Informazione


(Una ventina di giorni fa avevamo segnalato - http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6777 - l'imbarazzo del governo tedesco di fronte alla richiesta di Karadzic di esibire documentazione relativa ai rifornimenti di armi per i secessionisti bosgnacchi da parte della Germania e di altri paesi negli anni Novanta. 
Il governo tedesco si è tolto dall'impaccio poco elegantemente, in nome di superiori "interessi nazionali", rifiutando di collaborare alla ricerca della verità su chi e come ha trasformato la Bosnia in un mattatoio. 
Ovviamente anche nella costellazione delle ONG ed organizzazioni varie che in tutti questi anni hanno attivamente contribuito a sostenere il secessionismo antijugoslavo e bosgnacco si da una mano al cinismo tedesco, continuando a negare tutto ciò che, della guerra in Bosnia, stride rispetto alla propaganda nostrana. Si veda ad esempio la persistente, immorale unilateralità di Osservatorio Balcani: http://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Al-mercato-di-Markale .
A cura di Italo Slavo.)



Berlin verweigert sich Den Haag

Karadzic-Prozeß: Keine Dokumente über deutsche Waffenlieferungen im Bosnien-Krieg

Von Cathrin Schütz - junge Welt, 25.06.2010

Die deutsche Regierung geht auf Konfrontationskurs mit dem Jugoslawien-Tribunal (ICTY) in Den Haag. Bis zum 18. Juni hätte Berlin Dokumente zum Bosnien-Krieg (1992-1995) herausrücken müssen. Diesem Antrag des Angeklagten Radovan Karadzic, ehemals Präsident der bosnischen Repubika Srpska, hatten die ICTY-Richter am 19. Mai stattgegeben. Wann die Reaktion der Bundesregierung in den Niederlanden einging, ist unklar. Auf jW-Anfrage beim in dieser Angelegenheit federführenden Bundesjustizministeriums wurde erklärt, daß man »auf alle Fälle vor Ablauf der Frist« geantwortet habe. Laut ICTY selbst liegt die Antwort seit dem 21. Juni vor. Fest steht aber, daß Deutschland keine der angeforderten Dokumente übergeben hat. Laut Karadzic-Anwalt Goran Petronijevic geschah dies mit Verweis auf nationale Sicherheitsinteressen. Berlins Reaktion käme einer »pauschalen Totalverweigerung« gleich. Das Bundesjustizministerium behauptete, es gebe keine entsprechenden Unterlagen.

Tatsächlich geht es um brisante Materialien, die sich mit Waffenlieferungen an die bosnisch-muslimische Kriegspartei in den Wochen und Monaten vor dem Juli 1995 befassen. Das ist genau der Zeitraum vor jenem Ereignis, das weithin als »serbischer Völkermord« an bis zu 8000 unbewaffneten männlichen muslimischen Zivilisten gilt, und für das Karadzic verantwortlich gemacht wird. Außerdem sollten Informationen der Parlamentarischen Kontrollkommission den Anklagepunkt der »Geiselhaft« von zahlreichen UNO-Beamten entkräften. Die Gefangenen seien mitnichten neutrale Beobachter gewesen, sondern hätten an der Seite der Kriegsgegner der Serben agiert.

Schon vor Monaten hatte die deutsche Regierung darauf gepocht, daß die von Karadzic beantragten Informationen nichts mit dem Prozeß zu tun hätten. Waffenlieferungen an die bosnisch-muslimische Seite unter Bruch des UNO-Embargos gehörten zum Kriegskontext - und der soll, geht es nach den NATO-Staaten, im Gericht keine Rolle spielen. Die Richter sahen das offenbar anders und hielten Karadzics Begründungen mehrheitlich für nachvollziehbar. Mit der Blockade Deutschlands werden sie sich vermutlich nicht zufriedengeben.

Gegenüber jW meinte Petronijevic, daß der Angeklagte nunmehr Berlin in Bedrängnis bringe. Gerade Deutschland habe eine wichtige Rolle bei der Zerschlagung Jugoslawiens gespielt. Die Anerkennung Kroatiens Ende 1991 gehörte dazu ebenso wie die Verhinderung jeglicher Verhandlungslösungen. Ein blutiger Krieg folgte. Auch im Falle Bosniens mischte neben den USA die Bundesregierung kräftig mit.

Indes beweisen alle bisherigen Erfahrungen mit dem ICTY, dessen Einrichtung maßgeblich auf Druck von USA und BRD im UN-Sicherheitsrat erzwungen wurde, daß bei den Richtern die Interessen und der Schutz seiner Gründer obenan stehen. Das gilt auch für den Karadzic-Prozeß. Trotzdem konnte sich der Angeklagte bisher durchaus erfolgreich in Szene setzen - wie im Kampf gegen die finanziellen Kürzungen seiner Verteidigung. Auch machte er nach seiner Auslieferung Ende Juli 2008 an das ICTY publik, daß der hochrangige US-Diplomat Richard Holbrooke ihm 1996 in einem Deal Straffreiheit zugesichert hatte. Er erreichte, daß dieser Punkt Gegenstand mehrerer Anhörungen war.






TEMA DI MATURITA': LE FOIBE

di Claudia Cernigoi

Un mio sogno ricorrente è quello di dover affrontare di nuovo l’esame di maturità, sogno che mi dà sempre una sensazione di angoscia perché mi rendo conto che, a distanza di tanti anni, ho ormai dimenticato buona parte delle cose che avevo studiato al liceo. Però, quando ho visto che tra le “tracce” dei temi per i maturandi di quest’anno c’era un titolo sulle “foibe”, ho pensato per un attimo che mi sarebbe piaciuto rifare la maturità in modo da scrivere su questo tema.
Poi mi sono messa nei panni di uno studente maturando nell’anno di grazia 2010 e mi sono detta: alt, non è una passeggiata. Intanto perché bisognerebbe capire quale preparazione hanno avuto gli studenti su questo argomento, su quali testi storici sono stati istruiti, o se piuttosto quello che sanno è solo quanto è stato diffuso come propaganda, se la loro conoscenza delle foibe deriva dal filmino “Il cuore nel pozzo”, dalle esternazioni dei gruppi neofascisti o neoirredentisti, dalle semplificazioni ideologiche (e non storiche) sulle quali si basano la maggior parte degli storici “accreditati”.

No, non sarebbe stato un tema facile da svolgere per un maturando. Però io, che ho al mio attivo una quindicina di anni dedicati allo studio delle “foibe”, ho pensato di sviluppare questa “traccia” nel modo seguente, che è la rielaborazione di un intervento che ho fatto al festival delle culture antifasciste di Bologna il 1° giugno scorso. Consapevole che uno svolgimento del genere non avrebbe probabilmente ottenuto il massimo dei voti dalla commissione esaminatrice, lo propongo qui.


Resistenza al confine orientale e questione “foibe”: ricerca storica o disinformazione strategica?


I fase: dopo l’ 8/9/43: ecco il conto!

Nella ricerca storica sulla questione delle “foibe” il primo periodo storico da esaminare è quello dell’immediato dopo 8 settembre 1943, quando, in seguito all’armistizio firmato con gli Alleati, i militari italiani furono abbandonati dai vertici dell’esercito e si trovarono allo sbando. In questo stato di vacanza del potere alcune zone dell’Istria passarono per breve tempo sotto il controllo delle formazioni partigiane; vi furono arresti di persone, in genere compromesse con il regime fascista, ed anche esecuzioni sommarie causate da vendette personali. Le vittime di questo periodo furono circa 300; i corpi di 200 di queste vittime furono riesumati da svariate “foibe”, ma su questi recuperi torneremo più avanti.
Consideriamo ora invece che per riprendere il controllo del territorio i nazifascisti causarono, tra fine settembre ed i primi di ottobre, migliaia di vittime nel territorio istriano: il fatto è che di questi morti non si parla mai, come se non esistessero, nonostante siano almeno dieci volte più numerosi degli “infoibati” nel periodo immediatamente precedente. 
Da subito iniziò l’uso strumentale delle foibe per nascondere i crimini commessi dai nazifascisti: si misero in evidenza esclusivamente le violenze operate dai partigiani tacendo della feroce repressione nazifascista. Esempio di questa manovra è la pubblicazione di un libello dal titolo “Ecco il conto!”, pubblicato sia in lingua italiana che in lingua croata, contenente alcune foto di esumazioni di salme e basato fondamentalmente su slogan anticomunisti. Si volle in tal modo creare un clima di terrore nella popolazione allo scopo di isolare il movimento partigiano, che veniva descritto come feroce e pericoloso per tutti i civili, e che lo scopo del potere era proprio quello di difendere la popolazione dalle violenze dei partigiani.
Per comprendere come iniziò la propaganda nazifascista cito ora un’analisi di Paolo Parovel (1): < I servizi della X Mas assieme a quelli nazisti organizzarono la riesumazione propagandistica degli uccisi, con ampio uso di foto raccapriccianti dei cadaveri semidecomposti e dei riconoscimenti da parte dei parenti. Le prime pubblicazioni organiche di propaganda sulle foibe sono due: “Ecco il conto!” edita dal Comando tedesco già nel 1943, ed “Elenco degli Italiani Istriani trucidati dagli slavo-comunisti durante il periodo del predominio partigiano in Istria. Settembre-ottobre 1943” redatto nel 1944 per incarico del Comandante Junio Valerio Borghese, capo della X Mas e dell’on. Luigi Bilucaglia, Federale dei Fasci Repubblicani dell’Istria, da Maria Pasquinelli con l’ausilio di Luigi Papo ed altri ufficiali dei servizi della X Mas >.

Oltre a queste due pubblicazioni vanno citati come basilari per la creazione di questa propaganda anche gli articoli che comparivano sul “Piccolo” di Trieste e sul “Corriere istriano”. Nell’autunno del ‘43 il giornalista del “Piccolo” Manlio Granbassi (fratello di Mario, giornalista ma anche volontario fascista in Spagna caduto in sostegno dei golpisti di Franco), che firmava i propri articoli con la sigla P.C., si recò in Istria da dove relazionò sui recuperi dalle foibe effettuati dal maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich per conto dei nazisti. Non avendo trovato documenti datati precedentemente agli articoli di Granbassi, supponiamo che sia stato lui il primo a descrivere con dovizia di particolari le presunte sevizie ed esecuzioni cui sarebbero stati sottoposti “sol perché italiani” coloro che furono poi riesumati dalle varie cavità istriane.

La propaganda sulle foibe, dovendosi basare su circostanze inesistenti, non considera logicamente la documentazione storica del periodo. Vi sono due documenti dell’epoca che possono servire ad inquadrare le vicende, sono ambedue noti agli storici da decenni, ma di essi anche recentemente gli storici continuano a non tenere conto.
Il primo documento è la cosiddetta relazione Cordovado, redatta dal dottor Marcello Cordovado, che si trovava a Pisino alla fine del 1943. Secondo un appunto (probabilmente del capitano Ercole Miani, membro del CLN triestino, che fu successivamente il fondatore della Deputazione di storia del movimento di liberazione di Trieste) l’autore redasse questa relazione su incarico dello stesso CLN, che a Trieste era di sentimenti anticomunisti e nazionalisti.
Lo scritto, intitolato “La dura sorte di Pisino”, consta di 7 pagine e descrive gli avvenimenti dal 10 settembre ai primi di ottobre del 1943. Ne leggiamo alcune parti che possono servire ad inquadrare la situazione. 
Dopo avere descritto come i partigiani prendessero il controllo di Pisino senza colpo ferire, dato che i comandanti militari e dei carabinieri cedettero loro le armi alla prima richiesta, Cordovado fa queste descrizioni: “Il dominio partigiano si svolgeva senza eccessivi disordini, salvo qualche ammazzamento tra i partigiani stessi nelle frequenti liti durante le loro libazioni” (…) “Alcuni squadristi vennero uccisi ed altri vennero imprigionati nel castello Montecuccoli. Perquisizioni, arresti e minacce si susseguirono in questo periodo di ansia da parte della popolazione che assisteva e subiva impotente la situazione” (…) “Il Capo partigiano tuttavia si scusava di qualche eccesso e dell’uccisione di alcuni squadristi, biasimando il fatto ed attribuendolo ad elementi fanatici ed estremisti”. 
Dopo questo periodo di relativa calma arrivarono i tedeschi. Il 4 ottobre verso le 11 del mattino 13 Stukas iniziarono il bombardamento a bassa quota con bombe di medio calibro “colpendo indistintamente tutto l’abitato”. La popolazione cercò scampo nelle campagne, ma “molti incappavano nel peggio”, perché i reparti tedeschi di rastrellamento “non badavano troppo per il sottile” e spesso mitragliavano ed uccidevano i fuggiaschi “che non sapevano spiegarsi in tedesco e giustificare la loro presenza fuori di casa” (come se questo fosse un motivo valido per venire falciati?), ed in tal modo vennero uccisi dai tedeschi anche il podestà ed il preside del ginnasio che stavano scappando verso nord.
Verso mezzogiorno cessò il bombardamento e nello stesso tempo si avvicinò la prima colonna corazzata germanica dal sud di Pisino, accolta da “nutrito fuoco di fucileria dalle prime case”. I carri armati aprirono il fuoco contro le case “che tosto andarono in fiamme e distrutte. Coloro che da dette case scappavano venivano indistintamente tutti mitragliati e stesi al suolo”, e furono uccisi “molti innocenti tra cui donne e bambini”. Proseguendo verso il centro di Pisino se da qualche casa proveniva una fucilata essa veniva “per pronta rappresaglia immediatamente incendiata”.
“Pisino presentava uno spettacolo pauroso: incendi in tutte le direzioni, in parte dovuti al bombardamento del mattino ed in parte al cannoneggiamento delle colonne (…) la popolazione era letteralmente atterrita dalle distruzioni compiute: l’ottanta per cento delle case era rimasto distrutto in poche ore”.
Le colonne tedesche fermarono gruppi di persone tra le case, sottoposti ad interrogatorio ed in parte fucilati, o portati al castello, dove “per una pura combinazione non successe una tragedia più grande”, in quanto alcuni reparti tedeschi vedendo il castello pieno di prigionieri italiani che erano stati lì abbandonati dai partigiani che avevano lasciato Pisino, li scambiarono per partigiani e puntarono loro contro le mitragliatrici pesanti. Solo per l’intervento di un capitano tedesco che riuscì a spiegare la situazione solo “il primo che si era presentato davanti” venne ucciso.
Da questo documento, che descrive chiaramente sia il comportamento dei partigiani, sia quello successivo dei nazifascisti, appare senza ombra di dubbio chi fu a mettere a ferro e fuoco l’Istria e provocare il martirio di quel popolo. 
Andiamo ora a vedere un altro documento, redatto nell’estate del 1945, il cosiddetto “Rapporto Harzarich”, così chiamato dal nome del sottufficiale dei Vigili del Fuoco di Pola maresciallo Arnaldo Harzarich, che eseguì diversi recuperi da varie “foibe” istriane, dal 16 ottobre 1943 (immediatamente dopo che le truppe tedesche ebbero preso in mano il controllo di tutta l’Istria) fino alla primavera del ‘44. Lavorava sotto il diretto controllo dei nazisti e non era sicuramente sospettabile di simpatie “filoslave” o “filocomuniste”. Questo documento non è la relazione dei recuperi ma una “Relazione tratta dall’interrogatorio di un sottufficiale dei VV.FF. del 41° Corpo di stanza a Pola”, interrogatorio reso al “Centro J” dell’esercito angloamericano nel luglio 1945 (2) . 
In esso Harzarich descrive i recuperi effettuati dalla sua squadra (circa 200 corpi), ma è degno di nota che per le identificazioni degli “infoibati” il maresciallo faccia riferimento, più che non a documentazione propria o ricordi personali, a quanto apparve all’epoca delle riesumazioni sia sulla stampa (cioè gli articoli di Granbassi, anche se spesso molti particolari riportati da Granbassi nei suoi articoli non corrispondono proprio a ciò che Harzarich dichiarò di propria mano), sia in “Ecco il conto!”.
È però fondamentale dire che dal racconto di Harzarich risulta chiaramente che i corpi, riesumati più di un mese dopo la morte furono trovati in stato di avanzata decomposizione, ed era quindi praticamente impossibile riscontrare su essi se le vittime fossero state soggette a torture o stupri mentre erano ancora in vita; così come certi particolari raccapriccianti che vengono riportati dalla “letteratura” delle foibe (ad esempio il sacerdote con il capo cinto da una corona di spine ed i genitali tagliati ed infilati in bocca) non hanno alcun riscontro nella relazione di Harzarich. Così come, a proposito di una delle “mitologie” che furono create intorno alle foibe, e cioè che gli “infoibatori” usassero gettare un cane nero sopra i corpi degli infoibati (gesto al quale sono stati dati negli anni i significati più vasti, dalla superstizione allo spregio, rasentando la magia nera), nei fatti Harzarich disse che in UNA foiba fu trovata la carogna di UN cane nero.

Un altro documento che dovrebbe servire a mettere fine alla querelle sul numero degli infoibati nel periodo in questione è una nota inviata al capitano Miani dal federale dell’Istria Bilucaglia, nell’aprile 1945, che accompagnava 500 pratiche relative a risarcimenti destinati a parenti di persone uccise dai partigiani dall’8/9/43 fino allora. È quindi una stessa fonte ufficiale fascista a dichiarare che, ad aprile 1945, gli “infoibati” in Istria non erano stati più di 500, comprendendo in questo numero anche gli uccisi per fatti di guerra nei 18 mesi successivi al breve periodo di potere popolare nella zona di Pisino.
Questa nota è stata pubblicata da Luigi Papo nel suo “E fu l’esilio” (Italo Svevo 1998), lo stesso che dichiarò al PM Pititto che indagava sulle “foibe” istriane che all’epoca “si trattò di vero e proprio genocidio (…) gli italiani, per il solo fatto di essere italiani venivano prelevati a centinaia e portati quasi tutti nel castello di Pisino (...) ne vennero ammazzati circa 400” (3). 
Proseguendo con la creazione delle false notizie sulle foibe, è sempre Papo a dirci che fu Maria Pasquinelli (4) a portare “in salvo” da Pola sul finire della guerra “per incarico del Centro Studi Storici di Venezia ” (5) assieme ad altri documenti, anche “copia di tutta la documentazione sulle foibe”. Giunta a Milano il 26 aprile 1945, in Piazzale Fiume (dove aveva sede l’Ufficio Stampa della X Mas), prese contatto con Bruno Spampinato, l’ufficiale della Decima che aveva ricevuto l’incarico dal comandante Borghese, e gli consegnò tutto il materiale, parte del quale era già stata utilizzato per la stesura di svariati articoli e che successivamente fu diffuso dagli uffici stampa della Decima. Fu così che iniziò quell’operazione propagandistica che dura da sessant’anni ed i cui effetti arrivano fino al giorno d’oggi e sono ben evidenti ai nostri occhi: le foto sono le stesse che vengono pubblicate in ogni occasione in cui si parla di foibe, indipendentemente dalla zona o dal periodo storico di cui si parla, amplificando in questo modo anche il numero reale dei morti. Nel dopoguerra i servizi segreti che avevano fatto riferimento alla Decima collaborarono anche con i servizi segreti degli Alleati in funzione anticomunista ed una delle loro attività fu appunto continuare a propagare la “mitologia” dei “migliaia di infoibati dai titini”.


II fase: dopo il maggio 1945: le foibe come “contraltare” ai crimini di guerra italiani.

La propaganda sugli infoibamenti e sui crimini che sarebbero stati commessi dai liberatori ricominciò dopo la fine della guerra. In tutta Italia (come del resto negli altri paesi d’Europa che furono occupati dai nazifascisti) si verificarono delle rese dei conti contro chi aveva collaborato con il nemico invasore, però (pur in presenza di operazioni come la corposa produzione letteraria sui “crimini dei liberatori”, della quale Giampaolo Pansa è uno dei capiscuola) la propaganda oggi sembra concentrarsi per la maggior parte sugli avvenimenti del confine orientale.
A Trieste, nonostante la vulgata generalizzata, le esecuzioni sommarie furono molto limitate, proprio perché la dirigenza jugoslava che aveva sotto controllo la città vigilava in modo che non si svolgessero abusi. Ricordiamo qui quanto scrisse lo storico triestino Mario Pacor a proposito del “malcontento operaio” nel maggio del ‘45, quando Trieste era sotto amministrazione partigiana jugoslava:
“Fu così che agli operai insorti non fu permesso di procedere a quelle liquidazioni di fascisti responsabili di persecuzioni e violenze, a quegli atti di “giustizia sommaria” che invece si ebbero a migliaia a Milano, Torino, in Emilia e in tutta l’Alta Italia nelle giornate della liberazione e poi ancora per più giorni. “Non ce lo permettono” mi dissero ancora alcuni operai “pretendono che arrestiamo e denunciamo regolarmente codesti fascisti, ma spesso, dopo che li abbiamo arrestati e denunciati, essi li liberano, non procedono. E allora?” ne erano indignati... > (6).
In questo senso scrisse anche, nel lontano 1948, il quotidiano “Trieste Sera”: < a Trieste non avvenne come nell’Italia settentrionale. Niente morti ai margini delle strade, niente uccisioni sulla soglia di casa. Gli arresti o “prelevamenti” avvenivano sulla base di precedenti segnalazioni. La maggior parte degli arrestati ritornavano a casa dopo alcuni giorni di indagini e molti subito. Sarebbe interessante invitare tutti gli arrestati durante i primi giorni di occupazione della città che hanno ripreso immediatamente la loro vita civile e sarebbe interessante vedere quanti di essi erano compromessi col fascismo e col nazismo per giudicare le autorità popolari d’allora. Circa 2.500 persone vennero arrestate e trattenute, 2.500 su 250.000, dunque l’uno per cento. Molte di queste ritornarono durante questi due anni e mezzo, ma del loro numero nessuno si occupò di tener conto. Oggi tutti, anche i ritornati, vengono sempre fatti figurare come scomparsi > (7) .
Nella “fabbrica” della propaganda sulle foibe un ruolo preminente lo ebbe il CLN triestino, quello che si era staccato dal CLN Alta Italia perché non voleva conformarsi alle direttive nazionali di collaborare con il Fronte di Liberazione-Osvobodilna Fronta di Trieste, che aveva contatti con l’esercito di liberazione jugoslavo. Già da maggio 1945 il CLN di Trieste iniziò a fornire notizie false ai comandi alleati per creare un “allarme” sulla questione degli infoibamenti, dando false notizie su presunti infoibamenti a Basovizza di 400 o addirittura 600 persone gettate dagli jugoslavi nel pozzo della miniera (quello che oggi è diventato il monumento nazionale). Nonostante queste bufale venissero di volta in volta smentite dalle autorità, nonostante lo stesso capitano Miani avesse dichiarato allo studioso triestino Diego de Henriquez che “le persone scomparse durante l’occupazione di 40 giorni jugoslavi erano circa cinquecento e non migliaia come egli (cioè Miani,ndr) usa dire nelle sue azioni di propaganda contro gli slavo-comunisti” (8), ancora oggi si continua a fare confusione e mistificazione sul reale numero degli “scomparsi” nel maggio 1945 a Trieste.

Nello stesso tempo, a livello internazionale si creò un altro tipo di problema, riguardante la punizione dei criminali di guerra italiani richiesti dalla Jugoslavia, problema che fu sollevato dagli storici Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer (9) nel 2001:
< Come dimostra un importante documento dell’agosto 1949 (doc. 19 Segr. Pol. 875, inviato il 20/8/49, firmato Zoppi, inviato A S.E. l’Ammiraglio Franco ZANNONI, Capo Gabinetto Ministero Difesa ROMA), nessuno dei pur pochi indagati considerati dalla Commissione d’inchiesta deferibili alla giustizia fu mai giudicato. Nei confronti di alcuni fu spiccato un mandato di cattura da parte della magistratura italiana, ma venne dato a tutti il tempo di mettersi al riparo. Qualcuno lo fece rifugiandosi all’estero. La tattica dilatoria delle autorità italiane ebbe quindi pieno successo. Ciò anche in ragione dei mutamenti internazionali avvenuti nel 1948. La rottura fra Jugoslavia ed URSS del giugno 1948 privò, infatti, Belgrado dell’appoggio dell’unica delle quattro grandi potenze dimostratasi fino ad allora disposta a sostenerne le rivendicazioni >.
A questo punto va inserito un intervento del procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, < “alla fine degli anni Quaranta fu aperto presso questo ufficio un procedimento nei confronti di 33 persone accusate di concorso in uso di mezzi di guerra vietati e concorso in rappresaglie ordinate fuori dai casi consentiti dalla legge. Il procedimento si concluse il 30 luglio 1951 con una sentenza del giudice istruttore militare. Questi stabilì che non si doveva procedere nei confronti di tutti gli imputati, perché non esistevano le condizioni per rispettare il principio di reciprocità fissato dall’articolo 165 del Codice penale militare di guerra”. Secondo tale norma, un militare che aveva commesso reati in territori occupati poteva essere processato a patto che si garantisse un eguale trattamento verso i responsabili di reati commessi in quella nazione ai danni di italiani. Vale a dire, per esempio: noi processiamo i nostri militari colpevoli, voi jugoslavi condannate i responsabili delle uccisioni nelle foibe. L’articolo 165, continua Intelisano, è stato riformato, con l’abolizione della clausola di reciprocità, nel 2002 > (10).
Lo studioso triestino Fabio Mosca ha tratto queste conclusioni: il “nuovo” esercito italiano ricostituito al Sud, “formato da ufficiali già impegnati nella guerra fascista, minacciati di essere processati dai paesi aggrediti che ne chiedevano l’estradizione” si unì ai “politici della ‘nuova Italia’ in un coro nel gridare alle foibe”; cioè avrebbero “visto nelle foibe una buona occasione per occultare le sue colpe”. In questo contesto “la foiba di Basovizza, unica in zona accessibile, assurse a grande valore nella campagna per delegittimare la nuova Jugoslavia nelle sue richieste di estradizioni. Gli anglo americani acconsentirono alla manovra conservando il segreto sulla realtà del ricupero di ‘soli” 10 corpi in divisa di tedeschi dalla suddetta foiba. Nel 1948 la Jugoslavia non contò più sul suo alleato sovietico e smise di richiedere le estradizioni. I criminali non vennero mai consegnati né processati e cessò per decenni la campagna sulle foibe. Dalla morte di Tito in poi, le foibe vennero nuovamente riproposte per preparare l’opinione pubblica per l’eventuale blitz per il recupero dei territori perduti nel ‘45” (11).

La situazione rimase poi statica fino all’inizio degli anni ’90: la destra continuava ad usare la questione delle foibe in senso anticomunista, antijugoslavo ed irredentista, mentre la sinistra preferiva ignorare il problema. Unica voce fuori dal coro il professor Giovanni Miccoli dell’Università di Trieste che nel 1976, all’epoca del processo per i crimini della Risiera di San Sabba (campo di concentramento e di sterminio nazista a Trieste), di fronte alla richiesta di settori della destra estrema (tra i quali l’ex esponente triestino di Ordine nuovo, Ugo Fabbri, supportato dalla rivista “Il Borghese”) di procedere anche contro gli “infoibatori”, definì “accostamento aberrante” quello che si voleva fare tra foibe e Risiera, in quanto i crimini della Risiera furono il prodotto di una violenza di stato, organizzata a tavolino, con fini ben determinati, mentre ciò non si poteva dire per le vittime delle foibe (all’epoca, ricordiamo, la terminologia “foibe” non aveva ancora assunto quella caratteristica di generalizzazione che vedremo più avanti). 
Le richieste della destra non tenevano inoltre conto delle decine di processi celebrati dal GMA tra il 1946 ed il 1949 contro membri della Resistenza accusati di essersi fatta giustizia da sé, spesso condannati a pene piuttosto severe.
Possiamo fissare come punto fermo della storiografia nel 1990 lo studio di Roberto Spazzali “Foibe. Un dibattito ancora aperto” (edito a cura della Lega Nazionale di Trieste), dove lo storico raccoglie quasi tutto ciò che era stato pubblicato e detto sulle foibe fino a quel momento.


III fase, anni ’90, grandi manovre.

All’inizio degli anni ‘90, dopo il crollo del muro di Berlino e l’asserita “fine del comunismo”, con il contemporaneo sfascio della Jugoslavia, anche la pubblicistica sulle foibe ha conquistato nuova linfa.
Fondamentale in questa operazione il ruolo del pordenonese Marco Pirina, che negli anni ‘60 e ‘70 era stato un attivista di estrema destra (quale rappresentante del Fronte Delta fu coinvolto nelle indagini sul tentato golpe Borghese, e poi prosciolto), che iniziò una serie di pubblicazioni sulle vicende del confine orientale, finalizzate a dimostrare la “barbarie” dei partigiani, la violenza dei “vincitori”, ma usando a questo scopo metodi poco ortodossi, come il moltiplicare la quantità di “infoibati” inserendo negli elenchi delle “vittime dei titini” anche moltissimi nominativi di persone che non erano state uccise dai partigiani.
Verso metà degli anni Novanta, all’opera di falsificazione storica di Pirina si aggiunsero le dichiarazioni politiche di personalità della sinistra, come il segretario del PDS triestino Stelio Spadaro, il quale iniziò a dire che era giunta l’ora che anche a sinistra si riconoscessero i crimini delle foibe; ed anche le prese di posizione dell’onorevole Luciano Violante, che si attivò a favore del riconoscimento dei “ragazzi di Salò” e promosse assieme a Gianfranco Fini un convegno (svoltosi non si sa se casualmente o per scelta proprio a Trieste nel 1998), il cui scopo era di giungere ad una “pacificazione”, che in pratica significava nient’altro che la riabilitazione e legittimazione del fascismo e dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana.
Nello stesso periodo il PM romano Giuseppe Pititto iniziò un’indagine sulle “foibe”, che prese l’avvio da un paio di denunce presentate da figli di “infoibati” che erano supportati, dal punto di vista legale, dall’avvocato Augusto Sinagra, piduista ed irredentista, che nel corso dei convegni cui partecipava usava dire che lo scopo di quel processo era di restituire in sede legale agli esuli ciò che era stato loro tolto in sede storica.
Questa istruttoria, presentata sulla stampa come risolutiva della vicenda “foibe” si concluse alla fine con un nulla di fatto: le richieste di rinvio a giudizio erano relative ad un decina di vittime a Pisino nel 1943 e tre a Fiume nel 1945, e la sentenza finale sancì che l’Italia non aveva giurisdizione sul territorio dove si erano svolti i fatti.
Di fronte a questa offensiva di criminalizzazione della Resistenza al confine orientale si costituì un gruppo di lavoro sia per organizzare la difesa degli imputati nel processo iniziato da Pititto, sia per rispondere in maniera storica alle mistificazioni che venivano diffuse dagli organi di stampa. Un primo prodotto di questa attività fu il mio breve studio (“Operazione foibe a Trieste”) pubblicato nel 1997, che nel mare magnum di pubblicazioni sull’argomento era uno dei pochi che inquadrava la cosiddetta “questione delle foibe” da un punto di vista storico e non agiografico o politico.
In esso, oltre a contestualizzare i fatti nell’epoca in cui si svolsero, inserii un elenco di nominativi di presunti “infoibati” (tratto dal “Genocidio…” di Pirina, pubblicato nel 1995) analizzati uno ad uno e dal quale risultava che il 64 % dei nominativi dati per “infoibati” da Pirina non c’entravano nulla: o si trattava di trascrizioni errate per cui i nominativi erano duplicati, oppure erano nomi di persone arrestate ma poi rilasciate, o rimpatriate dalla prigionia, di morti nel corso del conflitto, di uccisi per regolamenti di conti anche molti anni dopo la fine della guerra, o addirittura (la mistificazione suprema) si trattava di partigiani uccisi dai nazifascisti.
Questo studio, essendo basato su documenti (alcuni dei quali inediti) era quindi inoppugnabile da un punto di vista storiografico, e suscitò (com’era da aspettarsi) reazioni negative da parte di coloro che avevano da sempre usato a scopo politico la questione delle foibe, ingigantendo il numero delle vittime
Le risposte non mancarono, da Pirina che pubblicò un pamphlet dal significativo titolo “Ecco il conto!”, che non a caso riprende in copertina il titolo, la grafica ed una delle foto che apparivano nell’omonimo libello edito dai nazisti nell’inverno del ‘43 sulle foibe istriane, al ponderoso volume di Giorgio Rustia che oggi viene propagandato sul sito dell’ANVGD (12) come “la risposta completa e dettagliata a tutte le teorie negazioniste di sedicenti storici e trinariciuti divulgatori che imperversano su internet, nelle librerie, ai convegni e nelle scuole”. Nessuna di queste “risposte” è stata in grado di confutare i risultati delle ricerche pubblicate in “Operazione foibe a Trieste”, né tantomeno nella successiva edizione del 2005 (“Operazione foibe tra storia e mito”), ma in riferimento al termine “teorie negazioniste” cui accenna l’ANVGD bisogna spiegare che nel corso degli anni si è costituito un gruppo di ricercatori storici (Resistenza storica) che sulla base di nuova documentazione trovata in archivi non solo italiani, ha prodotto svariati studi sull’argomento. Queste ricerche sono state sbrigativamente definite “negazioniste” in quanto non concordano con quanto è stato finora sostenuto in maniera del tutto propagandistica, proprio dalle stesse persone ed associazioni che non si fanno scrupolo di affermare il falso pur di mantenere viva la “mitologia” delle foibe.
Se queste reazioni da parte della destra non stupiscono, la cosa che dà da pensare, invece, è che gli storici accreditati in materia (Pupo e Spazzali) bollarono “Operazione foibe a Trieste” come “tesi militanti” (13), negandogli dunque una qualsivoglia dignità di testo storico (quanto alla successiva edizione, “Operazione foibe tra storia e mito”, spesso non viene neppure citata nelle bibliografie sull’argomento). Questi sono gli stessi storici che hanno iniziato la pubblicazione di alcuni testi la cui intenzione sembra essere quella di analizzare il “fenomeno delle foibe” in senso politico e non storiografico, in quanto ritengono che non sia più necessaria la ricerca storica sull’argomento. Pertanto questi testi non tengono conto tanto di documenti (inediti o già noti) ma si basano piuttosto su quanto già pubblicato precedentemente da altri studiosi. 
Inoltre, nel citato “Foibe” del 2003 Pupo e Spazzali diedero una svolta notevole nella storiografia in materia:
< Quando si parla di “foibe” ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime. È questo un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale >.
Gravissima affermazione, dato che solo una minima parte di coloro che morirono per mano partigiana durante e dopo la guerra furono effettivamente uccisi nelle foibe, mentre la maggior parte di coloro che persero la vita nel dopoguerra morirono nei campi di prigionia o dopo condanna a morte. Ma accettare a livello storicistico una tale definizione, che nell’immaginario collettivo ha sempre richiamato l’immagine di una morte terribile, significa soltanto voler perpetuare una generalizzazione mistificante che non fa certo un buon servizio alla realtà storica.


Punto finale, 2010: “colpire la memoria, riscrivere la storia”.

“Operazione foibe a Trieste” si apriva con la citazione di alcuni versi della canzone “Ruggine” degli Africa Unite: “colpire la memoria, riscrivere la storia”, parole che a distanza di 13 anni appaiono quanto mai appropriate. Nel 2004 fu approvata la legge per l’istituzione del Giorno del ricordo “della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” (14), da celebrare il 10 febbraio, cioè nell’anniversario della firma del Trattato di pace del 1947. La legge prevede dunque che in tale giornata si approfondisca la conoscenza dei fatti del confine orientale, il che significa parlare non solo delle foibe e dell’esodo, ma anche dei crimini di guerra italiani e più genericamente del fascismo e dell’antifascismo nelle nostre terre. Dal 2005, quindi, si sono moltiplicate le iniziative sull’argomento, non solo quelle meramente celebrative, organizzate dalle associazioni degli esuli (principalmente l’ANVGD), che ripropongono le vecchie teorie propagandistiche delle “migliaia di infoibati solo perché italiani”; ma anche iniziative che vedono la partecipazione di storici seri, tra i quali anche i rappresentanti di Resistenza storica.
Contro questi ultimi si è scatenata un’offensiva feroce che, partendo dal presupposto che tutto quanto era stato detto “prima” sulle foibe è verità conclamata, tutti coloro che (pur portando a dimostrazione di quanto scrivono fior di documenti) non vi si conformano, diventano automaticamente “negazionisti”, ai quali dovrebbe essere, secondo le posizioni di Lega nazionale, Unione degli Istriani e ANVGD (supportati da alcuni esponenti politici) impedito di parlare, e magari in un futuro comminata la galera se insistono a voler esprimere le loro posizioni.
È interessante che il presidente dell’Unione degli istriani, Massimiliano Lacota, che vorrebbe venisse emanata una legge a questo scopo, abbia anche preso le distanze da coloro che non conoscendo i fatti storici tendono ad ingigantire il fenomeno foibe, esagerando la quantità delle vittime, ed ha invece considerato quali storici seri Pupo e Spazzali, che in effetti negli ultimi mesi sembrano avere monopolizzato la gestione storiografica sulle vicende del confine orientale alla fine del secondo conflitto mondiale.

È necessario a questo punto fare un’analisi della storiografia secondo Pupo e Spazzali, come l’abbiamo sentita esprimere nel corso di una conferenza tenutasi a Gorizia il 23 maggio scorso.
Come accennato sopra, nel corso degli ultimi quindici anni, soprattutto da parte di giovani ricercatori di buona volontà, spesso del tutto ignorati da altri storici “accademici” (tra i quali gli italiani Valdevit, Spazzali, Pupo e la slovena Troha) sono emersi documenti interessantissimi sull’argomento “foibe”, tra essi il carteggio di fonte alleata rinvenuto dal ricercatore triestino Gorazd Bajc negli archivi di Washington, che chiarisce cosa effettivamente NON ci sia nella foiba di Basovizza. Citiamo soltanto il documento del febbraio 1946 nel quale i vertici militari angloamericani ordinano di sospendere le ricerche a Basovizza con la raccomandazione però di dire che lo si fa per problemi tecnici e non perché oltre alla decina di corpi esumati sei mesi prima non c’è più nulla da recuperare, dato che non si può smentire quanto asserito dal CLN (15).
Del resto Pupo sostiene che nel corso degli ultimi anni non sono emersi nuovi documenti sulle foibe (in effetti nelle sue opere e nei suoi interventi egli non solo non considera nulla di quanto altri ricercatori hanno rinvenuto negli ultimi anni, ma non tiene conto neppure di documenti vecchi, ad esempio la relazione Cordovado che abbiamo visto prima), tutto quello che c’era da trovare è stato trovato e, pur senza avere ancora preso visione degli archivi di Belgrado afferma già con sicurezza che non ci sono neppure lì documenti importanti. La sua conclusione è quindi che i fatti storici sono assodati ed ormai sulla questione delle foibe non c’è altro da sapere (un’inedita sintonia con le posizioni espresse da Fausto Bertinotti nel famoso convegno di Venezia del 2004) e l’unica cosa da fare oggi, su questi argomenti, sono valutazioni ed interpretazioni di tipo politico anziché storico.
Sostanzialmente in tal modo viene lasciato ai propagandisti come Pirina di entrare nel merito concreto della questione (cioè il numero dei cosiddetti “infoibati”), senza valutare se quanto detto corrisponda a verità; e considerando che Pupo ha fatto anche un breve cenno alla questione dei “negazionisti”, da lui definito come fenomeno marginale al quale è stato dato anche troppo risalto, ciò che viene da pensare è che Pupo ritenga valide le cifre di Pirina, visto che considera “negazionisti” coloro che lo hanno smentito.
Nell’ambito della valutazione di questi fenomeni storici da un punto di vista politico, vediamo poi anche che la vicenda non solo non viene inquadrata nell’ambito di quella che fu la sistemazione degli equilibri internazionali alla fine della seconda guerra mondiale, ma che si è addirittura giunti alla creazione di un “non-fenomeno”, utilizzando il metodo di Pupo e Spazzali di considerare l’accezione più ampia del termine “foibe” nel “suo significato simbolico e non letterale”. Se consideriamo i milioni di morti della seconda guerra mondiale, il numero di vittime “delle foibe” (circa trecento nel settembre 1943), risulta talmente minimale da non poter essere preso in considerazione come “fenomeno” a sé stante, a meno che non si decida di accomunare in senso “simbolico” le vittime della jacquerie del settembre ’43 in Istria, le vittime di regolamenti di conti e vendette personali, i militari morti di tifo nei campi di internamento, i condannati a morte per crimini di guerra alla fine del 1945. Solo con questa “generalizzazione” si riesce a raggiungere un numero di vittime (attribuibili genericamente agli “jugoslavi”) tale da poter essere considerato rappresentativo di un fenomeno (“alcune migliaia”, scrivono Pupo e Spazzali), che viene letto come pianificazione operata dal nascente Stato jugoslavo per l’eliminazione di chi avrebbe potuto costituire un pericolo per l’instaurazione del nuovo “regime”. 
In realtà, come abbiamo evidenziato in precedenza, la Jugoslavia non aveva in alcun modo “pianificato” le uccisioni di chi poteva essere considerato un “nemico”; così i militari prigionieri nei campi di internamento, morti per malattia, non furono uccisi scientemente perché “pericolosi” per la costruzione della nuova Jugoslavia, né si può attribuire alle autorità jugoslave la responsabilità degli uccisi per vendette personali o regolamento di conti. E nel contempo diventa necessario, per perpetuare questa teoria politica, considerare con sufficienza, se non con disprezzo, gli storici che insistono nel voler fare la “contabilità dei morti”, cioè distinguere le modalità delle uccisioni e le qualifiche delle vittime.
Così assistiamo a manipolazioni storiografiche di non poco conto: quando Pupo afferma che le autorità jugoslave a Trieste arrestarono tutti coloro che non vollero mettersi a loro disposizione (ciò accadde ad un reparto di guardie di finanza e parte del CVL locale), “dimentica” che la Jugoslavia era un paese alleato del blocco antinazifascista (l’Italia era solo cobelligerante) e che gli accordi armistiziali prevedevano che quando un esercito alleato arrivava in un territorio già occupato dai nazifascisti, tutti gli elementi armati dovevano porsi a disposizione degli alleati, consegnando loro le armi. Questo valeva nei confronti degli angloamericani come nei confronti degli jugoslavi, quindi a Trieste chi non accettava di consegnare le armi agli jugoslavi veniva considerato come nemico con le conseguenze del caso. Accettare questo dato di fatto non significa prendere le parti dell’una o dell’altra fazione, come sostiene Pupo, è invece vero il contrario, quando si interpretano gli eventi storici in modo fazioso per portare acqua al mulino delle proprie tesi; tesi che, nel caso di Pupo, è che tutti gli uccisi dagli jugoslavi, dai militari prigionieri di guerra ai collaborazionisti italiani, sloveni e croati, alle vittime di vendette personali, tutti costoro, secondo Pupo, sarebbero stati uccisi per permettere la costruzione della “nuova Jugoslavia”. 
Ma questa interpretazione storica sui generis porta infine alla seguente valutazione politica: coloro che collaborarono con la resistenza jugoslava (il Partito comunista, il Fronte di Liberazione-Osvobodilna Fronta ed Unità operaia-Delavska Enotnost a Trieste) non vengono considerati come combattenti antifascisti per la libertà, ma come sostenitori di un “regime” nato dalla violenza, e di conseguenza esecrabili. In questo contesto è anche fondamentale operare un’altra mistificazione, e cioè affermare che il Partito comunista triestino era uscito dal CLN di Trieste perché preferiva collaborare con il Fronte di Liberazione collegato con la resistenza jugoslava. In realtà le cose andarono diversamente: quando il CLN di Trieste prese contatto con la dirigenza del CLN Alta Italia le direttive di quest’ultimo furono che nella Venezia Giulia era necessario collaborare con la resistenza jugoslava, come già faceva il Partito comunista. I dirigenti del CLN triestino, però, nazionalisti ed anticomunisti, si opposero e preferirono rompere il collegamento col CLNAI, che a quel punto rimase in contatto col solo Partito comunista. Quindi non fu il PC ad uscire dal CLN ma il CLN a staccarsi dal CLNAI, e se storici come Pupo ribaltano la storia in questo modo, il sospetto è che lo facciano per uno scopo meramente politico, cioè dipingere la resistenza di sinistra (che fu l’unica vera resistenza armata nella Venezia Giulia) come “asservita” al movimento di liberazione jugoslavo, e quindi colpevole e complice, quantomeno da un punto di vista “morale”, delle “foibe”, che secondo queste interpretazioni più politiche che storiche, avrebbero avuto lo scopo politico dell’eliminazione di chi si opponeva alla politica jugoslava, alla presenza jugoslava a Trieste, alla costruzione della Jugoslavia.
In tale modo la resistenza di sinistra non può che apparire al lettore in modo negativo, e va da sé, a questo punto, che l’unica resistenza accettabile diventa giocoforza quella nazionalista, cattolica, anticomunista, quella che secondo una definizione di Pupo avrebbe combinato assieme “antifascismo e rivendicazione risorgimentale di italianità”; resistenza che, però, si era costituita concretamente soltanto all’inizio del 1945, quando i nuovi dirigenti, subentrati a coloro che erano stati arrestati dai nazifascisti nella terza operazione condotta dai nazifascisti contro i vertici del CLN (dietrologicamente a posteriori si potrebbe anche pensare che tali arresti, causati da un delatore che denunciò i membri di una missione del Regno del Sud, il comandante della quale collaborò con i nazisti in funzione antijugoslava, siano stati molto opportuni per la successiva politica del CLN triestino), avendo valutato la possibilità che l’esercito jugoslavo giungesse a Trieste prima degli angloamericani, decisero di organizzarsi per il passaggio di potere e costituirono le brigate del CVL (raccogliendo personale dalle forze armate collaborazioniste, PS, Guardia di finanza e Guardia civica ed anche singoli provenienti dalla Decima Mas) il cui scopo (dichiarato a posteriori da esponenti del CVL) era non tanto quello di combattere i nazisti che comunque stavano abbandonando Trieste, quanto il far apparire sia all’Esercito jugoslavo che entrava in città, sia agli Angloamericani che sarebbero arrivati alcuni giorni dopo, che a Trieste esisteva anche una “resistenza patriottica” oltre a quella comunista ed internazionalista che aveva operato durante l’occupazione germanica.
Ricordiamo che uno dei nuovi dirigenti del CLN era il poeta Biagio Marin, che fino ad un paio di anni prima non era stato solo un gerarca fascista, ma anche un convinto assertore della positività della politica hitleriana. Quale opinione potevano avere di un CLN rappresentato da persone come questa i combattenti del Fronte di liberazione e del Partito comunista?
Inoltre la Brigata Venezia Giulia del CVL (che raccoglieva diversi transfughi sia dalla Decima Mas che dalla polizia politica fascista) operò nei “40 giorni” di amministrazione jugoslava non solo con azioni di propaganda, ma anche con attentati dinamitardi, ed arrivò addirittura a rapire un paio di membri del Comitato esecutivo antifascista triestino (il governo provvisorio della città, composto da membri sloveni ed italiani). Fu perché questo settore del CVL operò in maniera terroristica che una decina di membri di esso fu arrestata dalle autorità verso la fine di maggio 1945, e non perché (come sostiene Pupo) fossero contrari in senso generico alla politica jugoslava.
Tra gli attivisti di questa “resistenza” troviamo il triestino Fabio Forti, oggi rappresentante dell’AVL-Associazione Volontari della Libertà, nonché promotore, assieme a Stelio Spadaro ed allo storico Patrick Karlsen, di un progetto editoriale di pubblicazione di testi che riscrivono la storia della resistenza “patriottica” a Trieste. Forti ha più volte asserito che il loro CLN è stato l’unico in Italia che rimase in clandestinità fino al 1954 (quando Trieste fu definitivamente affidata all’amministrazione italiana), aggiungendo anche che “nel nostro spirito siamo ancora in clandestinità”.
Consideriamo che da questa “resistenza” derivarono, nel dopoguerra, quelle organizzazioni armate, clandestine, che operarono nella Venezia Giulia, nel Friuli e nelle Valli del Natisone (tricoloristi, organizzazione “O”, Gladio, squadre di Cavana e del Viale a Trieste), causando anche diverse vittime; e ricordiamo anche come operarono in funzione anticomunista (non si poteva permettere che il Partito comunista andasse al governo in Italia) tanti ex rappresentanti di questa “resistenza patriottica” (Fumagalli con il suo MAR, Edgardo Sogno con il suo tentativo di golpe) e le connessioni ancora non del tutto chiarite tra esponenti dei servizi, ex partigiani bianchi e neofascisti, che emergono dalle indagini sulle stragi di piazza Fontana e di Brescia, fatti che ancora oggi pesano sulla storia dell’Italia democratica.
Eppure è proprio questa la “resistenza” che emerge come positiva dalle riletture storiche di accademici come Pupo, a scapito della resistenza “rossa”, che viene descritta come antidemocratica, responsabile di esecuzioni sommarie; riletture dove la criminalizzazione della resistenza comunista va di pari passo con la riabilitazione dei fascisti, dei “ragazzi di Salò” ai quali Luciano Violante aveva già teso una mano a metà degli anni ’90. Perché troppo spesso abbiamo sentito dire che in fin dei conti se i fascisti hanno commesso dei crimini lo fecero per amore di patria, e che invece i comunisti commisero dei crimini per motivi ideologici, e quindi ambedue le parti hanno le loro responsabilità negative, dal che sorge l’elogio della “zona grigia”, quella che nella migliore delle ipotesi si costituì in “resistenza democratica”, limitandosi ad aspettare che gli angloamericani arrivassero a liberare l’Italia. E non abbiamo forse sentito dire anche da esponenti della sinistra (ad esempio Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, nel 2004) che non fu giusto armarsi e ricorrere alla violenza, come se fosse più eticamente corretto lasciare che siano altri a sporcarsi le mani di sangue, ma tant’è. 
Questa la storia d’Italia che si vuole riscrivere a distanza di sessant’anni, a fini meramente politici, e logicamente per raggiungere questo scopo è necessario mettere a tacere ogni voce che non si adegua, dal punto di vista storiografico, a questo “nuovo corso”.
Forse è per questo che oggi ci troviamo, noi rappresentanti di “Resistenza storica” ad essere criminalizzati da propagandisti di quella destra nazionalista e neoirredentista, così come snobbati o addirittura tacciati di ideologismo da storici che invece sono i primi ad usare la storia per dimostrare le loro teorie politiche. Perché, si badi bene, siamo gli unici che ricercano documenti originali e li analizzano per poi trarne delle conclusioni di tipo storico, mentre gli uni e gli altri che ci tacciano di “negazionisti” non solo non scrivono di storia, limitandosi a produrre analisi politiche, ma non considerano minimamente la documentazione esistente che potrebbe minare le loro certezze affermazioniste, quella sorta di “miti” che servono a perpetuare la propaganda anticomunista e nazionalista sulle foibe, quella propaganda iniziata dai nazisti nel 1943 e che ancora oggi, nonostante sia stata smentita più e più volte, non sembra avere la possibilità di un riscontro neppure a livello di storici accademici come Pupo, Spazzali ed altri.
Infine una breve considerazione personale: quando, ormai molti anni fa, avevo iniziato a studiare queste cose, la reazione che avevo riscontrato da parte della mia componente politica di riferimento, la sinistra cosiddetta “radicale”, era stata di sufficienza se non di fastidio, come se fosse una perdita di tempo occuparsi di fatti di cinquant’anni prima. Oggi, quando dovrebbe essere chiaro che speculare su fatti di sessant’anni fa, riscrivendo la storia non solo d’Italia ma di tutta Europa, ha lo scopo di negare ogni dignità politica ai partiti comunisti in modo da eliminare completamente ogni forma di opposizione al neoliberismo capitalista ed imperialista, non posso fare a meno di considerare che se la sinistra fosse stata meno miope tempo addietro, forse oggi non ci troveremmo in questa situazione.


NOTE:

1) Paolo Parovel, “Analisi sulla questione delle foibe”, inviata al Ministero degli Interni.
2) Archivio IRSMLT, n. 346.
3) Istruttoria 904/97 RRG.
4) Luigi Papo, “L’ultima bandiera. Storia del reggimento Istria”, supplemento a “L’Arena di Pola”, 1986.
5) Il Centro, presieduto da Libero Sauro, fu rifondato a Roma nel 1947.
6) Documento conservato presso l’Archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste, XXX 2227.
7) “Trieste Sera”, 4/2/48, articolo siglato “B.C.”. 
8) Nei “Diari” di Diego de Henriquez, conservati presso i Civici musei di Trieste, pag. 12.512.
9) “La questione dei ‘criminali di guerra’ italiani e una Commissione di inchiesta dimenticata”, in “Contemporanea”, a. IV, n.3, luglio 2001, pp. 497-528.
10) Intervista a cura di Dino Messina in http://lanostrastoria.corriere.it/2008/08/italiani-mala-gente.html.
11) Nel sito www.italy.indymedia.org.
12) Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, organizzazione irredentistica che opera in tutta Italia.
13) In "Foibe” edito da Bruno Mondadori nel 2003.
14) Articolo 1 della Legge 92/04.
15) “Priorità/Combined Chiefs of Staff/W.D. Ext. 77500/Secret to Allied Force Headquarters Caserta Italy – British Joint Staff Mission Washington DC (Signed C.R. Peck, Colonel, Infantry U.S. Executive Secretary)/Secret/19 February 1946”. Parte della documentazione è fotocopiata e le fotocopie sono depositate nel Pokrajinski Arhiv Koper (PAK), ae 648.


Pubblicato Luglio 1, 2010 05:05 AM




IN OCCASIONE DEL 90° ANNIVERSARIO DELL’INCENDIO DEL
NARODNI DOM DI TRIESTE
LA REDAZIONE DE
“LA NUOVA ALABARDA”
PRESENTA IL DOSSIER
 
“AL BALKAN CON FURORE
Ardua la vera verità sul Tenente Luigi Casciana”
 
GIOVEDÌ 8 LUGLIO 2010
ALLE ORE 17.30
PRESSO LA SALA DELLA
BIBLIOTECA NAZIONALE E DEGLI STUDI
NARODNA IN ŠTUDIJSKA KNJIŽNICA VIA FILZI 14 (EX HOTEL BALKAN)
 



(italiano / srpskohrvatski)

Mosad baza Italija

1) Trieste 30/6: presentazione del libro MOSSAD BASE ITALIA
2) L'ItaIia paradiso del Mossad (di Roberto Livi)
3) ERIKO SALERNO Mosad baza Italija (razgovarala Milica Ostojić)


=== 1 ===

Da: Claudia Cernigoi 
Data: 25 giugno 2010 14:12:18 GMT+02:00
Oggetto: I: MOSSAD BASE ITALIA - presentazione del libro di Eric Salerno a Trieste


Giro l'annuncio con preghiera di diffusione.
aderisce il Coordinamento antifascista di Trieste
Claudia Cernigoi
 
--- 
Da: compax @ inwind.it 
Oggetto: MOSSAD BASE ITALIA - presentazione del libro di Eric Salerno a Trieste

Data: Venerdì 25 giugno 2010, 12:54

MOSSAD BASE ITALIA - presentazione del libro di Eric Salerno a Trieste
Apri "Mossad base Italia", e sulla mappa di basi del servizio segreto israeliano nel nostro paese compare Trieste, dove nel '72 Settembre nero compì l'attentato al terminal petroli Siot.
Impossibile non parlare del libro di Eric Salerno, corrispondente dal Medio Oriente del "Messaggero" di Roma, che verrà presentato per mobilitare le coscienze sui fatti di Palestina mercoledì 30 giugno, alle ore 18 presso la libreria Lovat di viale XX Settembre, un mese dopo l'assalto israeliano alle navi umanitarie della Gaza freedom flotilla. 
Nel libro si documenta la nascita della Marina militare israeliana, merito anche anche alla X Mas. Si documentano l'attentato all'ambasciata inglese nel '46 a Roma ed il rapimento di Mordechai Vanunu - tutt'ora in carcere - nel '76 a Roma. Si accenna perfino al rapimento Moro.
A Trieste che fu annessa al terzo Reich ed è sede dell'unico Campo di sterminio in Italia, le Associazioni Penombre, Comitato pace convivenza e solidarietà "Danilo Dolci" e Salaam Ragazzi dell'Olivo, col supporto di Sinistra Ecologia e Libertà e l'adesione del coordinamento antifascista, hanno invitato Eric Salerno per spiegare anche la sua visione dei fatti su quanto sta accadendo oggi. 
L'intricato tessuto storico di interessi ebraici con l'influente Comunità cittadina, come conviverà dopo la crisi di Gaza coi rilevanti interessi turchi a Trieste, porto terminale della linea traghetti da Istanbul per l'Europa ?
Sui muri di S.Sabba, Diego de Henriquez raccolse le testimonianze degli internati divenute patrimonio vivo del Museo della guerra per la pace, istituzione dall'eccezionale potenziale formativo lasciata al Comune di Trieste che da tempo ne sta curando il restauro.

Per la Tavola della pace, Alessandro Capuzzo


=== 2 ===


L'ItaIia paradiso del Mossad

di Roberto Livi *


Gli 007 di Israele in azione nella “base Italia”

In un libro appena uscito Eric Salerno racconta come il nostro sia sempre stato un paese in cui i servizi israeliani hanno potuto fare quel che han voluto (Zwaiter, Vanunu...).Fin dal '48 quando Ada Sereni disse a De Gasperi : «Il governo italiano deve chiudere un occhio e possibilmente due sulle nostre attività in questo paese»

Aprile 1948. Nel suo studio di Trento Alcide De Gasperi ha un incontro riservato e difficile. Di fronte a lui una donna decisa gli chiede in pratica carta bianca per le operazioni degli agenti di quell'«Istituto» che l'anno seguente diventerà il Mossad, il servizio segreto israeliano, quasi un mito per gli 007 del mondo intero. Il presidente del consiglio è titubante. Dal 1945, quando ancora non esisteva lo Stato di Israele, l'Italia era al centro di una battaglia geopolitica che segnerà tutta la seconda metà del '900. E i cui effetti continuano oggi.
Decine di migliaia di profughi ebrei liberati dai campi di sterminio nazisti si dirigono nel nostro paese, le organizzazioni sioniste cercano di farle entrare nella Palestina sotto mandato inglese e soprattutto cercano appoggi logistici - acquisto di armi, addestramento - per preparare l'inevitabile guerra fondativa dello Stato di Israele. Londra resiste, non vuole inimicarsi gli arabi ed essere esclusa dal business del petrolio, gli Stati uniti, leader degli Alleati, si apprestano a scalzare la Gran Bretagna come potenza egemone in Occidente e appoggiano il nazionalismo israeliano, l'Unione sovietica di Stalin gioca le sue carte per contrastare l'influenza americana in Medio Oriente.
L'Italia è ancora un paese a sovranità debole. De Gasperi capisce che deve schierarsi e accetta la richiesta di Ada Sereni, ebrea romana emigrata nel 1927 nel «focolare ebraico» in Palestina e tornata nel paese natale come dirigente del Mossad: «Il governo italiano deve chiudere un occhio e possibilmente due sulle nostre attività in questo paese». Da quel momento l'Italia diventa una sorta di terra promessa per gli agenti israeliani. Dall'immigrazione clandestina di ebrei sopravvissuti all'olocausto al traffico di armi, dagli attentati anti-inglesi al sabotaggio di navi e fabbriche che lavoravano per paesi arabi, dagli assassinii mirati di palestinesi a extraordinary rendition ante-litteram, dai tentativi di destabilizzazione politica a operazioni coperte nel quadro della guerra fredda.
Per oltre 60 anni gli uomini del Mossad hanno agito nelle loro basi italiane con la complicità dei servizi di casa nostra - deviati o meno - e dei governi che hanno chiuso entrambi gli occhi fino a mettere in causa la sovranità nazionale italiana.
Come si vede è un tema che scotta quello trattato da Eric Salerno nel suo ultimo libro, Mossad base Italia (Il Saggiatore, pagine 258, 19 euro), appena uscito. Raccontare e ricostruire «le azioni, gli intrighi, le verità nascoste» , di questi 60 anni significa non solo doversi immergere nella palude delle trame italiane, col rischio di affondarvi tra dossier manomessi o vuoti, servizi deviati, intrecci tra poteri e mafie, sabbie mobili delle operazioni coperte, disinformazione sparsa a piene mani. Comporta anche affrontare di petto l'intreccio tra politica mediorientale, Stato di Israele e questione ebraica.
Uno dei nodi politici più difficili. Specialmente dopo l'11 settembre e la guerra senza quartiere al terrorismo che è diventato, per antonomasia, terrorismo islamico o «scontro di civiltà» tra l'Occidente democratico e organizzazioni e regimi che vogliono minarne le fondamenta democratiche. Parlare laicamente di Israele comporta spesso da noi dover affrontare la scontata l'accusa di antisemitismo (come è già capitato a Salerno in occasione del suo illuminante libro Israele, la guerra dalla finestra, uscito nel 2002), ovvero di voler minare il baluardo mediorientale al terrorismo islamico.
Salerno, invece, vi riesce grazie alla sua conoscenza della materia - come inviato e poi corrispondente del Messaggero a Gerusalemme negli ultimi 30 anni- e a una professionalità laica ma non cieca, ormai rara nel giornalismo italiano. Se la scrittura è sciolta, colorita, quasi con un passo da romanzo, "Mossad base Italia" non è una fiction. L'asse portante del libro, oltre che la scintilla da cui è partita l'inchiesta, nasce dal contatto con Mike Harari, uno degli uomini chiave del Mossad in Italia insieme a Yeuda Arazi, personaggio-chiave del romanzo Exodus, nell'omonimo film impersonato da Paul Newman. L'ex-capo degli 007 israeliani accetta di raccontare la sua verità. Uno scoop senz'altro, ma Salerno è consapevole che racconti e rivelazioni contengono insidie. Del resto «Mike» mette in chiaro che se dicesse tutto quello che sa, poi sarebbe costretto « a uccidere» il suo interlocutore. Dietro di sé, in Italia, Harari ha lasciato una storia di complotti, assassinii politici, di alleanze eticamente difficili da accettare, con fascisti duri e puri della X Mas, con l'organizzazione Odessa delle ex-SS naziste, di operazioni che hanno violato la sovranità italiana. Per questa ragione le lunghe conversazioni con «Mike» sono il punto di partenza, cui seguono complesse indagini personali, negli archivi di Stato, nei quotidiani, negli archivi Usa della Cia e in quelli di Palmach e Haganah in Israele, interviste a personaggi-chiave. Il tutto accompagnato da attente riflessioni per evitare le insidie della disinformazione o del linguaggio ideologico.
I fatti raccontati non ne hanno bisogno. Si entra in storie difficilmente immaginabili e mai prima non rivelate, almeno con la serietà e la documentazione di questo libro. Dopo le richieste avanzate da Ada Sereni, De Gasperi le risponde: così ci chiedete di aiutarvi a vincere la guerra contro gli arabi. Poi però accetta, perché il suo partito (la Dc) e la sua Italia repubblicana (formata però anche grazie alla Resistenza) non può sopravvivere senza gli Stati uniti.
E la guerra arabo-israeliana ha le sue propaggini in Italia, paese che ha sempre avuto un ruolo-chiave nel Mediterraneo. Nell'aeroporto dell'Urbe verrà istituita una vera e propria base di formazione e addestramento per i piloti della nascente aviazione ebraica. A Catania vi sarà una pista utilizzata per un traffico - illegale -di armamenti provenienti dagli Usa. La Marina non è da meno e nel 1954 accetta di formare cadetti israeliani nella sua accademia, chiedendo solo che tutto «rimanga riservato». I servizi italiani collaborano o voltano le spalle . Attraverso l'Italia passa un flusso clandestino di armi (compresi carri armati, motori di aereo e i famosi maiali, i mini-sommergibili armati di esplosivo della X Mas) dirette nella Palestina ormai divisa tra Israele e Giordania. Flusso che non si interrompe durante le tregue dichiarate dall'Onu. Gli agenti ebraici (anche prima della costituzione ufficiale del Mossad nel '49) possono colpire industrie italiane che vendono armi agli arabi, sabotare navi che trasportano rifornimenti al nemico. Nel '48, su ordine di Ada Sereni, la nave Lino, carica di armi italiane acquistate dalla Siria, è bloccata da una bomba messa da sub ebraici. Poi altri sabotaggi e attentati.
L'Italia è anche territorio privilegiato per la guerra di spionaggio. Si sperimentano extraordinary rendition ante-litteram: nel settembre 1980 il tecnico nucleare israeliano Mordechai Vanunu, reo di aver denunciato la costruzione di ordigni nucleari nella centrale di Dimona, è rapito a Roma da agenti israeliani. 
Per contrastare ogni manovra di avvicinamento di Roma con i paesi arabi il Mossad entra a pie' pari nella politica interna ed estera dell'Italia. Aldo Moro, uno dei dirigenti democristiani favorevoli a un accordo con i palestinesi, ne era consapevole. All'ex vice-segretario della Dc Giovanni Galloni confida: «La mia preoccupazione è questa: che io so per certa la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno infiltrati nelle Brigate rosse, ma noi non siamo stati avvertiti di questo, sennò i covi li avremmo trovati».
In precedenza i segnali non erano mancati. L'ex-presidente Francesco Cossiga afferma anche che furono agenti del Mossad nel novembre 1973 a far saltare, mentre era in volo, Argo 16, l'aereo utilizzato per i «trasporti clandestini» di Gladio, l'organizzazione anti-sovietica voluta dagli Usa. Fu una ritorsione per la liberazione, decisa proprio da Moro, dei due terroristi palestinesi che avevano tentato di colpire un aereo della compagnia israeliana El Al sulla pista dell'aeroporto di Fiumicino.
Vendetta. La parola non compare mai nei dossier ufficiali d'Israele. Ma era la parola d'ordine lanciata dall'allora premier israeliano Golda Meir, «la donna con le palle». Vendetta per gli atleti della squadra israeliana sequestrati da militanti di Settembre nero durante le Olimpiadi di Monaco-'72 e uccisi nel corso dell'attacco delle forze speciali tedesche. La prima vittima della Vendetta cadrà a Roma, per mano di una squadra del Mossad guidata proprio da Harari.
Wail Zwaiter intellettuale palestinese e rappresentante di Al Fatah viene crivellato di colpi nell'androne di casa sua. Poco importa che non avesse nulla a che fare col terrorismo, anzi fosse un feroce critico di Settembre nero. Quello che bisognava inviare era un segnale forte e chiaro che il braccio armato di Israele colpiva inesorabilmente. Proprio questo obiettivo costituì la debolezza dell'operazione descritta anche nel film di Spielberg. La Vendetta doveva essere esemplare e veloce. Così si colpisce anche a caso: in Norvegia il commando del Mossad uccise un cameriere marocchino che nulla aveva a che fare con i palestinesi, La polizia locale non voltò le spalle, e uno dei killer del Mossad catturato svuotò il sacco. E rivelò particolari dell'operazione con cui Israele importò tonnellate di uranio per fabbricare le sue atomiche. Per Harari fu un mezzo smacco. 
Il «modello Mossad», sperimentato anche in Italia, è vincente e diventa oggetto di esportazione. Ex-agenti sono riciclati come capi della sicurezza o «consiglieri» in mezzo mondo, dalle scorte alle navi alla vigilanza di aeroporti, da operazioni coperte e lucrose come l'Iran-contras-gate (armi ai terroristi anti-sandinisti in Nicaragua comprate con la coca fornita dai cartelli colombiani). Il caso dell'imam Omar rapito a Milano da agenti Cia - coperti dai servizi nostrani- dimostra che le extraodinary rendition devono molto alle tecniche del Mossad, mentre a Gaza e nei Territori gli omicidi mirati di dirigenti palestinesi sono ritenuti mezzi brutali, ma al fine di salvaguardare la democrazia.

* su Il Manifesto del 16/02/2010



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ERIKO SALERNO Mosad baza Italija


INTERVJU | MILICA OSTOJIĆ | APRIL 7, 2010 AT 14:44

Razgovarala Milica Ostojić

Više od šezdeset godina agenti izraelske specijalne službe Mosad, čija je baza na Apeninskom poluostrvu, isplanirali su i izveli veliki broj akcija, kako širom Italije, tako i van njene teritorije. To su činili čak i u savezništvu sa Vladom u Rimu! Ilegalno prevoženje imigracije Jevreja koji su preživeli Holokaust, međunarodni promet oružja za stvaranje samostalne države Izrael, sabotaža brodova, izazivanje avionskih katastrofa, oružane akcije protiv italijanske industrije koja je snabdevala Arape, ubistva i kidnapovanja, osveta zbog masakra u Minhenu na Olimpijadi – samo su neke od mnogobrojnih aktivnosti „italijanskog“ Mosada.
Samo jednu akciju Mosad sa bazom u Rimu nikada nije sproveo: hvatanje ustaša i Anta Pavelića, koji su u svet pošli iz Večnog grada. Svedočanstva o tome nudi nam knjiga „Mosad baza Italija“, uglednog publiciste Erika Salerna (autor više knjiga o Bliskom istoku), koji više decenija piše za „Il Mesađero“, a živi između Jerusalima i Rima.
Ekskluzivno za „Pečat“ Salerno priča o svojim višegodišnjim istraživanjima po arhivima sveta, o traganju za najbitnijim preživelim svedokom, o neophodnosti suptilnog istraživanja radi maksimalne autentičnosti u stvaranju knjige-živopisa. Njegova priča istinski je uznemirujuća i fascinirajuća, bazirana, kako na dokumentima, tako i na svedočenju Mike Hararija, jednog od najčuvenijih jevrejskih špijuna, koji se vratio na mesto početka svoje karijere, u čuvenu rimsku Via Veneto, gde je, kao dvadesetogodišnjak, 1947. godine obavio svoj prvi zadatak.

Zašto je Mosad odabrao baš Italiju kao svoju glavnu bazu i kojom je aktivnošću započeo akcije koje su umnogome doprinele današnjem statusu Izraela?

Glavni razlog je geostrateški položaj Italije. Za izbeglice Jevreje, koji su preživeli Holokaust, prolaz do Palestine preko Italije bio je najlakši. Takođe, Mosad je igrao na osećaj krivice Italijana. Jer, iako su Italijani mnogo pomogli Jevrejima za vreme Drugog svetskog rata, skrivajući ih, čak žrtvujući sopstveni život, zna se i to da su Musolini i njegovi sledbenici počinili užasne zločine, ako ne istovetne onima koje su počinili Nemci, svakako veoma teške u odnosu prema Jevrejima. Trebalo je dokazati da Italijani nisu više fašisti, dakle trebalo je prati savest i pokazati koliko su prijatelji Jevrejima. U Italiju se vratila iz Palestine Ada Sereni, italijanska Jevrejka (posle pogibije muža), jedna veoma jaka žena, iz veoma značajne italijanske porodice (njen je svekar bio kraljev lekar, a posle proglašenja države Izrael 1948. godine ona je postala prvi šef Mosada u Italiji). Ona odlazi kod tadašnjeg predsednika Vlade De Gasperia i traži da italijanska Vlada „zatvori jedno oko, ako je moguće i oba, pred aktivnostima u Italiji“. Odgovor je bio: „da“. De Gasperia joj omogućuje kontakte sa zvaničnicima mornarice, šefovima italijanskih tajnih službi, sa svim osobama gde je ona, odnosno Mosad, imao potrebe.
U tri godine u Palestinu je poslato, legalno ili ilegalno, najmanje 26.000 Jevreja (broj koji su odredili Englezi bio je zanemarljiv). Najveći broj njih pristigao je iz Austrije. Stizali su u severni deo Italije, bilo je kampova za izbeglice posvuda, potom su se premeštali ka južnim zonama odakle je bilo lakše otići brodovima, koje su obezbeđivali agenti Mosada preko Italijana, ka Palestini. U nekim od ovih kampova, o kojima su vodili računa isključivo Jevreji, bili su vojno obučavani mladi Jevreji, pristigli iz Evrope. Obučavani su sa oružjem ili bez njega, kako bi jednom, kada stignu u Palestinu, mogli da se bore protiv Arapa. Odlazili su sa dvadesetak brodova, kupovanih i u inostranstvu, ili datih na prepravku i na raspolaganje agentima Mosada. Izbeglicama je u svemu veoma pomogla italijanska Mornarica.

Kažete da je pranje savesti bio jedini razlog što je Rim tako zdušno pomagao Mosad?

U Italiji je krajem Drugog svetskog rata vladao pravi haos. Uporedo sa kampovima razvijao se različit oblik šverca. Depoziti oružja saveznika bivali su pražnjeni, legalno ili ilegalno. Snabdevani su borci u Italiji, i sa leve i sa desne strane, u Grčkoj, ali je snabdevan i arapski i jevrejski svet na Bliskom istoku. Kriminalne bande stizale su tamo gde nije uspevala nova država. Bilo je dovoljno imati koju paru u džepu, a Jevreji su ih imali uvek. Bilo je dovoljno imati malo mašte i već se moglo odneti u Palestinu ono što su tražila odeljenja Mosada, jer Italija nije bila sa tom državom u ratu. Poznato je i to da nije volela Engleze. Kompletno prebacivanje izbeglica završeno je samo nešto pre zvaničnog odvajanja dela Palestine i samoproklamovanja države Izrael, operacije koju je godinama pripremao Ben Gurion. Kako mu više nisu bile potrebne izbeglice već oružje, počeo je još ranije da ga kupuje, ne samo u bazama u Italiji, već i u bazama u Latinskoj Americi, SAD-u. Oružje je brodovima stizalo u Palestinu. Država Izrael jednostrano je proklamovana 14. maja, a dva dana pre toga Ben Gurion, „otac domovine“, izjavio je: „imamo mnogo oružja ali se ne nalazi ovde“. On je tri godine pre tog maja boravio u SAD-u kako bi ubedio jednu grupu jevrejskih milijardera da mu pomognu. Kupljeni su brodovi, avioni, topovi, municija.

Italija se nije plašila Arapa?

Kada je proglašena država Izrael, niko više nije hteo slobodno da prenosi oružje Jevrejima, jer nije želeo da stvara neprijatelje među Arapima. Tako su, na primer, italijanski brodovi imali papire da kreću za Nikaragvu, a zapravo su išli ka Palestini.
Te 1948. godine zastajao ti je dah samo ako vidiš koja je sila arapski svet. Na centimetar zemlje Jevreja dolazilo je 100 kilometara arapske teritorije. Ali rat se pobeđuje i zahvaljujući propagandi, filtriranim vestima. 28. aprila 1948. godine na prvoj stranici rimskog dnevnog lista „Il Mesađero“, dopisnik iz Tel Aviva zaključuje: „Jevreji su snažniji od Arapa, brojniji su, bolje naoružani, bolje obučeni i disciplinovaniji“. Drugim rečima, situacija je takva da je arapska ofanziva kojom žele da izbace Jevreje iz Palestine osuđena na senzacionalni neuspeh.
Italija ima odlučujuću ulogu i u stvaranju izraelske avijacije, posebno rimski aerodrom Urbe. Škola iz koje je izašlo u samo devet meseci oko 60 pilota, upravo je ona na aerodromu Urbe. Zvanično, škola je bila civilna, a zapravo je bila kolevka izraelske avijacije, jer je jevrejska Palestina imala potrebu za vojnom snagom, sposobnom da se susretne sa arapskom silom. Avioni su kupovani na tržištu, već iskorišćeni. Italijanski instruktori bili su samo pokriće za Jevreje pristigle iz raznih delova sveta, pre toga se već boreći u raznim uniformama, kao što su one američke, kanadske i južnoafričke. Dakle, Rim je bio mesto obuke i mesto odakle su kretali avioni za borbu Jevreja iz Palestine. Italijanske tajne službe nadgledale su agente Mosada, da bi ih zatim po naredbi svojih starešina ostavljali da neometano rade.
Ipak, rat ne znači samo nabaviti oružje, već i zaustaviti dotok oružja protivničkoj strani. Mosad tako sabotira brodove krcate oružjem koje je kupila Vlada iz Damaska. Poznat je slučaj broda „Lina“ koji su kupili Sirijci, a koji je na putu za Bejrut potonuo. U trag tom brodu ušla je Ada Sereni, protagonista te akcije smislila je jednu dezinformaciju koje su objavile novine. Sačekalo se da brod stigne do Barija (kojeg je inače kontrolisala britanska fregata) ali u mraku se sve može – mina ispod i brod sa dragocenim tovarom tone.

Italija se znači ipak zamerala Arapima?

Da ne bi urušili dobre odnose sa Arapima, Vlada iz Rima nudi da Italija pokupi oružje iz potonulog broda. To i čini, ali je oružje veoma teško oštećeno. Italija je na taj način želela da pokaže kako nema nikakve veze se ovom akcijom. Posle toga jedan rođak tadašnjeg ministra Odbrane iz Damaska ponovo kupuje brod u Bariju, i to od istog vlasnika prethodnog broda (inače saradnika Mosada), međutim i taj brod se kvari, „otkazuju mu motori“. U pomoć stiže mali ribarski brod, preuzima komandu i oružje se u izraelskim vodama prekrcava na druga dva broda, stari brod se potapa, i isporuka stiže u Izrael.
Međutim, postoji još jedna zanimljivost. Italija je, naime, oduvek prodavala oružje raznim stranama, tako da je Mosad morao da krene u akciju sabotaža protiv italijanske industrije. Prodaja oružja inače nije moralno pitanje nigde u svetu, i sam Izrael na taj način trguje. Mosad se ne bavi direktno prometom oružja, ali taj promet olakšava, jer njegovi agenti putuju čak i u arapske zemlje gde se, koliko ja znam, nalazi i oružje iz Izraela. Trgovina je trgovina. Italijani su prodavali borbene avione kako Izraelu tako i Egiptu, samo što su ovi poslednji završavali u moru. Da su to bile akcije jevrejskog terorizma bilo je jasno svima. Ruka Mosada prostirala se posvuda. Ona je bombardovala Englesku ambasadu u Rimu, ona je po naredbi Golde Meir „osvetila“ izraelske sportiste izmasakrirane od strane palestinske organizacije na Olimpijadi u Minhenu. Upravo je Golde Meir dala nalog Mike Harariju da izvrši operacije gde god hoće, na Bliskom istoku, u Evropi. Ubijani su svi odgovorni za masakr u Minhenu, od izvršioca do nalogodavaca. Mosad je počeo akcije u Italiji jer je tu bilo najlakše, budući da su postojale minimalne kontrole. Mnogo ljudi ubijeno je greškom. Napravljena je serija neoprostivih grešaka za organizaciju koja je dobro obučena, pa u Norveškoj dobar deo grupe biva uhapšen. Mosad je tako u poslednji čas sprečio ubistvo Golde Meir u Rimu.

U vašoj knjizi pominjete da je Mosad sarađivao i sa bivšim nacistima, visokim prelatima Vatikana.

Pre formiranja države Izrael Mosad je u Italiji morao da kontaktira i sarađuje sa mnogim „čudnim ljudima“. Bilo je to veoma neobično vreme. Vodio se Hladni rat između Istoka i Zapada, odnosno Sovjetskog Saveza i SAD-a. Zato su se i događale neverovatne kombinacije. Na primer, bivši nacisti prvo su uhapšeni, a potom regrutovani u Mosad, pa poslati u Siriju da vide šta spremaju tamošnje vojne snage. Jednog nacistu Mosad je poslao u Egipat. Mosadu su bili potrebni svi ti ljudi, naučnici, stručnjaci sa bogatim iskustvom u raznim oblastima, a njih je bilo mnogo među nacistima. Neki od njih čak su obučavali i izraelsku Vojnu mornaricu.
Još jedna stvar je od izuzetnog značaja. Zbog svih ovih dešavanja, posle rata u Italiji nije suđeno nikome za ratne zločine, za sve ono što se desilo i na Balkanu, ili u Grčkoj, ili u Italiji, ili na nekom drugom mestu. Nije bilo nijednog procesa ni protiv vojnika niti protiv osoba koje su počinile ratne zločine.
Sa druge strane, postojala je i jedna mala grupa Jevreja koja je, nakon što je sarađivala sa nacistima, započela sopstvene ilegalne poslove. Ljudi Mosada uspeli su da uđu u trag izvesnim sumama nacističkog falsifikovanog novca.
No, najprivilegovanija saradnja Mosada bila je ona sa CIA-om. U svakom slučaju Mosad je sarađivao sa „različitim pojedincima“, a sve u cilju da se suprotstavi svom glavnom neprijatelju – Velikoj Britaniji.

Vaš svedok Harari ispričao vam je i nešto o čemu se malo ili ništa u javnosti nije znalo: novembra 1968. godine 560 buradi (ukupno 200 tona oksid-uranijuma), onoga koje se obično koristi za petrolej, izašlo je iz jedne belgijske fabrike, i tako je započeo dugi ilegalni, kontrolisani put ovog tereta prema nuklearnoj centrali u Dimoni (Negev). Možete li nam pojasniti suštinu ove operacije?

Izrael je započeo izgradnju postrojenja u pustinji, i imao je potrebu za uranijumom kako bi snabdeo svoj arsenal atomskim i nuklearnim oruđem. Agenti Mosada napravili su sporazum sa jednom milanskom firmom, „La Saika“, koja se bavila proizvodnjom i prodajom farbi za tekstil. Dakle, ona je služila kao pokriće za neku drugu robu na granici. Sistemom pretovarivanja sa jednog broda na drugi, sve je stiglo u Tel Aviv. Izrael je želeo svoju atomsku bombu i uspeo je da nabavi svoje atomsko oružje, ali je i sve učinio, i u Italiji, da to isto ne stigne u ruke drugih. Šimon Peres, u to vreme predsednik Vlade od kojeg je direktno zavisio Mosad, nije nikada nosio uniformu, ali je uspeo da svojoj Zemlji nabavi najpotentnije oružje i stoga se smatra „ocem izraelske nuklearke“. Mordećai Vanunu, naučnik, čovek koji je radio u Dimoni, u trenutku psihičke krize, snimio je više fotografija srca nuklearke i napustio Izrael, stigavši najpre u Australiju. Tamo je ispričao istoriju nuklearke magnatu tamošnje štampe, Maksvelu. Štampa to iapk ne objavljuje. Maksvel je, naravno, radio za Mosad, te odmah obaveštava tu organizaciju o nameri Vanunua, koji potom stiže u London i priča storiju novinaru lista „Sandej Tajms“. Međutim, 30. septembra „Sandej Miror“ (tabliod tog istog Maksvela), dosufliran od Mosada, objavljuje priču i fotografiju Vanunua. Priča je skrojena tako da govori o „lažnom obelodanjivanju o izraelskoj nukleraki“. Mosad šalje „slučajnu turistkinju“ u London, koja ga zavodi. Polaze u Rim „kod njene sestre“. Čim su tamo ušli, tri agenta Mosada ga kidnapuju. Osuđen je na 18 godina robije, koju je odležao. U zatvoru, iz kojeg je prebačen furgonom na sud, uspeo je da napiše na dlanu da je kidnapovan u Rimu. Prislanja dlan na staklo furgona na ulici, fotografi to slikaju, a ta dramatična fotografija obilazi svet.

Da li ste ikada pročitali u izraelskoj štampi da Izrael ima atomsko naoružanje?


Comunicato Stampa

LA FABBRICA DELL'ODIO

La Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD) è forse la più nota tra le organizzazioni del fronte irredentista. Dopo decenni di attività quasi "sotto traccia", la ANVGD ha avuto un exploit in tempi recenti, grazie alla guerra fratricida in Jugoslavia, alla istituzione del "Giorno del Ricordo" ed al sostegno politico bipartisan di cui oramai queste tematiche godono, sostegno che per quella Associazione si traduce nel coinvolgimento crescente in iniziative istituzionali e negli abbondantissimi finanziamenti pubblici. Attraverso la Federesuli, di cui è una delle componenti principali, la ANVGD dispone infatti di un budget milionario cui contribuiscono in maniera sostanziale i versamenti di ognuno di noi contribuenti (si veda la denuncia del programma REPORT trasmesso su RAI3 domenica 11/4/2010).

In forza di tali sostegni e finanziamenti la ANVGD riesce tra l'altro a mantenere una sua solida ed aggiornatissima presenza in internet, specialmente attraverso il sito -www.anvgd.it - che riporta numerose notizie e interpretazioni su vicende più o meno legate alla "questione orientale" italiana. Con il passare del tempo ci è capitato con sempre maggiore frequenza di rimanere sconcertati non solo per la unilateralità di quanto viene ogni giorno ripreso su quelle pagine, ma anche e soprattutto per i toni e i contenuti delle reazioni dei responsabili di quel sito internet a commenti e critiche che a loro sono stati occasionalmente indirizzati, a titolo personale, da alcuni di noi.

Negli ultimi giorni il nostro presidente Ivan Pavicevac ha voluto ad esempio stigmatizzare, con un email personale di commento, la sfacciata strumentalizzazione che gli ambienti irredentisti fanno della figura di Sergio Endrigo. La famiglia di quest'ultimo si trasferì nel dopoguerra in Italia avvalendosi del diritto di opzione previsto dagli accordi tra i due paesi susseguenti al Trattato di Pace - di qui la definizione di "optanti"; ma nonostante la ferita che tale distacco dalla terra natale può avere causato all'artista, è cosa nota che Endrigo, comunista, non serbò mai alcun rancore verso i nostri vicini jugoslavi. Anzi, egli ebbe l'occasione di intrattenere rapporti artistici con la Jugoslavia, dove vinse pure il Festival canoro di Spalato.

Di fronte ad un breve email di Pavicevac che faceva presente tutto questo, la risposta proveniente dalla ANVGD (con un messaggio non firmato proveniente da info@..., e che dunque interpretiamo come risposta ufficiale della ANVGD), è stata:

<< Bastardo di un istriano. Nessuno è stato "libero" di optare. Gli italiani sono andati via, comunisti compresi. Gli Esuli non hanno colore. Il colore lo hanno solo i bastardi come te, ed è marrone. Solo i cretini come te non capiscono neanche quel che dicono. Perché hanno la testa piena di roba marrone. Deficiente che non sei altro. E finiscila di rompere perché sappiamo dove sei. >> (22 giugno 2010)

Di nuovo il giorno dopo l'ANVGD rincarava la dose ritenendo che in Istria alla fine della guerra << bastardi come te avevano occupato le case, i terreni... Togliti dalle palle, sei troppo marrone per meritare anche uno sputo. >> (23 giugno 2010)

Da quanto scrive l'aggressivo interlocutore di Pavicevac, evinciamo che l'ANVGD fa una netta distinzione tra istriani ed istriani: in particolare, quelli che non condividono le istanze dell'ANVGD - che sono irredentistiche e mirano alla destabilizzazione dei confini di Stato, visto che nel proprio Statuto la ANVGD contesta il vigente Trattato di Pace: Capo II (SCOPI E FUNZIONI) Art .2: http://www.anvgd.it/documenti/anvgd_statuto.pdf - sono semplicemente "bastardi" e devono "stare attenti".

Questo è dunque il modo in cui, e queste sono le finalità per cui la ANVGD usa i soldi dei contribuenti.
E' allora persino paradossale che sul proprio sito internet la ANVGD insinui che debba essere messa in discussione l' "utilità sociale" di CNJ-onlus (vedi: http://www.anvgd.it/index.php?option=com_content&task=view&id=8598&Itemid=111 ): il nostro Coordinamento - che di soldi pubblici finora non ne ha percepiti affatto - perlomeno non si prefigge di incrinare i rapporti con i popoli vicini nè di mettere in discussione i trattati di Pace e di Osimo, e non ha mai minacciato nessun interlocutore.

I due email di insulti e minacce provenienti dall'ANVGD sono stati fatti oggetto di una denuncia-querela alla Polizia di Stato, Compartimento Polizia Postale, che il nostro presidente ha presentato a Roma in data 30 giugno 2010.


Per il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus, il Direttivo
Roma - Arezzo - Bologna - Firenze - Milano - Torino - Trieste, 30 giugno 2010


(Diese Texte auf deutsch: 

Per una breve sintesi in lingua italiana si veda:



Forming Opinions (I)
 
2010/06/23

BELGRADE/ESSEN
 
(Own report) - The German WAZ media company's efforts to expand to Serbia have been accompanied by dubious business deals. The company, headquartered in the western German city of Essen, which nearly nine years ago bought a 50% share in one of the two most prominent Serbian dailies, has, for some time, been seeking to also acquire shares in the other. The attempt, which had to be carried out through an intermediary because of legal difficulties, is likely to fail when the Serbian Cartel Office reaches its verdict. The WAZ's efforts to expand within the Serbian press market through political and economic pressure have been so far just as unsuccessful. The German company is now threatening to withdraw completely from Serbia - with negative consequences for Serbia in its relationship to powerful Germany. For its business deals in Belgrade, which were only possible after the overthrow of Slobodan Milosevic, the WAZ had the former Yugoslav Prime Minister, Zoran Djindjic, mediate contacts to dubious business circles. One businessman, who today claims to have discussed shady deals with WAZ manager Bodo Hombach (SPD), was described in the German media, at the time of his contacts to the WAZ, as one "of the kingpins of the Balkans mafia."

Door Opener

The WAZ media group has been present on the Serbian media market since October 2001. At the time, more than two years after the war over Kosovo and about a year after the overthrow of Slobodan Milosevic, the WAZ media group bought 50 percent of the shares in the Politika AD publishing house based in Belgrade, one of the most venerable newspaper publishers in all of Southeast Europe. Politika AD publishes the "Politika" daily newspaper, which, even today, remains one of the dailies that sells the most copies in Serbia, with a reputation of being the public opinion maker for the Serbian upper echelon. The circumstances in 2001, under which it was possible for the WAZ to buy into Politika, remain essential for understanding the conflict around the company's activities in Serbia. According to media reports, the Yugoslav Prime Minister at the time, Zoran Djindjic, used the WAZ as his door opener in Serbia.[1] Djindjic was elected to office in January 2001, immediately after Slobodan Milosevic was overthrown. Djindjic and the German SPD politician, Bodo Hombach were friends. In February 2002 - just a few months after WAZ had bought into Politika - Hombach was hired as the manager of that German media company. Hombach's previous activities remain unforgotten in Serbia. In the spring of 1999, during the war over Kosovo, he was Chancellery Director under Gerhard Schröder, coordinating the German aggressors' policy and in the summer of the same year, took on the job as EU Special Coordinator for the so-called Southeast European Stability Pact.

Dominant

Under Hombach's aegis, the WAZ was by no means satisfied with its Politika shares. In 2003 WAZ bought a 55 percent share of the Novi Sad daily Dnevnik, which is incomparable to Politika, having neither its influence nor its circulation. The WAZ subsidiary, Mediaprint, is also publishing under license the Serbian edition of the German "AUTO BILD" magazine. With its takeover of the "Stampa" chain of newsstands, in 2008, the German company assured itself considerable control over press sales. From the beginning, WAZ had had its eye on acquiring the second most important daily paper in the country, the Vecernje Novosti (Evening News). Politika and Vecernje Novosti are the Serbian journals with the highest circulation and the greatest amount of influence. They are dominant in the formation of public opinion.

Dubious Business Deals

WAZ's attempts to buy into the Novosti AD publishing company, which published the daily Vecernje Novosti, has, from the beginning, been associated with dubious business deals. For example, according to news reports, through the mediation of Hombach's friend, Zoran Djindjic, back in 2001, contact had been made to Djindjic's close associate, the businessman, Stanko Subotic, whose services could be used, as long as the WAZ was prohibited by law from obtaining direct access to Novosti AD.[2] At the time, even WAZ functionaries could read in the German press that Subotic was considered one of the kingpins in Southeast European cigarette smuggling. A spokesperson for the Croat interior ministry even called him the "head of the Balkans' mafia."[3] Today, Subotic remembers that the WAZ has been seeking to buy shares in Novosti AD "since it has been present in Serbia."[4] Subotic recounts also how the company in Essen - and its manager, Hombach - had been engaged in dubious business deals to try to enter Novosti AD using a front man.[5] Hombach denies this. Fact is that today, an intermediary by the name of Milan Beko owns a substantial amount of Novosti AD shares - and is unwilling to sell them to the WAZ.

Supporter

The reason given in Serbia: the Cartel Office has refused its approval of the sale. This is quite comprehensible, considering the leverage that would be obtained through the appropriation of the two leading dailies Politika and Večernje Novosti. According to reports, WAZ manager Hombach tried "everything" to buy into Novosti AD. But since the approval of the Cartel Office has yet to be given, he wonders "if the government in Belgrade is really ruling the country."[6] It has been reported that in his efforts to acquire Novosti AD for the WAZ group, Hombach sent "half a football team of supporters" onto the field: former German Chancellor Gerhard Schroder, the Austrian, Alfred Gusenbauer (currently a WAZ-advisor), the German ambassador to Serbia, EU commissioner Günther Oettinger and Klaus Mangold, Chairman of the German Committee on Eastern European Economic Relations. All these "supporters" have intervened with Serbian President, Boris Tadić - to no avail.

An Alarm Signal

At the beginning of June, the WAZ media group launched a final offensive. In a letter to President Tadić, WAZ manager Hombach wrote that "the reception has been quite positive" in "other Southeast European countries."[7] Only in Serbia, has the group had to put up with "financial losses and public calumny." This is why it will withdraw from that country. Soon afterwards, the Chairman of the German Committee on Eastern European Economic Relations, Klaus Mangold, expressed his hope "that the announced withdrawal is understood as an alarm signal" and that the WAZ group will be able to continue its activities in Serbia.[8] Mangold also emphasized that Germany is Serbia's most important trading partner and has expanded its direct investments from 278 Million Euros in 2004 to currently 1.2 Billion. German businesses are "prepared to significantly increase their engagement" [in Serbia]. But the Chairman of the Committee on Eastern European Economic Relations left no doubt that it is very important for German businesses that Belgrade heed their demands, including WAZ's demand to buy into Novosti AD. Mangold's remarks carry weight because impoverished Serbia is dependant on business with powerful Germany. WAZ manager Bodo Hombach is a member of the presidium of Mangold's Committee on Eastern European Economic Relations.

Legal Action

The future development remains uncertain. The WAZ group has announced its takeover of the Salzburg-based Ardos Holding GmbH owned by intermediary, Milan Beko. Even though this provides the WAZ group with 23 Percent of Novosti's shares, held by Ardos, WAZ maintains its intentions to withdraw from Serbia.[9] But according to Večernje Novosti, in its alleged takeover of Ardos in Austria, the WAZ had been incorrect in the form and operated "fraudulently". Večernje Novosti considers the transaction to be invalid, undermining Serbia's legal system and reserves itself the right to take legal action.[10]

Only one Part

In its expansion drive toward East and Southeast Europe, the WAZ group has not only waged these power struggles in Serbia. Since its expansion into that region began in 1990, the German company has succeeded in acquiring - partially or completely - 26 daily newspapers and numerous magazines in Southeast Europe alone, sometimes under questionable circumstances. german-foreign-policy.com will report on the WAZ expansion in other South East European countries tomorrow.

[1], [2] Hombach, Hitler und die Oligarchen; Süddeutsche Zeitung 19.06.2010
[3] Die Belgrad-Connection; Financial Times Deutschland 13.08.2001
[4] Subotić expands on recent remarks; www.b92.net 23.03.2010
[5] "'I spoke with WAZ, with Mr. (Bodo) Hombah, about the information I received and he said it was alright, if they can get that done, as far as they are concerned, it was acceptable. I met with Mišković and Beko, we spoke about the details and they asked me for EUR 26mn, adding that with that money they could buy 60-65 percent of the Novosti shares, which would then naturally be given to WAZ,' Subotić said. 'I gave Mr. Hombah the details of the conversation, and he accepted that. I made a contract, I received a mandate from WAZ that gave precise details for the contract. I made the same agreement with Beko and Mišković through several of their companies, I can give you the names later so that you can get the documents from them. I paid them EUR 26mn and they bought the shares. They paid EUR 8-9mn for the shares, which means that EUR 26mn minus eight or nine was their profit, the profit they took as people organizing a sale outside of the stock exchange, as mediators and practically sellers of state goods,' Subotić said. When B92 asked WAZ for a reaction, the company said in a written statement that all money for the purchase of Novosti was given directly by the company and that all other claims are false." Subotić expands on recent remarks; www.b92.net 23.03.2010
[6], [7] Hitler und die Oligarchen; Süddeutsche Zeitung 19.06.2010
[8] Ost-Ausschuss bedauert Rückzug der WAZ-Gruppe aus Serbien; www.ost-ausschuss.de 18.06.2010
[9] WAZ hält an Ausstieg aus Serbien fest; derstandard.at 22.06.2010
[10] Hombah pokušava da ukrade "Novosti"; www.novosti.rs 22.06.2010

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Forming Opinions (II)
 
2010/06/24

ESSEN/SKOPJE/BELGRADE
 
(Own report) - The Serbian Minister of the Economy, Mladan Dinkic is calling on the WAZ media group from Germany to leave Serbia because of its dubious intrigues. After a deal was revealed that was aimed at making the Essen-based company a leader on the Serbian market, Dinkic said that the WAZ cannot be allowed to take control of one of the country's most important daily newspapers, with "backroom business deals". The WAZ and its manager Bodo Hombach, (SPD), attempted, with the help of a front man, to buy, step by step, majority shares in the Vecernje Novosti, the country's largest selling daily newspaper. But the front man, a Serbian oligarch, does not want to turn over the shares in his temporary possession. A front man was needed for the deal because antitrust regulations did not allow the WAZ to buy the Serbian public opinion forming daily, Vecernje Novosti. The German media group, headquartered in Essen, is the strongest West European company on the Southeast European press market owning up to 70 percent in several countries - padded by excellent relations to the political and business establishment.

Backroom Business Deals

In a comprehensive statement yesterday,[1] the WAZ media group admitted to having engaged in dubious business deals. According to the statement, an unnamed "contractual partner" - Bodo Hombach referred to him as a "Serbian oligarch" - committed himself in December 2008 to sell 3 businesses to WAZ: "Ardos" (Austria), "Trimax" (Austria) and "Karamat" (Cyprus). These three companies together possess two-thirds of the Novosti AD shares, the publisher that puts out the Serbian Vecernje Novosti (Evening News). A few years ago, when Novosti AD was privatized and antitrust restrictions prevented WAZ from taking it over - WAZ already owned 50 percent of Politika, the second most significant opinion making journal in the country - the "oligarch" bought the shares, thereby prohibiting another Serbian investor from buying the publishing house. When the deal became public it caused serious anger in Belgrade. The WAZ cannot be permitted to acquire a "trademark" like Vecernje Novosti with "backroom business deals", declared Serbia's Minister of the Economy, Mladan Dinkic.[2]

Austria, Hungary

The WAZ, which has recently raised so much ire with its intrigues in the Serbian capital, has for years been the mightiest foreign company on the press market in Southeast Europe. Already at the end of the 1980s, the "WAZ media group" began exploring possible expansion into eastern and southeastern Europe. In 1987 the Essen-based company bought into two important publishers in Austria. It acquired 50 percent of the Kronen Zeitung, which has a unique standing in the country's media landscape with its 3 million readers in a country with a total population of 8.4 million, and 49.4 percent of the Vienna-based daily, Kurier newspaper (distribution: 200,000). "With this we opened the door to Southeast Europe," said the WAZ employee, charged with relations to Southeast Europe, Andreas Ferling in 2007.[3] With the take over of the Hungarian publishing group, Pannon Lapok Tarsasaga, in 1990, the German company was able to accomplish its first penetration onto the market of a previously socialist country in the immediate aftermath of the radical transformation. The five regional journals of Pannon Lapok Tarsasaga were sold, according to the WAZ, "in four counties stretching from the Austrian border to the gates of Budapest" [4] - total distribution 225,000.

Big Headlines, Scant Language

The first serious resentment over the WAZ's southeastward expansion arose in Bulgaria, where the company was engaged in 1996. Following the takeover of the second largest daily newspaper of the country (24 Tschassa), WAZ bought also the largest (Dneven Trud). The WAZ was not only accused of having used dumping methods to obtain a monopoly position.[5] The company, which had won an antitrust lawsuit brought against it in Sofia, holds today a market share of around 70 percent. In January 2007, the former WAZ employee Ferling explained that "one of our strategies is to go into countries where antitrust laws are not very developed" - and try buying the shares of the market before the antitrust laws become more restrictive.[6] Criticism about the qualitative development of the newspapers taken over by the WAZ can still be heard today. "The potential" for bringing "higher standards" to Bulgarian readers at the time, was "not used" by the WAZ, says a media specialist in Sofia. On the contrary, complains a journalist, "they introduced a new graphic design: big headlines, scant language, large front page photos."[7]

Exclusive Contacts

After the WAZ group had already acquired access to the Croatian (December 1998), Rumanian (March 2001) and Serbian (October 2001 [8]) markets, the media group took on a new manager, Bodo Hombach (SPD), in February 2002, who had exceptional contacts to Southeast Europe. Hombach had been head of the Federal Chancellery (1998 to 2001) during the preparations for the war over Kosovo and NATO's bombing of Yugoslavia and subsequently (from mid 1999) he became the EU's Special Coordinator for its so called "Stability Pact for South Eastern Europe". The "Stability Pact," designed to stimulate cooperation and economic reconstruction in southeastern Europe, gave the EU's Special Coordinator the possibility to develop direct contacts to leading personalities in business and politics throughout southeastern Europe. Already with his activities in Germany, Hombach had occasionally provoked much anger. A regional politician in North-Rhine Westphalia, where Hombach was active until the fall of 1998, was quoted as having said that, with Hombach's departure to the Federal Chancellery "the amount of intrigues in North-Rhine Westphalia" has "significantly decreased."[9] Hombach's activities in southeastern Europe for the WAZ group have also not been without conflicts.

Positive Reporting

In the second half of 2004, a dispute with the editorial staff of the Rumanian daily România Liberă over WAZ directives made the headlines, but has been given various public interpretations. The WAZ group owned 70 percent of the România Liberă shares. This conservative daily's editorial staff complained that the WAZ was trying to prevent critical reporting on Rumania's social democratic government, making reference to Hombach's SPD past and the close ties between the German and Rumanian social democrats. But the WAZ countered that it was insisting merely on standards of quality and "positive reporting."[10] This dispute over the German media group's interference in editorial policies attracted European public attention for several weeks. This would hardly be the case today. "Previously, the WAZ gave itself an image of pursuing purely commercial interests and maintaining strict political neutrality," stated a knowledgeable observer in the spring of 2006, "but now the WAZ-owned Balkan newspapers have become liberal, pro-western," thereby "the company is assuming it's growing political role in the Balkans."[11] This no longer attracts attention.

From Foreign Minister to Newspaper Man

The media group's activities in Macedonia are a good example of the close ties between the WAZ and the political elite in Southeast European countries. In Mai 2003, the WAZ bought the country's three daily newspapers with the largest distribution (Dnevnik, Utrinski Vestnik, Vest). Soon thereafter, the WAZ consolidated its activities in the company Media Print Macedonia (MPM) - insisting "with the Cartel Office's permission."[12] This must be underlined, because with the three newspapers, MPM not only centralizes the complete value added chain from printing to distribution, it even controls more than 70 percent of Macedonia's print market.[13] The excellent relations with the political establishment are of great benefit to the company's activities in Macedonia. When the WAZ made its entry in Skopje, it employed Srgjan Kerim as MPM manager. Kerim knows Germany, because he also served as his country's ambassador to the Federal Republic of Germany (1994 to 2000), then in 2000 briefly as "Special Envoy for Regional Questions" of the Stability Pact for South-Eastern Europe under the Coordinator Bodo Hombach and as Macedonian Ambassador (2000 to 2001) before becoming President of the Macedonian-German Association of Commerce - and beginning work for the WAZ.

Impoverish

The Essen-based WAZ media group considers that "no other western European publishing house is more present in Southeast Europe than the WAZ."[14] Given the fact that this German company has 40 percent of its sales and 70 percent of its revenue abroad, critics in Southeast Europe come to a different conclusion. One being Manojlo Vukotić, editor in chief of the fiercely contested daily, Večernje Novosti, who recently explained in reference to the WAZ group's back room business deals with dubious oligarchs: "they set out to conquer the media scene of the impoverished Balkans and they are succeeding in impoverishing the Balkans even more."[15]

[1] "Serbiens Bürger haben ein Recht auf Wahrheit"; www.derwesten.de 23.06.2010
[2] Probe ordered into newspaper privatization; www.b92.net 23.06.2010
[3] "Wir grasen den Markt ab"; www.medien-monitor.com 30.01.2007
[4] Ungarn; www.waz-mediengruppe.de
[5] European Federation of Journalists: Media Power in Europe: The Big Picture of Ownership, Brussels, August 2005
[6] "Wir grasen den Markt ab"; www.medien-monitor.com 30.01.2007
[7] Staatsfeind Nummer eins; Berliner Zeitung 03.08.2009
[8] see also Forming Opinions (I)
[9] Schröders play-back; Der Freitag 25.06.1999
[10] Lebenslauf Dr. Srgjan Kerim; www.dgvn.de
[11] Flaggschiffe im Visier; Berliner Zeitung 04.05.2006
[12] Mazedonien; www.waz-mediengruppe.de
[13] Vladimir Zlatarsky, Dirk Förger: Die Medien in Mazedonien; www.kas.de 31.08.2009
[14] Das internationale Engagement der WAZ Mediengruppe; www.waz-mediengruppe.de
[15] Serbischer Chefredakteur beschimpft WAZ-Boss; Spiegel Online 24.03.2010



(italiano / francais)

Un an après le coup d'Etat, le Honduras résiste

1) Entretien avec le président Manuel Zelaya
2) Ancora sull'appoggio di Reporters sans Frontieres al golpismo honduregno


=== 1 ===


Un an après le coup d'Etat, le Honduras résiste. Entretien avec le président Manuel Zelaya

Manola Romalo

« Nous devons vaincre le coup d'État, l'impunité et  la terreur ». Manuel Zelaya, président légitime du Honduras depuis janvier 2006, a été dérogé le 28 juin 2009 par un coup d'État. Depuis le 27 janvier 2010, il se trouve avec son épouse et sa cadette en République Dominicaine.  Entretien réalisé par Manola Romalo, publié en exclusivité par Junge Welt (Allemagne), Rebellion (Espagne) et michelcollon.info (Belgique).


Ce 28 juin le peuple hondurien sort protester dans tout le pays contre le coup d`État perpétré il y a un an par une clique d’oligarques, parrainé par Washington. Sous l’hospice d’un gouvernement fantoche mis en place en juillet 2009 -  suivi par les élections présidentielles manipulées  de  janvier 2010 -  des  paramilitaires ont assassiné à ce jour des dizaines de membres de la Résistance, des syndicalistes, des enseignants, des journalistes. Protégeant ses  intérêts économiques, l’Union Européenne n’y voit que du feu.

 

Manola Romalo: Monsieur le Président, cela fait un an aujourd’hui qu’une clique d'entrepreneurs envoyèrent des militaires vous kidnapper dans votre maison sous le feu des balles. Que signifie cet acte pour l’avenir du Honduras ?


Manuel Zelaya:
 En ce moment, ils ont plus de problèmes qu’auparavant : ils ont fait prendre conscience, non seulement au peuple hondurien mais aussi  aux peuples d’Amérique Latine,  de la menace que représente l’ambition économique pour les démocraties.  Avec cette attaque, ils ont réussi à accélérer les processus de transformation à travers lesquels sont nées de nouvelles forces d’opposition.
L’influence des grandes multinationales s’étend à la politique étrangère des Etats Unis,  preuve que l'administration d’Obama - de même que celle de son prédécesseur - est tombée dans l’effrayante erreur d’appuyer le terrorisme d’État. Ils ont recommencé à faire des coups d’État, méthode pratiquée déjà dans le passé par une extrême droite acharnée à semer la barbarie à travers le monde.

Manola Romalo: Quoique les putschistes,  parrainés par Washington, essayèrent de maquiller en démocratie les élections présidentielles de novembre 2009,  une grande partie de la communauté internationale n’a pas reconnu la légitimité du gouvernement  en place.  Quelles transformations  démocratiques veut le peuple hondurien?    


Manuel Zelaya:
 J'ai présenté un plan de réconciliation en 6 points qui passent par le respect des Droits Humains et la fin de l’impunité. C'est le chemin correct pour annuler le putsch et retourner à l’Etat de droit.
Avec leur position inflexible et extrémiste de laisser impuni ce putsch au Honduras, les États-Unis et leurs alliés créoles n'appuient pas ce plan et n’aident en rien la réconciliation du peuple hondurien.
Contrairement à ce que nous avons espéré, avec ses déclarations, le Département d’État ignore le crime  qu’il condamna antérieurement et nomme « crise politique» des faits qu’il occulte : l`'mmunité et les privilèges des putschistes.  

Manola Romalo: Le Ministère allemand des Affaires Extérieures informe sur son site Internet , qu’ « après le coup d`État », le gouvernement allemand ne reprendra pas de nouveaux  projets d’aide pour le Honduras, mettant également court aux « consultances gouvernementales ». Quelle est la situation économique du pays? 


Manuel Zelaya : Les chiffres sont plus éloquents que les mots. En trois ans nous avions réalisé les meilleurs indices de croissance de l’histoire du Honduras : 6,5 et 6, 7 %. Pour la première fois en trente ans, la pauvreté avait été réduite à plus de 10 %.  
Par contre, depuis le coup d'État, le pays est entré dans une récession économique,  le nombre de pauvres  a augmenté,  les investissements de l’Etat et ceux des particuliers ont été réduits de façon significative. Les dommages causés par le coup d'État dans le processus de développement économique du pays vont durer au moins dix ans avant d’être réparés.  

Manola Romalo : Ce 28 juin, il y aura de grandes manifestations dans tout le pays, le peuple va débattre les principaux articles de la Déclaration Souveraine. La Résistance veut  « refondre le Honduras ». Quelles sont les étapes nécessaires ?


Manuel Zelaya:
 Nous devons vaincre le coup d'État, l'impunité et la terreur.  L'Assemblée National Constituante, avec la participation de tous les secteurs, est l’instrument légitime pour reconstruire la démocratie, l’ordre constitutionnel et l’Etat de droit.
L’organisation, la conscience et la mobilisation sont nécessaires pour renforcer le Front National de Résistance Populaire (FNRP) qui est la force sociale et politique de la Résistance contre le coup d’État.  Nous avons la responsabilité de la reconstruction, le peuple doit reprendre les affaires en cours pour transformer le pays.  

Manola Romalo: Monsieur le Président, dans le contexte politique du Honduras, le peuple réclame énergiquement votre retour. Quels sont vos projets ?  


Manuel Zelaya:
 Le futur n'est pas très loin. Toutefois je fais des projets pour le présent: je veux réussir à vaincre les espaces d'impunité avec lesquels les putschistes prétendent couvrir les crimes contre la démocratie et contre l'humanité.   
Mon retour devra être immédiat, il n´existe aucun prétexte ni justification qui expliquerait l'absence absolue de garanties pour mon retour. Il n’est pas possible que quelqu’un prétende voir les victimes soumises à la justice de leurs bourreaux.
Mon retour est lié à la  reprise de l’Etat de droit au Honduras. Le propre président Porfirio Lobo affirme être menacé, ajoutant en même temps qu’il garantit ma sécurité.
Évidemment, ils utilisent les Honduriens comme des cobayes, les putschistes font de ce pays un laboratoire de violence. Ils recourent aux castes militaires pour réprimer le peuple et  créer le chaos afin de maintenir le contrôle sur la société.  Peu leur importent les conséquences du processus d'intégration régionale et la confrontation,  doublement éprouvés,  avec les organismes multilatéraux.
Les preuves sont sous nos yeux : ils ont créé un nouveau régime de terreur et de persécution. Et les Etats Unis ont beaucoup perdu de leur prestige en Amérique Latine.



=== 2 ===

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=19525
 
Reporters sans Frontieres non include il golpismo honduregno nella sua lista dei “Depredatori della Stampa”

di Unai Aranzadi*
 
fonte: http://www.independentdocs.com/
Traduzione a cura di l’Ernesto online

*Unai Aranzadi è reporter, fotografo e documentarista, specializzato in conflitti armati e diritti umani. Dal 1994 I suoi film sono stati trasmessi, tra gli altri, da BBC 2, BBC WORLD SERVICE, CNN, AL JAZEERA ENGLISH e CANAL +. I suoi testi e fotografie sono stati pubblicati da El País, Der Spiegel, Reuters e The Washington Post.

Seduto al tavolo della casa editrice, rivedendo le sequenze in cui l’esercito honduregno procede alla chiusura del canale 36 della televisione “Cholusat Sur” e dopo aver ricevuto numerosi SOS dei miei amici giornalisti che resistono in Honduras (dove hanno già assassinato sette di loro dall’inizio dell’anno) osservo con tristezza che Reporters sans Frontieres ha deciso di non includere il regime golpista di Roberto Micheletti ieri, oggi di Porfirio Lobo, nella loro lista mediatica dei “depredatori della libertà di stampa”.

Che cosa ancora manca all’Honduras per essere incluso in questa lista? Quanti giornalisti in più assassinati? Quanti media in più chiusi, occupati e intimiditi? Quanti corrispondenti stranieri in più espulsi? Quanti giornalisti locali in più esiliati?...

Credo, nonostante tutto, che Reporters sans Frontieres compia anche buone azioni, e per questo sono suo socio e ho aiutato l’organizzazione per sei anni, ma devo constatare che la sua agenda sembra rispondere più a interessi politici che a una difesa onesta delle libertà, e questo silenzio riguardo all’Honduras parla da solo, convincendo il più scettico degli osservatori e confermando i peggiori presagi che maturavo da tempo, mentre informavo su guerre e crisi in tutto il mondo.

Probabilmente non potrebbe essere diversamente, dal momento che RsF viene finanziata dal NED di Washington, da un gruppo di ultradestra della Florida e da grandi imprese mediatiche; per questa ragione organizzazioni con credibilità comprovata come Amnesty International o Greenpeace non accettano denaro da Stati o da enti legati a questi. L’indipendenza nella difesa dei diritti umani è vitale, proprio come Reporters sans Frontieres annuncia senza arrossire nella sua pagina web.

Ora, rileggendo le interviste a giornalisti honduregni, traggo le mie conclusioni... A tre settimane dal colpo di Stato e la conseguente repressione esercitata contro civili, giornalisti e media, nel modo più assoluto non c’è stato uno di Reporters sans Frontieres che si sia minimamente preoccupato di telefonare ai colleghi degli strumenti di comunicazione aggrediti e rinchiusi (così affermano tutti loro nel video registrato). Con quello che ho visto, tutto torna.

“Se non lo raccontiamo, non esiste”, è il motto di Reporters sans Frontieres. Grazie allora per non raccontare la tragedia che si svolge in Honduras! Del resto neppure in El Pais, El Mundo o ABC si stanno preoccupando molto di raccontarla. Un silenzio sepolcrale è garantito.

Quali denunce e servizi ci regalerebbero se tutto ciò accadesse in Bolivia o Venezuela!

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Il giorno 20/mag/10, alle ore 09:08, Coord. Naz. per la Jugoslavia ha scritto:


Golpe in Honduras: RSF, Vaticano, media e politici occidentali sono complici


Sulla situazione in Honduras, dopo il golpe guidato dall'italiano Micheletti, segnaliamo:

Il Cardi...male in Italia
Mons. Oscar Rodríguez Maradiaga arriva in Italia. Il suo attivo sostegno al colpo di Stato non deve passare inosservato

Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, un cardinale golpista a Roma: Persona non gradita!

Alla Comunità di Sant'Egidio: ripensare alla scelta di invitare il Mons. Maradiaga

Ciò che in Honduras non era repressione, lo diventa in Iran grazie alla stampa internazionale
Oltre ogni limite della manipolazione mediatica - di Pedro Antonio Honrubia Hurtado

Honduras: imaginez que l’équivalent se passe à Cuba, que diraient nos médias, et le maire de Paris ?
Danielle Bleitrach 

1° Maggio in Honduras

Perché assassinare la parola?

Honduras: consultazione popolare per installare un'Assemblea Costituente

Appello urgente Honduras: La rifondazione della speranza


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R.S.F. NON ALZA UNA PAGLIA SULLA STRAGE DEI GIORNALISTI IN HONDURAS !
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Honduras : l’ONU s’émeut des assassinats de journalistes, pas RSF

L’association française Reporters sans frontières n’a pas placé le Honduras dans sa liste des Etats prédateurs de la liberté d’expression, publiée le 3 mai, à l’occasion de la Journée internationale de la liberté de la presse. L’ONG pro-US estime qu’il n’est pas établi que ces meurtres soient liés au contexte politique et que l’actuel gouvernement est démocratique.

Le 28 juin 2009, un coup d’Etat militaire, orchestré par les Etats-Unis, a renversé le président élu Manuel Zelaya et placé au pouvoir Roberto Micheletti. Le 29 novembre, la junte a convoqué des élections et déclaré vainqueur Porfirio Lobo Sosa. Le nouveau régime a fait appel à des experts israéliens du maintien de l’ordre. La répression s’est concentrée sur des assassinats ciblés, dont ceux de journalistes.

Le 10 mai 2010, le Rapporteur spécial des Nations Unies sur la promotion et la protection des droits à la liberté d’expression et d’opinion, Frank La Rue, le Rapporteur spécial sur les exécutions sommaires, extrajudiciaires ou arbitraires, Philip Alston, et la Rapporteuse spéciale sur la situation des défenseurs des droits de l’homme, Margaret Sekaggya, ont appelé les autorités honduriennes à faire toute la lumière sur les sept assassinats de journalistes survenus en six semaines dans le pays.

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http://www.voltaire net.org/article1 65395.html

13 DE MAYO DE 2010

La ONU denuncia los asesinatos de periodistas que RSF se niega a reconocer en Honduras 

La asociación francesa Reporteros Sin Fronteras no menciona a Honduras en su lista de Estados violadores de la libertad de expresión, publicada el 13 de mayo en ocasión del Día Internacional de la Libertad de Prensa. Esta ONG proestadounidense afirma que no se ha demostrado que los asesinatos de periodistas perpetrados en Honduras desde el golpe de Estado militar que derrocó al presidente Manuel Zelaya sean de origen político y que el actual régimen hondureño es democrático.

El 28 de junio de 2009 un golpe de Estado militar, orquestado por Estados Unidos, derrocó al presidente electo de Honduras, Manuel Zelaya, poniendo en su lugar a Roberto Micheletti. El 29 de noviembre los golpistas realizaron una elección presidencial en la que Porfirio Lobo fue declarado ganador. El nuevo régimen recurrió a la ayuda de expertos israelíes en mantenimiento del orden y la represión se ha concentrado en la realización de asesinatos selectivos, incluyendo asesinatos de periodistas que se pronuncian contra el régimen.

El 10 de mayo de 2010, el Relator Especial de la ONU sobre la promoción y la protección de la libertad de expresión y de opinión, Frank La Rue; el Relator Especial sobre ejecuciones sumarias, extrajudiciales o arbitrarias, Philip Alston, y la Relatora Especial sobre la situación de los defensores de los derechos humanos, Margaret Sekaggya, exhortaron a las autoridades hondureñas a esclarecer los 7 asesinatos de periodistas perpetrados en 6 semanas en su país.


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http://www.voltaire net.org/article1 65377.html

11 MAY 2010

Honduras : UN concerned over assassination of journalists, but not RWB

French NGO Reporters Without Borders did not include Honduras in its 2010 list of Worst Predators of Press Freedom, released on 3 May on the occasion of the World Press Freedom Day. The pro-US NGO maintains that no link between the murders and the political climate has been established and that the current government is democratic.

On 28 June 2009 a military coup, orchestrated by the United States, toppled elected President Manuel Zelaya and put Roberto Micheletti in power. On 29 November the junta held elections and declared Porfirio Lobo Sosa the winner. The new regime has called for Israeli public order experts. The repression is geared towards targeted assassinations, including journalists.

On 10 May 2010, United Nations Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of opinion and expression, Frank La Rue, United Nations Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions, Philip Alston, and United Nations Special Rapporteur on the situation of human rights defenders, Margaret Sekaggya, called on the Honduran authorities to elucidate all the circumstances surrounding the killing of seven journalists in six weeks.

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Related article:  

Reporters Without Borders seems to have a geopolitical agenda, by F. William Engdhal, Voltaire Network, 5 May 2010.

http://www.voltaire net.org/article1 65297.html




Oggetto: C.S. Il Colosseo dovrebbe rimanere spento per almeno 7.500 notti

Data: 24 giugno 2010 13:23:02 GMT+02:00

Alemanno devi spegnere il Colosseo almeno per 7.500 notti!!!

comunicato stampa

I prigionieri palestinesi attualmente nelle prigioni israeliane sono circa 7.500. 37 sono donne, 15 deputati del Consiglio Legislativo (Clp). Tra queste cifre ci sono anche i bambini palestinesi detenuti da Israele: sono 330.  5.000 sono i prigionieri palestinesi perseguiti e condannati: 790 stanno scontando pluriergastoli. 1.900 sono i detenuti senza condanna perché, nella maggioranza dei casi, senza alcuna accusa. I palestinesi in detenzione amministrativa sono 290 dall’inizio del 2010. 9 palestinesi, provenienti dalla Striscia di Gaza, sono stati sottoposti alla "Legge del combattente illegale". Questa sera l'amministrazione comunale di Alemanno, subalterna come sempre alla lobby filo-israeliana, farà spegnere il Colosseo per ricordare un solo detenuto: il soldato israeliano Shalit, un militare catturato in zona di guerra e prigioniero da quattro anni nella Striscia di Gaza. Il Colosseo - per senso di elementare giustizia - dovrebbe allora rimanere spento tutte le notti da oggi per almeno venti anni, tanti sono i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane da anni.

Roma, 24 giugno

Il Forum Palestina




Anche in Lituania i comunisti al bando e i nazisti esaltati come “eroi nazionali”

di Mauro Gemma

su l'Ernesto Online del 22/06/2010

Mentre si proibisce l’attività del Partito Comunista, un tribunale locale sentenzia che la croce uncinata rappresenta “parte integrante del patrimonio storico nazionale”. E l’Unione Europea continua a far finta di niente.

Mentre si proibisce l’attività del Partito Comunista, un tribunale locale sentenzia che la croce uncinata rappresenta “parte integrante del patrimonio storico nazionale”. E l’Unione Europea continua a far finta di niente. 

Nel nostro paese – come del resto in tutti gli altri paesi del nostro continente – pochi sono al corrente che anche in Lituania – repubblica baltica ex sovietica, da anni membro fedelissimo della NATO e ammessa nell’Unione Europea – da tempo è in corso una campagna di criminalizzazione dei partiti e dei simboli comunisti e di ogni riferimento alla storia sovietica, accompagnata dalla riabilitazione della cosiddetta “resistenza nazionale lituana”, che ha collaborato con i nazisti nella repressione del movimento partigiano e nello sterminio della locale comunità ebraica.

Con la decisione delle autorità lituane di procedere a una revisione costituzionale nel giugno del 2009, denunciata, nella più totale indifferenza dei mezzi di comunicazione europei, solo dal Partito Socialista (che raggruppa i comunisti dopo la messa fuori legge del Partito comunista nel 1991 e l’arresto di diversi suoi dirigenti, alcuni dei quali, anche ultrasettantenni, sono stati condannati a oltre 10 anni di carcere, quasi interamente scontati, al tempo della presidenza di Vytautas Landsberghis, insignito della cittadinanza onoraria di Torino, insieme al Dalai Lama, evidentemente per i suoi “meriti” di anticomunista, e in seguito del “socialdemocratico” Brazauskas), è oggi possibile perseguire penalmente e condannare a pene fino a 5 anni chiunque neghi “i genocidi commessi dal comunismo e dal nazismo” e “diffami i combattenti della lotta per la libertà della Lituania che, dal 1944 al 1953 si sono battuti con le armi contro l’occupazione sovietica”.

Come si può ben capire dalle motivazioni della decisione, è evidente che i destinatari della campagna repressiva sono, ancora una volta, i soli comunisti, dal momento che i “combattenti per la libertà lituana”, considerati alla stregua di eroi nazionali, non hanno esitato a militare nelle file del collaborazionismo e nelle legioni delle SS, rendendosi responsabili, al servizio di Hitler, delle più efferate atrocità. I più giovani sostenitori dei criminali di guerra, dunque, possono sicuramente dormire sonni tranquilli e agire indisturbati.

Una conferma del carattere anticomunista e di riabilitazione del passato nazi-fascista del nazionalismo lituano, proprio della revisione costituzionale in corso, è venuta in questi giorni da una sorprendente decisione di un tribunale locale, nella città di Klaipéda, oscurata anch’essa dall’apparato mediatico continentale e dalle istituzioni comunitarie, le stesse che, in nome della democrazia e dei diritti umani, negli ultimi mesi non hanno esitato a scatenare una campagna propagandistica contro Cuba.

Il 19 maggio, decidendo sulla sorte di tre neonazisti che, durante la giornata dell’Indipendenza, nel febbraio scorso, avevano sventolato bandiere con la croce uncinata e scandito slogan anticomunisti, antisemiti e inneggianti al Terzo Reich, i giudici hanno sentenziato che costoro dovevano essere assolti e liberati perché la “croce uncinata è parte integrante del nostro patrimonio storico, un simbolo importante della cultura baltica, ereditato dai nostri antenati”.

Si tratta di un verdetto che finora non sembra essere stato ostacolato dagli organi supremi della magistratura lituana e avere suscitato il minimo scandalo dei governi e delle strutture giudiziarie dell’Unione Europea. Una sentenza che sancisce in modo inquietante, in nome della denigrazione del passato sovietico e del nazionalismo più fanatico, la completa riabilitazione del nazi-fascismo.



(Di seguito un excursus nell'impero mediatico di Bodo Hombach: figura di spicco della "socialdemocrazia" tedesca, responsabile della aggressione militare del 1999, e padrone del monopolio mediatico dei Balcani - soprattutto in Serbia, dove il suo gruppo editoriale WAZ detiene da ormai un decennio il controllo del principale quotidiano, "Politika". Prima del golpe del 2000 vigeva in Serbia un pluralismo editoriale consistente nella dicotomia tra media, soprattutto statali, vicini ai governi di sinistra, e media, soprattutto privati, vicini alla opposizione. Oggi tale pluralismo è stato cancellato e in Serbia, come in Italia e negli altri paesi occidentali, ha spazio assicurato solo la dittatura del mercato capitalista. Per di più, il controllo imperialista tedesco (WAZ) e statunitense (B92) sui media è uno degli aspetti dello status coloniale di quello che un tempo era uno stato sovrano - la Jugoslavia. In Serbia Hombach si adopera ora per porre sotto il suo controllo anche il gruppo Novosti; ma anche negli altri paesi balcanici la sua presenza è più che influente...)



Meinung bilden (I)
 

23.06.2010

BELGRAD/ESSEN
 
(Eigener Bericht) - Dubiose Geschäfte begleiten einen Expansionsversuch der deutschen WAZ Mediengruppe in Serbien. Der Essener Konzern, der vor beinahe neun Jahren mit einem 50-Prozent-Anteil bei einer der zwei bedeutendsten serbischen Tageszeitungen eingestiegen ist, bemüht sich schon lange, auch Anteile an der zweiten maßgeblichen Tageszeitung des Landes zu erwerben. Der Versuch, dies wegen rechtlicher Schwierigkeiten über einen Mittelsmann zu tun, droht gegenwärtig am serbischen Kartellamt zu scheitern. Bemühungen der WAZ, mit politischem und wirtschaftlichem Druck die Expansion auf dem serbischen Pressemarkt erzwingen zu können, haben bislang ebenfalls nicht zum Erfolg geführt. Das deutsche Unternehmen droht nun, es werde sich gänzlich aus Serbien zurückziehen - mit negativen Folgen für die Beziehungen Serbiens zum mächtigen Deutschland. Bei ihren Geschäften in Belgrad, die erst nach dem Sturz von Slobodan Milošević möglich wurden, ließ sich die WAZ vom einstigen Ministerpräsidenten Jugoslawiens, Zoran Djindjić, Geschäftskontakte zu zweifelhaften Kreisen vermitteln. Ein Geschäftsmann, der heute angibt, mit WAZ-Geschäftsführer Bodo Hombach (SPD) zwielichtige Deals diskutiert zu haben, wurde zum Zeitpunkt seiner Kontaktaufnahme zur WAZ in der deutschen Presse als ein "Kopf der Balkan-Mafia" bezeichnet.

Türöffner

Die WAZ Mediengruppe ist auf dem serbischen Medienmarkt seit Oktober 2001 präsent. Damals, gut zwei Jahre nach dem Kosovokrieg und rund ein Jahr nach dem Sturz von Slobodan Milošević, übernahm sie 50 Prozent an dem Belgrader Verlagshaus Politika AD, einem der traditionsreichsten Zeitungsverlage in ganz Südosteuropa. Politika AD gibt die Tageszeitung Politika heraus, die bis heute zu den auflagenstärksten Blättern in Serbien gehört; ihr wird meinungsbildende Funktion für die serbische Oberschicht zugeschrieben. Die Umstände, die 2001 den Einstieg der WAZ bei Politika ermöglichten, sind zum Verständnis der Auseinandersetzungen um die Konzernaktivitäten in Serbien nach wie vor von erheblicher Bedeutung. Medienberichten zufolge diente der damalige jugoslawische Ministerpräsident Zoran Djindjić, der im Januar 2001 - unmittelbar nach dem Sturz von Slobodan Milošević - in sein Amt gewählt worden war, der WAZ als Türöffner in Serbien.[1] Djindjić war mit dem deutschen SPD-Politiker Bodo Hombach befreundet, der im Februar 2002 - nur wenige Monate nach dem Einstieg der WAZ bei Politika - von dem deutschen Medienkonzern als Geschäftsführer engagiert wurde. Hombachs vorherige Tätigkeit ist in Serbien unvergessen: Er koordinierte im Frühjahr 1999 während des Kosovokriegs als Chef des Kanzleramts unter Gerhard Schröder die Politik der deutschen Aggressoren und übernahm im Sommer 1999 den Posten des EU-Sonderkoordinators für den sogenannten Südosteuropa-Stabilitätspakt.

Dominant

Unter Hombachs Ägide gab sich die WAZ mit ihren Politika-Anteilen beileibe nicht zufrieden. Im Jahr 2003 übernahm sie 55 Prozent an der Tageszeitung Dnevnik aus Novi Sad, die sich allerdings weder hinsichtlich ihrer Auflage noch hinsichlich ihres Einflusses mit Politika messen kann. Die WAZ verlegt daneben in Lizenz über ihre Tochter Mediaprint die serbische Ausgabe der Zeitschrift AUTO BILD. Im Jahr 2008 übernahm der deutsche Konzern die Kiosk-Kette Stampa und sicherte sich damit erheblichen Einfluss auf den Pressevertrieb. Von Anfang an hatte die WAZ jedoch vor allem die zweite bedeutende Tageszeitung des Landes, Večernje Novosti ("Abendnachrichten"), im Blick. Politika und Večernje Novosti sind die auflagenstärksten sowie einflussreichsten serbischen Tageszeitungen und dominieren die Meinungsbildung.

Zwielichtige Geschäfte

Die Versuche der WAZ, beim Verlag Novosti AD einzusteigen, der die Zeitung Večernje Novosti publiziert, gingen von Anfang an mit dubiosen Geschäften einher. So heißt es in Medienberichten, Hombach-Freund Zoran Djindjić habe dem deutschen Konzern bereits im Jahr 2001 einen Kontakt zu dem ihm nahestehenden Geschäftsmann Stanko Subotić vermittelt, dessen Dienste in Anspruch genommen werden könnten, solange der WAZ aus rechtlichen Gründen der direkte Zugriff bei Novosti AD verwehrt sei.[2] Über Subotić konnten auch WAZ-Funktionäre zu dieser Zeit in der deutschen Presse lesen, er sei eine zentrale Figur des Zigarettenschmuggels in Südosteuropa; eine Sprecherin des kroatischen Innenministeriums habe ihn gar als einen "Kopf der Balkan-Mafia" bezeichnet.[3] Heute erinnert sich Subotić, die WAZ habe, "seit sie in Serbien präsent ist", Anteile an Novosti AD übernehmen wollen.[4] Subotić berichtet auch, wie er dem Essener Konzern und dessen Geschäftsführer Hombach zwielichtige Händel unterbreitet habe, damit die WAZ mit Hilfe eines Strohmannes bei Novosti AD einsteigen könne.[5] Hombach bestreitet das. Tatsache ist, dass heute ein Mittelsmann namens Milan Beko beträchtliche Anteile an Novosti AD besitzt - und nicht bereit ist, diese Anteile an die WAZ zu verkaufen.

Fürsprecher

Als Grund dafür wird in Serbien genannt, dass das Kartellamt bisher seine Zustimmung verweigert - angesichts der Macht, die sich durch den Besitz der beiden führenden meinungsbildenden Blätter Politika und Večernje Novosti ergäbe, eine durchaus nachvollziehbare Entscheidung. Über WAZ-Geschäftsführer Hombach hingegen wird berichtet, er habe "alles" versucht, um den Einstieg bei Novosti AD durchzusetzen. Angesichts der immer noch ausstehenden kartellrechtlichen Genehmigung frage er sich jedoch, "ob die Regierung in Belgrad wirklich Herr ihres Landes ist".[6] Wie es heißt, habe Hombach "ein halbes Fußballteam an Fürsprechern" aufgeboten, um Novosti AD in den Besitz des Essener Konzerns zu bringen: die Altkanzler Gerhard Schröder (Deutschland) und Alfred Gusenbauer (Österreich, heute WAZ-Berater), den deutschen Botschafter in Serbien, EU-Kommissar Günther Oettinger und den Vorsitzenden des Ost-Ausschusses der Deutschen Wirtschaft, Klaus Mangold. Obwohl die genannten "Fürsprecher" sämtlich beim serbischen Präsidenten Boris Tadić intervenierten, blieb ein Erfolg für die WAZ aus.

Ein Alarmsignal

Anfang Juni hat die WAZ nun eine letzte Offensive gestartet. "In anderen Ländern Südosteuropas" sei man "positiv aufgenommen" worden, heißt es in einem Brief von Geschäftsführer Hombach an Präsident Tadić.[7] Nur in Serbien habe man "finanzielle Verluste und öffentliche Verleumdungen hinnehmen müssen". Man werde sich daher aus dem Land zurückziehen. Kurz danach äußerte sich erneut der Ost-Ausschuss der Deutschen Wirtschaft zur Sache. Er hoffe, "dass der angekündigte Rückzug als Alarmsignal wahrgenommen" werde und die WAZ ihre Konzernaktivitäten in Serbien fortführen könne, erklärte der Vorsitzende des Ost-Ausschusses, Klaus Mangold.[8] Mangold wies darauf hin, dass Deutschland mittlerweile der wichtigste Handelspartner Serbiens ist und außerdem seine Direktinvestitionen von 278 Millionen Euro im Jahr 2004 auf aktuell gut 1,2 Milliarden Euro ausgedehnt hat. Die deutsche Wirtschaft sei "bereit, ihr Engagement (in Serbien, d. Red.) deutlich zu steigern". Der Vorsitzende des Ost-Ausschusses ließ allerdings keinen Zweifel daran, dass die deutschen Firmen Wert darauf legten, von Belgrad Forderungen wie etwa diejenige der WAZ nach einem Einstieg bei Novosti AD erfüllt zu bekommen. Mangolds Äußerungen besitzen Gewicht, da das weithin verarmte Serbien auf Geschäfte mit dem mächtigen Deutschland angewiesen ist. Dem Präsidium von Mangolds Ost-Ausschuss gehört auch WAZ-Geschäftsführer Bodo Hombach an.

Rechtliche Schritte

Die weitere Entwicklung ist ungewiss. Die WAZ gibt an, sie habe jetzt eine Firma mit dem Namen Ardos Holding GmbH übernommen, die in Salzburg ihren Sitz habe und dem Mittelsmann Milan Beko gehöre. Damit seien zwar die 23 Prozent der Novosti-Anteile, die Ardos gehörten, in ihren Besitz gelangt; dennoch halte sie am Ausstieg aus ihren serbischen Geschäften fest.[9] Večernje Novosti berichtet hingegen, die angebliche Ardos-Übernahme durch die WAZ sei in Österreich formal inkorrekt und "betrügerisch" durchgeführt worden; das Vorgehen des Essener Konzerns sei ungültig und untergrabe das serbische Rechtssystem. Man behalte sich rechtliche Schritte vor.[10]

Nur ein Teil

Die Machtkämpfe in Serbien sind nicht die einzigen, die die WAZ bei ihrer Expansion nach Ost- und Südosteuropa führte. Seit Beginn seines Ausgreifens in die Region im Jahr 1990 hat es der deutsche Konzern geschafft, sich allein in Südosteuropa 26 Tageszeitungen und eine Vielzahl an Zeitschriften ganz oder teilweise anzueignen - unter zuweilen bemerkenswerten Umständen. Über die Expansion der WAZ in weiteren Ländern Südosteuropas berichtet german-foreign-policy.com am morgigen Donnerstag.

[1], [2] Hombach, Hitler und die Oligarchen; Süddeutsche Zeitung 19.06.2010
[3] Die Belgrad-Connection; Financial Times Deutschland 13.08.2001
[4] Subotić expands on recent remarks; www.b92.net 23.03.2010
[5] "'I spoke with WAZ, with Mr. (Bodo) Hombah, about the information I received and he said it was alright, if they can get that done, as far as they are concerned, it was acceptable. I met with Mišković and Beko, we spoke about the details and they asked me for EUR 26mn, adding that with that money they could buy 60-65 percent of the Novosti shares, which would then naturally be given to WAZ,' Subotić said. 'I gave Mr. Hombah the details of the conversation, and he accepted that. I made a contract, I received a mandate from WAZ that gave precise details for the contract. I made the same agreement with Beko and Mišković through several of their companies, I can give you the names later so that you can get the documents from them. I paid them EUR 26mn and they bought the shares. They paid EUR 8-9mn for the shares, which means that EUR 26mn minus eight or nine was their profit, the profit they took as people organizing a sale outside of the stock exchange, as mediators and practically sellers of state goods,' Subotić said. When B92 asked WAZ for a reaction, the company said in a written statement that all money for the purchase of Novosti was given directly by the company and that all other claims are false." Subotić expands on recent remarks; www.b92.net 23.03.2010
[6], [7] Hitler und die Oligarchen; Süddeutsche Zeitung 19.06.2010
[8] Ost-Ausschuss bedauert Rückzug der WAZ-Gruppe aus Serbien; www.ost-ausschuss.de 18.06.2010
[9] WAZ hält an Ausstieg aus Serbien fest; derstandard.at 22.06.2010
[10] Hombah pokušava da ukrade "Novosti"; www.novosti.rs 22.06.2010


Meinung bilden (II)
 
24.06.2010

ESSEN/SKOPJE/BELGRAD
 
(Eigener Bericht) - Der serbische Wirtschaftsminister Mladan Dinkić fordert den deutschen Medienkonzern WAZ wegen dubioser Machenschaften zum Rückzug aus Serbien auf. Es könne nicht angehen, dass die WAZ mit zweifelhaften "Hinterzimmergeschäften" sich die Kontrolle über eine der wichtigsten Tageszeitungen des Landes verschaffe, erklärt Dinkić nach Bekanntwerden eines Deals, der dem Essener Konzern eine marktbeherrschende Stellung in Serbien verschaffen sollte. Dabei versuchten die WAZ und WAZ-Geschäftsführer Bodo Hombach (SPD), sich mit Hilfe eines Strohmannes stückweise in den Besitz der Anteilsmehrheit an Večernje Novosti, der auflagenstärksten Tageszeitung des Landes, zu bringen. Der Strohmann, ein serbischer Oligarch, will die bei ihm zwischengeparkten Anteile nun offenbar nicht herausrücken. Hintergrund des Deals ist, dass die WAZ zunächst wegen kartellrechtlicher Bedenken Večernje Novosti, ein in Serbien meinungsbildendes Blatt, nicht kaufen konnte - und deshalb die Dienste des Strohmannes in Anspruch nahm. Der Essener Medienkonzern ist das stärkste westeuropäische Unternehmen auf dem Pressemarkt in Südosteuropa und hält in mehreren Staaten eine marktbeherrschende Position von bis zu 70 Prozent - abgefedert durch beste Beziehungen ins politische und wirtschaftliche Establishment.

Hinterzimmergeschäfte

Der WAZ-Konzern hat die dubiosen Geschäfte am gestrigen Mittwoch [1] in einer ausführlichen Erklärung eingestanden. Demnach hat sich ein nicht genannter "Vertragspartner" - Bodo Hombach nennt ihn einen "serbischen Oligarchen" - im Dezember 2008 verpflichtet, drei Gesellschaften mit den Namen "Ardos" (Österreich), "Trimax" (Österreich) und "Karamat" (Zypern) an die WAZ zu verkaufen. Die drei Gesellschaften halten insgesamt fast zwei Drittel der Anteile an Novosti AD, dem Verlag, der Večernje Novosti ("Abendnachrichten") herausgibt. Als Novosti AD vor einigen Jahren privatisiert wurde und die WAZ wegen möglicher kartellrechtlicher Einwände nicht selbst zum Zuge kam - sie besitzt bereits 50 Prozent an Politika, der zweiten meinungsbildenden Zeitung des Landes -, da hatte der "Oligarch" die Anteile übernommen und damit den Verkauf des Verlages an einen anderen serbischen Investor verhindert. Das Bekanntwerden des Deals ruft ernsten Ärger in Belgrad hervor. Es könne nicht angehen, dass die WAZ sich mit "Hinterzimmergeschäften" in den Besitz eines "Markenzeichens" wie Večernje Novosti bringe, erklärt der Wirtschaftsminister Serbiens, Mladan Dinkić.[2]

Österreich, Ungarn

Die WAZ, die in diesen Tagen mit ihren Machenschaften für Unmut in der serbischen Hauptstadt sorgt, ist seit Jahren der mächtigste ausländische Konzern auf dem Pressemarkt in Südosteuropa. Die ersten Sondierungen der "WAZ Mediengruppe" in Richtung Ost- und Südosteuropa erfolgten bereits Ende der 1980er Jahre. 1987 stieg der Essener Konzern bei zwei bedeutenden Verlagen in Österreich ein: Er übernahm 50 Prozent der Kronen Zeitung, die mit einer Reichweite von gut drei Millionen Lesern bei einer Gesamtbevölkerung von 8,4 Millionen eine singuläre Stellung im Land besitzt, und 49,4 Prozent an der Wiener Tageszeitung Kurier (Auflage: 200.000). "Damit haben wir uns das Tor nach Südosteuropa geöffnet", urteilte Anfang 2007 der einige Jahre für Südosteuropa zuständige WAZ-Mitarbeiter Andreas Ferlings.[3] In der Tat gelang dem deutschen Unternehmen unmittelbar nach dem Umbruch in Ost- und Südosteuropa der Einstieg in das erste zuvor realsozialistische Land: 1990 übernahm es die ungarische Verlagsgruppe Pannon Lapok Társasága, deren fünf Regionalblätter der WAZ zufolge "in vier Komitaten von der österreichischen Grenze bis vor die Tore Budapests" [4] erscheinen - Gesamtauflage: 225.000 Exemplare.

Große Schlagzeilen, knappe Sprache

Größeren Unmut rief die Südostexpansion der WAZ erstmals in Bulgarien hervor, wo der Konzern 1996 tätig wurde. Zunächst übernahm er die zweitgrößte Tageszeitung des Landes (24 Tschassa), danach zusätzlich auch die größte (Dneven Trud). Dabei wurde der WAZ nicht nur vorgeworfen, sich mit Dumpingpraktiken eine monopolartige Stellung verschafft zu haben [5]; in der Tat beläuft sich der Marktanteil des Unternehmens, das sich in Kartellprozessen in Sofia mit Erfolg behaupten konnte, in Bulgarien heute auf gut 70 Prozent. "Eine unserer Strategien ist es, in Länder zu gehen, in denen das Kartellrecht nicht so weit entwickelt ist", erklärte der ehemalige WAZ-Mitarbeiter Ferlings im Januar 2007 dazu - man versuche Marktanteile aufzukaufen, bevor das Kartellrecht verschärft werde.[6] Bis heute werden daneben Vorwürfe laut, die die qualitative Entwicklung der von der WAZ übernommenen Zeitungen kritisieren. So sei "das Potenzial", die bulgarischen Leser an höhere "Qualitätsstandards heranzuführen", von der WAZ damals "nicht genutzt" worden, sagt ein Medienwissenschaftler in Sofia. Ganz im Gegenteil, klagt eine Journalistin: "Sie brachten ein neues Grafikdesign mit: Größere Schlagzeilen, eine knappere Sprache, große Bilder auf der ersten Seite".[7]

Exklusive Kontakte

Seit Februar 2002 verfügt die WAZ, der zuvor bereits der Einstieg in Kroatien (Dezember 1998), Rumänien (März 2001) und Serbien (Oktober 2001 [8]) gelungen war, über einen Geschäftsführer mit herausragenden Beziehungen nach Südosteuropa. Bodo Hombach (SPD) hatte zwischen 1998 und 2001 exklusive Kontakte knüpfen können, zunächst als Kanzleramtschef bei der Vorbereitung des Kosovokriegs und während der NATO-Bombardements, ab Mitte 1999 als Sonderkoordinator der EU für den sogenannten Südosteuropa-Stabilitätspakt. Der "Stabilitätspakt", der Kooperation und Aufbaumaßnahmen in Südosteuropa fördern sollte, brachte den EU-"Sonderkoordinator" mit dem politischen und ökonomischen Führungspersonal in ganz Südosteuropa in direkten Kontakt. Hombach hatte bereits mit seinen Aktivitäten in Deutschland zuweilen ernsthaften Unmut erregt; ein Landespolitiker in Nordrhein-Westfalen, wo Hombach bis zum Herbst 1998 tätig war, wurde 1999 mit den Worten zitiert, "die Zahl der Intrigen in NRW" habe mit Hombachs Wechsel in das Bundeskanzleramt "signifikant abgenommen".[9] Hombachs Tätigkeit für den WAZ-Konzern in Südosteuropa verlief ebenfalls nicht ohne Konflikte.

Positive Berichterstattung

Schlagzeilen gemacht hat vor allem ein Streit mit der Redaktion der rumänischen Tageszeitung România Liberă in der zweiten Jahreshälfte 2004. Der Streit entzündete sich an Vorgaben seitens der WAZ, die in der Öffentlichkeit unterschiedlich interpretiert wurden. Die WAZ habe România Liberă, eine konservative Zeitung, die zu 70 Prozent dem deutschen Medienkonzern gehörte, von kritischer Berichterstattung über die sozialdemokratische rumänische Regierung abhalten wollen, klagte die Redaktion des Blattes; sie brachte das mit Hombachs SPD-Vergangenheit und mit den engen Kontakten zwischen der deutschen und der rumänischen Sozialdemokratie in Verbindung. Man habe sich nur für Qualitätsstandards und für "positive Berichterstattung" eingesetzt, hieß es hingegen bei der WAZ.[10] Einige Wochen lang beschäftigte der Streit um die Einmischung des deutschen Pressekonzerns in die redaktionelle Arbeit die europäische Öffentlichkeit. Heute wäre dies wohl nicht mehr der Fall. "Hatte die WAZ sich früher rein kommerziell und politisch streng neutral gegeben", urteilte im Frühjahr 2006 ein Kenner, "so rutscht sie mit ihren Balkan-Blättern jetzt in ein betont liberales, pro-westliches Segment." Damit werde "der Konzern auf dem Balkan seiner zunehmend politischen Rolle gerecht".[11] Aufmerksamkeit erregt dies heute nicht mehr.

Vom Außenminister zum Zeitungsmann

Ein herausragendes Beispiel für die engen Verbindungen der WAZ zu den politischen Eliten der Staaten Südosteuropas bieten die Konzernaktivitäten in Mazedonien. Dort kaufte die WAZ im Mai 2003 die drei auflagenstärksten Tageszeitungen des Landes (Dnevnik, Utrinski Vestnik, Vest). Nur wenig später fasste sie ihre Mazedonien-Aktivitäten in der Firma Media Print Mazedonien (MPM) zusammen - wie sie betont, "mit der Genehmigung des Kartellamts".[12] Das muss hervorgehoben werden, denn MPM bündelt nicht nur die vollständige Wertschöpfungskette vom Druck bis zum Vertrieb, sondern kontrolliert mit den drei Zeitungen auch mehr als 70 Prozent des Printmarktes in Mazedonien.[13] Begünstigt werden die mazedonischen Konzernaktivitäten jedenfalls durch beste Beziehungen zum politischen Establishment. Als die WAZ in Skopje einstieg, engagierte sie Srgjan Kerim als Geschäftsführer von MPM. Kerim kennt Deutschland unter anderem aus seiner Zeit als Botschafter seines Landes in der Bundesrepublik (1994 bis 2000), arbeitete im Jahr 2000 kurz als "Sonderbeauftragter für Regionalfragen" des Südosteuropa-Stabilitätspaktes unter Bodo Hombach und amtierte als mazedonischer Außenminister (2000 bis 2001), bevor er im Jahr 2003 den Vorsitz in der Deutsch-Mazedonischen Wirtschaftsvereinigung übernahm - und für die WAZ zu arbeiten begann.

Noch ärmer

"Kein anderer westeuropäischer Verlag ist in Südosteuropa so präsent wie die WAZ Mediengruppe", urteilt der Essener Medienkonzern über sich selbst.[14] Angesichts der Tatsache, dass das deutsche Unternehmen inzwischen 40 Prozent seines Umsatzes und 70 Prozent seines Erlöses im Ausland erzielt, bilanzieren südosteuropäische Kritiker die Aktivitäten der WAZ etwas anders. Beispielhaft hierfür steht der Chefredakteur der heftig umkämpften Tageszeitung Večernje Novosti, Manojlo Vukotić. "Sie sind aufgebrochen, die Medienszene auf dem verarmten Balkan zu erobern", sagte Vukotić kürzlich auch mit Blick auf die Hinterzimmergeschäfte der WAZ mit zum Teil dubiosen Oligarchen, "und sie schaffen es, den Balkan noch ärmer zu machen".[15]

[1] "Serbiens Bürger haben ein Recht auf Wahrheit"; www.derwesten.de 23.06.2010
[2] Probe ordered into newspaper privatization; www.b92.net 23.06.2010
[3] "Wir grasen den Markt ab"; www.medien-monitor.com 30.01.2007
[4] Ungarn; www.waz-mediengruppe.de
[5] European Federation of Journalists: Media Power in Europe: The Big Picture of Ownership, Brussels, August 2005
[6] "Wir grasen den Markt ab"; www.medien-monitor.com 30.01.2007
[7] Staatsfeind Nummer eins; Berliner Zeitung 03.08.2009
[8] s. dazu Meinung bilden (I)
[9] Schröders play-back; Der Freitag 25.06.1999
[10] Lebenslauf Dr. Srgjan Kerim; www.dgvn.de
[11] Flaggschiffe im Visier; Berliner Zeitung 04.05.2006
[12] Mazedonien; www.waz-mediengruppe.de
[13] Vladimir Zlatarsky, Dirk Förger: Die Medien in Mazedonien; www.kas.de 31.08.2009
[14] Das internationale Engagement der WAZ Mediengruppe; www.waz-mediengruppe.de
[15] Serbischer Chefredakteur beschimpft WAZ-Boss; Spiegel Online 24.03.2010



               * Jugoslavenski glas - Voce jugoslava*

"Od Triglava do Vardara..." "Dal monte Triglav al fiume Vardar..."

Svakog drugog utorka, od 14,00 do 14,30, na Radio Città Aperta, i valu FM 88.9 za regiju Lazio, emisija:
                       JUGOSLAVENSKI GLAS
Emisija je u direktnom prijenosu. Moze se pratiti i preko Interneta:
                    http://www.radiocittaperta.it 
Kratke intervencije na telefon +39-06-4393512.
Pisite nam na jugocoord@... 
Podrzite ovaj glas, kupovanjem nasih brosura, video kazeta i t.sl. Odazovite se.

Ogni due martedì dalle ore 14,00 alle 14,30:
                          VOCE JUGOSLAVA
su Radio Città Aperta, FM 88.9 per il Lazio. Si può seguire, come del resto anche le altre trasmissioni della Radio, via Internet:
                    http://www.radiocittaperta.it 
La trasmissione è bilingue (a seconda del tempo disponibile e della necessità) ed in diretta. Brevi interventi telefonici allo 06-4393512.
Scriveteci all'indirizzo email: jugocoord@... 
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*** Program 22. VI. 2010 Programma ***

Historijski revizionizam na maturi: Fojbe      
Revisionismo storico alla Maturita': Foibe

       U studiju                      In studio
                  Eleonora e Ivan



Kathimerini

Conflit du nom : la Grèce affirme qu’un compromis a été trouvé


Traduit par Laurelou Piguet
Publié dans la presse : 13 juin 2010

La Grèce et la Macédoine s’approchent d’un accord. Sous la pression des interventions des États-unis et de l’UE, les deux pays seraient tombés d’accord sur le nom de « République de Macédoine du Vardar ». Cette appellation satisfait l’exigence grecque d’une désignation géographique, et est déjà largement utilisée par les citoyens du pays voisin pour différencier la Macédoine de l’Égée (la Grèce) et la Macédoine du Pirin (la Bulgarie).

Par Athanasios Ellis


Par ailleurs, il y a un an exactement, le conseiller du président de la FYROM, Risto Nikovski, s’était officiellement prononcé en faveur de l’appellation « République de Macédoine (du Vardar) ». Dans cette perspective, la forme exacte que prendra la transcription de ce nom a une très grande importance.

Utiliser des régions géographiques ou des fleuves comme élément constituant du nom officiel est une idée qui a été remise sur la table des négociations, selon un diplomate occidental très bien informé. Selon lui, l’initiative de Yorgos Papandréou d’inaugurer directement des rencontres avec Nikola Gruevski a été un facteur déterminant dans les avancées vers une solution. « Ces rencontres ont permis de briser la glace. Les mouvements de Papandréou ont eu une grande importance symbolique. D’un coup, vos voisins ne se sont plus sentis exclus ni humiliés ». Les contacts fréquents entre Dimitris Droutsas (vice-ministre grec des Affaires étrangères) et Antonio Milososki sont allés dans le même sens.

Les négociations intensives qui sont en cours ces derniers temps, loin des feux des médias, ont porté leurs fruits. Du côté américain, c’est le secrétaire d’État adjoint, James Steinberg, qui s’en est occupé de façon intensive : il a visité les deux pays à plusieurs reprises. Il est venu par exemple trois fois en Grèce, en mai, en juin et en décembre 2009, et a rencontré Kostas Karamanlis et Yorgos Papandréou.

James Steinberg, auquel la « direction grecque et chypriote » a remis il y a trois semaines une distinction à Washington, a déclaré récemment que Gruevski avait « des décisions difficiles à prendre dans un avenir proche », et a souligné l’importance que revêtait pour Skopje, dans l’incertitude de la période actuelle, son intégration à l’UE et à l’Otan. Par ailleurs, il s’est réjoui de l’attitude positive de Yorgos Papandréou et de sa vision d’une complète incorporation des Balkans occidentaux dans l’Union européenne d’ici à 2014.

La partie grecque insiste sur la nécessité que la nouvelle appellation composée qui désignera le pays voisin soit utilisée par tous, pour éviter la confusion que créerait l’utilisation de plusieurs noms. Des pays influents se rallient aussi progressivement à cette idée.

Dans ce cadre, on estime que l’appellation « Macédoine du Vardar » est celle qui représente le moins d’obstacles, et qu’elle pourra être conservée dans la Constitution puisqu’elle constitue une description du pays pour les citoyens même de la FYROM.

Pendant la visite de Yorgos Papandréou à Washington en mars, la partie américaine avait fait connaître son intention d’adopter l’appellation choisie tant dans les forums internationaux que dans les relations bipartites, que celle ci soit « Macédoine du Nord », comme l’avait proposé l’année dernière Matthew Nimetz, soit « Macédoine du Vardar », qui est la solution vers laquelle vraisemblablement les deux pays se dirigent.