Nell’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (IRSMLT n. 366) si trova una relazione, redatta dal dottor Marcello Cordovado (un appunto di Ercole Miani segnala che lo fece su incarico del CLN triestino dell’epoca), che si trovava a Pisino alla fine del 1943.
Lo scritto, intitolato “La dura sorte di Pisino” consta di 7 pagine e descrive gli avvenimenti dal 10 settembre ai primi di ottobre del 1943. Ne facciamo un riassunto.
Al 10/9/43 si trovavano a Pisino circa mille soldati del Regio esercito, comandati dal colonnello Scrufari, e un distaccamento di carabinieri comandati dal colonnello Monteverde.
Nel pomeriggio dell’11 si presentarono a Pisino una trentina di partigiani armati sommariamente seguiti da un centinaio di contadini senza armi. Tre “capi” si staccarono dal gruppo, chiesero di parlare a Scrufari, «il quale alla domanda di resa e di consegna immediata di tutte le armi, di alcuni ostaggi e di liberazione immediata dei prigionieri politici di Pisino, rispose affermativamente dando i rispettivi ordini di capitolazione».
La «turba» che seguiva «l’avanguardia» si impossessò delle armi e risultò alla fine armata meglio dei partigiani.
Vennero provati i cannoni, ma visto che non li sapevano usare li resero inutilizzabili; fu dato l’ordine di aprire i negozi e distribuire le giacenze alla popolazione «il risultato era che dopo pochi giorni non essendoci più alcun rifornimento, la popolazione era alla fame». D’altra parte «il dominio partigiano si svolgeva del resto senza eccessivi disordini, salvo qualche ammazzamento tra i partigiani stessi nelle frequenti liti durante le loro libazioni».
«Alcuni squadristi vennero uccisi ed altri vennero imprigionati nel castello Montecuccoli. Perquisizioni, arresti e minacce si susseguirono in questo periodo di ansia da parte della popolazione che assisteva e subiva impotente la situazione».
«La dominazione aveva però il carattere di puro slavismo e non di comunismo».
«Il Capo partigiano tuttavia si scusava di qualche eccesso e dell’uccisione di alcuni squadristi, biasimando il fatto ed attribuendolo ad elementi fanatici ed estremisti». Poi viene citato il caso di un «procuratore delle imposte» che sarebbe stato «seviziato e poi ucciso» dai fratelli di una sua ex impiegata che egli avrebbe fatto internare, una «certa Primus». Vennero inoltre arrestate e portate al castello anche donne e qualche soldato germanico, ma non sembra che durante il “potere popolare” si siano stati eccidi di massa.
Successivamente viene riportata la traduzione del “manifesto” pubblicato dal «cosiddetto comitato della liberazione durante il dominio partigiano», datato 26 settembre 1943 «nella libera Pisino».
Va evidenziato che il testo si rivolge al «popolo istriano» che si è ribellato dopo 25 anni di schiavitù e che si parla di «storico atto del 13 settembre 1943 che segna il distacco dell’Istria dall’Italia e la sua incorporazione alla madre Croazia e Jugoslavia». Le deliberazioni erano le seguenti:
«1) Tutte le leggi fasciste italiane sia sociali che economiche, le quali avevano lo scopo di snazionalizzare e di distruggere il nostro popolo sono abolite;
2) tutti gli italiani immigrati in Istria dopo il 1918 con lo scopo di snazionalizzare e sfruttare il nostro popolo saranno restituiti all’Italia. Per singoli casi deciderà un’apposita commissione;
3) la minoranza italiana in Istria godrà di tutti i diritti nazionali (libertà di lingua, scuole, stampa e libertà culturale;
4) tutti i nomi che sono stati italianizzati (…) con la forza ed il terrore (…) sarà restituito alla forma croata;
5) la lingua della chiesa sarà croata e si consentirà alla minoranza italiana di usare la propria lingua;
6) le scuole croate saranno aperte quanto prima;
7) chiamata alle armi del NOV;
8) prestito per aiutare gli infortunati nella lotta per la libertà nazionale;
9) giunta provinciale di liberazione eletta in veste provvisoria;
10) saluto a Tito».
Il Comitato provvisorio constava di una direzione di 3 membri, 10 membri del comitato, 15 consultori e partecipanti, tra i quali Ivan Motika qualificato come “giudice”, ma dato che tra le altre qualifiche leggiamo “contadino”, “parroco”, “impiegata”, “falegname” e così via, è probabile che Motika non fosse il “giudice” del Comitato, così come il “contadino” Jelevac non era il “contadino del comitato”, semplicemente di suo facesse il contadino come Motika di suo aveva la qualifica di magistrato (era laureato in giurisprudenza).
Tornando alla descrizione degli avvenimenti, il 28 settembre avvenne il primo bombardamento aereo di Pisino da parte di Stukas tedeschi, che si limitò alla piazza dove erano riuniti gli automezzi militari e ne provocò la quasi totale distruzione, ma vennero colpiti e danneggiati anche «alcuni edifici prospicienti la piazza, come il ginnasio, il teatro e l’albergo Al Cavallino».
«Intanto si svolgeva l’azione di rastrellamento da parte della Leibstandarte Adolf Hitler», divisione corazzata che «incontrò quasi sempre il vuoto dinanzi a sé mentre pure venivano segnalati forti contingenti di partigiani che sembrava non si volessero mai far agganciare» (dimostrazione che l’estensore della relazione non ha idea di cosa significhi la guerra di guerriglia, fatto questo purtroppo comune anche agli storici odierni che parlano di questi avvenimenti).
Sembrava che i partigiani avessero deciso di concentrarsi nella «conca di Pisino» per opporre resistenza e «ciò sembrava confermato dal nutrito fuoco di mitragliatrici aperto contro gli aerei che effettuavano il primo bombardamento».
Il 4 ottobre verso le 11 del mattino 13 Stukas iniziarono il bombardamento a bassa quota con bombe di medio calibro «colpendo indistintamente tutto l’abitato». La popolazione cercò scampo nelle campagne, ma «molti incappavano nel peggio», affermazione chiarita successivamente, perché i reparti tedeschi di rastrellamento «non badavano troppo per il sottile» e spesso mitragliavano ed uccidevano i fuggiaschi «che non sapevano spiegarsi in tedesco e giustificare la loro presenza fuori di casa» (ma essere “fuori di casa” era un motivo valido per venire falciati?), ed in tal modo vennero uccisi dai tedeschi anche il podestà ed il preside del ginnasio che stavano scappando verso nord.
Verso mezzogiorno cessò il bombardamento e nello stesso tempo si avvicinò la prima colonna corazzata germanica dal sud di Pisino, accolta da «nutrito fuoco di fucileria dalle prime case». I carri armati aprirono il fuoco contro le case «che tosto andarono in fiamme e distrutte. Coloro che da dette case scappavano venivano indistintamente tutti mitragliati e stesi al suolo», e furono uccisi «molti innocenti tra cui donne e bambini». Proseguendo verso il centro di Pisino se da qualche casa proveniva una fucilata essa veniva «per pronta rappresaglia immediatamente incendiata».
«Pisino presentava uno spettacolo pauroso: incendi in tutte le direzioni, in parte dovuti al bombardamento del mattino ed in parte al cannoneggiamento delle colonne (…) la popolazione era letteralmente atterrita dalle distruzioni compiute: l’ottanta per cento delle case era rimasto distrutto in poche ore».
Le colonne tedesche fermarono gruppi di persone tra le case, sottoposti ad interrogatorio ed in parte fucilati, o portati al castello, dove «per una pura combinazione non successe una tragedia più grande», in quanto alcuni reparti tedeschi vedendo il castello pieno di prigionieri italiani che erano stati lì abbandonati dai partigiani che avevano lasciato Pisino, li scambiarono per partigiani e puntarono loro contro le mitragliatrici pesanti. Solo per l’intervento di un capitano tedesco che riuscì a spiegare la situazione solo «il primo che si era presentato davanti» venne ucciso.
I partigiani non erano riusciti a portare via «con le tragiche corriere come fatto poche ore prima con il contingente dei parenzani che finirono nell’orrida foiba di Vines” parte dei prigionieri che quindi rimasero al castello quando arrivarono i tedeschi». E l’estensore conclude: «dolorosamente molti italiani in questa tragica giornata perdettero la vita e la cittadina fu sommersa dalla distruzione nel lutto e nel dolore».
Ma questo scritto dovrebbe chiaramente dimostrare che eccidi e devastazioni nell’Istria post-armistizio furono operati dall’esercito nazifascista più che non dai partigiani.