Informazione


IL MINISTRO DEL GOVERNO CHE APPROVA L'INDIPENDENZA DEL KOSOVO



Corriere della Sera, 23 luglio 2010 - Pagina 6

Il governo a Bolzano: via i cartelli in tedesco o lo facciamo noi

Ultimatum di Fitto: 60 giorni per farli sparire 
Il procuratore Guido Rispoli: «Soluzione semplice: basta mettere davanti a tutti i nomi via, malga o rifugio»

Sarà che gli «italiani» del Tirolo hanno perso la pazienza. O forse perché il ministro s' è innamorato delle montagne dell' Alto Adige («Ci vado ogni anno da quando sono diventato papà», ha dichiarato al Corriere dell' Alto Adige). Fatto sta che il ministro per le Regioni, Raffaele Fitto, ha deciso di passare ai fatti: «In Alto Adige, i 36 mila cartelli in montagna scritti solo in lingua tedesca devono sparire». Se non lo farà la Provincia autonoma di Bolzano, provvederà lo Stato. Fissato il tempo per sostituirli: 60 giorni. Parole dure. Che rischiano di aprire un altro fronte nell' annosa questione «etnica» del Tirolo, tra italiani e comunità tedesca. La querelle non è nuova. Da anni si combatte una vera e propria battaglia sulla «toponomastica». Da una parte la minoranza tedesca, rappresentata soprattutto dai partiti che stanno alla destra della Svp (il partito di maggioranza relativa) che spingono per una «germanizzazione» dei nomi di vie, piazze e sentieri. Dall' altra gli italiani, che denunciano il sopruso. E il pericolo. Quale? Di andare in montagna e rischiare di cadere o perdersi perché le scritte sono solo in tedesco. In Alto Adige, il «Cai» versione tedesca si chiama «Alpenverein», finanziato dalla Svp. Sono loro che piazzano i cartelli scritti solo in lingua tedesca. Il Landeshauptmann (il presidente della provincia di Bolzano), «re» incontrastato della Svp, Luis Durnwalder, dice di non saperne nulla: «I cartelli della Provincia sono tutti bilingui. Quelli contestati sono stati installati da terzi che non spettava a me come gestirli». E per la prima volta, ieri, ha risposto in modo durissimo all' ultimatum del ministro: «Me ne frego». Luis, come lo chiamano tutti, non è un estremista ed è molto amato dal suo popolo. Ha avuto un leggero appannamento d' immagine solo quando è stato lasciato dalla moglie: s' era messo con una donna di Monaco molto più giovane di lui (particolare omesso in un libro Der Luis, edito da Athesia, che ha fatto finire la sua biografia al 1998 proprio per non ricordare il divorzio). Il suo «me ne frego» si spiega con la politica tutta interna alla comunità tedesca. La Svp negli ultimi anni ha perso consenso elettorale, a favore dell' aggressivo Die Freiheitlichen, una forma di opposizione antitaliana e degli Schützen, il movimento indipendentista capeggiato da Eva Klotz, che vorrebbe ritornare ai nomi precedenti al periodo fascista e che dalla Corsica commenta: «Fitto? Faccia pure, faccia pure...». Così Luis per non perdere contatto con il suo popolo (che riceve fuori orario d' ufficio, tutti i giorni, a partire dalle 6 del mattino) ha virato a destra. La guerra dei nomi delle vie s' inquadra in questa logica. Due anni fa italiani e tedeschi s' erano azzuffati per un outlet: alcuni imprenditori austriaci avevano osato chiamare al confine un centro commerciale con il nome italiano «Brennero». Per i tedeschi c' era una «o» di troppo (in tedesco è Brenner). Alla fine, su pressioni della Svp, la «o» era stata rimossa. Sulla questione ha esternato pure il procuratore capo Guido Rispoli: «La soluzione è semplice: basta mettere davanti a tutti i nomi via, malga o rifugio. Applicare la legge è l' unica cosa sensata». 

Agostino Gramigna 




Da Liberazione sulla Zastava

1) Quando l'Italia bombardava le fabbriche serbe
G. Vlaic, R. Pilato - 25/7/2010

2) «Ci hanno affamato, ora ci ricattano» 
Intervista a Radoslav Delic - 25/7/2010

3) Flashback: Lo stile Fiat sbarca a Kragujevac
F. Salvatori - 24/12/2009

Per i passati aggiornamenti sulla Zastava e una galleria fotografica da Kragujevac si veda:


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Liberazione, 25/7/2010

http://lettura-giornale.liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=81733&pagina=4&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=542693

La campagna di solidarietà coi lavoratori della Zastava partita subito dopo l'aggressione Nato del 1999

Quando l'Italia bombardava le fabbriche serbe

Gilberto Vlaic*
Riccardo Pilato**


Perchè parliamo di solidarietà internazionale con la Serbia in un momento in cui in Italia si parla di Serbia in tutt'altro senso e con la strisciante idea che proprio da lì venga una concorrenza accanita contro i lavoratori italiani di Mirafiori? Perchè c'è molta disinformazione, per non dire cattiva volontà in tutto questo parlare senza avere cognizioni di causa sulle vicende. La solidarietà internazionale con la Serbia, e specialmente con la città di Kragujevac e con i lavoratori della Zastava è partita subito a ridosso dei bombardamenti Nato del 1999, che hanno portato distruzione, perdita di lavoro, danneggiamenti di ogni genere colpendo settori trainanti dell'industria con l'obiettivo non tanto occulto di mettere in ginocchio un Paese per farlo allineare alle politiche liberiste dell'Occidente. Non dimentichiamo che il complesso metallurgico Zastava di Kragujevac con i suoi 36.000 dipendenti fu pesantemente bombardato con la motivazione che lì si producevano armi. In realtà la Zastava produceva una vasta gamma di prodotti, dagli aghi per insulina alle auto, ai camion, ai fucili da caccia; ciò che fu colpito e distrutto furono i reparti auto, camion, la fucina, la centrale termica, il centro di calcolo. La campagna di solidarietà è partita da alcuni settori del sindacato italiano della Cgil e del sindacalismo di base, che non digerivano la scelta del governo italiano di partecipare ai bombardamenti in palese contrasto con la Costituzione, e non accettavano la subordinazione dei vertici sindacali alle posizioni del governo. Un dato sembra importante per connotare da subito questa azione di solidarietà, che si rivolgeva inizialmente in affidi a distanza per i figli dei lavoratori Zastava rimasti senza lavoro a causa dei bombardamenti: è stato un atto politico e non una semplice beneficienza, e questo lo dimostra bene il caso della fabbrica bresciana Alfa Acciai dove circa 150 operai sostengono da oltre 10 anni, collettivamente, gli affidi di 26 ragazzi e ragazze di Kragujevac. Questa iniziativa di solidarietà è nata come risposta a una richiesta di aiuto che il sindacato serbo Samostalni ha lanciato nell'aprile del '99 ai lavoratori europei e alle loro organizzazioni nel tentativo di contrastare questa aggressione. Da subito in molte città italiane, Roma, Torino, Milano, Brescia, Bologna, Bari, Napoli, Bolzano, Lecco, Trieste, e altre ancora, sono nate associazioni fondate da gruppi di lavoratori e da persone che volevano prendere una pubblica posizione contro i bombardamenti, al fine di mettere in atto azioni di solidarietà nei confronti dei lavoratori serbi. Si sviluppò in quel periodo una forte consapevolezza che era necessario dar corpo a forme di solidarietà materiale al popolo e ai lavoratori bombardati. Ci fu una primissima fase emergenziale, durante la quale il sostegno era caratterizzato dalla spedizione di numerosi camion di aiuti, soprattutto vestiario, prodotti per l'igiene personale, materiale scolastico, medicinali. Poi si attivò una campagna di affidi a distanza dei figli dei lavoratori Zastava, attività che dura tutt'ora perchè la situazione del paese rimane di estrema povertà, disoccupazione e bassi salari per chi riesce a lavorare. Il sindacato Samostalni creò da subito una apposita struttura, l'Uffico adozioni-Ufficio rapporti internazionali, con il compito di seguire le relazioni con le varie associazioni italiane e di fornire e aggiornare le liste dei ragazzi e ragazze di famiglie in maggiore difficoltà. Attualmente gli affidi sono circa 1500. La particolarità di questa campagna sta nel fatto che la consegna del denaro avviene in apposite assemblee pubbliche direttamente ai genitori, con la firma di ricevuta, e senza alcuna trattenuta sui fondi che i sottoscrittori versano, nel senso che le spese di viaggio per andare a consegnare il denaro sono a carico di chi vi partecipa. Nel 2004, da parte di alcune associazioni, si è deciso di affiancare agli affidi anche una serie di interventi mirati di carattere sociale rivolti a fasce deboli della città di Kragujevac e appositamente richiesti dal sindacato Samostalni e da varie associazioni locali. Questi interventi sono realizzati nel campo della scuola, della disabilità fisica e mentale, della sanità pubblica e hanno potuto contare anche sull'intervento finanziario di alcune istituzioni pubbliche e di altre associazioni di volontariato italiane. Una fonte preziosa di finanziamento di questi progetti è stato il 5 per mille sottoscritto per le nostre associazioni.


*Non Bombe ma Solo Caramelle Onlus Trieste
**Associazione Zastava Brescia


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Liberazione, 25/7/2010

http://lettura-giornale.liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=81732&pagina=2&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=542682

Radoslav Delic segretario generale di Samostalni

«Ci hanno affamato, ora ci ricattano.
Per questo dobbiamo lottare insieme»

Raika Veljovic

Radoslav Delic è segretario generale delle aziende dell’ex gruppo Zastava per il sindacato Samostalni, i metalmeccanici serbi.

Cosa c’è di vero nell’intenzione della Fiat di spostare le produzioni da Torino a Kragujevac?

Il nostro governo non ha dato nessuna informazione ufficiale che riguardi questa presunta intenzione resa nota da Marchionne e i massmedia in Serbia non hanno fatto altro che diffondere le notizie pubblicate dalla stampa italiana.

Ci sono stati incontri tra Marchionne e il sindacato serbo?

Assolutamente no.

La Fiat sta giocando al ricatto con i lavoratori degli stabilimenti italiani, prima contrapponendo Tychy (Polonia) a Pomigliano. Ora sta facendo lo stesso gioco contrapponendo Torino a Kragujevac. Lo scopo è quello di scatenare una guerra tra poveri dove sopravvivono i lavoratori che si offrono alle peggiori condizioni. Non credi che occorra unirsi per evitare di essere messi gli uni contro gli altri? E se è così, cosa si deve fare?

Da molti anni abbiamo rapporti con organizzazioni territoriali e aziendali della Cgil e con varie associazioni, rapporti costruiti intorno alla solidarietà con il popolo serbo maturati durante i bombardamenti scatenati dalla Nato contro il nostro Paese nel ’99. Queste relazioni solidali hanno prodotto centinaia di adozioni a distanza che durano tutt’ora. Sul piano sindacale, il nostro segretario dell’ex gruppo Zastava e vicesegretario nazionale di Samostalni Zoran Mihajlovic è stato invitato due anni fa dalla Fiom di Torino per concertare un’iniziativa finalizzata ad unire in una rete tutti i sindacati Fiat del mondo. In quell’occasione tutti fummo d’accordo, ma l’idea è rimasta allo stato delle intenzioni. Una delle nostre proposte fu che si doveva promuovere l’unità a livello della lotta sindacale: pensavamo che se sciopera il nostro compagno in Italia o in Spagna, bisogna trovare la forza di scioperare in tutte le fabbriche Fiat del pianeta, perché solo così è possibile opporsi validamente al padrone, che altrimenti ha gioco facile ad isolarci, a contrapporci e a batterci gli uni dopo gli altri.

Gli operai di Tychy hanno scritto ai loro compagni di Pomigliano una lettera molto forte, chiedendo loro di non farsi intimidire e proponendo di fare causa comune contro la prepotenza della Fiat. Perché questo avvenga è necessario costruire un plafond di diritti comuni. Ma come è possibile se le condizioni di partenza sono così diverse?

Nel già citato convegno torinese fu proprio la Fiom italiana a proporre che si convenisse su una piattaforma che individuava alcuni fondamentali diritti per i quali battersi in tutte le aziende del gruppo Fiat. Questo è indispensabile, al di là delle differenze economiche e sociali che continuano a sussistere e che temo sussisteranno ancora a lungo nei diversi Paesi. Certo, ci sono grandi difficoltà. Per esempio, il lavoro minorile va combattuto ovunque, anche se da noi il problema fondamentale, in un quadro devastato dalla disoccupazione, è dare il lavoro agli adulti.

La debolezza dei lavoratori serbi, il loro assoluto bisogno di lavorare è cinicamente usato dalla Fiat per imporre condizioni di lavoro e di salario pessime, per poi spiegare ai lavoratori italiani che devono fare altrettanto perché lo impongono le regole della competizione internazionale. Non è giunto il momento che in Europa si consolidi un coordinamento sindacale capace di impedire questo gioco al ribasso?

Naturalmente dobbiamo impedire questo gioco perverso. Noi lavoratori e il nostro sindacato abbiamo perfettamente chiaro che il padrone è sempre in cerca della realtà in cui può fare maggiore profitto. I lavoratori serbi sono ora divenuti il bersaglio privilegiato perché dopo più di dieci anni di embargo, bombardamenti e liberalizzazioni selvagge si sono trovati a vivere sotto la soglia della povertà, avendo essi bisogno di tutto per sopravvivere. La sporca guerra che abbiamo subito e l’instaurazione in Serbia di un vorace capitalismo che ha privatizzato tutto ciò che vi era di pubblico si sono trasformati in un boomerang anche per i lavoratori italiani contro i quali oggi viene scatenato il dumping. Per impedire questo genere di ricatti dobbiamo essere uniti e ripetiamo per l’ennesima volta che la nostra battaglia sindacale deve essere comune. Non possiamo chiudere gli occhi davanti alle difficoltà e alle minacce che oggi subiscono i lavoratori fratelli di altri paesi. Tuttavia bisogna sapere che ci sono la nostra estrema debolezza e la nostra povertà alla base di tutto, perché se noi ora stessimo meglio il padrone italiano non sarebbe venuto qui, e noi non avremmo accettato un salario di 200 euro al mese.


=== FLASHBACK ===

Liberazione del 24 dicembre 2009


http://lettura-giornale.liberazione.it/a_giornale_index.php?DataPubb=24/12/2009

Lo stile Fiat sbarca a Kragujevac

Fabrizio Salvatori

Nei giorni scorsi è arrivata in Italia una delegazione di sindacalisti della Zastava, ospiti dell’ass. “Non bombe ma solo caramelle”. Ha portato la sua testimonianza e ha voluto approfondire le reali intenzioni della Fiat

Il gioco è chiaro: sembra la fotocopia di quanto già accaduto in Italia: profitti privati e oneri pubblici. Con azzeramento delle relazioni sindacali, condizioni di lavoro da anni ’50, e clima di tensione


Un grande striscione con su scritto "Bentornata Fiat". Un anno e mezzo fa Kragujevac, cittadina industriale di 200mila abitanti a meno di cento chilometri da Belgrado, aveva almeno la speranza.
Dieci anni dopo i drammatici bombardamenti sulla Serbia. Dieci anni di povertà, malattie e disperazione. Dieci anni a tenere in piedi quella fabbrica, la Zastava, contro la quale la Nato aveva riversato tonnellate di bombe all'uranio impoverito perchè - così sosteneva - in quel sito, che dava da mangiare alle famiglie di quasi quarantamila tute blu, in realtà si producevano armi. In realtà vennero quasi azzerati gli impianti di produzione auto e la centrale termica.
L'accordo per l'arrivo della Fiat è servito, almeno per il momento, a far vincere le elezioni ai "neofurbi" liberisti che in Serbia abbondano. Il 29 aprile del 2008 c'è stata la firma tra il presidente della Repubblica Boris Tadic ed il vicepresidente Fiat Altavilla, alla presenza del ministro dell'economia Dinkic, e l'11 maggio si sono svolte le elezioni.
Un tempismo straordinario quello di Tadic e Dinkic. Sul resto è ancora buio pesto. Lo striscione, per decenza è stato tolto. E il sogno di diventare la piattaforma per un mercato potenziale di 800 milioni di persone, così continuano a scrivere i giornali italiani, per il momento è meno di una mera ipotesi.
Nei giorni scorsi è arrivata in Italia una delegazione di sindacalisti della Zastava, ospiti dell'associazione "Non bombe ma solo caramelle". Ha portato la sua testimonianza a Brescia e a Trieste. Ed ha voluto approfondire le reali intenzioni della Fiat.
Finora le auto prodotte sono state quindicimila. Prodotte è una parola grossa. Il modello è quello della vecchia Punto, che i mille operai serbi non fanno altro che assemblare con componenti che arrivano dalle più svariate province dell'Impero Fiat. Alla Zastava, insomma, non viene prodotta nemmeno una vite.
"La Fiat entro il 31 marzo del 2009 - scrive Nenad Popovic, presidente del Consiglio economico del Partito democratico serbo - doveva versare 200 milioni del capitale iniziale. L'anno prossimo sarebbe dovuta partire la produzione di un modello nuovo, per la quale dovevano essere assunti circa 2.500 lavoratori. Cosa c'è da festeggiare?"
Ma la beffa non è finita qui. I lavoratori vengono retribuiti con le sovvenzioni del Governo della Serbia, che in questo accordo dovrà metterci 300 milioni. La Fiat ci mette solo i componenti ed ha il 10% di contributo statale garantito su ogni vettura. Se l'azienda è ripartita è stato grazie ai serbi, in realtà, che hanno speso 14 milioni per gli impianti e avevano comprato per 3 milioni la licenza per riscattare il marchio e chiamare la vettura "Zastava10". Ora però, se l'accordo diventerà operativo la proprietà tornerà in mano alla Fiat con il 66% delle azioni. E quindi anche la licenza di produzione di quel modello di auto.
Il gioco della Fiat è chiaro. E sembra la fotocopia di quanto è già accaduto in Italia: profitti privati e oneri pubblici.
Senza metterci una lira di investimento, Marchionne ha imposto lo "stile Fiat": azzeramento delle relazioni sindacali, condizioni di lavoro da anni '50, soprattutto per quel che riguarda la verniciatura, e clima di tensione contro chi prova anche soltanto a sollevare dubbi e perplessità. La Polonia non è così lontana. E i manager lasciano capire che a trasferire la misera quota di produzione di circa ventimila vetture all'anno, non ci vuole poi granchè.
La Serbia, intanto, si sta letteralmente svenando per convincere la Fiat a restare: terreni risanati e regalati, zona franca e infrastrutture. L'assalto all'Est Europa è pronto. "Quattroruote" scrive che il prossimo anno partirà la produzione del nuovo modello, ma gli impianti, fanno sapere i delegati del sindacato serbo dei metalmeccanici, non ci sono ancora. "Per montarli - dicono - non ci si può mettere meno di due anni". Le previsioni economiche dell'Istituto centrale di statistica parlano chiaro: si passerà secondo le previsioni da una crescita del Pil del +5,4% del 2008 al -3% del 2009, sono calati drasticamente gli investimenti esteri, la disoccupazione è cresciuta di 2 punti percentuali (dal 14,4 al 16,4%) ed in genere la Serbia spende più di quel che produce.
La Fiat non è certo una dama di San Vincenzo.




La FIAT contro i lavoratori italiani e serbi


Riproduciamo più sotto il comunicato del sindacato unitario della Zastava di Kragujevac in merito alle provocatorie dichiarazioni rilasciate da Sergio Marchionne alla stampa italiana.

Seguirà a breve la relazione del viaggio della associazione "Non bombe ma solo caramelle" a Kragujevac, effettuato circa 20 giorni fa.
In merito alla strategia FIAT di mettere i lavoratori dei vari paesi gli uni contro gli altri, ed a proposito della leggenda degli "investimenti" FIAT a Kragujevac (dove gli italiani hanno solamente bombardato e poi acquisito *gratuitamente* gli enormi impianti Zastava, senza per adesso sganciare un soldo ed approfittando invece dei fondi elargiti da BERS e governo serbo), segnaliamo anche i seguenti link:


"Produrremo in Serbia la monovolume - con sindacati più seri si faceva a Mirafiori". Intervista a Marchionne:
Alla stessa pagina sono pubblicate molte centinaia di commenti, di cui una parte forniscono informazioni circostanziate sulla truffa degli "investimenti FIAT a Kragujevac"



Nostra registrazione audio di un recente colloquio con Zoran Mihajlović del Samostalni Sindikat della Zastava di Kragujevac e dell'intervento di Gilberto Vlaic alla assemblea per la consegna delle quote di affido ai figli dei lavoratori (3 luglio 2010 - MP3 - 24m):



Passati aggiornamenti e GALLERIA FOTOGRAFICA da Kragujevac:



«Troppe incertezze». Fiat sposta in Serbia la monovolume L Zero

... L'operazione serba risolve in realtà un altro problema a Fiat: fa avanzare il progetto di joint venture con la Zastava, che dopo la firma dell'accordo di 2 anni fa era ancora in attesa di un modello forte da produrre; né il progetto della piccola Topolino né quello di una low cost da esportare hanno infatti finora avuto via libera. L'investimento in Serbia vale quasi un miliardo di euro per arrivare a una capacità produttiva di 190mila vetture annue; la produzione della nuova monovolume dovrebbe iniziare tra la fine del 2011 e i primi mesi del 2012. La somma di 1 miliardo di euro verrà coperta per 250 milioni dal governo di Belgrado; 400 verranno da un prestito dalla Bei e il resto dall'azienda torinese; quest'ultima dovrebbe spendere dunque una somma comparabile con quanto avrebbe investito per produrre la L0 a Mirafiori; nel 2008 si era parlato per Zastava di un investimento di 700 milioni, di cui 200 contribuiti da Belgrado. ...


Fiat, bufera sul trasferimento in Serbia
Fiat, «Fabbrica Italia» perde pezzi - I fondi per Mirafiori? In Serbia
La monovolume Fiat si produrrà in Serbia
Fiat. Marchionne arrogante e provocatore: la LO in Serbia. A rischio Mirafiori


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COMUNICATO DEL SINDACATO UNITARIO DELLA ZASTAVA

Jedinstvena Sindikalna Organizacija Zastava
Samostalni Sindikat Srbije - Savez Metalaca Srbije
jsozastava @ nadlanu.com

Kragujevac, 23 luglio 2010

Per quanto riguarda gli articoli pubblicati in questi giorni in Italia e tradotti e pubblicati anche in Serbia, comunichiamo che - sulla base delle informazioni in nostro possesso - non esiste nessun Accordo ufficiale ne' informazione ufficiale del governo serbo (che è proprietario del 30% della Fiat Auto Serbia) relativa alle dichiarazioni (intenzioni) di Marchionne.
I fatti sulla situazione attuale nella fabbrica di Kragujevac:
* La fabbrica è ferma a causa delle vetture non vendute ferme nel piazzale (circa 450 unità).
* Tutti i 1060 lavoratori della Fiat Auto Serbia sono in cassa integrazione (percepiscono il 65% del salario).
* La ricostruzione dei reparti viene eseguita da imprese appaltatrici, nonostante che migliaia di lavoratori della Zastava [*] stiano a casa senza lavoro. Proprio 2 giorni fa un lavoratore di un'impresa appaltatrice è morto sul lavoro.
* Circa il 70% dei lavoratori della Fiat Auto Serbia sono sovvenzionati dal governo serbo per arrivare al minimo garantito in Serbia che è pari a 160 euro.
* Noi al Sindacato abbiamo seri dubbi per quanto riguarda la decisione di Marchionne, perchè in un anno ha cambiato il piano 3 volte.
* Il sindacato della Zastava vede in questo girotondo di annunci il tentativo di dividere i lavoratori dei nostri due paesi e invita all'unità di tutti i lavoratori del gruppo Fiat.

Il segretario
Radoslav Delic

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[*] Quelli cassaintegrati più quelli licenziati e forzati al prepensionamento in totale ammontano a decine di migliaia: il "kombinat" di Kragujevac era infatti il più grande complesso metalmeccanico dei Balcani prima della aggressione della NATO e dell'inizio delle selvagge politiche liberiste alla fine del 2000 (ndCNJ).




Negligenza mortale

Le prime quattro parti di questo importante testo di Paul Polansky, sull'avvelenamento e l'apartheid cui sono costretti i rom del Kosovo per responsabilità del regime coloniale instaurato nel 1999, si possono leggere sul blog sivola.net:
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3919
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3933
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3946
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3956
o sull'archivio della nostra newsletter: 

In merito ci è giunto il seguente commento di Marino Andolina, medico primario dell'ospedale Burlo di Trieste e componente del Comitato Scientifico della nostra onlus:

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Serbi e ROM

Quanto scritto da Polansky mi fa ricordare i giorni in cui incontravo i profughi ROM ai confini col Kosovo, mentre attraversavo il confine con l'aiuto di un poliziotto serbo per portare aiuto ad una famiglia albanese nei guai. Ricordo i volti che esprimevano una cupa perdita di speranza; mi chiesero solo di chiedere informazioni di alcuni loro congiunti che non erano riusciti a scappare. Non fui loro utile neanche in quello.
In questi giorni ho collaborato con i colleghi serbi del centro trapianti dell'Istituto Madre e Bambino di Belgrado, preparando un bambino ad un trapianto di midollo. Il suo cognome era tipicamente albanese, il nome tipicamente islamico; parlavano solo serbo. Il livello culturale di mamma e bambino era più che accettabile. La madre mi disse candidamente di essere una Rom kosovara. Quindi i serbi spendevano decine di migliaia di euro per curare un bambino Rom, profugo dal Kosovo.  Normale si dovrebbe dire. Come normale mi sembrò che il primo bambino che abbiamo trapiantato assieme a Belgrado, durante la guerra in Bosnia, avesse un nome musulmano. Allora come oggi ai serbi non sembra di aver fatto alcunchè di eccezionale; è strano che la cosa sembri eccezionale a noi occidentali abituati a considerare i Rom subumani e i serbi nazionalisti sanguinari. In fondo in Romania, paese dell'Unione, in un orfanotrofio una deputata italiana vide in uno stanzone dei bambini gattonare nudi nei loro escrementi. La direttrice le chiarì che "non erano bambini, erano Rom". Chissà com'è l'Europa vista dalla Serbia.
 
Marino Andolina

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Negligenza mortale (V puntata)

by Paul Polansky

[continua


Hans Haekkerup

L'anti-premio NATOS: vergogna a tutti i pianificatori militari (specialmente i politici) che raramente prendono in considerazione gli effetti che i bombardamenti inutili avranno sui bambini. Come Ministro Danese della Difesa (prima di diventare il 3° SRSG in Kosovo) Haekkerup fu coinvolto nella preparazione del bombardamento del Kosovo, che non distrusse alcun obiettivo militare ma obbligò alla chiusura tutte le scuole e lasciò traumatizzata un'intera generazione di bambini.

I nonni putativi
non dovrebbero avere un favorito.
Io ce l'ho.
Un piccolo zingaro di quattro anni
di Plemetina
Con i pugni contusi come un pugile.

All'età di un anno
durante i bombardamenti della NATO in Kosovo
Aveva fracassato così tante cose
Che i suoi genitori
L'hanno ribattezzato
NATOS

Tre anni dopo
Continua a fracassare le cose,
Ogni volta che un aereo
Passa in cielo.

Hans Haekkerup nacque il 3 dicembre 1945 a Frederiksberg, Copenhagen. Dopo la laurea nel 1973 con un master in Arti ed Economia all'università di Copenhagen, Haekkerup servì in diverse posizioni di governo. Dopo essere stato eletto al Parlamento nel 1979, fece parte di diverse commissioni. Fu membro della Commissione Difesa dal 1985 al 1993, e ne fu il presidente dal 1991 al 1993.  Dal 1993, Haekkerup fu Ministro della Difesa, prima di essere nominato Rappresentante Speciale del Segretario Generale e capo della Missione ONU di Amministrazione ad Interim in Kosovo (UNMIK) dal dicembre 2000 al dicembre 2001.

Durante il suo breve periodo come SRSG, Haekkerup dovette confrontarsi con diverse questioni controverse. L'uso da parte della NATO nei Balcani di armi all'uranio impoverito, attirò l'attenzione di molti giornalisti ed OnG internazionali. Le domande sui molti casi di leucemia, specialmente tra le truppe italiane di stanza dove vennero gettate le bombe, non ottennero mai risposte soddisfacenti. Al momento di entrare in carica, Haekkerup dichiarò che voleva tenere il Kosovo lontano dalle prime pagine, ma durante il suo ufficio di 12 mesi raramente ci fu un giorno in cui il Kosovo non apparisse nei titoli di testa internazionali, incluse le minacce alla sua vita degli Albanesi (molti ritengono ex comandanti dell'ALK tramutati in politici) perché Haekkerup cercava di raggiungere un accordo con le autorità della Repubblica Federale di Jugoslavia ed aprire un ufficio UNMIK a Belgrado. Haekkerup disse che non intendeva rinnovare il suo mandato SRSG, per poter passare più tempo con sua moglie incinta. Però, molti osservatori occidentali ritennero che i politici albanesi fossero contro Haekkerup per il suo tentativo di porre fine al crimine organizzato. Haekkerup offese anche i protettori oltremare degli Albanesi che volevano che il Kosovo fosse lasciato ai locali Albanesi il prima possibile. L'atteggiamento burocratico di Haekkerup, inclusa la stretta aderenza all'orario d'ufficio, provocò insoddisfazione nel suo staff UNMIK. Anche l'ufficio USA di Pristina ebbe da dire con Haekkerup per il suo tentativo di dare un voto a Belgrado negli affari del Kosovo.

Dopo il ritorno in Danimarca, Haekkerup scrisse un libro intitolato "Le molte facce del Kosovo". Gli Zingari di Mitrovica che morivano di avvelenamento da piombo nei campi ONU, non vennero menzionati.


Michael Steiner


[FOTO: Michael Steiner e la sua assistente Minna (immagini da Unmikonline.org e da Harvard.edu)]

IL PREMIO CHIACCHIERE TRA LE LENZUOLA: al quarto "protettore" ONU del Kosovo a cui piaceva sbattere i tacchi e parlare duro. Più tardi divenne ospite dello show BBC Hard Talk. Ma in realtà Steiner vince questo anti-premio per aver usato la sua posizione in Kosovo per mettere nei guai diverse donne del suo staff ed essere diventato il don Giovanni dei Balcani... mentre i primi  bambini romanì nei campi ONU iniziavano a morire per avvelenamento da piombo.

Michael Steiner è nato il 28 novembre 1949 a Monaco di Baviera, in Germania. Dal 1970 al 1977 ha studiato legge a Monaco e a Parigi, passando con distinzione il Primo Esame Statale in Legge a Monaco. Dal 1977 al 1980 ha svolto pratica legale in Baviera e fu junior lecturer di Diritto Internazionale alle università di Monaco e Parigi . Nel 1978 passò il Secondo Esame Statale in Legge sempre con distinzione. Nel 1981 entrò nell'Ufficio Federale Tedesco degli Esteri e dal 1986 al 1989 fu a New York al tavolo politico della missione tedesca dell'ONU. Dopo vari incarichi a Praga, Zagrabia, Bonn, Sarajevo, fu ambasciatore tedesco a Praga nel 1998, quando pubblicai nella capitale ceca i miei primi libri sull'Olocausto Zingaro nel protettorato del Reich di Heydrich. Dopo essere stato a Berlino Direttore Generale dell'Ufficio Federale degli Esteri, Steiner venne nominato Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell'ONU per il Kosovo dal 2002 al 2004.

Uno dei primi compiti di Michael Steiner in Kosovo fu di rimpiazzare l'amministrazione ONU nei comuni più etnicamente divisi con una delle sue amanti, Minna Jarvenpaa, a cui si riferiva amabilmente come "E' il mio braccio destro".

Anche se molti nel suo staff consideravano questa bionda trentunenne di "origine scandinava" come l'ultima padrona del suo harem ONU, Minna in realtà collaborò con Steiner dal 1996 al 1998 presso la missione ONU in Bosnia Herzegovina quando Steiner era vice dell'Alto Rappresentante ONU. Educata ad Harvard, Jarvenpaa lavorò a Sarajevo come consigliera sulle "questioni rifugiati".

Prima di essere nominata emissario speciale per Mitrovica, Jarvenpaa fu ufficialmente "consigliera per la pianificazione" nell'ufficio di Steiner. Nel suo nuovo lavoro, Jarvenpaa promise di migliorare le condizioni di vita a tutti i cittadini di Mitrovica, ma né lei né Steiner visitarono mai i campi rom/askali avvelenati dal piombo nella città di Mitrovica, dove ogni bambino nasceva, se ansceva, con danni irreversibili al cervello.

Michael Steiner è scapolo. Non è dato sapere se abbia figli.


Fine quinta puntata




www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 05-06-10 - n. 322

1950/2010: 60° anniversario della guerra di Corea, devastata dagli USA anche con armi chimiche e batteriologiche
 
di Sergio Ricaldone
 
Sessant’anni sono un lasso di tempo abbastanza lungo che consente anche ai ricordi più nefasti e alle emozioni più violente, vissute nel corso di eventi drammatici come la guerra, di decantare, stemperarsi, persino di farci diventare indulgenti verso chi ha commesso le più grandi atrocità.  Sempre, beninteso, che il tempo trascorso abbia permesso ai due nemici di allora , Corea del Nord e Stati Uniti - il nano e il gigante – di trovarsi, parlarsi, capirsi, rispettarsi reciprocamente e vivere in pace.
 
Nel caso della Corea del Nord è successo l’esatto contrario: il tempo della pace vera non è mai arrivato e il piccolo nano ha dovuto vivere sei decenni con la pistola del gigante puntata alla tempia.
 
Malgrado tutto, chi arriva nella capitale Pyongyang (che nel 1953 aveva solo tre case in piedi) osserva una città pulita, ordinata, efficiente, dallo stile quasi scandinavo.  Dalla culla alla bara, ogni coreano gode dei diritti garantiti dallo Stato, il lavoro e il cibo inanzitutto, l’assistenza medica è gratuita, la scuola è obbligatoria fino ai 17 anni.  Gli appartamenti degli operai sono piccoli, ma comodi e confortevoli.  La gente, memore delle atrocità subite durante la guerra, è sempre convinta di vivere oggi in uno dei migliori mondi possibili e appare decisa a difendersi dagli intrusi.
 
Lo hanno constatato sul posto visitatori non certo indulgenti verso il comunismo e tanto meno verso il regime di Kim Il Sung e quello attuale di Kim Jong Il.  Tra questi, Tiziano Terzani, come sempre raffinato e coinvolgente nei suoi reportage raccolti nel volume “Asia”.  Ma poi, quando i visitatori assistono alle spettacolari parate militari di un piccolo esercito armato ed equipaggiato con armi moderne, i pregiudizi si fanno barriera, scatta la sindrome di Orwell in “1984”, e la Corea del Nord appare come l’incubo di una società totalitaria, circondata da un muro invalicabile, ossia un mostro armato fino ai denti che minaccia la pace e la stabilità di tutto l’Estremo Oriente. Nessuno si domanda se, dopo essere stata rasa al suolo già una volta nel 1950, ed essere stata tenuta sotto tiro per più di mezzo secolo, dai missili e dai B52 americani, la Corea del Nord non abbia il sacrosanto diritto di difendersi come ogni paese sovrano minacciato di distruzione nucleare.  Credo sia utile  fare un po’ di cronistoria vera di quei giorni terribili. Ci aiuterà a capire la tragica continuità del dramma che si continua a vivere oggi in quella parte del mondo e dei pericoli veri che sessant’anni fa ha vissuto l’intero pianeta.  E per colpa di chi.
 
Il mondo sull’orlo di una guerra mondiale nucleare.
 
25 giugno 1950. Era da poco passato mezzogiorno quando Arturo Colombi, segretario del PCI della Lombardia, mi chiama nel suo ufficio, insieme ad alcuni altri compagni.  Dopo averci mostrato i dispacci delle agenzie di stampa Reuters e A.P. annuncianti che l’esercito “comunista” della Corea del Nord aveva varcato il 38° parallelo e stava invadendo il sud del paese controllato dagli americani, ci aggiorna sui primi allarmanti giudizi ricevuti dalla direzione del partito.  Abituato a soppesare bene ogni parola le conclusioni di Colombi, “dobbiamo aspettarci il peggio”, alludono ai rischi di una possibile terza guerra mondiale. Questa volta nucleare.
 
E’ il preludio di un dramma che, sebbene si stia svolgendo alla distanza di 9 fusi orari, ci fa apparire il mondo molto più piccolo e molto più fragile.  La soverchiante regia imposta dai media occidentali riesce in pochi giorni a gettare nel panico i benpensanti dell’intero pianeta. Ricorda lo storico francese Gerard A.Jaeger : “Da New York a San Francisco si costruiscono ovunque rifugi antiaerei. La grancassa mediatica sostiene che la Corea è stata scelta come laboratorio militare dai comunisti quale premessa ad una loro offensiva contro il resto del mondo. Nei porti europei le barche a vela di qualunque stazza si vendono come arche di Noè.  Si fa incetta di benzina, di viveri, ci sono lunghe code davanti ai consolati dell’America latina per ottenere un visto” (1).
 
L’epicentro dello scontro tra est e ovest, spesso raccontato dai “noir” di John Le Carrè, si sposta ora dal Charlie Point di Berlino al 38° parallelo che divide in due la penisola coreana.  Con un differenza non da poco rispetto alla Germania divisa in quattro zone di occupazione: il sud è controllato militarmente e politicamente dagli Stati Uniti e governato da un quisling di estrema destra, Syngman Rhee, mentre il nord è una repubblica popolare sovrana governata dai comunisti.  La propaganda non esita un attimo ad emettere la sentenza: è iniziata una guerra di aggressione di Pyongyang che, col sostegno di Mosca e Pechino, vuole annettersi l’intera Corea. Ma, come vedremo più avanti, le cause e la responsabilità del conflitto stanno altrove, e la posta in gioco ha ben altre dimensioni.
 
La nascita della Cina popolare moltiplica le dimensioni del “campo socialista”.
 
Questo repentino allargarsi del confronto socialismo/imperialismo dall’Europa all’Asia non è casuale.  E’ il continente nel quale pochi mesi prima era stata proclamata la nascita della Repubblica Popolare cinese.  I rapporti di forza tra i due blocchi antagonisti sono perciò cambiati e questo viene giudicato insopportabile dagli strateghi di Washington ossessionati dall’idea che il comunismo stia dilagando e perciò disposti a tutto pur di impedirne l’espansione.
 
Il 1950 si era palesato fin dall’inizio come un anno piuttosto difficile per le ambizioni geopolitiche della Casa Bianca.  Il 13 gennaio l’Unione Sovietica chiede l’ammissione all’ONU della Cina popolare.  Il 31 gennaio il campo socialista riconosce il governo di Ho Ci Minh in lotta per l’indipendenza del Vietnam. Il 14 febbraio Stalin e Mao Tse Tung firmano a Mosca un trattato di alleanza e di amicizia che suscita viva inquietudine in Occidente.  Il 22 febbraio i comunisti sono messi al bando negli Stati Uniti ed è l’inizio della caccia alle streghe. In contemporanea la Casa Bianca ordina ai fisici di Teller di accelerare la costruzione della bomba H.   Il 18 marzo viene lanciato l’appello di Stoccolma contro l’uso militare dell’atomo. Il successo raccolto da questo appello è immenso : ovunque nel mondo, su iniziativa dei comunisti, si raccolgono in poche settimane oltre seicento milioni di firme, ossia ben oltre i confini politici e ideologici dei promotori.  Il 5 giugno gli Stati Uniti impongono al Giappone la messa al bando di ogni attività comunista sul suo territorio.
 
L’estrema destra americana accende la miccia della guerra.
 
Ormai è chiaro che la politica del presidente USA, Harry Truman, è dettata dai falchi: Douglas Mac Arthur, Foster e Allen Dulles, Edgar Hoover, G. Taft, Joseph MacCarty, già all’epoca vengono definiti “il partito della guerra preventiva al comunismo”.  Il Pentagono, la CIA, il Dipartimento di Stato, l’FBI sono sotto il loro controllo.
 
In quella torrida giornata di giugno la lobby guerrafondaia era riuscita nell’intento ordito da tempo: accendere la miccia di una possibile terza guerra mondiale addossandone la colpa agli “invasori comunisti della Corea del Nord”.  Qualcosa di simile a Saraievo e Danzica, i noti pretesti serviti a scatenare i primi due conflitti mondiali.
 
Era infatti da mesi che reparti militari sudcoreani, comandati da “consiglieri” americani agli ordini di Mc Arthur, si spingevano con continue provocazioni armate oltre il confine mettendo a ferro e fuoco i villaggi di frontiera.  Un vero e proprio stillicidio con lo scopo di provocare una reazione che rendesse evidente l’intenzione dei comunisti di aggredire la Corea del Sud rendendo la trama presentabile al mondo come una nuova Pearl Harbour.
 
Ma fin dal primo giorno della cosiddetta “invasione”, come racconta il giornalista americano I.F. Stone nel suo libro “The Hidden History of the Corean War” del 1952, la versione fornita ai giornalisti dai portavoce del Pentagono comincia a far acqua da tutte le parti. Uno di loro ammette che “gli Stati Uniti si attendevano l’attacco”.  L’ammiraglio Roscoe H. Hillenkoetter dichiara poi che “i servizi d’informazione americani erano a conoscenza che in Corea esistevano condizioni tali da poter provocare un’invasione quella settimana stessa o la successiva”. Insomma, tutto ben noto e calcolato, altro che una nuova Pearl Harbour.
 
A dissipare ogni dubbio ci pensa il governo di Pyongyang che documenta come nella notte del 24 giugno le forze sudcoreane avevano passato il parallelo in tre diversi punti ma erano state respinte. Dopo di che, esaurita la pazienza, Kim Il Sung ordina alle sue truppe di passare alla controffensiva. E per come si sono svolti i fatti successivi risulta chiaro che la decisione è stata presa senza consultare né Mosca né Pechino.
 
L’ONU delega il comando delle operazioni militari agli Stati Uniti.
 
Nel giro di poche ore, cogliendo al volo l’occasione offerta dalla volontaria assenza del delegato sovietico, gli Stati Uniti riescono ad ottenere dal Consiglio di sicurezza dell’ONU la condanna degli “aggressori” e la delega del comando di tutte le operazioni militari contro Pyongyang.  Il colpaccio di immagine è notevole ed è dovuto ad una ingenuità diplomatica commessa dall’Unione Sovietica. Il delegato dell’URSS Malik aveva infatti abbandonato da circa sei mesi il proprio seggio al Consiglio di Sicurezza in segno di protesta per la mancata ammissione all’ONU della Cina popolare: un errore di tipo aventiniano (poi riconosciuto) compiuto per un eccesso di solidarietà con Pechino che lasciò nelle mani degli Stati Uniti la bandiera dell’ONU.
 
Ma ben presto la strategia militare del Quartier Generale di Tokio e il teatrale protagonismo del suo comandante in capo, generale Mc Arthur, toglie ogni dubbio sulle responsabilità e i veri scopi di quella guerra.
 
I.F.Stone, lo scrive apertamente nel libro sopra citato: “In una corte di giustizia si potrebbe sostenere che MacArthur stava cercando di trascinare gli Stati Uniti e le Nazioni Unite in una guerra con la Cina e la Russia. Egli tentava di provocare la terza guerra mondiale. Né Washington, né Parigi, né Londra avrebbero potuto pretendere di non essere state preavvisate”.  Vengono altresì citate le deliranti parole del generale comandante dell’aviazione, Arvil Andersen : “Datemi l’ordine di farlo e in una settimana farò a pezzi i cinque depositi russi di bombe atomiche e quando mi trovassi davanti a Cristo potrei spiegargli che io ho salvato la civiltà”(2).
 
La guerra divampa e investe tutta la penisola coreana.  Ma la strategia iniziale del Quartier Generale di MacArthur, non manca di sollevare perplessità e interrogativi. Alcune delle più prestigiose firme del giornalismo americano – Walter Lippmann, James Reston, Hanson Baldwin, I.F. Stone - non nascondono stupore per la condotta delle operazioni militari che consente ai nordcoreani di dilagare nel sud del paese fino a rinchiudere in un piccola sacca attorno al porto di Pusan ciò che resta dell’esercito sudcoreano e del contingente americano.  Qualcuno comincia a chiedersi se non si tratti di una nuova Dunquerke asiatica volutamente pianificata.
 
La sospetta strategia a perdere del Pentagono
 
Se non fosse che la guerra è sempre una faccenda tremendamente seria, oltre che oscena, lo spettacolo parrebbe una commedia dell’assurdo: infatti al largo delle coste coreane incrocia la più potente flotta da guerra del mondo, mentre dalle basi giapponesi centinaia di bombardieri B29 sono in grado di levarsi in volo e annientare la capacità di resistenza di un insignificante nano militare quale era all’epoca la Corea del Nord.  Invece Marina e Aviazione USA si voltano dall’altra parte e lasciano che un mini esercito di 40 mila uomini, sicuramente motivati, ma armati in modo primitivo, tenga sotto scacco la potente America che ha appena sconfitto un gigante militare come l’Impero del Sol levante.
 
Il 7 luglio il NYT scrive che le armi catturate ai nordcoreani includevano fucili della prima guerra mondiale” e aggiungeva che “né l’esercito né l’aviazione nord coreana possedevano alcuna arma sovietica del dopoguerra”. Ma il paradosso più evidente è quello politico/diplomatico: URSS e Cina popolare (ovviamente solidali con la Corea del Nord) denunciano le provocazioni americane, protestano, si indignano, lanciano allarmi e moniti, ma non mostrano alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere nel conflitto. Vogliono la pace e non fanno nulla per nasconderlo.
 
E i primi a capirlo sono gli americani in buona fede : Il generalissimo Stalin con un calcio avrebbe potuto gettarci nel Mar di Corea, se solo l’avesse voluto. Ma stava diventando chiaro che Stalin non voleva aiutare i nordisti a darci questo calcio” scrive Hanson Baldwin sul NYT.  Appariva dunque chiaro che i russi e i cinesi non intendevano intervenire nel conflitto per nessuna ragione e tanto meno entrare in una guerra a causa della Corea.
 
Ma è appunto a partire da questi due macroscopici paradossi che la guerra diventa dal luglio in poi un affare maledettamente serio.  La lobby della “guerra preventiva al comunismo” rompe gli indugi e mostra i veri scopi di quella “strana” guerra pianificata da tempo.  MacArthur non nasconde l’allarmante sintonia del suo pensiero con quello di Ciang Hai Shek che dal suo rifugio di Formosa farnetica di una imminente riconquista della Cina continentale anche a costo di una guerra mondiale nucleare.
 
L’imperialismo americano mostra le sue vere intenzioni.
 
Lo storico francese Gerard A. Jaeger scrive che di una terza guerra mondiale si era già iniziato a parlarne pochi mesi dopo la fine della seconda, e la Corea poteva essere “l’incidente perfetto” per regolare i conti con tutto l’universo comunista.  “Stiamo scivolando verso la catastrofe” , scrive sul NYT, Walter Lippmann.  “Una terza guerra mondiale è in preparazione” proclama Patrick Hurley, ambasciatore degli Stati Uniti in Cina, mentre getta alle ortiche il suo bicorno da diplomatico. Più che esplicita la nota che il presidente Truman redige per il suo Segretario di Stato : “Se non mostriamo ai russi il nostro pugno di ferro una nuova guerra è in gestazione”.(3)
 
E’ appunto l’Unione Sovietica di Stalin e il potenziale propulsivo che esercita sul movimento operaio in Occidente a creare incubi sulle rive del Potomac.  Un altro autore americano, I.A. Brown,citato da Jaeger, spiegherà poi nel suo libro “The US Plan war with the Soviet Union” l’esistenza di un piano “Dropshot mirante a scaricare sull’URSS , nei primi trenta giorni di guerra, centotrenta bombe atomiche su settanta città sovietiche, di cui otto su Mosca e sette su Leningrado (....). Infine più di sei milioni di soldati dovevano occupare i territori comunisti liberati.” (4)
 
Dopo avere ostentato per un paio di mesi il ruolo di vittima aggredita, Washington ritiene sia giunto il momento di ristabilire le giuste proporzioni con il nano impertinente che ha osato sfidare la sua potenza militare.
 
L’imponente sbarco del 15 settembre ad Inchon, presso Seul, in perfetto stile D-Day, ripropone ai marines di MacArthur i giorni della guerra totale.  Marina e aviazione USA si scatenano, città e villaggi nordcoreani (e la stessa Seul) sono ridotti ad un cumulo di macerie. La strategia USA è sempre quella insegnata a West Point fin dai tempi dello sterminio degli indiani d’America: fare terra bruciata e ridurre il nemico all’età della pietra..
 
La penisola è tagliata in due e le truppe nordcoreane intrappolate al sud sono date per accerchiate e disperse, benchè i prigionieri esibiti siano solo poche centinaia. Il Quartiere Generale di Tokio canta vittoria.  La strada verso la frontiera della Manciuria e quella dell’URSS è aperta. E tanto per non essere frainteso MacArthur lancia provocatori attacchi aerei contro il territorio sovietico e quello cinese: l’8 ottobre un aeroporto nei pressi di Vladivostok viene attaccato in pieno giorno da caccia bombardieri americani.  Il 7 novembre la città di Sinuiju, sul confine della Manciuria, di fronte ad Antung, viene rasa al suolo dai B 29. “Con questi mezzi i guerrafondai speravano di appiccare il fuoco al mondo”(5).
 
Le misurate reazioni di Mosca e Pechino e i loro ripetuti inviti al cessate il fuoco vengono scambiati per segni di debolezza.
 
Da settembre a fine ottobre sono per MacArthur i giorni della vittoria.  Le truppe al suo comando proseguono l’avanzata verso est e verso nord : Pyongyan, Wonsan, Hungnam vengono devastate e occupate. L’avanzata si spinge pericolosamente e irresponsabilmente verso il fiume Yalu, la frontiera che separa la Corea dalla Manciuria.  Le grandi dighe che alimentano la regione più industrializzata della Cina popolare vengono bombardate. Al nord le truppe ONU sono ormai a pochi chilometri dalla frontiera sovietica.
 
La “valanga gialla” e la minaccia atomica contro Cina e URSS
 
Nei primi giorni di novembre accade perciò l’inevitabile: volontari cinesi, veterani della “lunga marcia”, passano il fiume Yalù per combattere a fianco dei nordcoreani. Prende corpo quello che il cinema razzista di Hollywood dipingerà, moltiplicando le cifre per cento, come lo scatenarsi della “valanga gialla” e delle “orde mongole”.  La guerra assume dimensioni che gli strateghi di Washington avevano incautamente ignorato.  Arroganza e presunzione fanno commettere a MacArthur lo stesso errore di Custer a Little Big Horn. La sua promessa ai soldati americani “a Natale tutti a casa” si sta trasformando in una micidiale trappola : “Mai un generale mise così pienamente in luce la trappola in cui insisteva a voler cacciare le sue truppe, né mai informò così tanto il nemico di tenere la trappola pronta perché stava arrivando” (6).
 
Nel giro di qualche settimana la situazione sul campo si capovolge e i marines capiscono che quel Natale lo dovranno invece passare accerchiati sui gelidi campi di battaglia del nord subendo l’iniziativa di un nemico che non fa sconti agli invasori. Il loro morale lo si indovina leggendo i resoconti dal fronte del NYT riassumibili nel gesto di Achille che sconsolatamente guarda al suo tallone. E’ ormai chiaro che i cinocoreani stanno mettendo nei guai la più potente forza militare del pianeta.
 
Il 30 novembre, nel corso di una conferenza stampa il presidente Truman ufficializza le voci di un possibile impiego dell’arma atomica contro la Cina e l’URSS. Il 16 dicembre la Casa Bianca decreta lo stato di emergenza in tutto il territorio americano e richiama alle armi tre milioni e mezzo di soldati americani. In molti fanno notare che l’iniziativa era già stata presa all’inizio di due guerre mondiali.  Francia e Gran Bretagna, fedeli alleati, ingoiano l’amara pillola ma cominciano a domandarsi cosa stia accadendo in Corea. La prima è alle prese con due grosse gatte da pelare in Indocina e Algeria.  La seconda sta facendo i conti con il dissolvimento del proprio impero.  Entrambe cercano di uscire col minor danno possibile dal vespaio coreano. La stessa coalizione dei paesi ONU che sostengono gli Stati Uniti, comincia ad incrinarsi.
 
Capovolte le sorti del conflitto.
 
Appaiono sempre più chiari due elementi nuovi di questa guerra : gli Stati Uniti la stanno perdendo sul campo di battaglia mentre i due principali antagonisti, URSS e Cina non vogliono umiliare militarmente l’aggressore ma bensì ristabilire lo status quo antecedente al conflitto. Nel mese di dicembre le sorti del conflitto si sono capovolte e i marines di MacArthur, accerchiati a migliaia nell’estremo nord, subiscono una grossa disfatta .  Ma i cinocoreani non infieriscono e lasciano aperto un varco che permetta loro di iniziare la ritirata fin sotto il 38° parallelo.  Il primo gennaio 1951, liberato il nord, i cinocoreani rimettono piede a Seul e ostentatamente si fermano. Nei tre mesi successivi le operazioni militari languono in attesa di soluzioni politiche e MacArthur cerca la rivincita sui giornali sparandole grosse.  Si vanta di avere fatto 134.616 prigionieri in due mesi di disastrosa ritirata, più di quanti ne hanno fatto i sovietici nella vittoriosa battaglia di Stalingrado Ma le cifre diH.Baldwin sul NYT sono alquanto diverse: “Noi sapevamo di avere esattamente 616 comunisti cinesi prigionieri. Non molto contro gli 8531 americani prigionieri del nemico”(7).  Cifre, quelle di MacArthur, ancor più ridicole se rapportate al numero dei volontari cinesi presenti in Corea: 75 mila secondo l’Associated Press, 50 mila secondo il NYT.
 
Il 24 marzo i cinocoreani si ritirano sul 38° parallelo con la chiara intenzione di restarci. Il 2 aprile il nuovo ministro degli esteri britannico, Herbert Morrison, dichiara che MacArthur deve essere rimosso e che devono iniziare conversazioni di pace.  L’11 aprile, il presidente Harry Truman, considerato il rischio di lasciare un pericoloso piromane come MacArthur a gestire l’incendio coreano, lo licenzia dal comando delle truppe ONU sostituendolo col generale Ridgway.
 
La guerra avrebbe potuto finire lì con un risultato di parità. Gli Stati Uniti avrebbero salvato l’onore e la faccia, la Corea quel poco che era rimasto in piedi dopo i bombardamenti dei B 29.  E invece durò ancora per quasi tre anni senza peraltro cambiare di un metro i risultati territoriali acquisiti sul campo.  Ma erano gli anni della caccia alle streghe del senatore Mac Carty.
 
Si scatena il terrorismo chimico e batteriologico.
 
Lo spettro della “valanga gialla”, alimentato dalle sconfitte militari, dalla paranoia anticomunista e dall’intenso traffico di bare dei soldati caduti nel cimitero di Arlington in Virginia, indusse il presidente Truman a dare il via libera all’uso di armi chimiche, batteriologiche e nucleari contro la Cina e la Corea, il solo modo che restava alla superpotenza di consumare una feroce vendetta contro il piccolo popolo che l’aveva sfidata.  Ma la Gran Bretagna e altre nazioni “alleate” si opposero apertamente all’uso delle bombe atomiche, temendo che l’Unione Sovietica, i cui bombardieri distavano due ore di volo da Londra, decidesse di rendere pan per focaccia.  Gli Stati Uniti, sempre più soli militarmente, dovettero pertanto limitarsi a sperimentare in prima battuta la nuova tremenda miscela chimica chiamata napalm le cui bombe furono lanciate a migliaia sulla Corea del Nord.
 
Il terrorismo di massa praticato con l’arma aerea si scatena con tutta la sua micidiale potenza distruttiva contro gli esseri umani e quel poco che è rimasto ancora in piedi. Persino i fienili delle case contadine diventano, in mancanza d’altro, bersaglio dei cacciabombardieri USA.
 
Ma gli eroici difensori della civiltà occidentale fecero anche di peggio: alimenti infetti (cereali e altre “ghiottonerie”) furono disseminate su zone densamente popolate con l’intenzione di sterminare i civili affamati. I coreani che consumavano derrate infette morivano dopo avere sputato sangue per due/tre giorni.
 
I segreti di questa sporca guerra sono rimasti a lungo sotto chiave negli archivi top secret del Pentagono e il popolo americano ha sempre ignorato quello che le unità della guerra batteriologica hanno compiuto in Corea fino a che due storici americani dell’Università dell’Indiana, Stephen Endicott e Edward Hagerman, sono riusciti a documentarlo con prove schiaccianti.   Nel loro libro – The Unided States and Biological Warfare – Indiana University Press, 1999, si legge di come il Pentagono, si sia servito dell’esperienza di un criminale di guerra giapponese, il generale Ishii, già responsabile della guerra batteriologica contro i cinesi, in Manciuria nel 1937. Reclutato e riciclato dal Pentagono alla causa del “mondo libero”, per la modesta cifra di 25 mila yen, il generale Ishii e alcuni suoi collaboratori furono trasferiti negli Stati Uniti con il grado di “consiglieri speciali” degli esperti americani del settore (8).  Gli autori citano inoltre le testimonianze dei piloti americani che parteciparono direttamente alla guerra batteriologica (9).
 
Questo immane massacro compiuto con mezzi chimici, convenzionali e batteriologici è durato, con intensità più o meno maggiore, fino al giorno dell’armistizio, firmato a Panmunjon il 27 luglio 1953.  Più di due milioni di morti su una popolazione inferiore ai venti milioni è il prezzo pagato dal popolo nordcoreano.  E col paese ridotto ad un cumulo di macerie.  Quali le ragioni che hanno scatenato una simile ondata di barbarie ? Perché sessanta anni dopo la fine di quella guerra lo scenario coreano presenta ancora analogie e prospettive altrettanto tenebrose e inquietanti ?
 
Sessant’anni di precario armistizio sul 38° parallelo.
 
Occorre innanzitutto ricordare che anche dopo la firma dell’armistizio gli Stati Uniti si sono ben guardati dal concludere una vera pace.  E’ invece continuato uno stato di “non guerra”, ovvero di “guerra strisciante” accompagnata da tantissimi “incidenti”.  Questi sei decenni sono stati, per la superpotenza, un infinito alternarsi di bugie, minacce, provocazioni militari, false promesse, finte aperture, fallimenti negoziali e ricatti ai paesi alleati.
 
La Corea del Nord è così diventata, giorno dopo giorno di violenti attacchi mediatici, il prototipo dello “stato canaglia”.  Non occorre andare molto indietro nel tempo per riscoprire la ossessiva continuità delle ambizioni imperialiste di Washington verso questa piccola porzione di territorio dell’Estremo Oriente, insignificante per dimensioni, ma diventato il crocevia di traffici economici e politici di tre giganti economici, Cina, Russia e Giappone, destinati a diventare nell’immediato futuro, insieme a tutta l’Asia, il centro del mondo contemporaneo.
 
Secondo Gavan Mc Cormack, grande conoscitore della Corea e autore del libro: “Target North Korea: Pushing North Korea to the brink of nuclear castrophe”, Nation Books, New York, 2004, le ragioni che inducono Washington a tenere la pistola puntata alla testa di Pyongyang sono coerenti con le sue ambizioni imperiali: il pericolo nordcoreano, reale o inventato che sia, concorre a giustificare il dominio che gli Stati Uniti esercitano sul Giappone e la Corea del Sud sotto forma di una massiccia presenza militare e nucleare.  Senza questa minaccia, afferma l’autore, “gli strateghi di Washington dovranno trovarsi altre ragioni per perpetuare le loro basi in questi due paesi e per la messa in opera del costosissimo sistema antimissile progettato per questa regione”,costruito a presidio di una postazione strategica avanzata di vitale importanza.  La Corea è infatti una gigantesca portaerei terrestre che consente ai bombardieri e ai missili USA di raggiungere in pochi minuti sia la Cina che la Russia.
 
Sono dunque decenni che Washington aspira a rovesciare, in un modo o in un altro, il regime al potere a Pyongyang ma, paradossalmente, se questo dovesse succedere, sostiene Gavan Mc Cormack, i suoi alleati, Sud Corea e Giappone, non avrebbero più alcun motivo di restare subalterni agli Stati Uniti sul piano strategico. Anzi, un indebolimento dell’egemonia americana in Asia Orientale spingerebbe invece a rafforzare i legami tra i paesi della regione che, grazie al loro dinamismo economico sarebbero in grado di trascinare e integrare, dopo qualche riforma, anche la Corea del Nord.  Che ne sarebbe allora del predominio americano in un area considerata dalla Casa Bianca un crocevia strategico di importanza planetaria ?
 
Certo, gli strateghi americani dispongono di un “nemico” di riserva in grado di rimpiazzare la Corea del Nord, ma le dimensioni di questo “nemico”, la Cina, sconsigliano qualsiasi replica di una politica basata sulle minacce militari come quella seguita contro Pyongyang.
 
Gli Stati Uniti devono comunque continuare ad avere un vero nemico per poter continuare a mantenere la rete di basi militari in Asia orientale e per giustificare la presenza di quasi centomila soldati, di cui 37 mila in sud Corea.  Per mantenere efficiente questo dispositivo militare e per poterlo modernizzare senza sosta, specie quello nucleare, Washington non ha altra scelta che quella di perpetuare il confronto con Pyongyang, qualunque sia stato e sia il presidente in carica alla Casa Bianca: da Harry Truman a Barak Obama, nessuno escluso.(10)
 
Non è dunque senza ragione che il popolo del nord non abbia mai dimenticato i due milioni di morti massacrati dagli americani. I loro fantasmi sono sempre presenti nell’immaginario collettivo. Solo una normalizzazione pacifica dei rapporti nord-sud e l’avvio di un processo di riunificazione potrebbe farli dissolvere. Ma è appunto quello che la superpotenza americana teme di più e cerca in tutti i modi di impedirlo.
 
Rileggendo senza pregiudizi i fatti che hanno impietosamente segnato la lunga storia del conflitto tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti come è possibile credere oggi alla ennesima provocazione del sommergibile fantasma che affonda la corvetta sudcoreana ?  Ma per favore... Possibile che tutti si siano dimenticati di quello che è successo nel Golfo del Tonchino il 6 agosto 1964 e cosa è costato quell’infame “incidente” provocato dalla CIA al popolo del Vietnam?
 

Note:
 
1) Gerard A: Jaeger “Les Rosemberg”, Edition du Felin, 2003
 
2) I.F. Stone “The Hidden History of the Corean War”, Monthly Review Press, New York, 1952.
 
3) Gerard A. Jaeger “Les Rosemberg”
 
4) Ibidem
 
5) I.F: Stone
 
6) Ibidem
 
7) ibidem
 
8) “Il progetto giapponese si basava essenzialmente sull’antrace ed era già stato testato su 1000 soggetti umani, tra cui 150 prigionieri di guerra americani. Nel 1945 i giapponesi avevano uno stock di 400 kg. di antrace. I germi erano stati lanciati sopra città cinesi dentro bombe speciali che si aprivano a un’altitudine programmata disseminando il loro contenuto su una superficie molto estesa. I giapponesi avevano inoltre osservato che gettando pulci infette sui campi di cereali i germi si diffondevano rapidamente veicolati dai roditori. (....)  La tattica americana di guerra batteriologica contro la Corea del Nord è stata assai simila a quella del progetto giapponese “731”. Le bombe USA erano caricate con insetti e prodotti vegetali infettati ed erano trasportate da aerei pilotati da ufficiali superiori che volavano in coda alle formazioni di bombardieri.  Le bombe batteriologiche venivano perciò sganciate dopo quelle “normali”. Dopo ogni attacco le squadre nordcoreane che arrivavano sul posto per curare i feriti e riparare i danni diventavano potenziali diffusori dei batteri.”
 
9) “Almeno 36 piloti americani catturati hanno confessato di avere lanciato bombe batteriologiche su obbiettivi coreani e cinesi. Le loro confessioni menzionano in dettaglio il luogo di fabbricazione delle armi (Terra Alta, Indiana), la struttura di comando della guerra batteriologica (Unita 406 di base in Giappone), i tipi di batteri usati e molti dettagli sulle tattiche dei bombardamenti. Questi ufficiali sono stati rimpatriati nel 1953 e, come era prevedibile, hanno ritrattato le loro confessione dopo essere stati minacciati di deferimento alla corte marziale. Analogamente, scienziati e giornalisti che avevano osato rivelare qualche sporco segreto sono stati ridotti al silenzio sotto minaccia di essere processati per tradimento”.
 
10) Bruce Cuming, esperto americano di politica asiatica dell’Università di Chicago, ha scritto recentemente che nel giugno 1994 l’amministrazione Clinton, ben prima di Bush, si era trovata ad un passo dal lanciare un attacco preventivo contro i reattori nucleari nordcoreani di Yongbyon, a circa 60 km. dalla capitale Pyongyang.  Quattro mesi più tardi , grazie all’intervento moderatore di Jimmy Carter, i nordcoreani furono convinti ad accettare l’accordo “framework” negoziato con l’amministrazione Clinton.



QUELLI CHE CREDONO DI ESSERE DI SINISTRA



Tra il credere e l’essere


Ma credere di essere di sinistra è sufficiente per esserlo? una ricerca  inglese dimostra che la questione è più complessa


NOTIZIE – Questo potrebbe almeno in parte spiegare gli stravaganti comportamenti della sinistra italiana, che talvolta assume posizioni più conservatrici della sua controparte politica (più di qualcuno si ricorderà il regista Nanni Moretti che qualche anno fa nel film Aprile supplicava Massimo D’Alema di dire “qualcosa di sinistra”). Secondo la ricerca di James Rockey del dipartimento di economia dell’Università di Leicester gli individui con un alto tasso di scolarizzazione fanno assunzioni erronee per quanto riguarda il loro orientamento politico. In particolare si considerano più a sinistra di quanto invece dimostrino i loro reali comportamenti e opinioni su questioni specifiche. Il risultato sarebbe che persone dall’atteggiamento piuttosto conservatore finirebbero per votare a sinistra.

Lo studio per ora è stato pubblicato solo online sulle pagine di economia dell’Università di Leicester, quindi è d’obbligo seguire gli sviluppi futuri di questa ricerca e vedere magari se verrà pubblicata in qualche rivista peer-review di rilevanza internazionale. Intanto però ci offre alcuni interessanti spunti che vale la pena di approfondire.

Rockey ha usato i dati della World Values Survey, tenendo conto delle opinioni di ben 136.000 individui, in 32 nazioni per un periodo di 20 anni. Lo scienziato ha confrontato i giudizi sulla posizione ideologica (in una scala da 1 a 10) con le opinioni riguardo a questioni specifiche (per esempio su come il denaro pubblico dovrebbe esser utilizzato).

“Gli individui con alta scolarità tendono a considerarsi di sinistra ma in realtà credono in cose che se comparate con il resto delle popolazione risultano essere piuttosto di destra,” ha commentato Rockey. In compenso altri risultati confermano – e su questo non sembra esserci veramente dubbio –  che le persone più ricche tendono a essere di destra (ed esserne coscienti).

La spiegazione di Rockey per questo fenomeno è dettata dal buon senso: da giovani le persone molto istruite sarebbero dei sostenitori genuini delle idee di sinistra, ma man mano che crescono, pur non rassegnandosi, tenderebbero ad assumere comportamenti conservatori. In effetti, altri studi, in area più strettamente cognitiva hanno dimostrato che con l’avanzare dell’età si tende a diventare ideologicamente meno tolleranti. Solo che probabilmente non ci si arrende all’evidenza.

“La conclusione generale del lavoro è che le persone decidono, o non sono capaci, di non valutare correttamente la propria posizione ideologica. Questa è una prova ulteriore non solo che gli elettori sono lungi da essere ben informati ma che non sanno nemmeno posizionarsi correttamente nello spettro politico.”

Come dargli torto?


15 luglio 2010
Federica Sgorbissa





This videotape was secretly filmed by the 12th detachment of the Yugoslav Army’s counterintelligence service (KOS) in 1990 before the war in Croatia started. It shows Tudjman’s defense Minister Martin Spegelj and his Interior Minister Josip Boljkovac discussing preparations for war with the Yugoslav Peoples Army (JNA). They discuss the importation of weapons from Hungary, how they will murder JNA soldiers and their families, how they will slaughter the Serbs, and how they are receiving support from the United States. This video proves beyond any doubt that the Serbian war objective in Croatia was self-defense, and that the Croatian objective was ethnic cleansing and the creation of a Greater-Croatia. For those who don't speak Serbo-Croat here is a link to an English transcript of the video produced by the Hague Tribunal, and here is the link to the original video in Serbo-Croathttp://video.google.com/videoplay?docid=7456935228727451929&hl=en#



(english / italiano / deutsch)

Srebrenicas Gefechtstote werden geleugnet

1) »Gefechtstote werden geleugnet«. Ein Gespräch mit Alexander Dorin

2) La guerra dei mausolei (Tommaso Di Francesco)

3) The Genocide Myth - The Uses and Abuses of "Srebrenica" (Srdja Trifkovic)


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http://www.jungewelt.de/2010/07-10/051.php

Tageszeitung junge Welt
10.07.2010 / Schwerpunkt / Seite 3

»Gefechtstote werden geleugnet«

Vor 15 Jahren marschierte die bosnisch-serbische Armee in Srebrenica ein. Daß sie einen Völkermord an bis zu 8000 Muslimen zu verantworten hat, ist zweifelhaft. Ein Gespräch mit Alexander Dorin

Cathrin Schütz

Alexander Dorin ist als Sohn bosnischer Eltern, die Anhänger Tito-Jugoslawiens waren, aufgewachsen. Ende 2009 erschien von ihm das Buch »Srebrenica – Die Geschichte eines salonfähigen Rassismus« (Verlag Kai Homilius). Im Herbst veröffentlicht der Ahriman-Verlag seine neue Dokumentation »Srebrenica – wie es wirklich war« über Verbrechen der bosnisch-muslimischen Armee an der serbischen Bevölkerung im Raum Srebrenica


Der Völkermord bosnisch-serbischer Einheiten an bis zu 8000 bosnisch-muslimischen Männern und Jungen aus Srebrenica vor 15 Jahren gilt als grausamer Höhepunkt des Krieges im zerfallenden Jugoslawien. Widersprechen Sie dem?

Ich habe das Thema jahrelang verfolgt. Irgendwann war ich sicher, daß die Behauptungen so falsch sein mußten wie es die übrige Jugoslawien-Berichterstattung war. Ich begann, vor Ort zu recherchieren. Von vielen Seiten wurden mir Dokumente zugespielt, die ein anderes Bild aufzeigen.

Die bosnischen Serben unter General Ratko Mladic haben im Juli 1995 in Srebrenica also nicht tagelang gemordet?

Laut muslimischen Zeugen hat die bosnisch-muslimische Armee auf der Flucht von Srebrenica nach Tuzla in Gefechten mit der serbischen Armee und durch Minen zwischen 2000 und 3000 Kämpfer verloren. 954 muslimische Soldaten, die lange vor dem Fall Srebrenicas umgekommen waren, stehen auf der offiziellen Srebrenica-Vermißtenliste. Fast 3000 muslimische Männer, die seit Juli 1995 als vermißt gelten, stimmten 1996 bei von der OSZE überwachten Wahlen ab – viele übrigens als Flüchtlinge in europäischen Staaten. 500 muslimische Soldaten, die vor 1995 desertiert waren, finden sich ebenso auf der Vermißtenliste. Mittlerweile hat das muslimische Research and Documentation Center in Sarajevo eingeräumt, daß weitere 500 Lebende gefunden wurden, die zu den Vermißten zählen.

Laut Ankläger des Den Haager Jugoslawien-Tribunals ICTY sollten geheime Umbettungen der Leichen das Verbrechen verschleiern. Wie das, wenn es keine Exekutionsopfer gibt?

Die Ermittler des sogenannten Tribunals untersagten serbischen Pathologen, den Ausgrabungen beizuwohnen. Das ICTY hat außerdem 1000 angebliche Beweise des Srebrenica-Massakers trotz laufender Prozesse vernichtet. Verschleiert das Tribunal eher und präsentiert Tote aus anderen Regionen Bosniens als Srebrenica-Opfer, weil die nötigen Leichen fehlen? Die Serben konnten jedenfalls im von internationalen Truppen besetzten Bosnien nicht unbeobachtet Tausende Tote umbetten.

Srebrenica war UN-Schutzzone. Die Serben marschierten im Juli 1995 ein. Tausende muslimische Einwohner suchten daraufhin auf dem UN-Stützpunkt in Potocari Schutz. Warum wurden dort Männer von Frauen, Kindern und Alten getrennt und nur letztere von bosnisch-serbischen Soldaten in muslimisch kontrolliertes Gebiet gebracht?

In dieser »Schutzzone« verschanzten sich Tausende muslimische Kämpfer, die in der Umgebung zwischen 1992 und 1995 Massenmorde an der serbischen Bevölkerung verübten. Sie verließen mit bewaffneten Zivilisten Srebrenica noch vor dem Einmarsch der Serben am 11. Juli 1995. Ihr Befehlshaber Naser Oric war zuvor mit seinen Offizieren vom französischen Militär ausgeflogen worden. Orics Abzug sorgte für Chaos unter seinen Soldaten, es kam zu internen Gefechten. Nach Potocari flüchteten die zurückgelassenen Zivilisten, Frauen, alte Männer, Kinder. Die Serben brachten einige hundert dieser Männer zur Befragung nach Bratunac. Am 17. Juli 1995 bestätigten Vertreter der muslimischen Zivilbehörden und die UNO, daß die muslimischen Zivilisten Srebrenica auf eigenen Wunsch verlassen und in muslimisch kontrolliertes Gebiet evakuiert werden wollten. Die Serben hätten dies korrekt ausgeführt.

Berichten zufolge sind Tausende Männer aus der flüchtenden Kolonne exekutiert worden.
Die muslimische und serbische Armee stießen unterwegs an vielen Orten aufeinander. Muslimische Zeugen bestätigen heftige Gefechte. Die 2000 Gefechtstoten präsentiert man als Massakeropfer.

Wenn es sich bei den gefundenen Leichen um muslimische Gefechtstote handelt, muß es doch auch serbische geben. Oder hat Mladics Truppe ohne Verluste gekämpft?
Wenn? Es handelt sich um muslimische Gefechtstote! Ich beziehe mich auf muslimische Quellen. Laut dem muslimischen Kommandanten Nesib Buric hat seine Armee während des Durchbruchs nach Tuzla mindestens 2000 Männer im Kampf verloren. Über 30 weitere muslimische Zeugen sprechen von mehr als 2000 Gefechtstoten, einige von 3000. Die Serben hatten weniger Verluste. Sie waren an die Fluchtroute der muslimischen Armee gelangt und konnte sich geschickt positionieren. Sobald der Gegner auftauchte, wurde er unter Beschuß genommen. Fluchtwege wurden oft abgeschnitten. An einigen Orten verloren sie die Gefechte, weil ihnen die muslimische Armee zahlenmäßig überlegen war. Die serbischen Verluste liegen je nach Quelle zwischen 300 und 500 Mann.

Was ist mit ihnen passiert?
Da die Gefechte auf serbisch kontrolliertem Gebiet stattfanden, konnten die Serben ihre Toten in deren jeweilige Dörfer bringen. Viele liegen in Karakaj, Bratunac und Vlasenica. Die flüchtende Moslemarmee konnte ihre Toten oft nicht mitnehmen, aber laut muslimischen Aussagen viele selbst begraben, vermutlich dort, wo sie die Gefechte gewonnen hat. Das Begraben der feindlichen Toten war aber auch Aufgabe der serbischen Armee.

Für die Ankläger des bosnisch-serbischen Expräsidenten Radovan Karadzic vor dem ICTY ist die Übernahme von Srebrenica Teil des Plans, serbisch kontrollierte Gebiete Bosniens Muslim- und Kroaten-frei zu machen.
Die Serben sind in Srebrenica eingefallen, weil die Stadt auf dem Präsentierteller vor ihnen lag! Die muslimische Armee war abgezogen, obwohl sie den serbischen Streitkräften in der Region zahlenmäßig hoch überlegen war. Die Serben wurden wohl in eine Falle gelockt. Hakija Meholic, muslimischer Expolizeichef von Srebrenica, bestätigt, daß US-Präsident Bill Clinton dem Moslempräsidenten Alija Izetbegovic bereits 1993 als Grund für das Eingreifen der NATO die Variante eines Massakers in Srebrenicas vorschlug.

Die Karadzic-Anklage nennt für das Srebrenica-Massaker 13 Tatorte. Im Warenlager in Kravica etwa sollen 1000 bosnisch-muslimische Männer getötet worden sein.
Im Lager gab es einen Aufstand muslimischer Gefangener. Sie ermordeten einen serbischen Wächter. Ihr Fluchtversuch wurde vereitelt, aber 20 Gefangene kamen um. Wie muslimische Zeugen berichten, stieß die muslimische Armee bei Kravica auf serbische Einheiten, es gab Gefechte. Auch über innermuslimische Konflikte bei Kravica wurde berichtet. Die dort gefundenen Toten kann man dem zuordnen. Auch an den anderen Orten sind die Armeen aufeinandergestoßen. Nachträglich erklärt man die Gefechtstoten zu Massakeropfern. Es ist doch bezeichnend, daß bis heute die Gefechts toten und Überlebenden geleugnet werden. Mit ihnen steht und fällt die Massakerstory.

Laut ICTY wurden nach dem Fall von Srebrenica über 7500 Personen als vermißt gemeldet. Mehr als 5000 davon seien aus Massengräbern exhumiert und mittels DNA-Test identifiziert worden.
Das »International Committee for Missing Persons« (ICMP) mit Sitz im muslimisch kontrollierten Tuzla hat diese Behauptung aufgestellt. Das ICTY befaßte sich damit nur in einer geschlossenen Sitzung. Serbische Institutionen erhalten die Resultate nur, wenn die Familien aller angeblich identifizierten Opfer einverstanden sind, also nie. Auch Karadzics Verteidigung werden die Ergebnisse vorenthalten. Keiner hat sich also von der Richtigkeit der Behauptung des ICMP überzeugt, das übrigens vom US-Außenministerium bestimmt wird. Ex-AOL-Chef James V. Kimsey ist Kopf des ICMP. Außerdem, die DNA-Analyse beweist, daß der Tote tot ist. Als Beweis für ein Massaker kann sie nicht gelten, da sie über die genaue Todesart und den Todeszeitpunkt nichts aussagen kann! Und wie unseriös die Vermißtenliste ist, habe ich ja ausreichend dargestellt.

Das ICTY hat zwei Serben des Völkermords in Srebrenica für schuldig befunden und General Radislav Krstic wegen Beihilfe zum Genozid verurteilt. Der Internationale Gerichtshof, IGH, hat das Massaker als Völkermord eingestuft. Alles Irrtümer?
Der Krstic-Prozeß war eine auf Betrug und Fälschung gebaute Farce. Germinal Civikovs Buch zum Srebrenica-Kronzeugen Drazen Erdemovic zeigt, wie das ICTY manipuliert. Statt Fakten benutzt die Anklage oft gefälschte Zeugenaussagen sowie erpreßte Falschaussagen diverser angeklagter Serben. Und der IGH hat die Urteile des ICTY ungeprüft akzeptiert und lediglich rechtliche Konsequenzen formuliert.


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Il manifesto 13.7.2010 p. 3

La guerra dei mausolei

Srebrenica 1995, un'occasione persa di riconciliazione la celebrazione del 15° anniversario dell'eccidio
di Tommaso Di Francesco

Domenica scorsa è stato il 15° anniversario della strage di Srebrenica, quando l'11 luglio del 1995 le milizie serbo- bosniache guidate dal generale Ratko Mladic uccisero migliaia di musulmani di Bosnia. Poteva essere una svolta, non solo per l'acquisizione di settecento corpi estratti da nuove fosse comuni dolorosamente aggiunti ai 3.700 nomi del mausoleo musulmano di Potocari; e nemmeno per la presenza di autorità internazionali. Poteva essere, 15 anni dopo, un giorno di riconciliazione visto che la guerra finì nel novembre 1995 con gli accordi di Dayton. Un'occasione per riflettere sull'ignominia di quel conflitto, sulle molte responsabilità , locali e internazionali, di quelle stragi. Poteva essere un'occasione «sudafricana», non parliamo dei mondiali di calcio, ma della Commissione di verità e giustizia che dopo la vittoria dell'Anc impose indagini e processi sia per i vinti (i razzisti bianchi) che per i vincitori (i neri finalmente liberi). Ma purtroppo, nella Bosnia in miseria dove tutti hanno perso la guerra tranne le mafie, si è trattato di una commemorazione balcanica, inscritta in una strategia celebrativa. Mirata in particolare a rimuovere la legittimità della Repubblica serba di Bosnia - non a caso assente dalle celebrazioni come il presidente serbo della presidenza tripartita -, una delle due entità con la Federazione croato musulmana nate dalla pace di Dayton. Da tempo parte della comunità internazionale, Ue e Usa, insistono a unificare forzatamente le due Bosnie. Del resto, dicono quegli osservatori impegnati strenuamente a sostenere le guerre umanitarie (che fanno 3.500 vittime civili di serie C, come quella dei raid Nato del 1999): se la celebrazione di Srebrenica indica che i criminali di guerra sono solo e soltanto i serbi, perché confermare la legittimità di quella Repubblica fondata sul sangue? 
Era questo il tono della presenza musulmana, della manifestazione dei «marciatori», questo il senso dei fischi assordanti lanciati contro la presenza del presidente serbo Boris Tadic, pure fautore a marzo di un risoluzione di condanna del parlamento serbo per la strage di Srebrenica, che ha lanciato un inascoltato appello alla «riconciliazione di quanti componevano un solo paese». Come la presenza del premier turco Erdogan - umanitario fuori casa - che, inviso all'Europa, ora s'allarga smemorato nei Balcani.
Ma a confermare che, dopo 15 anni, nulla deve cambiare nel giudizio sulle responsabilità nei Balcani, è arrivato il commento di Adriano Sofri su la Repubblica. Una summa di banalizzazioni. Per Sofri il massacro di Srebrenica è come l'Olocausto, Milosevic come Hitler, i «volenterosi carnefici e la gente comune» sono i serbi, come i vicini di casa del nazismo; ecco il serbismo-nazionalso cialismo, e la comunità internazionale come con Auschwitz «quando diceva di non sapere». Un delirio revisionista- razzista, per un popolo come i serbi che ha patito una politica di sterminio da parte dei nazisti (senza dimenticare il seguito del nazismo invece tra i musulmani di Bosnia). A meno che non si voglia far ricadere le colpe dei figli sui padri, per cui i giovani serbi sarebbero tanti piccoli ratkomladic - come i tonybler che nascono «riconoscenti» in Kosovo -, e la Serbia di Tadic, Jeremic e anche Kostunica inesorabilmente eguale a quella di Milosevic. Eppure perfino la Corte di giustizia dell'Aja nel 2007 ha negato la responsabilità nella strage dello stesso Milosevic. 
Di questo gioco al «massacro» è chiaro solo che è stata per l'ennesima volta persa l'occasione di una giustizia condivisa - parola spesso ambigua, ma stavolta giusta, perché ricerca le colpe di tutti e «segna col nome tutte le vittime», come fa Mirsad Tokaca presidente del Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo. Il fatto è che non può essere confuso col negazionismo l'argomento che la strage di Srebrenica non è l'Olocausto: sarebbe ancora una banalizzazione di una tragedia assoluta, dello sterminio pianificato di un'intero popolo, di un'intera razza. «Ma non è l'Olocausto» ha scritto David Grossman per respingere una tesi simile sulle responsabilità dei serbi verso gli albanesi del Kosovo, perché «le catastrofi non possono essere confrontate» e «ogni confronto è ingiusto verso entrambe le tragedie». E non è solo per il numero - 7 o 8mila musulmani uccisi a confronto dei sei milioni di ebrei e dei due milioni di zingari e rom - che le due tragedie sono imparagonabili. È che, sempre citando le parole di Grossman, la logica delle uccisioni di Srebrenica (dove, è crudele rilevarlo ma è vero, donne, bambini e anziani vennero salvati), non è quella dello sterminio di una razza intera. Oltre a Srebrenica caddero altre città, come Zepa, in eguale condizione di enclave protetta dall'Onu e in realtà avamposto armato di milizie musulmano bosniache, e non accadde nessun eccidio. 
Perché, dunque, si consumò quel massacro? Perché da Srebrenica erano partite nei mesi precedenti offensive contro i villaggi serbi della valle della Drina, tra Bratunac e Srebrenica, con stragi efferate di quattromila serbi, 1300 dei quali civili, donne, bambini e vecchi. Non è una spiegazione- giustificazione, è la storia perversa di una delle troppe vendette incrociate delle guerre balcaniche, verificate sul campo nel 1995 da chi non si accontentava della narrazione di Sarajevo, e ora raccontate da fonti anche musulmane. Come dimenticare poi che Srebrenica venne improvvisamente abbandonata al suo destino almeno un mese prima dalla leadership di Sarajevo di Alja Izetbegovic e addirittura dal suo comandante, Naser Oric. Che, se Ratko Mladic va al più presto consegnato all'Aja perché criminale di guerra, Naser Oric responsabile di stragi lungo la Drina e che riceveva l'inviato del Washington Post mostrando filmati dove i «suoi» decapitavano serbi, che cos'è e in quale carcere dovrebbe finire? 
Non è l'Olocausto perché, in Bosnia Erzegovina, dove sono 400 i cimiteri di guerra, non basta la bandiera verde islamica a coprire le bare di tutte le altre vittime, serbe e croate, che qualcuno deve pur aver ucciso. Perché dunque non si solleva anche il velo sui crimini commessi contro i serbi di Bosnia, non lasciando così che questo pericoloso vittimismo si sostanzi sempre di più, mentre già erigono, a Kravica, il loro mausoleo? Perché le stragi contro i serbi sono state cancellate da un nuovo occidentale negazionismo - questo sì - desideroso di solidarietà verso i musulmani a patto che non siano palestinesi? È quello che chiedono i serbi di Bosnia guidati dal democratico Milorad Dodik - nemico giurato di Karadzic e Mladic - non certo gli ultranazionalisti dell'Sds che proprio l'11 luglio hanno avuto la vergognosa idea di concedere a Karadzic una medaglia d'onore. E tornano forti ancora tre domande: che fine hanno fatto i quattromila serbi di Sarajevo scomparsi nell'assedio della città e finiti in gran parte nelle gole di Kazanj? Quale la sorte dei prigionieri serbi rinchiusi nelle carceri-silos di Tarcin e Celebici vicino Sarajevo? Chi verrà mai punito per i massacri commessi dai mujaheddin, quei cinquemila combattenti della Jihad islamica arrivati in Bosnia dall'Afghanistan e dai paesi islamici - c'era anche Osama bin Laden - anche grazie ad un accordo tra Clinton, Iran e Arabia Saudita, come dimostrò l'indagine «Bosniagate» del Senato Usa?
Ha dunque ragione Andrea Zanzotto, che è anche il poeta del disvelamento dei mausolei, a scrivere: «Siamo ridotti a così maligne ore/ da chiedere implorare/ il ritorno della morte/ come male minore»?


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The Genocide Myth - The Uses and Abuses of "Srebrenica"


By Srdja Trifkovic <http://www.alternativeright.com/authors/srdja-trifkovic/> 

On July 11, the constituent nations of Bosnia-Herzegovina -- no longer warring, but far from reconciled -- will mark the 15th anniversary of “Srebrenica.” The name of the eastern Bosnian town will evoke different responses from different communities, however. The difference goes beyond semantics. The complexities of the issue remain reduced to a simple morality play devoid of nuance and context.

That is exactly how the sponsors of the “Srebrenica Remembrance Day” <http://www.bosniak.org/parliament-of-canadas-bill-c%E2%80%93533-in-honor-of-srebrenica-genocide-remembrance> -- currently before the Canadian House of Commons -- want it to be:


Whereas the Srebrenica Massacre, also known as the Srebrenica Genocide, was the killing in July of 1995 of an estimated 8,000 Bosniak men and boys in the region of Srebrenica in Bosnia and Herzegovina by Bosnian Serb forces;

Whereas the Srebrenica Massacre is the largest mass murder in Europe since World War II and the largest massacre carried out by Serb forces during the Bosnian war;

Whereas the Appeals Chamber of the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, located in The Hague, unanimously decided in the case ofProsecutor v. Krstić that the Srebrenica Massacre was genocide…


The trouble is that the event known to the bill’s sponsors as the “Srebernica genocide” was no such thing. The contention that as many as 8,000 Muslims were killed has no basis in available evidence; it is not an “estimate” but a political construct. The magnitude of casualties at Srebrenica and the context of events have been routinely misrepresented in official reports by the pro-Muslim governments, quasi-non-governmental institutions, and the media. 

As for The Hague Tribunal, an Orwellian institution with which I am well acquainted <http://www.chroniclesmagazine.org/index.php/2008/09/23/witnessing-at-the-hague> , its “unanimous decisions” are as drearily predictable as those in Moscow in 1936. It is not known to the public, however, that those “decisions” are now disputed by a host of senior Western military and civilian officials, NATO intelligence officers and independent intelligence analysts who dispute the official portrayal of the capture of Srebrenica as a unique atrocity in the Bosnian conflict.


The Facts -- During the Bosnian war between May 1992 and July 1995, several thousand Muslim men lost their lives in Srebrenica and its surroundings. Most of them died in July of 1995 when the enclave fell unexpectedly to the Bosnian Serb Army and the Muslim garrison attempted a breakthrough. Some escaped to the Muslim-held town of Tuzla, 38 miles to the north. Many were killed while fighting their way through; and many others were taken prisoner and executed by the Bosnian Serb army.

The exact numbers remain unknown, disputed, and misrepresented. With 8,000 executed and thousands killed in the fighting, there should have been huge gravesites and satellite evidence of both executions, burials, and any body removals. The UN searches in the Srebrenica vicinity, breathlessly frantic at times, produced two thousand bodies. They included those of soldiers killed in action -- both Muslim and Serb -- both before and during July 1995.

The Numbers Game -- In the documents of the Yugoslav War Crimes Tribunal at The Hague (ICTY) there is no conclusive breakdown of casualties. That a war crime did take place, that hundreds of Muslim prisoners were killed, is undeniable. The number of its victims remains forensically and demographically unverified, however. According to the former BBC reporter Jonathan Rooper, <http://www.srebrenica-report.com/numbers.htm> “from the outset the numbers were used and abused” for political purposes:


Over the years it has been held to be highly significant that original ballpark estimates for the number who might have been massacred at Srebrenica corresponded closely to the ‘missing’ list of 7,300 compiled by the International Committee of the Red Cross (ICRC).  But the early estimates were based on nothing more than the simple combination of an estimated 3,000 men last seen at the UN base at Potocari and an estimated 5,000 people reported ‘to have left the enclave before it fell.’  [ ... ] Perhaps the most startling aspect of the 7-8,000 figure is that it has always been represented as synonymous with the number of people executed.  This was never a possibility: numerous contemporary accounts noted that UN and other independent observers had witnessed fierce fighting with significant casualties on both sides. It was also known that others had fled to Muslim-held territory around Tuzla and Zepa, that some had made their way westwards and northwards, and that some had fled into Serbia.  It is therefore certain that nowhere near all the missing could have been executed.


The key problem of all is that the arithmetic does not add up. The International Committee of the Red Cross reported at the time that some 3,000 Bosnian Army soldiers managed to reach Muslim lines near Tuzla and were redeployed by the Bosnian Army “without their families being informed.” The number of military survivors was also confirmed by Muslim General Enver Hadzihasanovic in his testimony at The Hague. 

The last census results for Srebrenica, from 1991, counted 37,211 inhabitants in Srebrenica and the surrounding villages, of which 27,118 were Muslims (72.8 percent) and 9,381 Serbs (25.2 percent). Displaced persons from Srebrenica registered with the World Health Organization and Bosnian government in early August 1995 totaled 35,632. With 3,000 Muslim men who reached Tuzla “without their families being informed” we come to the figure of over 38,000 survivors. The Hague Tribunal’s own estimates of the total population of the Srebrenica enclave before July 1995 -- notably that made by Judge Patricia Wald -- give 40,000 as the maximum figure. The numbers don't add up.

Furthermore, despite spending five days interviewing over 20,000 Srebrenica survivors at Tuzla a week after the fall of the enclave, the UN High Commissioner for Human Rights Henry Wieland declared <http://www.freerepublic.com/focus/f-news/1826404/posts> , “we have not found anyone who saw with their own eyes an atrocity taking place.” A decade later Dr Dick Schoonoord of the Nederlands Instituut voor Oorlogsdoumentatie (NIOD) confirmed<http://www.srebrenica-report.com/numbers.htm> Wieland’s verdict: “It has been impossible during our investigations in Bosnia to find any people who witnessed the mass murder or would talk about the fate of the missing men.”

A UN-Protected Jihadist Camp – It is often pointed out that Srebrenica was an UN “protected zone,” but it is seldom noted that the enclave was simultaneously an armed camp used for attacks against Serb villages in the surrounding areas. Muslim General Sefer Halilovic confirmed in his testimony at the Hague Tribunal that there were at least 5,500 Bosnian Army soldiers in Srebrenica after it had obtained the “safe haven” status, and that he had personally arranged numerous deliveries of sophisticated weapons by helicopter. 

French General Philippe Morillon, the UNPROFOR commander who first called international attention to the Srebrenica enclave, is adamant that<http://www.srebrenica-project.com/index.php?option=com_content&amp;view=article&amp;id=1:2009-01-07-18-16-23&amp;catid=3:2009-01-06-17-56-50&amp;Itemid=4> the crimes committed by those Muslim soldiers made the Serbs’ desire for revenge inevitable. He testified at The Hague Tribunal on February 12, 2004, that the Muslim commander in Srebrenica, Naser Oric, “engaged in attacks during Orthodox holidays and destroyed villages, massacring all the inhabitants. This created a degree of hatred that was quite extraordinary in the region.” 

Asked by the ICTY prosecutor how Oric treated his Serb prisoners, General Morillon, who knew him well, replied that “Naser Oric was a warlord who reigned by terror in his area and over the population itself”: “According to my recollection, he didn’t even look for an excuse. It was simply a statement: One can’t be bothered with prisoners.”

Professor Cees Wiebes, who wrote the intelligence section of the Dutch Government report on Srebrenica, notes that despite signing <http://www.spiked-online.com/articles/0000000CA374.htm> the demilitarization agreement, Bosnian Muslim forces in Srebrenica were heavily armed and engaged in provocations (“sabotage operations”) against Serbian forces. Professor Wiebes, a senior lecturer in the Department of International Relations at Amsterdam University, caused a storm with his book Intelligence and the War in Bosnia 1992-1995, detailing the role of the Clinton administration in allowing Iran to arm the Bosnian Muslims. Wiebes catalogues how, from 1992 to January 1996, there was an influx of Iranian weapons and advisers into Bosnia. By facilitating the illegal transfer of weapons to Bosnian Muslim forces and turning a blind eye toward the entry of foreign Mujahadeen fighters, the US turned supposed safe zones for civilians into staging areas for conflict and a tripwire for NATO intervention.  Dr Wiebes notes that the U.S. Defense Intelligence Agency facilitated the transfer of illegal arms from Muslim countries to the Tuzla airport using Hercules C-130 transport planes. It arranged for gaps in air surveillance by AWACs, which were supposed to guard against such illegal arms traffic.  Along with these weapons came Mujahadeen fighters from both Iranian training camps and al-Qaeda, including two of the hijackers involved in the attacks on the World Trade Center and Khaled Sheik Mohammed who helped plan the attack.

Cui bono? -- On 11 July, 1995, the Muslim garrison was ordered to evacuate the town which the Serbs entered unopposed. Local Deputy Director of UN Monitors, Carlos Martins Branco, wrote in 2004 (“Was Srebrenica a Hoax?” <http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&amp;aid=731> ) that Muslim forces did not even try to take advantage of their heavy artillery because “military resistance would jeopardize the image of ‘victim,’ which had been so carefully constructed, and which the Muslims considered vital to maintain.” 

Two prominent Muslim allies of the late Bosnian President Alija Izetbegovic, his Srebrenica party chairman Ibran Mustafic and police commander Hakija Meholjic, have subsequently accused Izetbegovic of deliberately sacrificing the enclave in order to trigger NATO intervention. Meholjic is explicit: in his presence, Izetbegovic quoted Bill Clinton <http://www.ex-yupress.com/dani/dani2.html> as saying that 5,000 dead Muslims would be sufficient to provide the political basis for an American-led intervention on the side of the Muslims, which both of them wanted.

In their testimony before The Hague Tribunal, Bosnian Muslim Generals Halilovic and Hadzihasanovic confirmed that 18 top officers of the Srebrenica garrison were abruptly removed in May 1995. This was done even as the high command was ordering sabotage operations against Bosnian Serbs.  One of these was a militarily meaningless attack on a strategically unimportant nearby Serb village of Visnica, which triggered off the Serb counter-attack which captured the undefended town. Ibran Mustafic, the former head of the Muslim SDA party in Srebrenica, is adamant that the scenario for the sacrifice of Srebrenica was carefully prepared:


Unfortunately, the Bosnian presidency and the Army command were involved in this business … Had I received orders to attack the Serb army from the demilitarized zone, I would have rejected to carry out that order. I would have asked the person who had issued that order to bring his family to Srebrenica, so that I can give him a gun let him stage attacks from the demilitarized zone. I knew that such shameful, calculated moves were leading my people to catastrophe. The order came from Sarajevo.


British military analyst Tim Ripley, who has written for Jane’s, agrees <http://www.srebrenica-report.com/conclusions.htm> with the assessment that Srebrenica was deliberately sacrificed by the Muslim political leaders. He noted that Dutch UN soldiers “saw Bosnian troops escaping from Srebrenica past their observation points, carrying brand new anti-tank weapons [which] made many UN officers and international journalists suspicious."

The G-Word -- The term “genocide” is even more contentious than the exact circumstances of Srebrenica’s fall. Local chief of UN Monitors, Carlos Martins Branco, noted that if there had been a premeditated plan of genocide,


instead of attacking in only one direction, from the south to the north -- which left the hypothesis to escape to the north and west, the Serbs would have established a siege in order to ensure that no one escaped. The UN observation posts to the north of the enclave were never disturbed and remained in activity after the end of the military operations. There are obviously mass graves in the outskirts of Srebrenica as in the rest of ex-Yugoslavia where combat has occurred, but there are no grounds for the campaign which was mounted, nor the numbers advanced by CNN. The mass graves are filled by a limited number of corpses from both sides, the consequence of heated battle and combat and not the result of a premeditated plan of genocide, as occurred against the Serbian populations in Krajina, in the Summer of 1995, when the Croatian army implemented the mass murder of all Serbians found there.


The fact that The Hague Tribunal’s presiding judge, Theodor Meron, called the massacre in Srebrenica “genocide” does not make it so. What plan for genocide includes offering safe passage to women and children? And if this was all part of a Serb plot to eliminate Muslims, what about hundreds of thousands of Muslims living peacefully in Serbia itself, including thousands of refugees who fled there from Bosnia? Or the Muslims in the neighboring enclave of Žepa, who were unharmed when the Serbs captured that town a few days after capturing Srebrenica? To get around these common sense obstacles, the ICTY prosecution came up with a sociologist who provided an “expert” opinion: the Srebrenica Muslims lived in a patriarchal society, therefore killing the men was enough to ensure that there would be no more Muslims in Srebrenica. Such psychobabble turns the term “genocide” into a gruesome joke.

Yet it was on the basis of this definition that in August 2001, the Tribunal found Bosnian Serb General Radislav Krstic guilty of “complicity in genocide.” Even if the unproven figure of “8,000” is assumed, it affected less than one-half of one percent of Bosnia’s Muslim population in a locality covering one percent of its territory. On such form, the term “genocide” loses all meaning and becomes a propaganda tool rather than a legal and historical concept. On that form, America’s NATO ally Turkey <http://www.alternativeright.com/main/the-magazine/young-turks/> -- a major regional player in today’s Balkans -- certainly committed genocide in northern Cyprus in 1974. On that form, no military conflict ever can be genocide-free.

Because of the manner in which international criminal law is currently formulated, the threshold of proof required to secure a conviction for genocide is actually lower than it is for crimes against humanity. To secure a conviction for crimes against humanity the ICTY prosecution must prove that the acts were “widespread or systematic.” No such condition applies for genocide. Moreover, as British analyst John Laughland points out, crimes against humanity can be committed only against civilians, whereas genocide -- as redefined in the case of Srebrenica -- can include the killing of military personnel as well. In other words, spontaneous or disparate acts involving the killing of military personnel can be classified as “genocide.” This creates ample room for propagandistic abuse of the term.

Srebrenica as a Postmodernist Totem -- Laughland contends <http://www.balkanstudies.org/articles/srebrenica-genocide-totem-new-world-order> that the myth of the “Srebrenica Genocide” is essential to a program of international interventionism, based on weak legal reasoning and disregard for due process, of which the Serbs happen to be the guinea-pigs. In his view, Srebrenica has been raised to the status it now enjoys because its fall represented a defeat not only for the Bosnian Muslims but also for the “international community” and its policy of global interventionism:


Srebrenica was important -- at least for the supporters of interventionism -- because the UN was there, not just because it was a Muslim enclave. The United Nations as an institution, it must be remembered, had embarked in the 1990s on an aggressive policy of military, political and judicial interventionism in both Iraq and Yugoslavia. It continued to apply the highly intrusive sanctions regime against Iraq throughout the decade and into the 21st century, and of course was happy to become the administrator of Kosovo after 1999. Its own credibility, and that of the states which dictated its policies, was destroyed when the enclave fell.


The activists of judicial and military supra-nationalism, Laughland points out, were therefore determined to make the genocide charge stick somewhere. “Genocide” offers them two key legal advantages in pursuit of the goal of creating a new international system no longer based on state sovereignty. The first is the low threshold of proof mentioned above. The second legal advantage of genocide -- from the point of view of the project of creating a system of supranational coercive criminal law -- is that genocide, unlike crimes against humanity, is the subject of a binding international treaty, the 1948 Genocide Convention.


The importance of the existence of a treaty, as opposed to the existence of a norm in mere “customary international law” -- i.e. whatever judges or even academics say they think the law is -- was illustrated with the landmark ruling in the British House of Lords against General Pinochet, issued on 24 March, 1999, (the day the bombs started raining down on Yugoslavia). Activists for universal jurisdiction ratione materiae were very excited by this ruling because it seemed to confirm that even heads of state could be put on trial when certain kinds of crimes were alleged against them. ... Srebrenica, then, is an existential issue, not as much for Republika Srpska as for those activists who seek to consolidate once and for all that outcome which the former ICTY Prosecutor, Louise Arbour, said she had achieved in 1999: ‘We have passed from an era of cooperation between states to an era in which states can be constrained.’


Dr. Diana Johnstone, an American expert on the Balkans, has summed up the Arbour mindset neatly in a seminal “Counterpunch” article<http://www.counterpunch.org/johnstone10122005.html> :


The ‘Srebrenica massacre’ is part of a dominant culture discourse that goes like this: We people in the advanced democracies have reached a new moral plateau, from which we are both able and have a duty both to judge others and to impose our ‘values’ when necessary. The others, on a lower moral plateau, must be watched carefully, because unlike us, they may commit ‘genocide.’ It is remarkable how ‘genocide’ has become fashionable, with more and more ‘genocide experts’ in universities, as if studying genocide made sense as a separate academic discipline… The subliminal message in the official Srebrenica discourse is that because ‘we’ let that happen, ‘we’ mustn't let ‘it’ happen again, ergo, the United States should preventively bomb potential perpetrators of ‘genocide’.


But Why? -- Questioning the received elite class narrative on “Srebrenica” is a good and necessary endeavor. The accepted Srebrenica story, influenced by war propaganda and uncritical media reports, is neither historically correct nor morally satisfying. The relentless Western campaign against the Serbs and in favor of their Muslim foes -- which is what “Srebrenica” is really all about -- is detrimental to the survival of our culture and civilization. It seeks to give further credence to the myth of Muslim blameless victimhood, Serb viciousness, and Western indifference, and therefore weaken our resolve in the global struggle euphemistically known as “war on terrorism.” The former is a crime; the latter, a mistake. 

The involvement of the Clinton administration in the wars of Yugoslav succession was a good example of the failed expectation that pandering to Muslim ambitions in a secondary theater will improve the U.S. standing in the Muslim world as a whole. The notion germinated in the final months of George H.W. Bush’s presidency, when his Acting Secretary of State Lawrence Eagleburger said that a goal in Bosnia was to mollify the Muslim world and to counter any perception of an anti-Muslim bias regarding American policies in Iraq in the period leading up to Gulf War I. The result of years of policies thus inspired is a terrorist base the heart of Europe, a moral debacle, and the absence of any positive payoff to the United States.

Former U.S. Under-Secretary of State Nicholas Burns declared on February 18, 2008, a day after Kosovo’s unilateral declaration of independence: “Kosovo is going to be a vastly majority Muslim state… and we think it is a very positive step that this Muslim state, Muslim majority state, has been created today.” If it is intrinsically “a very positive step” that a “vastly Muslim state” is created on European soil that had been cleansed of non-Muslims, it is only a matter of time before similar blessings are bestowed on Americans.

If Western and especially U.S. policy in the Balkans was not meant to facilitate Jihad, the issue is not why, but how its effects paradoxically coincided with the regional objectives of those same Islamists who confront America in other parts of the world. “Srebrenica” provides some of the answers. The immediate bill is being paid by the people of the Balkans, but “Srebrenica’s” long-term costs will come to haunt the West for decades to come.




Negligenza mortale
testo di Paul Polansky sulle responsabilità dei governatori coloniali del Kosovo nell'avvelenamento e nell'apartheid della popolazione rom -
in quattro parti, dal sito http://www.sivola.net/

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Negligenza mortale (I puntata)
Di Fabrizio (del 22/06/2010 @ 09:55:52, in Europa, visitato 69 volte)

Premessa

Nel gennaio 2009, il giornalista della BBC Nick Thorpe [leggi QUI gli altri suoi articoli tradotti in italiano su Mahalla, ndr] visitò con la sua squadra gli ex campi Rom/Askali dell'UNHCR a Mitrovica nord (Kosovo), per riportare sui bambini che là soffrivano di avvelenamento da piombo. L'Organizzazione Mondiale della Sanità gli aveva già detto che questo era il peggiore avvelenamento da piombo mai verificatosi in Europa e forse nel mondo.

Dopo aver visitato diverse famiglie e filmato i bambini che guardavano la telecamera coi loro occhi bruni senza speranza, si voltò verso di me chiedendomi con disgusto: "Chi è responsabile di questa tragedia? Voglio saperlo!"

Questo libro ti dice, Nick, chi è stato responsabile di questa negligenza mortale e senza senso.

Paul Polansky

[foto tratta da Le nouveau NH) - Fabricka, il quartiere Rom ed Askali a Mitrovica sud, un anno dopo la loro cacciata da parte dei loro vicini albanesi, mentre le truffe francesi osservavano senza agire. Nessuna casa è stata bruciata. Gli Albanesi semplicemente hanno sventrato le case per sottrarne mattoni, infissi, porte e finestre]


Una storia personale dei campi di Kouchner

Anche se l'Armata di Liberazione del Kosovo (ALK) e gli estremisti di etnia albanese iniziarono questa tragedia senza senso durante l'estate 1999, poterono farlo semplicemente perché le truppe NATO francesi permisero che questa pulizia etnica avesse luogo. Non successe in una sola notte. Ci vollero tre mesi perché tutte le famiglie rom e Askali (circa 8.000 persone; la più grande comunità zingara in Kosovo) abbandonassero le loro case.

Un mese dopo l'inizio, sentii della diaspora dei Rom di Mitrovica che cercavano rifugio nel campo UNHCR dove lavoravo come consulente ONU per i loro problemi "zingari". Presi una macchina in prestito e guidai verso la scena. Fu uno strappo al cuore vedere genitori terrorizzati che portavano bambini in pianto,  trascinare valigie e tutto ciò che potevano portarsi dietro: una pentola, un materasso, una radio. Quando arrivai, molti Zingari stavano supplicando i soldati francesi armati di tutto punto di salvarli. Li raggiunsi, chiedendo ai soldati francesi di intervenire. Un ufficiale francese mi disse rudemente che le truppe NATO non erano una forza di polizia. Poi venni trattenuto e portato al quartiere generale dell'esercito francese in un albergo del centro città. Mi sequestrarono le foto e mi dissero che non avevo il permesso di ritornare nel settore francese del Kosovo.

Una settimana dopo ritornai, usando un permesso stampa con un nome differente. Trovai circa 800 Zingari di Mitrovica rifugiati in una scuola serba sul lato opposto del fiume Ibar. Non avevano cibo, né sapone. I bagni erano straripati. Ancora nessuna agenzia di aiuto li aveva scoperti; o, secondo qualcuno, li ignoravano. Tramite Oxfam di Pristina portammo acqua da bere e prodotti igienici, e poi riferii della loro situazione all'UNMIK. Qualche giorno dopo l'UNHCR portò agli Zingari dei pacchi alimentari.

A metà settembre i Serbi rivolevano l'edificio per l'anno scolastico. Così le truppe francesi e la polizia ONU spostarono gli Zingari in tende su di un'area tossica abbandonata vicino al villaggio di Zitkovac.

Stavolta protestai direttamente col Rappresentante Speciale del Segretario Generale (RSSG), dr. Bernard Kouchner. David Reily, capo dell'UNHCR, venne con me. Depositi di scorie tossiche circondavano il campo zingaro. Potevi odorare gli elementi tossici. Quando soffiava il vento, la polvere di piombo copriva tutto e rendeva difficile respirare. Il dr. Kouchner, un famoso attivista umanitario francese, mi assicurò che gli Zingari sarebbero rimasto su quel sito solo per 45 giorni. Poi sarebbero stati riportati alle loro case e protetti dalle truppe francesi o portati come rifugiati in un altro paese. Disse di essere un dottore. Comprendeva il pericolo di minaccia alle vite nel vivere su o accanto a depositi di scorie tossiche. Disse: "Come dottore, e come amministratore capo del Kosovo, sarei miserabile se questa minaccia alla salute dei bambini e di donne incinte continuasse per un solo giorno ancora." Dichiarò anche che la situazione era un crimine.

A novembre tornai negli Stati Uniti per scrivere delle mie esperienze in Kosovo. Quando tornai la primavera successiva per visitare gli insediamenti delle minoranze in Kosovo e riportare delle loro condizioni alla Società per i Popoli Minacciati (GFBV), visitai questi Zingari di Mitrovica. Non erano tornati alle loro case o in un paese terzo. Ora erano alloggiati in baracche temporanee, tutte su terreno contaminato.

Ero anche scioccato di scoprire che il mio amico David Reily, 50 anni, era morto a gennaio nel suo appartamento a Pristina per un attacco di cuore. Il suo sostituto, un Neozelandese di nome Mac Namara, si rifiutò di ricevermi e di discutere la difficile situazione di questi 800 Rom/Askali nei campi UNHCR contaminati dal piombo. Tuttavia, fui incoraggiato perché il dr. Kouchner aveva ordinato alla propria squadra medica ONU di prendere campioni sanguigni dai bambini zingari che vivevano sui depositi tossici, per vedere se le loro vite fossero in pericolo.

Ritornai negli USA prima che i risultati fossero resi noti. Ma quando ritornai in Kosovo la primavera seguente (2001) e trovai che gli Zingari vivevano ancora in questi tre campi, amministrati dall'Agenzia svizzera di Soccorso ACT e dal loro partner di sviluppo: Norwegian Church Aid, immaginai che la squadra medica di Kouchner avesse trovato il sito sicuro.

Anche se io e Kouchner nel 2000 ci scambiammo della corrispondenza sulla situazione degli altri Rom e Askali, della loro mancanza di libertà di movimento in altre parti del Kosovo e sulla mancanza di aiuti umanitari, non vidi più Kouchner.

Ora, vivendo a tempo pieno in Kosovo, mi tenevo in contatto regolare con gli Zingari dei campi posti su terreni tossici. Quando nel 2002 ACT e NCA smisero di consegnare cibo e prodotti igienici, iniziai a fornire agli Zingari quel poco aiuto che riuscivo a trovare. Assunsi anche due sorelle romanì (Tina e Dija) per insegnare migliori misure igieniche alle donne del campo e ai bambini, anche se era difficile mantenere puliti i bambini dalla polvere che si alzava dai cumuli di scorie, visto che passavano all'aperto la maggior parte del tempo.

Non compresi che c'era qualcosa di tragicamente sbagliato nel campo, finché le due sorelle romanì non mi dissero che le donne del campo lamentavano un alto numero di aborti e che molti dei bambini stavano sempre male (vomitavano e cadevano in coma). Poi alcuni dei bambini morirono.

La morte che mi chiarì le idee su cosa stava succedendo nei campi fu quella di Jenita Mehmeti, di quattro anni. Frequentava l'asilo del campo, quando la sua maestra si accorse che Jenita stava perdendo la memoria e aveva difficoltà a camminare. Fu portate nell'ospedale locale a Mitrovica e da lì trasferita d'urgenza in ambulanza in un ospedale meglio equipaggiato a Kragujevac (Serbia). Jenita rimase lì per tre mesi prima di morire. La causa della morte fu diagnosticata in "herpes", un'infezione non fatale a meno di malfunzionamenti del sistema immunitario. Come per l'Aids, l'avvelenamento da piombo distrugge il sistema immunitario specialmente nei bambini di età inferiore ai sei anni.

Subito dopo la morte di Jenita nel 2004,  una squadra medica ONU guidata dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) fece l'esame del sangue a molti bambini in tutti tre i campi, per vedere se avevano avvelenamento da piombo, dato che i loro sintomi lo indicavano. I risultati scioccarono tutti. I livelli di piombo in molti bambini erano più alti di quanto le apparecchiature mediche potessero misurare. A novembre un rapporto OMS indicò che alcuni dei livelli di piombo nei bambini di quei campi erano i più alti mai registrati nella letteratura medica.

Fine prima puntata




Negligenza mortale (II puntata)
Di Fabrizio (del 29/06/2010 @ 09:27:17, in Europa, visitato 58 volte)

by Paul Polansky


[continua] Quando vennero resi noti i risultati degli esami, l'OMS chiese l'immediata evacuazione dei tre campi. Poche settimane dopo ICRC si aggiunse a molte altre OnG nel richiedere un urgente sgombero per ragioni mediche.

Il 25 novembre, durante un incontro delle OnG nel quartiere generale UNMIK a Mitrovica sud, venne rivelato dal rappresentante di Norwegian Church Aid che il gruppo medico del dr. Kouchner aveva trovato alti livelli di piombo nel sangue dei bambini pure nell'estate del 2000. Un rapporto preparato allora dal gruppo medico ONU raccomandava che i tre campi fossero evacuati. Chiesi immediatamente all'UNMIK una copia di quel rapporto del 2000. Mi dissero che non era disponibile al pubblico.

Conoscendo diversi Albanesi che lavoravano con l'UNMIK, tentai di avere tramite loro una copia del rapporto. Mi venne detto che era sotto chiave e considerato "top secret".

Un anno più tardi trovai quel rapporto del gruppo medico ONU datato novembre 2000 sul web (non etichettato come documento UNMIK, ma sotto il nome del dottore che l'aveva cofirmato). Rintracciai il dottore, Andrej Andrejew. Ora lavorava per una ditta farmaceutica a Berlino. Dopo pranzo, mi confermò che i livelli di piombo nel 2000 erano così alti tra i bambini dei campi zingari, che il laboratorio in Belgio che analizzava i loro campioni di sangue pensava ad un errore, perché non aveva mai visto livelli tanto alti. L'ex dottore dell'ONU di Kouchner rimase scioccato nel sentire che i campi non erano stati evacuati ed il terreno era stato cintato perché la gente estranea non potesse accidentalmente addentrarvisi, come raccomandava nel suo rapporto. Poco dopo aver compilato il suo rapporto, Andrej aveva lasciato il Kosovo, ritenendo che Kouchner avrebbe seguito le raccomandazioni della sua squadra medica ONU.

Fui il primo giornalista a rendere pubblica la storia dei campi. In un articolo che venne pubblicato dall'International Herald Tribune il 25 aprile 2005, descrissi l'orrore e scrissi che sino a quel momento erano morti nei campi 25 Zingari, la maggior parte in seguito a complicazioni dovute ad avvelenamento da piombo. Nonostante le ricadute internazionali alla notizia, l'UNMIK rifiutò ancora di evacuare i campi.

Da allora, con la mia squadra GFVB visitai i campi diverse volte a settimana per controllare la salute dei bambini. Un giorno la madre di Jenita mi disse che sua figlia Nikolina di due anni mostrava gli stessi sintomi di Jenita prima che morisse. Venne avvisata l'equipe medica NATO di Mitrovica nord. Venne richiesto loro il permesso di un immediato trasporto di Nikolina a Belgrado, l'unico ospedale nei Balcani che trattava l'avvelenamento da piombo. Il capo dell'equipe medica NATO di Mitrovica, il dr. Sergey Shevchenko, rifiutò.

Il giorno dopo chiamai personalmente il dr. Shevchenko e lo implorai di trasportare Nikolina a Belgrado. Rifiutò nuovamente. Invece di discutere con lui (un optometrista di Vladivostok, Russia, che parlava inglese), io e la mia squadra caricammo Nikolina e sua madre sul mio caravan per andare a Belgrado. Dato che non avevano passaporti, e nemmeno documenti personali, dovetti farle passare di contrabbando attraverso il confine serbo-kosovaro nascoste nel bagno del mio caravan.

A Belgrado, i livelli di piombo riscontrati a Nikolina mettevano a rischio la sua vita. Dopo tre settimane di trattamento i suoi livelli si erano ridotti, ma fui avvertito che probabilmente avrebbe avuto danni irreversibili al cervello e che se l'avessimo riportata alla fonte dell'avvelenamento, probabilmente sarebbe morta. Con l'aiuto di un olandese che lavorava per un'OnG internazionale (da cui travasava soldi per le piccole spese), affittammo un appartamento nel villaggio di Priluzje dove la famiglia di Jenita aveva dei parenti. Usando il mio caravan, li traslocai personalmente con le loro poche cose dalle baracche ONU. Col tempo trovai un donatore americano che comprò loro un pezzo di terra. Dopo un anno, un'OnG internazionale costruì loro una casa.

Dato che non riuscivo a convincere l'ONU ad evacuare i tre campi e salvare questi bambini rom ed askali, pubblicai in proprio un libriccino (UN - Leaded Blood) sulla loro situazione e produssi un documentario (Gipsy Blood). Anche se tutti e due produssero uno scandalo in Kosovo, l'ONU si rifiutò ancora di sgomberare i campi e curare questi bambini.

Mentre giravo il mio documentario, scoprimmo un'altra famiglia che aveva dei bambini con gli stessi livelli di piombo di Jenita e Nikolina. Ma prima che potessi fare qualcosa, morirono la madre e un fratellino. Un dottore a cui avevo chiesto di investigare sulle loro morti, era convinto che entrambe fossero morti per complicazioni dovute ad avvelenamento da piombo. Era dell'opinione che i sette bambini superstiti non sarebbero sopravissuti se non fossero stati rimossi dalla fonte di avvelenamento e ricevuto trattamento medico urgente.

Ancora una volta, la dura e compiacente amministrazione UNMIK rifiutò di agire. Così la mia OnG tedesca, GFBV, contattò il giornale di più grande tiratura in Germania, chiedendogli di visitare il campo e scrivere una storia su questa tragedia. Non solo il giornale, la Bild Zeitung, venne in Kosovo, ma tramite la loro fondazione per l'infanzia (Ein Hertz für Kinder) portarono tutta la famiglia  in Germania per le cure. Per aiutare la famiglia durante e dopo il trasporto, il giornale chiese a me ed al mio gruppo romanì di accompagnarla.

In Germania, scoprirono che non solo la famiglia romanì necessitava di cure mediche, ma anche io ed il mio gruppo romanì. I nostri livelli di piombo, anche solo con visite periodiche nei campi, erano del livello doppio di quello che poteva causare danni irreversibili al cervello. Quindi assieme ai sette bambini e al loro padre, anche noi fummo curati.

Prime del trattamento, tutti noi facemmo una TAC. Quando toccò a Denis, sette anni, il dottore incaricato mi indicò il fegato del bambino e mi disse: "E' il fegato di un sessantenne alcolizzato che beve una bottiglia di whiskey al giorno. Questo bambino non arriverà a 20 o 30 anni. E' quello che gli ha fatto l'avvelenamento da piombo!"

Nel 2006 finalmente l'ONU decise di fare qualcosa per acquietare le accuse che col mio team e l'avvocata americana Dianne Post, che ora rappresentava le oltre 150 persone dei campi rom/askali,  continuavamo a generare sulla tragedia dell'avvelenamento da piombo. Nel 2005 le truppe francesi avevano deciso di lasciare la sua base a Mitrovica nord. L'ONU traslocò due dei tre campi zingari nell'ex base francese.

Una volta di più rimasi scioccato dall'atteggiamento insensibile dell'UNMIK in questa situazione. La base francese, chiamata Osterode, era a solo 50 metri da due dei campi zingari contaminati. Anche il campo francese era ricoperto dalla polvere tossica generata dalle 100 milioni di tonnellate di scorie nell'area. I soldati francesi, che tanto io quanto i reporter del NY Times avevamo intervistato in separate occasioni, lamentavano che i dottori militari avevano avvisato ogni soldato in servizio nella base, di non generare bambini per nove mesi dopo aver lasciato il Kosovo, a causa dell'alto livello del piombo nel loro sangue.

Comunque, dopo aver speso 500.000 euro donati dal governo tedesco per ristrutturare il campo di Osterode, una squadra di valutazione ambientale della CDC di Atlanta, Georgia, dichiarò Osterode come "libero dal piombo". Poi l'ufficio USA a Pristina dichiarò di essere pronto a donare 900.000 $ per cure e per una dieta migliore per i bambini evacuati ad Osterode. Inoltre l'UNMIK promise che gli Zingari sarebbero rimasti ad Osterode per non più di un anno. Poi sarebbero stati trasferiti in nuovi appartamenti costruiti per loro nel vecchio quartiere.

Dato che diverse OnG e anche i leader del campo non ritenevano che Osterode fosse "libero dal piombo", si fecero subito degli esami sanguigni ai bambini dopo che arrivarono ad Osterode. Un anno dopo vennero nuovamente controllati i loro livelli di piombo. Non fu sorprendente per me e la mia squadra, ma lo fu per l'UNMIK: molti livelli erano aumentati nonostante una dieta migliore ed alcuni trattamenti medici di base. Quando vennero conosciuti questi risultati, i dottori smisero le loro cure, dicendo che facevano più male che bene. Nuovamente si disse che era necessario allontanare la gente dalla fonte di avvelenamento, prima di essere curati per intossicazione da piombo.

Quando pubblicai il primo articolo sui campi nel 2005 sull'International Herald Tribune, riportavo che 27 Zingari (inclusi molti bambini) erano già morti nei campi. Alla fine del 2006, il numero era più che raddoppiato, e per la fine del 2009 il conto era a 84. E gli Zingari vivono tuttora ad Osterode e nel vicino campo di Cesmin Lug.

Tra il 2007 e il 2008 diverse OnG costruirono o finanziarono la costruzione di appartamenti nel vecchio quartiere zingaro di Mitrovica sud. Ma questi appartamenti non vennero dati, come promesso, a quanti soffrivano dei più alti livelli di avvelenamento da piombo. Per mostrare che funzionava la loro politica di far tornare gli Zingari rifugiati in altri paesi, l'UNHCR diede la maggior parte di quegli appartamenti a quanti tornavano dal Montenegro e dalla Serbia.

Dopo aver provato a far pressione sull'ufficio USA a Pristina per trasportare via aerea questi 650 Zingari a Fort Dix, NJ, come il governo americano aveva fatto per oltre 7.000 Albanesi nel 1999 per salvarli dai paramilitari di Milosevic, USAID propose invece il progetto di costruire 50 appartamenti per i Rom dei campi, ovunque loro volessero in Kosovo. Mercy Corps, un'OnG internazionale degli USA, venne incaricata del contratto, anche se non avevano mai avuto a che fare con i campi zingari ed allora non avevano Rom o Askali nel loro staff. Tuttavia, nell'ottobre 2008 Mercy Corps assunse una romnì della mia squadra ed aprì un ufficio a Mitrovica sud per onorare il contratto di 2.400.000 $ affidatogli da USAID.

Fine seconda puntata




Negligenza mortale (III puntata)
Di Fabrizio (del 06/07/2010 @ 09:56:11, in Europa, visitato 74 volte)

by Paul Polansky


[continua] Venne immediatamente indetta un'indagine su dove i Rom e gli Askali del campo volessero vivere. Oltre il 90% dichiarò che intendeva rimanere a Mitrovica nord con i Serbi. Gli Zingari del campo avevano paura di tornare a vivere accanto ai vicini albanesi che li avevano cacciati nel 1999. Inoltre, tutti i loro bambini ora erano andati alle scuole serbe a Mitrovica nord per otto anni e non volevano imparare una nuova lingua prima di frequentare le scuole albanesi a sud. Però, dato che l'ambasciata USA a Pristina era riluttante a cooperare con i Serbi, un membro albanese di Mercy Corps fu inviato a Mitrovica nord per discutere la possibilità di acquisire un terreno per il progetto. Naturalmente, i Serbi e questo Albanese non si videro mai di persona e non venne offerto nessun terreno.

Dopo aver sentito ciò, contattai Mercy Corps (MC) e li invitai ad accompagnarmi a Belgrado, dove si determinavano la maggior parte delle decisioni riguardanti Mitrovica nord. Mercy Corps rifiutò, dicendo che l'unica soluzione era di costruire gli appartamenti nel vecchio quartiere zingaro di Mitrovica sud. Ciononostante, andai da solo a Belgrado e dopo incontri con gli incaricati del governo, mi fu assicurato che se gli Zingari del campo volevano rimanere a nord, si sarebbe trovato un terreno per loro. Mercy Corps rifiutò ancora di riconsiderare cosa volevano realmente gli Zingari dei campi, nonostante il progetto USAID che dichiarava che le case sarebbero state costruite dove gli Zingari intendevano stare in Kosovo.

Nel progetto USAID da 2,4 milioni di $ era anche stipulato che sarebbe stato fornito ai Rom e agli Askali il trattamento medico, una volta che si fossero spostati dai campi tossici. Però, in diverse interviste che ebbi con Mercy Corps ai massimi livelli in Kosovo, MC rifiutò di rivelare cosa richiedeva quella soluzione medica. I Rom che avevano già fatto ritorno al loro vecchio quartiere non vennero curati, nonostante mostrassero alti livelli di piombo un anno dopo aver lasciato i campi.

Nel contempo, l'UNHCR convinse il governo del Kosovo ad assumere l'amministrazione dei campi, togliendo all'ONU la responsabilità degli Zingari dei campi che continuavano a morire di complicazioni legate all'avvelenamento da piombo.

Nel 2009, l'Unione Europea decise di aiutare l'ONU in Kosovo ed inviò una "squadra di giustizia" chiamata EULEX per sovrintendere al sistema giudiziario che era nel caos. Nel loro mandato, i giudici UE dovevano consigliare e sorvegliare il sistema giudiziario kosovaro ed intervenire solo nei casi di "accadimento di serio crimine" che il governo del Kosovo rifiutava di perseguire.

Anche se avevo coinvolto diversi avvocati nei casi contro l'ONU a favore degli Zingari dei campi, non era sin qui trapelato niente perché l'ONU tentava di nascondere le proprie responsabilità sotto lo scudo dell'immunità. Fidandomi dunque negli standard europei di giustizia, scrissi al capo della missione EULEX, chiedendo un appuntamento per discutere questo "grave crimine di negligenza infantile di massa", che dava come risultato oltre 80 morti e danni cerebrali irreversibili a tutti i bambini zingari nei campi. Con mia grande sorpresa, il generale francese in pensione a capo della missione EULEX, Yves de Kermabon, rifiutò di ricevermi. Mi contestò che non era stato commesso nessun grave crimine.

Guardando indietro, vedo un forte continuum francese in questa tragedia senza senso che dura da 11 anni: truppe francesi rifiutarono di fermare gli Albanesi che cacciavano questi Zingari dalle loro case nel 1999; il dr. Bernard Kouchner, ex Ministro della Sanità nel governo francese, che sistemò i profughi zingari su di un terreno contaminato e quando i loro bambini ebbero i più alti livelli di piombo nella storia medica, rifiutò di evacuarli e curarli; la KFOR francese che spiana con i bulldozer le strutture delle case zingare che avrebbero potuto essere riparate e ricostruite; un generale francese in pensione a capo della squadra di giustizia europea che rifiuta persino di ascoltare le accuse di gravi e mortali negligenze verso i  bambini durate 11 anni. Naturalmente, con ogni probabilità voleva coprire il fatto che i bulldozer dell'esercito francese nella KFOR avevano distrutto tutte le case francesi che ancora resistevano nel loro vecchio quartiere, così facendo cancellando ogni prova della loro precedente presenza. Dopo tutto, una volta era un incaricato della KFOR in Kosovo.

Ma perché questi Francesi erano così anti-zigani? Forse la ragione è nella loro storia o nella loro tradizione. Durante la II guerra mondiale nella repubblica di Vichy (chiamata anche Francia Libera) i Francesi avevano più campi di concentramento solo per zingari (9) che qualsiasi altro paese d'Europa, Germania compresa.

C'erano almeno 40 altri campi come Camp Gurs (Pirenei Atlantici) dove altri piccoli gruppi di Zingari erano detenuti per i lavori forzati. Viene stimato dagli storici dell'Olocausto che la Francia Libera internò oltre 30.000 Zingari nella II guerra mondiale.

Considerando questi terribili fatti, non è difficile capire perché le truppe francesi rifiutarono di fermare gli Albanesi kosovari dalla pulizia etnica di 8.000 Zingari di Mitrovica, o perché il dr. Bernard Kouchner non volesse perdere il suo tempo cercando di salvare 4.000 bimbi zingari dall'avvelenamento da piombo. Dopo tutto, tradition is tradition.

Naturalmente, non sono solo i Francesi ad avere responsabilità in questa tragedia senza senso. Nelle pagine seguenti leggerete di quanti avrebbero potuto aiutare e non l'hanno fatto. Compiacimento? Incompetenza? Insensibilità? Tu, lettore, devi decidere se si meritano questi anti-premi... per la loro negligenza mortale.

Paul Polansky
Pristina, Kosovo
Febbraio 2010


--- SCHEDA: I governatori ONU del Kosovo

Dal giugno 1999, il Kosovo è stato amministrato dalle Nazioni Unite in base alla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. L'Amministrazione ONU del Kosovo (UNMIK) è guidata da un Rappresentante Speciale del Segretario Generale (SRSG). L'SRSG ha pieni poteri nello sviluppare qualsiasi azione ritenuta necessaria per il bene pubblico in Kosovo. Per esempio, nel 2004 durante un sollevamento albanese contro le enclavi serbe, l'SRSG Holkeri ordinò l'evacuazione di diverse comunità, mentre la polizia ONU rimosse fisicamente migliaia di Serbi che rifiutavano di lasciare le loro dimore. Nel 2006, l'SRSG Jessen-Petersen appoggiò la suo vice Patricia Waring nell'impiego della polizia ONU per traslocare fisicamente centinaia di Albanesi che si riteneva fossero in pericolo di vita, dato che le loro case potevano collassare perché il loro villaggio era costruito sopra le gallerie delle miniere. In entrambe i casi, la maggior parte della gente rifiutava di andarsene e dovette essere evacuata a forza.

Nonostante questi e molti altri precedenti, tutti gli SRSG hanno rifiutato di evacuare i Rom e gli Askali che dal 1999 vivono nei campi ONU costruiti su terreno contaminato. Anche se molti dei loro bambini hanno i più alti livelli di piombo nella letteratura medica, e molti sono nati con danni irreversibili al cervello a causa dell'avvelenamento da piombo, l'UNHCR (incaricata dei campi sino al dicembre 2008) ha rifiutato di ottemperare alla richiesta della sua agenzia sorella ONU, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, di evacuare immediatamente i campi e fornire cure urgenti.

Di seguito ci sono gli anti-premi per questi SRSG che attraverso ignoranza, compiacimento, incompetenza e/o insensibilità (decidi tu) hanno rifiutato di salvare questa gente, specialmente i bambini e le donne incinte, i più vulnerabili ai 36 elementi tossici trovati nell'aria, nel suolo e nell'acqua nei ed attorno ai campi.

L'unico SRSG non considerato per i nostri anti-premi è il primo tra tutti, Sérgio Vieira de Mello, che fu un SRSG "in azione" non "a tempo pieno", dato che servì in Kosovo dal 13 giugno al 15 luglio 1999... anche se fu quello il periodo esatto in cui gli estremisti albanesi nelle uniformi nere dell'ALK visitarono le case degli Zingari a Mitrovica sud e dissero ai Rom e agli Askali di lasciarle entro 24 ore, se non volevano che fossero uccisi i loro figli.

Lista degli SRSG in Kosovo:

  • Sérgio Vieira de Mello (13 giugno - 15 luglio 1999) Brasile
  • Bernard Kouchner (15 luglio 1999 - 12 gennaio 2001) Francia
  • Michael Steiner (14 febbraio 2002 - 8 luglio 2003) Germania
  • Harri Holkeri (25 agosto 2003 - 11 luglio 2004) Finlandia
  • Søren Jessen Petersen (16 agosto 2004 - 30 giugno 2006) Danimarca
  • Joachim Rücker (1 settembre 2006 - 20 giugno 2008) Germania
  • Lamberto Zannier ( 20 giugno 2008 - a tutt'oggi) Italia

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Negligenza mortale (IV puntata)
Di Fabrizio (del 13/07/2010 @ 09:28:29, in Europa, visitato 14 volte)

by Paul Polansky


IL PREMIO GRAN MAESTRO disonora quella persona che si erge sopra tutti gli altri anti-eroi in questa tragedia senza senso. Uno dei fan di Kouchner ha scritto questo a proposito di lui su Internet: "Per essere onesto... per essere morale... per essere, in poche parole, vicino a ciò che consideriamo perfetto... questa è la definizione di quanto la gente definisce un eroe... Bernard Kouchner è una di queste persone... uno dei più amati filantropi francesi. Ha scritto nove libri, ed ha rivoluzionato l'umanitarismo in tutto il mondo."


Nato il 1 novembre 1939 ad Avignone in Francia, Kouchner divenne dottore e subito finì in Biafra (Nigeria) per assistere un paese in carestia, dicendo "Sono corso in Biafra perché ero troppo giovane per Guernica, Auschwitz, Oradour e Setif." Nel 1970 co-fondò Medecins sans Frontieres (Dottori senza Frontiere), che venne premiata nel 1999 col Premio Nobel per la Pace, e poi Medecins du Monde (Dottori del Mondo) il decennio successivo. Negli anni '80 organizzò diverse operazioni umanitarie, la più famosa fu Restore Hope in Somalia, dove assistette personalmente al trasporto di sacchi di riso. Capitalizzandola sua fama umanitaria, entrò nella politica francese e fu Ministero di Stato dal 1998 al 1991, diventando Ministro della Sanità l'anno dopo. Più tardi fu membro del Parlamento Europeo e Presidente della Commissione sullo Sviluppo e la Cooperazione. Nel luglio1999, divenne Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite e Capo della Missione ONU in Kosovo.

Sfortunatamente, le azioni di Kouchner in Kosovo furono molto differenti dal suo passato, dato che scelse la convenienza agli ideali umanitari. In un momento particolare, Kouchner assalì un inviato dei diritti umani ONU in visita, dicendogli di "tenere la bocca chiusa" su quanto aveva visto.

Nella primavera del 2000, come capo della Missione ONU in Kosovo (UNMIK), Kouchner istruì la sua squadra medica a Mitrovica nord guidata dal dr. Andrej Andrejew (un cittadino tedesco), di compiere urgentemente uno studio ambientale sull'area, dopo che si ammalarono gravemente dei soldati danesi e francesi.

Campioni sanguigni raccolti e inviati a Copenhagen mostrarono alti livelli di avvelenamento da piombo. L'esercito francese fu così preoccupato da commissionare diversi studi all'Istituto di Salute Pubblica di Parigi. In seguito, diversi soldati furono rimpatriati perché non c'erano possibilità in Kosovo di curare l'avvelenamento da piombo.

A novembre 2000, il rapporto del dr. Andrejew fu sottoposto personalmente a Kouchner. Sulla base dei campioni di sangue presi dal dr. Andrejew (ed inviati ad un ben conosciuto laboratorio in Belgio), venne disegnata una mappa che mostrava tre aree: A, B, e C. L'area A aveva i più alti livelli di piombo nel sangue. Le uniche persone che vivevano in quell'area erano dei due campi di rifugiati per Rom e Askali. Infatti, i livelli dei Rom (specialmente nei bambini) erano così alti che il laboratorio in Belgio chiamò il dr. Andrejew e gli chiese di ricontrollare quei campioni, perché il laboratorio non aveva mai visto livelli di piombo così alti nella storia della letteratura medica.

Nel suo rapporto scritto, il dr. Andrejew diceva che era evidente che i campi rom erano nel posto sbagliato e che dovevano essere spostati ed i Rom curati. Kouchner disse al suo staff che come dottore era perfettamente cosciente del pericolo dell'avvelenamento da piombo e giurava che avrebbe provveduto. Un tossicologo polacco coinvolto in questa discussione raccomandò l'evacuazione e le cure all'estero dato che non era possibile trattare l'avvelenamento da piombo in Kosovo. Kouchner pose il veto sulla proposta.

Poi Kouchner decise di diffondere la storia che i Rom soffrivano di avvelenamento da piombo cronico e dovevano solo convivervi. I bambini rom concepiti e nati nei campi non avevano avvelenamento cronico anche se i loro livelli di piombo erano i più alti mai registrati.

Quando vennero costruiti i campi rom nel settembre 1999, ci furono forti proteste da diverse agenzie internazionali, perché era evidente ad occhio nudo che i campi erano stati piazzati accanto a milioni di tonnellate di rifiuti tossici. Il capo dell'UNHCR in Kosovo promise personalmente ai rifugiati che sarebbero rimasti sui terreni tossici per 45 giorni, ed in quel periodo sarebbero state ricostruite le loro case distrutte (che a differenza di quanto si disse, non erano mai state bruciate) o portati in un paese terzo. Undici anni dopo, i Rom sono ancora là ed i risultati sono stati tragici: 86 morti e centinaia di aborti spontanei dovuti a complicazioni dall'avvelenamento da piombo, mentre quasi tutti i bambini sono nati con danni irreversibili al cervello.

Dato che il nostro gran maestro degli anti-eroi, il dr. Bernard Kouchner, non fece niente per salvare queste vite umane, ogni altro capo delle Nazioni Unite in Kosovo ha seguito l'esempio catastrofico di Kouchner e rifiutato di evacuare questi campi tossici, nonostante ripetuti appelli per agire in questo senso da parte dell'OMS, dell'ICRC (Comitato Internazionale della Croce Rossa ndr) e di infinite OnG.

Oggi in Kosovo questi campi tossici sono chiamati l'Inferno di Kouchner dai rifugiati che sono obbligati a viverci, inclusi molti che sono stati riportati a forza in Kosovo dopo aver vissuto in Germania per quindici anni.

Il dr. Bernard Kouchner è stato tre volte Ministro della Sanità in Francia, ed attualmente è Ministro degli Affari Esteri del governo francese. In una recente risposta ad una nostra lettera in cui gli chiedevamo perché non avesse mai salvato queste persone, replicava: "Vi assicuro che considererò finito questo doloroso capitolo solo con la definitiva chiusura di questi due campi. Nel contempo l'Ambasciata francese a Pristina continuerà a tenermi informato sull'evoluzione della situazione sul campo, e monitorerà da vicino l'attuazione degli impegni." QUALI IMPEGNI? NESSUNO DA KOUCHNER.

VERGOGNA

Fine quarta puntata


Si tiene oggi a Trieste l'incontro dei presidenti italiano, sloveno e
croato in occasione del concerto dell'amicizia, diretto da Riccardo
Muti.

Per l'occasione il quotidiano della comunità slovena, Primorski
Dnevnik, si apre con la dichiarazione congiunta dei presidenti, in tre
lingue:
http://www.primorski.it/publisher/V%20kioskih/section/

Si veda il testo in italiano: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Comunicato&key=10478
v slovenscina: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Comunicato&key=10484
na hrvatskosrpskom: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Comunicato&key=10486

La data di oggi rappresenta però anche un significativo anniversario,
in merito al quale riceviamo e diffondiamo volentieri il seguente
comunicato:

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ISTITUTO REGIONALE PER LA STORIA
DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE NEL FRIULI VENEZIA GIULIA
Villa Primc, Salita di Gretta 38 – 34136 Trieste
Tel/fax 04044004 www.irsml.eu irsml@...


Quella del 13 luglio 1920 è una data chiave per la storia giuliana del
secolo scorso. Infatti, nell'assalto fascista contro il Narodni dom di
Trieste, seguito il giorno dopo da analoga impresa contro il Narodni
dom di Pola, si manifestano alcuni degli elementi caratterizzanti il
'900 al confine orientale d'Italia: il salto di qualità introdotto nei
conflitti nazionali dalla Prima guerra mondiale, che insegna l'uso
della violenza come strumento corrente della lotta politica; la
connivenza delle istituzioni dello Stato liberale morente con lo
squadrismo montante, che a Trieste compie una delle sue prime prove
cogliendo spregiudicatamente l'occasione offerta dai tragici fatti di
Spalato del giorno precedente; l'avvio da parte del fascismo, prima
movimento e poi regime, di un tentativo esplicito e sistematico di
distruzione delle identità nazionali slovena e croata nella Venezia
Giulia.
In tal modo, il fascismo compiva fino in fondo il tradimento delle
aspirazioni risorgimentali alla fratellanza tra i popoli e poneva le
premesse per una politica tanto aggressiva quanto velleitaria, che
alla fine avrebbe portato, con la perdita dell’Istria, di Fiume e di
Zara, al dissolvimento dei risultati della Grande guerra ed alla crisi
dell'italianità adriatica.
Ricordare tutto ciò non significa stabilire collegamenti meccanici fra
le tragedie giuliane del primo e del secondo dopoguerra, perché la
realtà è più complessa, ma richiamare con lucidità le responsabilità
storiche del fascismo di confine nell'aver devastato la convivenza
civile nelle terre adriatiche.

IL PRESIDENTE
Prof. Gian Carlo Bertuzzi

Trieste, 10 luglio 2010


ESAMI DI MATURITA'

<< Quegli esami sono stati in passato in Italia, e sono oggi, in misura anche maggiore, una scuola di codardia. Si assegnavano e si assegnano di regola temi che notoriamente non corrispondono ai sentimenti di gran parte degli scolari, e si fa assegnamento sulla pieghevolezza della loro spina dorsale per cui sosterranno a scopo di promozione idee non loro; quasi per far loro pagare con una specie di battesimo di viltà l'ingresso nella classe colta. >>

Gaetano De Sanctis (1870-1957), illustre storico dell'antichità romana e greca

[da "Ricordi della mia vita", Le Monnier, Firenze 1970 (p.46). Cit. in: << Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini >>, di Giorgio Boatti, Einaudi, Torino 2001]



Nell’ambito dell’iniziativa “C’è un bambino che...”, ospitalità di bambini profughi di guerra provenienti dalla Serbia, giunta al nono anno e organizzata in collaborazione fra l’associazione “Un Ponte per...” e l’Ateneo di Tor Vergata:

siamo lieti

di invitare la S.V. alla serata di saluto prevista mercoledì 14 luglio a partire dalle ore 17,30 presso il piazzale della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Roma Tor Vergata, via Columbia 1.

Nell’occasione, alle ore 18 nell’aula Moscati (I.o piano, edificio B, davanti la presidenza) verrà proiettato in anteprima il documentario “L’Urlo del Kosovo”, video-film sulle conseguenze subite dalla popolazione civile dopo i bombardamenti della Nato del 1999 sulla Jugoslavia e in particolare su Serbia e Kosovo.

Prima del documentario, verrà brevemente presentato anche il libro relativo, di Alessandro Di Meo, edito da ExOrma. Sarà presente l’autore.


A seguire, nel piazzale della Facoltà, musica popolare e ritmica, balli, cibi e bevande, oltre alla rakìja!

Sarà un’occasione per accostarsi in modo discreto al dramma e alla sofferenza di una delle tante ingiustizie del nostro mondo, che cerchiamo, anche attraverso la presenza dei ragazzi, di raccontare con la dolcezza di sguardi pieni di futuro. Vi aspettiamo.

 


f.to le famiglie ospitanti

Per informazioni e contatti:
Alessandro Di Meo - alessandro.di.meo@...
“Un Ponte Per...”  Associazione Non Governativa di Volontariato per la Solidarietà Internazionale
Piazza Vittorio Emanuele II 132 - 00185 – ROMA
Tel 06-44702906 oppure 06-44360708 Fax 06-44703172
e-mail: "posta@..."  sito web: http://www.unponteper.it