PODGORICA -Un fiume di denaro pubblico italiano finito - come minimo in perfetto conflitto d'interessi - sui conti della banca di Milo Djukanovic. Lui, il pluri-inquisito ma inscalfibile premier montenegrino - pericoloso contrabbandiere internazionale e favoreggiatore di latitanti secondo le procure di Bari e Napoli, "amico" e "partner affidabilissimo" se si sta a Berlusconi e ai nostri ministri - , che per garantirsi il sostegno di Roma all'ingresso del Montenegro nell'Unione europea e nella Nato svende l'argenteria di casa. Come? Concedendo allettanti (e opache) privatizzazioni. Soprattutto nel settore dell'energia, la vera manna delle nostre imprese oltre Adriatico. Si sono date tutte allo shopping, qui, nell'ex Tortuga delle sigarette e dei loschi traffici divenuta oggi, grazie a una partnership in parte ancora da decriptare, e complice l'imposta su redditi più bassa d'Europa (9%), un nuovo Eldorado. Una specie di terra promessa per gli italiani, ora impegnati a colonizzarla come non riuscì all'ammiraglio Vittorio Mollo nel 1918 e al generale mussoliniano Pirzio Biroli nel 1941.
Altre epoche. Girata la ruota, cambiati i protagonisti. Oggi si chiamano Claudio Scajola (non più ministro dello Sviluppo economico), Valentino Valentini (fidato consigliere di Berlusconi per i rapporti internazionali), Maria Vittoria Brambilla (ministro per il Turismo). È anche un po' merito loro, in missione per conto del presidente del Consiglio, che pure l'anno scorso è venuto a trovare Djukanovic in visita ufficiale, se la giovane Repubblica autonoma montenegrina - giovane come il suo discusso primo ministro (48 anni, a 29 già aveva in mano il paese e non l'ha più mollato, tra pochi giorni affronterà la prova delle amministrative cercando di scacciare le ombre che lo inseguono), è ora talmente lanciata da essere al centro di un mosaico affaristico-imprenditorial-politico. Assimilabile, per alcuni aspetti, alla stretta attualità italiana. Non vi sono, ad ora, risvolti penali, negli interscambi tra i due Paesi. Ma anche qui si parla di accomodanti relazioni politiche, di centinaia di milioni di euro, di grossi appalti, di operazioni bancarie più o meno filo-dirette. E, soprattutto, di energia. La stessa (in questo caso eolica) per la quale, in Italia, si è molto adoperato il coordinatore del Pdl Denis Verdini.
Per scattare una fotografia del Montenegro visto dai palazzi romani si può partire da una telefonata. È il 18 gennaio del 2009. Denis Verdini, indagato per corruzione dalle procure di Roma e Firenze, chiama il suo amico Riccardo Fusi, costruttore fiorentino patron di Bpt (Baldassini-Tognozzi-Pontello), la società finita al centro dell'inchiesta sui Grandi Appalti e ritenuta dagli investigatori la "copertura" del consorzio Stabile Novus infiltrato dalla mafia. Non è un evento, la telefonata: "Ci sentivamo anche dieci volte al giorno", dice Fusi, contattato da Repubblica. Il tema di quella conversazione catturata, tra migliaia, dai Ros dei carabinieri, e ricordata dallo stesso Fusi, è il Montenegro. "Domani Valentini va a Podgorica con un gruppo di imprenditori, vuoi andare anche tu?", è l'invito di Verdini. Al suo amico, il coordinatore del Pdl fa presente che in Montenegro c'è la possibilità di guadagnare parecchio. "Purtroppo non sono riuscito ad andare per impegni già presi", si dispiace Fusi.
Il volo di Stato per Podgorica è organizzato da Valentino Valentini tramite Simest (società del governo che sostiene gli investimenti italiani all'estero). Con il ministro Brambilla e il sottosegretario al commercio estero, Adolfo Urso, ci sono una sessantina di imprenditori (A2A, Enel, Terna, Banca Intesa, Ferrovie dello Stato, Edison, Valtur, Todini). È il primo passo nell'intesa commerciale tra Berlusconi e Djukanovic.
Ce ne saranno altri due. Decisivi. Uno il 17 marzo 2009: la visita di Berlusconi. Il premier, accolto come un eroe, incontra Milo, come lo chiamano gli elettori. Promette che avrebbe fatto diventare grande il Montenegro. Il 16 giugno spedisce qui un altro suo fedelissimo, il ministro Scajola, che mette la firma su due contratti: energia e infrastrutture. Investimenti per 5 miliardi di euro. Col primo scendono in campo A2A - la multiutility quotata in Borsa nata dalla fusione delle municipalizzate di Milano e Brescia - e Terna. A2A acquisisce il 43% della società energetica pubblica Elektroprivreda. Dei 450 milioni italiani per la privatizzazione, una parte, almeno 300, sono stati versati sui conti della Prva Banka, il colosso bancario controllato dal fratello del premier, Aco Djukanovic, e del quale possiedono azioni lo stesso Milo e la sorella Ana. Lo conferma il direttore della Prva, Predag Drecun. L'opposizione al governo parla di operazione "affrettata e poco trasparente", sponsorizzata da Berlusconi e messa in piedi per favorire il potente clan Djukanovic. In effetti è come se Berlusconi privatizzasse una società pubblica e facesse versare i soldi sui conti della Mediolanum. Ma tant'è, tutto è possibile nel Montenegro delle (sin) energie. Grazie al "prego si accomodino" deciso da Milo, Terna costruirà un elettrodotto sottomarino Pescara-Tivat per portare l'energia balcanica nello stivale. A2A, ancora lei, realizzerà quattro centrali idroelettriche, Enel un impianto a carbone in collaborazione con Duferco che, a sua volta, tirerà su un termovalorizzatore. E per finire il progetto di Italfer (Ferrovie dello Stato): una ferrovia Bar-Belgrado (1 milione già stanziato da Scajola).
Dietro la campagna montenegrina - è il timore del deputato Pd Alessandro Maran - si nasconde "la nostra illusione di fare nei Balcani tutto quello che non si può fare in Italia, trasferendolo dall'altro lato del confine". No, "è semplicemente una partnership costruttiva e interessante per tutti e due i paesi - ragiona l'ambasciatore italiano Sergio Barbanti - questo è uno Stato che vuole e può crescere". Ma l'assalto all'oro montenegrino è visto da qualcuno come un azzardo. Anche per lo stesso ex regno delle sigarette. Avverte un imprenditore locale: "È vero che sfruttiamo solo il 17 per cento del nostro potenziale, ma questa è una terra da salvaguardare". Buona parte del territorio montenegrino è sotto il patrimonio dell'Unesco. Anche volendo fare la tara a quello che scrivono i giornali vicini all'opposizione, come il "Dan" - titoli forti tipo "è arrivata la mafia dell'energia" - ; anche volendo prendere con le pinze le parole del leader del Movimento per il cambiamento Nebojsa Modojevic ("c'è il rischio che la mafia italiana bruci nei termovalorizzatori qualsiasi porcheria e il rapido accordo con A2A è frutto solo degli interessi personali di Berlusconi e Djukanovic"), è un fatto che il filo che corre tra Italia e Montenegro si regge su un equilibrio ancora ballerino.
La Procura di Bari, che come quella di Napoli aveva chiesto l'arresto di Djukanovic poiché ritenuto a capo di una cupola mafioso-finanziaria dedita al traffico internazionale di sigarette (mille tonnellate al mese), droga, armi e coperture per 15 criminali, l'anno scorso ha archiviato il fascicolo. Non si può procedere perché Milo è un capo di governo straniero protetto dall'immunità. Ma le preoccupazioni per Djukanovic arrivano anche dal suo paese. La suprema corte di Podgorica ha acceso i riflettori su nove omicidi di testimoni "scomodi" legati al contrabbando (nel 2004 in città fu ucciso anche il giovane direttore del quotidiano Dan). Un'indagine che sta facendo tremare i palazzi del potere.
Il 23 maggio in Montenegro si vota per le amministrative in 14 comuni. L'opposizione fa blocco per provare a scardinare Milo e, al prossimo suffragio, per mandarlo a casa dopo 18 anni. Lui si sente forte, anche grazie al partner italiano. Messe in cascina le garanzie di Berlusconi, Djukanovic promette l'Europa al suo popolo (che già usa l'euro, caso unico tra i paesi non Ue). Chissà, forse è tutta questione di energia.