare tanti insediamenti più piccoli esclusivamente di profughi, i borghi. Questa scelta rispondeva all’esigenza delle organizzazioni dei profughi di avere una base quanto più possibile compatta su cui poter contare anche come forza politica ed elettorale, ma anche di creare e mantenere nei profughi un’identità da comunità particolare, fondata su patriottismo, legame alle tradizioni dei luoghi abbandonati e cattolicesimo (56). Nonostante i pubblici riconoscimenti di quello che veniva presentato come esemplare attaccamento all’Italia, la sistemazione definitiva dei profughi procedette molto lentamente, sia perché la scelta di creare nuclei compatti richiedeva tempi di realizzazione più lunghi rispetto ad una loro eventuale sistemazione individuale, ma anche perché in realtà la legislazione fu a lungo molto carente e improntata all’assistenza immediata. Fu infatti necessario attendere il 1952 per veder approvata una legge (la n. 137 del 4.3.1952) che affrontava la questione in modo relativamente organico.

BONIFICA NAZIONALE E RAFFORZAMENTO DELL’ITALIANITA’

L’insediamento più massiccio dei profughi avvenne lungo il confine orientale, e in particolare a Trieste, dove negli anni ’60 ne erano stati sistemati circa 70.000. Il fine dichiarato era la bonifica nazionale e/o il rafforzamento dell’italianità in una zona che rimase fino al 1954 ancora in ballo e che anche dopo il ritorno all'amministrazione italiana venne considerata problematica sia per ragioni etniche che politiche (57). Dopo l’iniziale contrarietà del GMA, che peraltro chiuse più di un occhio sull’insediamento clandestino dei profughi nel suo territorio, nel giugno del 1950 si arrivò ad una prima svolta. Il GMA accolse le insistenti pressioni italiane e accettò un insediamento programmato e sopratutto definitivo dei profughi. Un altro momento importante si ebbe nel 1952, quando da un lato venne ceduta all’Italia la gestione della parte civile dell’amministrazione della Zona A e dall’altro venne consentito di operare nella zona all’OAPGD, che immediatamente concentrò gran parte delle sue risorse su Trieste.(58) E nel 1954, con il ritorno della Zona A all’amministrazione italiana il progetto di insediamento mirato dei profughi poté essere ampliato e completato senza più remore.(59)
La bonifica nazionale riguardò soprattutto la fascia costiera tra Trieste e Monfalcone che alla fine della guerra era ancora abitata (e posseduta) quasi esclusivamente da sloveni. L’insediamento dei profughi (naturalmente ritenuti tutti italianissimi) doveva contribuire in maniera determinante a creare una continuità “etnica” italiana tra Trieste e Monfalcone, togliendo così alla controparte jugoslava la possibilità di rivendicare questo territorio quale naturale sbocco al mare degli sloveni che avrebbe fatto di Trieste un’enclave italiana in territorio jugoslavo. In quello che veniva denominato il corridoio accanto ad ogni villaggio sloveno sorsero così uno o più “borghi” di profughi, completamente autosufficienti per evitare indesiderate integrazioni. Particolarmente coinvolto fu il territorio del comune di Duino-Aurisina, che divideva il territorio del comune di Trieste da quello di Monfalcone. Qui il progetto venne perseguito con particolare accanimento, ricorrendo per ben due volte alla temporanea esautorazione del sindaco che si opponeva alla costruzione di nuovi alloggi dell’OAPGD non solo perché ciò avrebbe stravolto la struttura nazionale della popolazione, ma anche in considerazione del fatto che il comune non offriva sufficienti occasioni occupazionali nemmeno per la popolazione già presente. Il risultato finale fu il completo ribaltamento degli equilibri nazionali e politici: alla metà degli anni ’60 gli italiani, che ancora nel 1945 raggiungevano a stento un 10% della popolazione totale, erano ormai divenuti maggioranza.
In ambito urbano fu invece primario il rafforzamento dell’italianità. Si trattava di rafforzare numericamente (anche a livello elettorale), ma anche qualitativamente, lo schieramento filoitaliano, ampiamente minoritario fino alla rottura tra Tito e Stalin nel 1948. I borghi profughi vennero qui costruiti in rioni popolari ritenuti ostili all’Italia. L’inclusione dei profughi nelle liste elettorali fu probabilmente decisiva per portare ad un non troppo soddisfacente 60% la somma dei voti dei partiti filo italiani (compresi i neofascisti che avevano un 10% circa) alle elezioni amministrative del 1949 e del 1952. I profughi ebbero inoltre la precedenza nelle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, ma vennero inseriti anche nelle industrie, in cui ebbero (almeno inizialmente) un importante ruolo quale elemento di rottura della compattezza e delle rigidità della classe operaia triestina.(60) Esponenti delle organizzazioni degli esuli e di origine istriana in genere assunsero posizioni di punta nello schieramento filoitaliano a Trieste, nelle amministrazioni locali, nelle aziende pubbliche, ma anche a livello politico nazionale (basti citare i nomi del vescovo di Trieste mons. Santin, rovignese, del sindaco Bartoli, anch’egli di Rovigno, e del polesano Belci, deputato della Democrazia Cristiana e sottosegretario). Tutto ciò trasformò radicalmente la realtà etnica, ma anche sociale e politica di Trieste, facendo si che in una città in cui fino ad allora il cattolicesimo politico non aveva avuto che uno spazio marginale, la Democrazia cristiana diventasse il partito di maggioranza relativa (che elesse al parlamento italiano della prima repubblica solo candidati profughi).
Della politica di Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità furono peraltro indirettamente vittime anche gli stessi profughi. In attesa di fungere da bonificatori – e non tutti erano peraltro ritenuti adatti - dovettero rimanere per anni, alcuni per decenni, nei campi profughi (l’ultimo fu chiuso negli anni ’70) in condizioni igieniche tali da portare allo scoppio di epidemie (con esiti mortali). Per essere poi sistemati in borghi che avevano molto dei ghetti, spesso in località lontane dai loro posti di lavoro e dalle quali appena potevano se ne andavano. I relativi privilegi di cui godevano nell'assegnazione di alloggi pubblici e nelle assunzioni (che andavano al di là anche di quanto stabilito per legge) in un periodo in cui quello della casa e del lavoro erano problemi acuti a livello generale, ma anche una politica volta esplicitamente a questo, pr

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Il partigiano, e poi generale della RFSJ, Dragan Paić racconta le dure battaglie del 1942, accusando la Croazia "indipendente" di essere diretta continuatrice della NDH. Tra le altre cose, il monumento partigiano di Petrova Gora, che doveva ospitare anche un museo della NOB, e' stato distrutto dal regime croato. (segnalato da AD per CNJ-onlus)
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Novosti (samostalni srpski tjednik iz Zagreba)
Broj 650 - Datum objave: 02.06.2012.

“Oluja” je dovršila ono što je davno započeto


Piše: Dragan Grozdanić

Izvini što sam opširan jer nemam vremena, pisao je Goethe svom prijatelju Johannu Peteru Eckermannu. Za razliku od njega, ja imam vremena. Antifašizam je bio svjetski pokret, a ne samo naš. Mi smo se našli u velikoj antifašističkoj koaliciji, gdje su koalirali komunisti i antikomunisti. Nije većeg komunista bilo od Staljina i većeg antikomunista od Churchilla, pa su koalirali – započinje svoju priču 92-godišnji Dragan Paić, partizan s Petrove gore, vrativši se sedamdeset godina unatrag, u svibanj 1942., prisjetivši se proboja ustaškog obruča na Biljegu i oslobođenja područja na pola sata vožnje od Karlovca.

Proboj, u kojem je spašen velik broj srpskih civila iz okolnih sela, izveden je u noći sa 13. na 14. svibnja 1942., no njemu su, kaže naš sugovornik, prethodili drugi važni događaji, koji počinju potkraj 1941.

- Jedan od važnijih događaja bila je decembarska ofenziva 1941. na teritoriju između Kupe i pruge Karlovac-Vrginmost. Bila je to velika ofenziva u snijegu; nažalost, sve što je uhvaćeno od naroda, pobijeno je i poklano od strane domobrana i ustaša. Napad bi možda i uspio da nije pao snijeg, koji se smrznuo, pa se čulo dok se po njemu hodalo – priča Paić.

Pa ipak, partizani su već 12. siječnja 1942. ušli u Vojnić. Neprijateljske posade zarobljene su u Utinjskoj dolini; partizanima je u ruke palo dosta oružja, pa su formirana i dva partizanska odreda. Prvi je bio na Petrovoj gori, između Kupe i pruge Karlovac-Vrginmost, a drugi je pokrivao teren kod Slunja i Plaščanske doline. Paićev odred nazvan je po selu Jurgi kraj Vojnića.

Zemunica nije otkrivena

- Prva ofenziva na Petrovu goru bila je 23. marta 1942. Bio je to juriš na Petrovac, najviši vrh Petrove gore, koji nam nije uspio iako smo smatrali da možemo uspjeti. Kako nije bilo dovoljno oružja, napadali su nas željeznim “roguljašima”: bilo je k’o u seljačkoj buni, netko je imao na štap nasađen srp, netko komad kose… Bile su to oružane formacije NDH-a: domobrani, ustaše, oružnici i naoružani civili koji su bili na Petrovcu. U to vrijeme nije bilo Nijemaca. U toj neuspješnoj ofenzivi imali smo gubitaka, pa su oni išli u drugu ofenzivu, nazvanu “Obruč”, koja se dogodila 8. ili 9. svibnja 1942. godine – sjeća se Paić.

U toj je ustaškoj ofenzivi Petrova gora bila opkoljena te su ustaše krenuli u pohod na narod koji se uglavnom skrivao po šumama. U području do Vojnića i sela Džodani ustaše su sjekli mladu šumu i ubijali svakoga na koga bi naišli. U šumi su se našli drugi i treći bataljun Prvog odreda, koji su se dvaput, nažalost neuspješno, pokušali probiti. Ubrzo je Paić, kojem su tada bile 22 godine, ranjen.

- Ranjen sam 1. travnja, točno na izlazu iz sela Ključara blizu Biljega, oko četiri kilometra od Petrovca. Rana je bila na desnoj nadlaktici, a Jakov Kranjčević Brada, bolničar i španski borac, zaustavio mi je krvarenje i na nadlakticu stavio dvije daščice koje je privezao. Nije bilo materijala, rendgena, zavoja, šprica – govori Paić i objašnjava kako se pred proboj našao u zemunici.

- Prva partizanska bolnica, koja je izgrađena 1941., bila je na Vrletnim stranama na Petrovoj gori, malo više u šumi od kasnije Centralne bolnice, koju neprijatelj nikada nije pronašao i koja je šezdesetih rekonstruirana. Prvu je bolnicu neprijatelj pronašao 1942. u martovskoj ofenzivi, no nije pronašao zemunicu i nas nekoliko ranjenika u njoj. Bila su nas trojica unutra: Ilija Miljanović zvani Kurepa, Rade Sučević i ja. Svi smo bili ranjeni u ruku, ali nismo mogli hodati, ja sam puno krvi izgubio, bili smo potpuno nemoćni – sjeća se Paić.

Ranjeni partizani ležali su na vrećama žita, no u jednom su trenutku odlučili izaći iz zemunice. Mladi je Paić ramenom i lijevom rukom podigao daske, pa su se svi izvukli van. Kuda sad, zapitali su se. Krenuli su u neodređenom smjeru, pa naišli na bolničara Bradu; zanimljivo je da je dobrovoljac, koji je za Španjolskoga građanskog rata završio sanitetski tečaj, bio specijaliziran za izgradnju podzemnih zemunica, podignutih na još nekim mjestima Petrove gore i Korduna, a izgradio je i Centralnu bolnicu u Pišinom gaju.

Povijesna pobjeda

Nakon što ih je Kranjčević izgrdio što su pobjegli, vraćeni su u zemunicu, pa su ondje s još desetero boraca dočekali majski proboj, koji je uslijedio nakon višemjesečnog proganjanja i ubijanja žena, djece i staraca: u tzv. čišćenju terena od strane ustaško-domobranskih postrojbi 2.500 civila odvedeno je u logore, uglavnom u Jasenovac. U samo 90 proljetnih dana 1942. u selima kotareva Vojnić i Vrginmost ubijeno je 3.454 Srba.

Odlučeno je da se u proboj ide u rano jutro 14. svibnja; tada je, kaže Paić, neprijatelj dijelio municiju, doručkovao, brijao se, dok je noću dežurao, pa i pucao.

- U proboju su bila svega nekolicina Hrvata i dvojica muslimana, ostalo su činili Srbi s Korduna. Proboj je išao na dva mjesta: jedan je bio na sjeveru, na Biljegu, a drugi na Magarčevcu, potezu jug-jugoistok – pripovijeda Paić i slikovito objašnjava: – Na Magarčevcu je probijao Treći bataljon, s komandantom Jovicom Lončarom i četom komandira Dušana Vergaša i komesara Milana Markovića Like, ukupno 350 ljudi. Na Biljegu je probijala Proleterska četa, s komesarom Rafajlom Višnjićem i komandirom Miškom Breberinom te Drugi bataljon s četom od 120 ljudi, kojom je komandirao Mihajlo Savić.

Pošto nam je izdiktirao imena partizanskih junaka, prisjetio se i dvadesetpetorice drugova poginulih pri proboju.

- Računa se da je ustaša bilo oko 5.000 ili više, nasuprot 670 partizana i ljudi iz tih krajeva koji su preživjeli pokolje i bili u zbjegu – kaže Paić.

Da će proboj biti uspješan znao je kada su toga dana žedni i gladni izašli iz zemunice: sretali su ljude, tisuće koje su uspjele preživjeti opsadu.

Sedamdeset godina kasnije, Paiću proboj i dalje predstavlja povijesnu partizansku pobjedu, na koju je iznimno ponosan. Muči ga jedino što je narod stradao te 1942. dokrajčen za “Oluje”.

- Za generale kojima se sudi Hrvati u cijelom svijetu pale svijeće i žale ih. A “Oluja” i Tuđman na Petrovoj su gori dovršili ono što je Pavelić započeo. Spomenik na Petrovoj gori je devastiran, iako je kulturo dobro, i hrvatsko i europsko. U njemu je trebao biti muzej NOB-a Korduna – zaključuje Paić.

Kraj rata, s činom majora, dočekao je u Ilirskoj Bistrici, gdje je 7. svibnja 1945. razbijen 97. njemački korpus, čijih im se 16.000 vojnika predalo. Završio je dvije partizanske škole, među njima i onu u kojoj je radio s Vladimirom Bakarićem. Kasnije je na Vojnoj akademiji u Beogradu završio aplikacionu školu gađanja i dvogodišnju ratnu školu, te je u činu generala umirovljen 1975.


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