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La NATO, dal Kosovo all’Afghanistan: guerre senza frontiere 

di Diana Johnstone

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova – articolo segnalato dal Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus:
L´Otan du Kosovo à l´Afghanistan : guerres sans frontières


Mercoledì, 18 novembre 2009, Comitato Valmy

Esistono, riconosciute, 761 basi americane nel mondo, fra cui quella gigantesca di Bondsteel in Kosovo, che è stato strappato illegittimamente alla Serbia con la guerra e con l’aiuto decisivo degli imperialisti euro-atlantici.   
Sono vent’anni che la fine della Guerra Fredda doveva dare origine ad un’era di pace. Tuttavia, dopo dieci anni, la NATO fa la guerra, prima al Kosovo, oggi in Afghanistan. È la guerra, e non la pace, che sta ritornando. Perché?
Desidero presentare diverse proposizioni che, a mio avviso, sono evidenze, ma evidenze che non risultano nel discorso ufficiale propagandato dai mezzi di comunicazione di massa. 
1. Prima proposizione. Lo scopo principale della guerra condotta dalla NATO nel 1999 contro la Jugoslavia, conosciuta come “guerra del Kosovo”, era quello di mantenere ancora in attività la NATO, assegnandole la nuova missione di condurre guerre in posti e per motivi, comunque, decisi da essa.  
(Un obiettivo secondario consisteva nel liberare la Serbia da un capo considerato troppo poco sollecito nel seguire il modello economico neo-liberista, ma lascio da parte questo aspetto della vicenda, che avrebbe potuto essere affrontato in ben altro modo che attraverso la guerra, sebbene i bombardamenti abbiano accelerato la privatizzazione delle industrie così colpite in modo tanto sbrigativo.)
2. Questo obiettivo è stato raggiunto, con l’accettazione da parte degli alleati europei della nuova strategia della NATO, che raccomanda la possibilità di interventi militari in tutto il mondo, non importa dove e nemmeno sotto quale pretesto – basta esaminare la lista delle “minacce” alle quali la NATO ha dovuto far fronte.
3. Questo cambiamento di politica estera, con le conseguenti pesanti implicazioni, è stato realizzato senza il benché minimo dibattito democratico nei parlamenti europei o di altri paesi. È stato realizzato con modalità unicamente burocratiche dietro una fitta cortina di fumo emozionale – si potrebbe anche dire di gas lacrimogeni – per la necessità di salvare le popolazioni da minacce assolutamente inesistenti e completamente inventate, precisamente per giustificare un intervento che doveva servire agli interessi degli Stati Uniti e, nel contempo, dei secessionisti albanesi del Kosovo. In altre parole, la nuova politica di guerra senza limiti è stata decisa quasi a porte chiuse e venduta all’opinione pubblica come una grande missione umanitaria di una abnegazione tanto generosa, senza precedenti nella storia dell’umanità.
Ed è così che la “guerra del Kosovo” continua ad essere celebrata, soprattutto negli Stati Uniti, come la prova provata che la guerra non costituisce più il peggiore dei mali da evitare, ma il migliore dei veicoli del ”Bene”.
4. In seguito agli attacchi criminali dell’11 settembre 2001 contro le Torri del World Trade Center, gli alleati europei degli Stati Uniti hanno accettato senza batter ciglio l’interpretazione più che dubbia fornita dall’amministrazione americana Bush-Cheney, secondo cui quegli attacchi costituivano un “atto di guerra”. 
Nuovamente presi da un tourbillon sentimentale – “siamo tutti Americani” – le donne e gli uomini politici europei non si sono affatto mobilitati per fare osservare che si trattava piuttosto di attacchi criminali – internazionali, forse, ma che erano stati scatenati da individui o da gruppi, e non da qualche Stato, e che esigevano logicamente una risposta di polizia e non di una guerra. 
Invece di andare in soccorso al popolo americano portandogli come contributo una dose di buon senso, che visibilmente mancava ai suoi dirigenti, i dirigenti europei hanno per la prima volta fatto appello all’Articolo 5 del Trattato della NATO per seguire gli Stati Uniti aggrediti nella loro guerra contro i fantasmi in Afghanistan. Capiscono sempre tutto..!
5. Quinta proposizione. Tutto questo ha messo in evidenza l’assenza quasi totale in Europa di un dibattito politico, o persino di un’opinione, sulle questioni fondamentali della sicurezza, della guerra e della pace, e ancor meno sul diritto internazionale. 
6. Sesta proposizione. Senza dubbio, la più essenziale e controversa. La deplorevole inesistenza morale ed intellettuale dell’Europa in questo suo cammino verso il disastro è dovuta soprattutto ad una causa: la sedicente “costruzione europea”.  
Ora mi accingo a ritornare su questa serie di avvenimenti che ci conducono dallo slancio “umanitario” del Kosovo fino al pantano insanguinato dell’Afghanistan.

L’Europa e la Jugoslavia

È fatto ordinario biasimare l’Europa per la sua inazione nella questione jugoslava. Ma, più spesso, questo rimprovero assume la forma di una lamentazione secondo cui l’Europa avrebbe dovuto intervenire militarmente per salvare le vittime, bosniache, s’intende. Questa non è un’analisi ma uno sfruttamento moralizzatore da parte di uno degli attori in campo – i Musulmani di Bosnia – di una tragedia  nella quale costoro contano sì il più alto numero di vittime, ma per la quale i loro dirigenti politici (soprattutto il signor Izetbegovic) avevano la loro parte di responsabilità. 
In questa lamentazione senza un’effettiva analisi, l’inerzia dell’Europa viene attribuita spesso alla sua “mollezza” collettiva, ed anche, da certuni, ad un suo supposto razzismo anti-musulmano. Oggettivamente, qua e là esiste un razzismo di questa natura, ma nel caso jugoslavo i motivi del fallimento europeo sono da ricercarsi in una diversa direzione. 
In questa sede, vorrei offrire una diversa interpretazione di questo fallimento, che risulta più complicata, e meno moralista.
Già negli anni 1980, la Jugoslavia affondava in una crisi sia economica che politica. L’indebitamento del governo centrale, che risultava soprattutto dalle crisi petrolifere e dalle speculazioni sul dollaro, favoriva la spinta separatista delle repubbliche più ricche, la Slovenia e la Croazia. Paradossalmente, l’auto-gestione socialista contribuiva al movimento centrifugo. Eppure, il sentimento unitario restava probabilmente ancora maggioritario. 
Questo è il tempo in cui appunto una meno superficiale politica europea di allargamento avrebbe potuto impedire il disastro.  Dopo tutto, la Jugoslavia, situata fra la Grecia e l’Italia, godeva di un sistema socialista più libero e più prospero rispetto a quello del blocco sovietico, stava evolvendo più verso una democrazia di stile occidentale, e per logica era il candidato all’adesione alla Comunità europea in un immediato futuro. 
Alcune voci isolate sottolineavano questa evidenza, senza ricevere ascolto. Agli inizi degli anni 1990, ecco il dramma! Non posso raccontare tutta questa storia adesso, che comunque è riportata nel mio libro “La Crociata degli inganni”. 

Tuttavia, in breve, nel 1991 esistevano due mondi paralleli che si sono scontrati con modalità gravide di sventura. Esisteva il mondo jugoslavo, in cui le repubbliche – è così che si denominavano le componenti della Federazione jugoslava – di Slovenia e Croazia optavano per la secessione, appoggiate dalla Germania.  Ed esisteva il mondo della costruzione europea, in cui in particolare il governo francese era totalmente assorbito dal tentativo di convincere il governo tedesco ad amalgamare il suo prezioso marco, il deutschemark, in una nuova moneta europea, che avrebbe servito da collante nella trasformazione della Comunità europea in Unione europea.
Il risultato è ben noto. Nella fase iniziale, nessun altro membro della Comunità voleva seguire la Germania nel riconoscimento delle secessioni della Slovenia e della Croazia, se non in presenza di un negoziato, ma quando la Francia, in piena trattativa sulla moneta europea con la Germania, ha ceduto sulle secessioni jugoslave, allora tutta la Comunità l’ha seguita in questa decisione, che violava il principio di inviolabilità delle frontiere e portava inevitabilmente alla guerra civile.
Capisco come tutto questo possa risultare un po’ complicato, ma desidero sottolineare un aspetto che è relativamente sottile, ma essenziale. 
Per favorire la sacrosanta “costruzione europea”, la Comunità europea si è allineata sulla posizione tedesca, che all’inizio non era condivisa da nessun altro Stato membro. Gli Stati membri non hanno esaminato in modo scrupoloso né i veri motivi della posizione germanica, né la sua giustificazione, nemmeno le sue conseguenze programmate. Al posto di tutto questo, hanno adottato una versione moralistica ed unilaterale di un conflitto complesso, versione che serviva soprattutto a giustificare la loro violazione di normali procedure, come il non-riconoscimento di secessioni non-negoziate. Ma il risultato ottenuto è stata la stura alle accuse moralistiche di non avere fatto molto per “salvare le vittime”.  Una volta che si accoglie una visione manichea, si impone anche una soluzione manichea.   Essendosi incastrata da sola, l’Europa ha tentato di combinare il suo discorso manicheo, che attribuiva tutta la responsabilità al solo “nazionalismo serbo”, con gli sforzi per trovare una soluzione negoziata, azioni del tutto contraddittorie e votate allo scacco matto.  
Per contro, immaginiamo che gli Stati membri avessero agito come Stati indipendenti, senza sentirsi costretti dalla “costruzione europea”. La Germania, senza dubbio, avrebbe sostenuto i suoi clienti storici, i separatisti sloveni e croati,  ma avrebbe dovuto ascoltare anche altri punti di vista. Infatti, la Francia e la Gran Bretagna, certamente seguite da altri paesi, avrebbero pensato agli interessi dei loro alleati storici, i Serbi. Con questo non si vuole assolutamente affermare che si sarebbe ripetuta la Prima Guerra Mondiale – nessuno è così folle. Ma si sarebbe potuto riconoscere, da una parte e dall’altra, che esistevano autentici conflitti non solamente di interesse ma anche di interpretazioni giuridiche in quello che concerneva lo statuto delle frontiere fra repubbliche, delle minoranze e via di seguito. Riguardando il problema jugoslavo da questa visuale, invece di considerarlo come un conflitto fra il Bene e il Male, le potenze europee avrebbero potuto incoraggiare una mediazione e un negoziato per evitare il peggio.
L’argomento che desidero sottolineare è il seguente. Uno dei dogmi della Costruzione europea è che l’accordo fra gli Stati membri è un bene così grande che il contenuto di questo accordo diviene secondario. Ci si felicita di essere d’accordo, quale che sia la qualità o le conseguenze di questo accordo. Cessa ogni riflessione. E l’accordo si fa, e si è pronti a giustificarlo nel modo più facile tramite qualche luogo comune moralizzatore – in primo luogo, i “diritti dell’uomo”.
La “costruzione europea” rassomiglia al “processo di pace” in Medio Oriente, nel senso che il miraggio di un futuro in sicurezza paralizza il presente, e serve come scusa per non importa che cosa. 
Vorrei segnalare che, nel caso jugoslavo, gli Stati Uniti non erano del tutto propensi a sostenere secessioni senza negoziato della Slovenia e della Croazia. L’amministrazione di Bush padre era incline a lasciare questo problema agli Europei. Dunque, è troppo facile biasimare gli Stati Uniti. Ma davanti all’ignavia europea, ed essi stessi sempre predisposti alle interpretazioni manichee, gli Americani dell’amministrazione Clinton hanno approfittato della situazione per sfruttare il disastro jugoslavo per i loro stessi scopi, vale a dire, l’affermare il ruolo di dirigenza degli Stati Uniti in Europa, la rinascita della NATO e qualche briciola sentimentale gettata ai Musulmani per compensare l’appoggio senza alcuna incrinatura fornito ad Israele dagli Stati Uniti.  

La NATO e le “minacce”

L’evoluzione degli ultimi due decenni  pone la questione dell’uovo e della gallina. In altre parole, è l’ideologia la causa delle azioni, o l’inverso? Sarei tentata, viste le mie considerazioni a proposito della Jugoslavia, di affermare che è l’inverso – almeno a volte. O, piuttosto, in assenza di un pensiero rigoroso e franco, si è facilmente trascinati in avventure nefaste da una dialettica fra ideologia e burocrazia. 
Il mio secondo esempio è il ruolo della NATO nel mondo, e dell’Europa nella NATO.
Tramite la NATO, la maggior parte dei paesi dell’Unione Europea hanno già partecipato a due guerre di aggressione, o almeno ad una delle due, e altri si preparano. E tutto questo in assenza di un effettivo dibattito, senza una visibile strategia decisionale. Aspettando la realizzazione della Costruzione europea, l’Unione Europea allo stato attuale prosegue come una sonnambula nel percorso di guerra che le è stato tracciato dagli Stati Uniti.
Questo stato di incoscienza è conservato da un mito che diviene più infantile con l’età, tipico della demenza senile: il mito dell’America protettrice, potente e generosa, ultimo ricorso per salvare l’Europa da tutto e soprattutto da se stessa. Si potrebbe obiettare che a questo mito non crede più nessuno. Ma si agisce sempre come se a questo mito si credesse. Che gli si creda o no - ed io non posso saperlo – la maggior parte dei dirigenti europei non esitano a raccontare ai loro popoli delle panzane, sul tipo: 
 “Gli Stati Uniti vogliono posizionare il loro scudo anti-missile in Europa per difendere gli Europei da attacchi iraniani;” “La guerra in Afghanistan è necessaria per impedire attentati terroristici in Europa;” “La Francia è rientrata nell’ambito del comando NATO per influenzare gli Stati Uniti;”
 “Noi siamo la Comunità Internazionale, il mondo civilizzato, e le nostre azioni sono in difesa dei diritti dell’uomo.” E via così!
 Gli Europei accettano il vocabolario“newspeak” della NATO, punta massima dell’informazione. Quindi, per designare i molteplici pretesti per le guerre, viene utilizzato il termine “minacce”. Un paese o una regione che si ha l’intenzione di attaccare sono naturalmente “strategici”. E qualsiasi azione aggressiva è chiaramente un atto di “difesa”. 
Qui, ancora, è l’ideologia che segue la burocrazia, ma che diviene una forza estremamente pericolosa. Mi spiego.
La NATO è prima di tutto una struttura burocratica pesante, tenuta in piedi da interessi economici e da carriere molteplici. Alla base della NATO si trova il complesso militar-industriale americano (così definito da Eisenhower nel 1961, ma che dovrebbe comprendere anche il Congresso in questa sua denominazione, in quanto l’industria militare è sostenuta politicamente per gli interessi economici localizzati in quasi tutte le circoscrizioni elettorali degli Stati Uniti, difesi accanitamente dai rappresentanti della specifica circoscrizione al Congresso nel momento di votare il bilancio).  
Dopo cinquant’anni, questo complesso costituisce ancora la base dell’economia degli Stati Uniti – un keynesismo militare che impedisce un keynesismo sociale, che andrebbe a tutto beneficio della popolazione, ma che viene decisamente ostacolato a causa di un dogmatico anti-socialismo. 
Al momento della “Caduta del muro”, vent’anni fa, vale a dire del crollo del blocco sovietico, c’è stata come una ventata di panico nel campo avversario. Cosa sarebbe accaduto senza la “minaccia”, che faceva vivere l’economia? Risposta semplice: trovare altre “minacce”. 
Per individuare gli obiettivi sono pronti i “think tanks”, queste scatole di idee, questi centri studi riccamente finanziati da settori privati per fornire al settore pubblico – che vuol dire il Pentagono e i suoi emuli al Congresso e all’esecutivo – le ragioni d’essere e di agire al momento del bisogno.
Il seguito è noto. Sotto Reagan è stato individuato il paradigma del terrorismo, e Saddam Hussein sotto Bush primo, poi il nazionalismo serbo e le violazioni dei diritti dell’uomo, poi nuovamente il terrorismo, ed attualmente vi è una autentica esplosione di “minacce”, a cui la “Comunità internazionale”, altrimenti detta NATO, deve rispondere.
Un elenco non esaustivo di minacce alla sicurezza: 
il sabotaggio cibernetico; i cambiamenti climatici; il terrorismo; le violazioni dei diritti dell’uomo; il genocidio; il traffico di droghe; gli stati in disastro; la pirateria; l’aumento del livello del mare; la penuria di acqua; la siccità; i trasferimenti di popolazioni; il probabile declino della produzione agricola; la diversificazione delle fonti di energia. (Fonte: NATO; conferenza tenuta l’1 ottobre 2009 ed organizzata congiuntamente da NATO e Lloyd’s di Londra, “the world’s leading insurance market”, il cosiddetto numero uno nel mercato mondiale delle assicurazioni.) 
Comunque, bisogna mettere in evidenza che la risposta congetturata a tutte queste minacce è necessariamente militare, e non mai diplomatica. Qualche volta è possibile giocare alla diplomazia, ma dal momento che si trova in una posizione di predominio militare, Washington è decisamente indotta a preferire il trattamento militare di qualsiasi problema. 
Tutte queste minacce sono necessarie per giustificare l’espansione burocratica del complesso militar-industriale e del suo braccio armato, la NATO. 
Ad unificare non è più un sistema di pensiero, una ideologia, ma una emozione: la paura. La paura del diverso, la paura dell’incognito, la paura...  non importa di cosa! E a questa paura la sola risposta è quella di natura militare.
Questa paura uccide la diplomazia. La paura uccide l’analisi e il dibattito. La paura uccide il pensiero. L’incarnazione di questa paura aggressiva è lo Stato di Israele. E l’Occidente, invece di calmare la paura israeliana, l’adotta e la interiorizza.

La Minaccia per abitudine: la Russia

Ma esiste una minaccia che non si trova sulla lunga lista ufficiale, ma che potrebbe essere la più pericolosa di tutte, per l’Europa in particolare. Se ne parla poco, ma assume una posizione di qualità nelle attività frenetiche dell’Alleanza atlantica: questa minaccia è la Russia. 
La Russia, o piuttosto l’Unione Sovietica, era il nemico contro il quale tutto era organizzato, ebbene, tutto questo continua. Siamo in presenza della “minaccia per abitudine”, o per inerzia burocratica.
Passo dopo passo, la NATO si trova impegnata nell’accerchiamento strategico della Russia, ad ovest della Russia, a sud della Russia e a nord della Russia.
In particolar modo ad ovest, tutti gli ex membri del defunto Patto di Varsavia sono divenuti membri della NATO, così come gli Stati Baltici, un tempo membri dell’Unione Sovietica stessa. Alcuni di questi nuovi membri richiedono con grande strepito un maggiore dispiegamento di forze americane in vista di un eventuale conflitto con la Russia. 
Qualche giorno fa, a Washington, il ministro per gli affari esteri della Polonia, Radek Sikorski, ha reclamato la dislocazione di truppe americane nel suo paese, “come scudo contro l’aggressione russa”. L’occasione si è presentata ad una conferenza organizzata dal centro studi CSIS, Center for Strategic and International Studies, Centro per gli Studi Strategici ed Internazionali, sul tema “Gli Stati Uniti e l’Europa centrale”, per celebrare la caduta del muro di Berlino. 
Tutto questo è caratteristico di ciò che l’ex ministro della guerra americano Donald Rumsfeld ha definito come “la Nuova Europa”: Sikorski ha ricevuto la cittadinanza britannica nel 1984 (aveva 21 anni), ha compiuto i suoi studi a Oxford e ha sposato una giornalista americana, e lui stesso ha lavorato come corrispondente per diversi giornali e televisioni americane. Prima di diventare ministro degli affari esteri della Polonia, Sikorski ha trascorso parecchi anni (dal 2002 al 2005) a Washington in centri studi dell’American Enterprise Institute, vivaio di neo-conservatori, e alla New Atlantic Iniziative nel ruolo di direttore esecutivo.  
Dunque, questo Polacco appartiene a quella schiera molto particolare di strateghi originari dell’Europa centrale che, dopo l’inizio della Guerra Fredda nel 1948, hanno influenzato in modo considerevole la politica estera americana. Uno dei più importanti fra costoro, anche lui Polacco, Zbigniew Brzezinski, alla stessa conferenza ha parlato delle “aspirazioni imperiali” della Russia, delle minacce di questa nei confronti della Georgia e dell’Ucraina e dell’intenzione della Russia di diventare “una potenza mondiale imperiale”.  
Viene largamente dimenticato che la Russia aveva volontariamente e pacificamente lasciato andare questi Stati, che oggigiorno pretendono di essere “minacciati”. 
Ancora di più è stato dimenticato che il 9 febbraio 1990 gli Stati Uniti, in occasione delle trattative sul futuro dei due stati tedeschi, avevano rassicurato Gorbachev  che, se la Germania unificata veniva assimilata nella NATO, “non sarebbe avvenuto alcun allargamento delle forze della NATO ad est, nemmeno di un centimetro.” E quando Gorbachev era ritornato su questo argomento, puntualizzando che “questo allargamento della zona di influenza della NATO è inaccettabile”, il segretario di Stato americano  James Baker aveva risposto, “Io sono d’accordo”. 
Allora, rassicurato, Gorbachev ha accettato l’appartenenza della Germania riunificata alla NATO credendo – ingenuamente – che le cose si sarebbero fermate a quel punto e che la NATO avrebbe impedito efficacemente il “revanscismo” tedesco. Ma, già l’anno seguente, il governo della Germania riunificata ha dato fuoco alle polveri balcaniche, appoggiando le secessioni della Slovenia e della Croazia...  

Ma ritorniamo al presente. La mobilitazione contro la pretesa “minaccia” russa non si limita ai discorsi. Mentre Sikorski lasciava a bocca aperta per lo stupore i suoi ex colleghi dei think tanks di Washington, i militari erano al lavoro.
In ottobre, delle navi da guerra americane sono arrivate direttamente da manovre al largo delle coste scozzesi per partecipare a delle esercitazioni militari con le marine da guerra della Polonia e dei Paesi Baltici. Questo faceva parte di ciò che il portavoce della Marina da guerra americana descriveva come la “presenza continua” nel Mar Baltico, a due passi da San Pietroburgo. 
In questa occasione, i responsabili dei governi baltici parlavano di “nuove minacce, dopo l’invasione russa della Georgia” e di esercitazioni navali a vasto raggio da compiersi nell’estate prossima. Tutto questo, mentre si progettano aumenti di bilanci militari – 60 miliardi di euro solo da parte della Polonia per modernizzare le sue forze armate.
È importante sottolineare che questa attività nel Mar Baltico serve anche a far entrare ufficiosamente i paesi scandinavi, Svezia e Finlandia, storicamente neutrali, nelle manovre e nei piani strategici della NATO. I paesi scandinavi, con il Canada, avranno un ruolo da esercitare nella corsa all’accaparramento delle risorse minerali che potrebbero rendersi accessibili con il ritirarsi della calotta glaciale. 
In questo modo prosegue l’accerchiamento della Russia dalla parte settentrionale. 
Attualmente, non contenti di avere assorbito gli Stati baltici, la Polonia, la Cechia, la Slovacchia, l’Ungheria, la Bulgaria e così via, i dirigenti americani, sostenuti vigorosamente dalla “Nuova Europa”, insistono sulla necessità di far entrare nel girone dell’Alleanza cosiddetta “Atlantica” due paesi strettamente confinanti con la Russia, la Georgia e l’Ucraina.
Relativamente a questi due casi, soprattutto per quel che concerne l’Ucraina, si avvicina pericolosamente la possibilità di un effettivo conflitto con la Russia. 
L’Ucraina costituisce una grandissima “Krajina” jugoslava...   in lingua slava i due termini hanno il significato di “frontiera”...  divisa fra Ortodossi e Cattolici- Uniati, che ospita la grande base navale russa di Sebastopoli, in una Crimea la cui popolazione è di maggioranza russa...   base reclamata dagli attuali dirigenti ucraini che la trasferirebbero volentieri agli Stati Uniti. 
Ecco il punto vagheggiato per scatenare la Terza Guerra Mondiale – che sarebbe senza ombra di dubbio la vera “ultimissima”.
I dirigenti baltici traducono l’inquietudine russa davanti a questa espansione della NATO come la prova della “minaccia russa”. Così, in una “lettera aperta all’amministrazione Obama dall’Europa centrale ed orientale” del luglio scorso, Lech Walesa, Vaclav Havel, Alexander Kwasniewski, Valdas Adamkus e Vaira Vike-Freiberga hanno dichiarato che “la Russia in quanto potenza revisionista ritorna a perseguire un programma da 19.esimo secolo con le tattiche e i metodi da 21.esimo secolo”. Secondo costoro, il pericolo sta in quello che loro definiscono come “l’intimidazione larvata” e “l’influenza propagandata” (da venditore ambulante!) della Russia, che potrebbe alla lunga portare ad una “neutralizzazione de facto della regione”.  
Ci si potrebbe domandare dove starebbe il male? Ma il male sta nel passato e il passato è nel presente. 
Questi Americanofili continuano: “La nostra regione ha sofferto quando gli Stati Uniti hanno dovuto soccombere al ‘realismo’ di Yalta...  Se agli inizi degli anni Novanta avesse prevalso un punto di vista ‘realistico’, oggigiorno noi non saremmo nella NATO... ” 
Ma adesso ci sono, ed esigono “un rifiorimento della NATO”, che deve “riconfermare la sua funzione centrale di difesa collettiva allo stesso tempo in cui noi ci prepariamo ad affrontare le nuove minacce del 21.esimo secolo.” Ed aggiungono, un po’ ricattatori, che la loro “capacità di partecipare a spedizioni lontane è collegata alla loro sicurezza domestica.”
La Georgia è là per mostrare il pericolo rappresentato da questi piccoli paesi, pronti a coinvolgere l’Alleanza Atlantica nelle loro dispute di frontiera con la Russia. 
Ma quello che è decisamente curioso sta nel fatto che questi dirigenti particolarmente bellicosi di piccoli paesi dell’Est hanno spesso trascorso anni negli Stati Uniti in istituzioni vicine al potere e possiedono la doppia nazionalità. Diventano patrioti dei loro piccoli paesi in quanto si sentono protetti dall’unica superpotenza mondiale, cosa che può indurre ad una aggressività particolarmente irresponsabile.   
Questo presidente georgiano, Mikeil Saakachvili, che nell’agosto 2008 non ha esitato a provocare una guerra contro la Russia, è stato borsista del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti negli anni Novanta, conseguendo i diplomi delle università di Columbia e di George Washington, nella capitale.
Fra i firmatari della lettera citata, bisogna far notare che Valdas Adamkus è in buona sostanza un Americano, immigrato dalla Lituania negli anni Quaranta, che ha servito nel servizio informazioni militare americano e nell’amministrazione Reagan, che lo ha decorato, e che è rientrato in pensione in Lituania nel 1997... per essere immediatamente eletto come Presidente di questo Stato dal 1998 fino al luglio scorso. 
Il percorso di Vaira Vike-Freiberga è esemplificativo: di una famiglia fuggita dalla Lettonia verso la Germania nel 1945, ella ha fatto carriera in Canada prima di rientrare in Lettonia giusto in tempo per essere eletta Presidente della Repubblica dal 1999 al 2007.  

La Costruzione europea contro il mondo

Abbracciando queste paure, che sono all’origine di costrutti per giustificare una militarizzazione, gli Stati membri dell’Unione Europea si pongono in contrapposizione con il resto del mondo, visto che questo sembra essere una fonte inesauribile di “minacce”. 
La capitolazione incondizionata dell’Europa dinanzi alla burocrazia militar-industriale e alla sua ideologia del terrore è stata confermata recentemente dal ritorno della Francia nell’ambito del comando NATO. 
Una delle ragioni di questa capitolazione è la psicologia dello stesso presidente Sarkozy , la cui adorazione per gli aspetti più superficiali degli Stati Uniti si è espressa nel suo discorso imbarazzante tenuto al Congresso degli Stati Uniti nel novembre 2007.
L’altra causa, meno evidente ma più decisiva, è costituita dalla recente espansione dell’Unione Europea (UE). L’inglobamento rapido di tutti gli ex satelliti dell’Europa dell’Est, così come delle ex repubbliche sovietiche di Estonia, Lettonia e Lituania, ha radicalmente cambiato gli equilibri di potere in seno alla stessa UE. 
Le nazioni fondatrici, la Francia, la Germania, l’Italia e i paesi del Bénélux, non possono più guidare l’Unione verso una politica estera e di sicurezza unitariamente. 
Dopo il rifiuto della Francia e della Germania di accettare l’invasione dell’Iraq, Donald Rumsfeld ha gettato il discredito su questi due paesi, come facenti parte della “vecchia Europa” e si è compiaciuto della volontà espressa dalla “nuova Europa” di seguire l’esempio degli Stati Uniti. 
La Gran Bretagna ad ovest e i “nuovi” satelliti europei ad oriente sono più affini agli Stati Uniti, che non all’Unione Europea, che li ha accolti e che fornisce loro un considerevole aiuto economico per lo sviluppo e un “diritto di veto” su importanti questioni politiche. 
È vero anche che, pur estranea al comando integrato della NATO, l’indipendenza della Francia era solo relativa. La Francia ha seguito gli Stati Uniti nella prima guerra del Golfo – il Presidente François Mitterrand sperava inutilmente di guadagnare crediti a Washington, il solito miraggio che attira gli alleati nelle operazioni statunitensi poco trasparenti. La Francia si è unita alla NATO nel 1999 nella guerra contro la Jugoslavia, malgrado le perplessità e i dubbi raggiungessero i più alti livelli. 
Ma nel 2003, il Presidente Jacques Chirac e il suo ministro per gli affari esteri Dominique de Villepin hanno realmente messo in campo la loro indipendenza rigettando l’invasione dell’Iraq. Viene generalmente riconosciuto che la posizione francese ha permesso alla Germania di fare lo stesso. Il Belgio si accodava. 
Il discorso di Villepin, il14 febbraio 2003, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che assegnava la priorità al disarmo e alla pace sulla guerra, riceveva una rara ovazione tutti-in-piedi, una “standing ovation”. Il discorso di Villepin divenne immensamente popolare in tutto il mondo ed accrebbe enormemente il prestigio della Francia, in particolare nel mondo arabo. Ma, al suo ritorno a Parigi, l’avversione personale fra Sarkozy e Villepin raggiungeva vertici di contrapposizione passionale e la persecuzione di Villepin coinvolto nel poco chiaro “affaire Clearstream” rappresenta  l’affossamento delle ultime velleità di indipendenza politica della Francia sotto una valanga di fango vendicatore.   
Oggi, chi parla per conto della Francia? Ufficialmente Bernard Kouchner, profeta dell’ingerenza umanitaria che, lui sì, aveva approvato l’invasione dell’Iraq. Ufficiosamente, i cosiddetti “neo-conservatori”, che sarebbe meglio definire come “imperialisti sionisti”, visto che il loro autentico progetto è un nuovo imperialismo occidentale aggressivo, in seno al quale ad Israele spetterebbe un posto in prima fila.
Il 22 settembre 2009, “The Guardian” di Londra ha pubblicato una lettera che faceva appello all’Europa perché prendesse le parti della Georgia nel conflitto per l’Ossezia del Sud. 
Sottoscritta da Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Mart Laar, Vytautas Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn Bendit, Timothy Garton Ash, André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik e Josep Ramoneda, la lettera profferiva le solite banalità pretenziose sulle “lezioni della storia”, si intende, tutte giustificanti l’utilizzazione della potenza militare occidentale: Monaco, il patto Ribbentrop-Molotov, il muro di Berlino.
I firmatari esortavano i 27 dirigenti democratici dell’Europa a “definire una strategia in grado di produrre cambiamenti per aiutare la Georgia a riprendersi pacificamente la sua integrità territoriale ed ottenere il ritiro delle forze russe stazionanti illegalmente sul suolo georgiano... ” 
Nel frattempo, gli alleati della NATO continuano ad ammazzare e a farsi ammazzare in Afghanistan. Ci si potrebbe domandare quali sono i veri obiettivi di questa guerra, che, all’inizio, si incentravano nella cattura e nella punizione di Osama bin Laden. Un diverso obiettivo, più riservato, è valido quale che sia lo sbocco di questo conflitto: l’Afghanistan serve a forgiare un esercito internazionale come forza di polizia per controllare sullo stile americano la “globalizzazione”.  
L’Europa è soprattutto una “scatola degli attrezzi” nella quale gli Stati Uniti possono attingere per perseguire ciò che in buona sostanza è un progetto di conquista planetaria. 
O, come viene dichiarato ufficialmente, di “buona governance”, la buona conduzione di un mondo “globalizzato”.
Gli “imperialisti sionisti” sono sicuramente consapevoli di questo obiettivo e lo sostengono. Ma gli altri? A parte alcuni “illuminati”, si ha l’impressione di un’Europa sonnambula, senza un pensiero e senza volontà, che segue la voce del suo maestro americano, nella speranza che Obama salverà il mondo. Più triste che ai tropici! 
Per concludere, vorrei ritornare alla famosa “Costruzione europea”. Sono consapevole che esisteva un’epoca  in cui era lecito, e quasi sensato, sperare che le vecchie nazioni europee si mettessero insieme pacificamente in quello che Gorbatchev, questo grande “cornuto” della storia, chiamava “la nostra casa comune”. Ma dopo, ci sono stati Maastricht, il neo-liberismo, il Trattato costituzionale respinto e poi adottato contro ogni procedura democratica, e soprattutto gli allargamenti sconsiderati verso i paesi i cui dirigenti pensano di proseguire la Guerra fredda fino alla totale umiliazione della Russia. 
Attualmente, questa costruzione ha del paradossale: si nutre di Utopia, che distoglie dal presente, in attesa di un avvenire che domina l’orizzonte. E perciò, è vuota di contenuti. È molto più ispirata dalla paura e dalla vergogna del passato che da speranze per il futuro. 
L’Europa delle nazioni ha perso la sua fierezza e la stessa sua ragion d’essere nelle due grandi guerre del ventesimo secolo, nel “totalitarismo”, ma soprattutto – e questo è relativamente recente, per essere precisi dopo il 1967 – a causa dell’Olocausto. 
L’Europa deve mettersi nell’impossibilità di commettere una nuova  Shoah con l’abolizione dello Stato nazione, giudicato intrinsecamente colpevole, per divenire “multiculturale” e con l’unirsi alla Crociata guidata dal suo salvatore storico, gli Stati Uniti, per recare il buon governo e i Diritti dell’Uomo al mondo intero.    
L’Unione Europea non ha contenuti, è votata a fondersi nella “Comunità Internazionale”, a fianco degli Stati Uniti. Dunque, la Costruzione europea è anzitutto una “decostruzione”, per mutuare un termine filosofico.  
Questo miraggio nasconde un futuro totalmente imprevisto e, all’oggi, imprevedibile. 

Diane Johnstone è l’autrice di  “Fools' Crusade: Jugoslavia, Nato, and
Western Delusions – La Crociata degli Inganni: Jugoslavia, Nato e Allucinazioni Occidentali” pubblicato da Monthly Review Press.




ZastavA annoZERO

foto di bruno maran

camera del lavoro brescia
via folonari venti
dal nove al ventitre dicembre

collaborazione:
associazione zastava brescia - cgil camera del lavoro - samostalni sindikat kragujevac

La Zastava è stata fondata nel 1862, già produttrice di cannoni per l’impero ottomano e austro-ungarico, divenne nel secondo dopoguerra la più importante realtà industriale dei Balcani. Produsse per anni auto derivate da modelli Fiat, da ricordare l’equivalente della 600, prodotta in quasi un milione di esemplari. Produsse poi modelli elaborati direttamente dagli uffici tecnici interni, la più famosa fu la Yugo, esportata anche negli Stati Uniti.
Durante la guerra “umanitaria “ del 1999 fu pesantemente bombardata con 36 missili Cruise. Colpiti tra l’altro il centro elaborazione dati e la centrale termica, che produceva energia per la città, provocando una preoccupante situazione ambientale con pericolosi effetti, ancora presenti, nella popolazione oltre che negli operai.
I pochi operai oggi impiegati montano il modello Punto con motori e materiali provenienti da Italia e Polonia. La situazione economica è ulteriormente complicata dai problemi di capitalizzazione della nuova Fiat Auto Srbija, in cui Torino sta giocando un pericoloso braccio di ferro complice la crisi mondiale dell’auto.
Questa inchiesta fotografica porta la testimonianza sulla fabbrica dopo i bombardamenti, sullo smantellamento degli impianti delle ”vecchie” linee, ancora formalmente di proprietà degli operai per gli effetti dell’auto-gestione jugoslava e la situazione del lavoro nei reparti di montaggio. Stimolare il dibattito sulle condizioni operaie, sui rapporti sindacali, affinché certe manovre aziendali vengano alla luce, sollevando il velo di oblio che è calato sulla realtà serba.

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sulle altre iniziative di questi giorni e per informazioni sulla situazione alla Zastava vedi anche:



(italiano / deutsch)

Kosovo bleibt Sorgenkind Europas

1) Die Mafia als Staat (GFP)
2) Das Kosovo bleibt Sorgenkind Europas (Harald Neuber)
3) Le confessioni di un assassino

siehe auch: Die Mafia als Staat (I) (01.12.2008)


=== 1 ===


Die Mafia als Staat (II)
 
09.12.2009

PRISTINA/BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Ein neuer Mafia-Skandal um die Kooperationspartner Berlins im Kosovo sorgt für Unruhe in Priština. Wie ein früherer Agent eines kosovarischen Geheimdiensts erklärt, habe ein enger Mitarbeiter des aktuellen Ministerpräsidenten Hashim Thaçi Morde an politischen Gegnern in Auftrag gegeben. Spione aus Thaçis Umfeld verantworteten demnach auch die Bedrohung und Misshandlung von Zeugen, die vor dem UNO-Kriegsverbrechertribunal gegen ehemalige UÇK-Kommandeure aussagen sollten. Die EU, deren "Rechtsstaatsmission" EULEX seit Monaten Kenntnis von den Vorwürfen hat, verschleppt ihre Aufklärung bis heute. Hashim Thaçi, dem seit je Verbindungen zur Organisierten Kriminalität nachgesagt werden, arbeitet eng mit Berlin und Brüssel zusammen. Er gilt in der deutschen Hauptstadt als Garant für die Verhinderung von Unruhen im Kosovo. Dessen Sezession unter Thaçis Führung wird seit letzter Woche vom Internationalen Gerichtshof in Den Haag auf ihre Vereinbarkeit mit dem Internationalen Recht überprüft. Deutsche Anwälte versuchen mit abenteuerlichen Konstruktionen, der illegalen Abspaltung vom serbischen Staat den Anschein von Legalität zu verleihen. Spanische Juristen bestätigen die Rechtswidrigkeit des Akts.

Auftragsmorde

Den neuen Mafia-Skandal um das Sezessionsregime in Priština hat der frühere Geheimagent Nazim Bllaca ausgelöst. Bllaca gibt an, seit dem Ende des Krieges, den die NATO und die kosovarische Terrortruppe UÇK 1999 gegen Jugoslawien führten, für den Geheimdienst SHIK tätig gewesen zu sein. Der Dienst war während des Kriegs von der UÇK aufgebaut und dann vom vormaligen UÇK-Führer Hashim Thaçi seiner 1999 gegründeten Partia Demokratike e Kosovës (PDK, Demokratische Partei des Kosovo) unterstellt worden. Die SHIK-Agenten betätigten sich auf dem Feld der Organisierten Kriminalität, auf dem auch Thaçi umfangreiche Aktivitäten nachgesagt werden [1]; so erpressten sie Schutzgeld und widmeten sich der Immobilienbranche.[2] Zu ihren Opfern wird ein Architekt aus Priština gezählt, der gegen die dort stark wuchernde illegale Bautätigkeit einzuschreiten plante. Bllaca erklärt, im Rahmen seiner SHIK-Tätigkeit 17 Verbrechen begangen zu haben, darunter Erpressung, Anschläge, Folter und Auftragsmorde. Ihm zufolge richteten sich die SHIK-Verbrechen auch gegen Thaçis Rivalen Ibrahim Rugova und dessen Mitarbeiter in der Partei Lidhja Demokratike e Kosovës (LDK, Demokratische Liga des Kosovo). Tatsächlich wurden seit 1999 mehrere Personen aus Rugovas direktem Umfeld ums Leben gebracht.

Frauenhandel

Bllacas Vorwürfe wiegen schwer, da sie das unmittelbare Umfeld des kosovarischen Ministerpräsidenten Hashim Thaçi betreffen. Berlin und die EU kooperieren mit Thaçi seit Jahren und benutzen den Einfluss seines Clans, um das Kosovo beherrschen zu können. Über seine Tätigkeit macht sich niemand Illusionen. Schon vor fast drei Jahren hieß es in einer im Auftrag der Bundeswehr erstellten Studie, Thaçi verfüge "auf internationaler Ebene" über recht weit reichende "kriminelle Netzwerke".[3] Schon zuvor hatte der deutsche Auslandsgeheimdienst BND festgestellt, Thaçi sei Auftraggeber eines "Profikillers" gewesen. Ob es sich bei diesem Profikiller um Nazim Bllaca gehandelt hat, ist bislang unbekannt. Bllaca selbst gibt an, die Befehle für seine Auftragsmorde von Azem Syla erhalten zu haben. Syla, der in den 1990er Jahren als Generalstabschef der UÇK auftrat, ist ein enger Vertrauter von Thaçi. Er wird heute in Priština als Geschäftsmann geehrt. Bllaca zufolge soll auch ein weiterer hochrangiger Politiker aus Thaçis Umfeld an SHIK-Agenten Aufträge zu Verbrechen erteilt haben - Xhavit Haliti. Haliti gehört heute dem Vorstand des kosovarischen Parlaments und dessen außenpolitischem Ausschuss an. Der BND brachte ihn schon vor Jahren mit Organisierter Kriminalität in Verbindung, insbesondere mit Frauenhandel.[4]

Druck auf Zeugen

Unklar ist die Rolle, die die EU-"Rechtsstaatsmission" EULEX in dem aktuellen Skandal spielt. Bllaca behauptet, schon vor Monaten mit einem Geständnis an EULEX herangetreten zu sein, um die Aufklärung der Verbrechen zu ermöglichen. Von entsprechenden Maßnahmen der EU-"Mission" ist nichts bekannt. Bllaca sah sich schließlich vor wenigen Tagen gezwungen, mit seinem Geständnis sowie weiteren Informationen an die Öffentlichkeit zu gehen. Seitdem befindet er sich, bewacht von EU-Personal, in Haft.[5] Seine Hinweise könnten auch dem UNO-Kriegsverbrechertribunal wichtige Erkenntnisse bringen: Demnach haben SHIK-Agenten Zeugen bedroht und misshandelt, die vor dem Tribunal gegen die UÇK aussagen sollten. Das Gericht konnte mehrere mutmaßliche Kriegsverbrecher nicht überführen, weil Zeugen ihre Aussagen zurückzogen oder sogar ermordet wurden. Bllaca, der nun wegen seiner mutmaßlichen Morde vor Gericht gestellt wird, hat bislang keinen Anwalt finden können, der das Risiko auf sich nimmt, ihn in Priština vor Gericht zu vertreten.

Gebilde

Während in Priština die neuen Vorwürfe gegen Hashim Thaçi und sein Umfeld für Unruhe sorgen, hat der Internationale Gerichtshof in Den Haag am 1. Dezember mit Anhörungen zur Sezession des Kosovo begonnen. Serbien hatte den Gerichtshof nach der Sezession seiner Südprovinz angerufen, um deren Rechtswidrigkeit bestätigen zu lassen. Letzte Woche wurden drei deutsche Völkerrechtler angehört, die mit abenteuerlich anmutenden Konstruktionen der Abspaltung den Anschein von Legalität zu verleihen suchten. So behauptete die Völkerrechtsberaterin der Bundesregierung, Susanne Wasum-Rainer, das Kosovo sei nach dem Einmarsch der NATO und der Installierung einer UN-Verwaltung zu einem "Gebilde" geworden, auf welches das Prinzip der territorialen Integrität keine Anwendung finden könne.[6] Eine "Unabhängigkeitserklärung" werde vom Internationalen Recht nicht verboten und sei deswegen zulässig. Der Heidelberger Völkerrechtler Jochen Frowein, der bereits mehrfach Auftragsarbeiten für Berlin erledigt hat, räumte zwar ein, eine Sezession könne internationales Recht brechen, wenn sie durch eine Intervention äußerer Mächte zustande komme; im Falle des Kosovo treffe dies aber nicht zu.[7]

Unverbindlich

Nicht ganz so erfindungsreich gab sich am gestrigen Dienstag die Vertreterin der spanischen Regierung bei der Anhörung in Den Haag. Spanien erkennt ebenso wie vier weitere EU-Staaten [8] und mehr als zwei Drittel sämtlicher Staaten weltweit die Sezession des Kosovo nicht an. Die Völkerrechtsberaterin Madrids stützte ihre Position in Den Haag darauf, dass Serbien ein Staat ist und deshalb territoriale Integrität beanspruchen kann, und darauf, dass der Westen unter deutsch-amerikanischer Führung mit der Anerkennung der Sezession die UNO hintergangen hatte. "Angesichts der Politik der vollendeten Tatsachen appellieren wir an die Kraft des Rechtes", erklärte sie.[9] Für den Fall, dass Den Haag sich nicht den juristischen Fantasien Berlins, sondern dem geltenden internationalen Recht unterwirft und die Sezession für illegal erklärt, verbreiten deutsche Medien, das Urteil des Internationalen Gerichtshofs sei nicht verbindlich. Die Bundesrepublik wird in diesem Fall das mafiöse Sezessionsregime der unter Rechtsbruch abgespaltenen Provinz Kosovo auch gegen das Votum des zentralen Gerichts der Vereinten Nationen anerkennen.

[1] s. dazu Organhandel und Die Mafia als Staat
[2] Angeblicher Killer erschüttert Kosovo; Basler Zeitung 02.12.2009
[3] s. dazu "Danke, Deutschland!"
[4] s. dazu Unter deutscher Aufsicht
[5] Angeblicher Killer erschüttert Kosovo; Basler Zeitung 02.12.2009
[6], [7] Berlin: Kosovo ist kein Präzedenzfall; Frankfurter Allgemeine Zeitung 03.12.2009
[8] Neben Spanien erkennen auch die EU-Mitglieder Slowakei, Rumänien, Griechenland und Zypern die Sezession des Kosovo nicht an.
[9] España apela al derecho internacional para declarar ilegal la independencia de Kosovo; El País 08.12.2009

=== 2 ===

Das Kosovo bleibt Sorgenkind Europas


Harald Neuber 


26.11.2009


Weniger als die Hälfte der Kosovo-Bevölkerung beteiligte sich an den Kommunalwahlen. Grund dafür sind auch die sozialen Probleme


Eineinhalb Wochen nach den Kommunalwahlen in der Kosovo-Region herrscht in europäischen Medien und Regierungsbüros verschämtes Schweigen. Zum ersten Mal seit der von der NATO unterstützten Sezession ( Kosovo:  Sprung ins dunkle Ungewisse Polit-Choreografie  auf dem Balkan) im Februar 2008 haben in der ehemaligen südserbischen Provinz unabhängige Wahlen stattgefunden, zuvor waren dafür die UN-Verwaltung UNMIK und die OSZE verantwortlich. Gelungen ist die Premiere nicht. Nur 45 Prozent der rund 1,5 Millionen Wahlberechtigten nahmen an der Abstimmung teil. Der Urnengang war zudem von Unregelmäßigkeiten überschattet und nun folgt auch noch eine Regierungskrise. Während nach außen positives Bild gezeichnet wird, nehmen innerhalb der EU die Sorgen zu.

   

Die Probleme begannen am Ende des Wahltags. Über Stunden hinweg warteten die Menschen im Kosovo am 16. November auf die Ergebnisse. Doch die Wahlbehörde konnte – nach eigenen Angaben wegen technischer Probleme – kein Ergebnis vorlegen.

Am Tag nach der Wahl dann erklärte sich der ehemalige UCK-Milizionär und amtierende Ministerpräsident Hashim Thaci zum Sieger. Seine Demokratische Partei ( PDK ) habe 20 der 36 Gemeinden, in denen neue Kommunalvertreter gewählt wurden, gewonnen. Angesichts der geringen Beteiligung wirkten Thacis Stellungnahmen skurril. Die Wahl sei ein Votum für seine gute Regierungsführung im Kosovo gewesen, sagte er. Beobachter sehen das freilich anders. Die verschwindend geringe Wahlbeteiligung sei eine Quittung für die massiven Wirtschaftsprobleme, hieß es in Meldungen von Nachrichtenagenturen, die zugleich auf die Arbeitslosigkeit von rund 40 Prozent verwiesen.

Vor wenigen Tagen dann folgten Berichte über eine drohende Regierungskrise. Die bislang amtierende PDK wolle ihren Koalitionsvertrag mit der Demokratischen Liga ( LDK ) kündigen. Beide Kräfte waren Mitte des Monats gegeneinander angetreten.


Berlin und Brüssel versprechen wirtschaftliche Zusammenarbeit

Neben den internen Problemen sorgt in der EU vor allem der Konflikt mit Serbien, das die Unabhängigkeit des Kosovos nicht anerkennt, für Kopfzerbrechen. Am Tag nach der Kosovo-Wahl bekräftigte Präsident Boris Tadic bei einem  Besuch  in Berlin erneut seine ablehnende Position. Belgrad sei jedoch bereit, auf "regulärem Weg" nach Lösungen des Konfliktes zu suchen, sagte der konservative Politiker. Wenige Tage später weihte Tadic nur wenige Kilometer von der Grenze zum Kosovo entfernt den größten Armeestützpunkt seines Landes ein. Rund eintausend Soldaten werden auf der Militärbasis  Jug  (Süden) ständig stationiert sein. In der Region hatten bis 2001 kosovo-albanische Milizen ihr Unwesen getrieben. Nach wie vor ist die Sicherheitslage labil. Und Serbien, so scheint es, will nach den Erfahrungen der vergangenen Jahre nicht auf die EU vertrauen.

Dabei unternimmt vor allem die deutsche Regierung alles Denkbare, um die serbische Staatsführung trotz des Kosovo-Problems an sich zu binden. Kurz nachdem der EU-Erweiterungskommissar Olli Rehn Serbiens Außenminister Vuk Jeremic zum Beitrittsgesuch aufforderte, bescheinigte Angela Merkel ihrem serbischen Amtskollegen Tadic in Berlin Erfolge bei der Annäherung an die Union.

Während der Zusammenkunft wurden weitreichende Kooperationsverträge zwischen dem deutschen Energiekonzern RWE und dem staatlichen serbischen Energieunternehmen EPS geschlossen. Der Kontrakt, so hieß es, könne der Beginn einer weiteren Zusammenarbeit auch in anderen Bereichen sein. Angekündigt wurden Machbarkeitsstudien über den  Bau  von Wasserkraftwerken. Mit derartigen Angeboten soll Serbien offensichtlich aus dem Einfluss Russlands gelöst werden, das den Kurs der Nichtanerkennung des Kosovos aktiv unterstützt.


Moskau beobachtet die Entwicklung gelassen

In Moskau ist man sich dieser außenpolitischen Konkurrenz zwar bewusst, reagiert aber gelassen. Nach Angaben des Abteilungsleiters des Europa-Instituts der  Russischen  Akademie der Wissenschaften, Pawel Kandel, waren 70 Prozent der jungen Serben noch nie in der EU. Grund dafür ist die restriktive Visa-Politik Brüssels. Zwar verspricht die EU Belgrad seit geraumer Zeit einen Abbau der Reisebarrieren. Geschehen ist bislang aber wenig.

Kandel beschreibt in einem Sammelband über den "Kosovo-Konflikt und internationale Sicherheit" die Folgen dieser Politik: Nach einer Umfrage des Belgrader Meinungsforschungsinstituts NSRM sei die Zahl der EU-Befürworter in Serbien von 72 Prozent im Jahr 2007 auf 63 Prozent in 2008 gesunken. Diese Zahlen zitiert auch die russische Nachrichtenagentur RIA Nowosti. In seinem  Kommentar  kommt Mitarbeiter Dmitri Babitsch zu dem Schluss: "Heute erreichen die EU- und Nato-Beamten durch ihre Politik das, was die S-300-Raketen, die Moskau 1999 Serbien versprach, aber nicht lieferte, nicht hätten erreichen können. Wir dürfen auf den Balkan zurückkehren - nicht weil wir so überaus gut wären, sondern weil sich die 'Eurokraten' als absolut schlecht erwiesen haben."

Informationen aus Brüssel geben der russischen Haltung Recht. Innerhalb der Union wird eine weitaus negativere Bilanz der Demokratieentwicklung in der Kosovo-Region gezogen, als dies in öffentlichen Stellungnahmen der Fall ist. Nach Informationen aus diplomatischen Kreisen wird vor allem die serbische Ablehnung der Gemeinsamen Außen- Sicherheitspolitik ( GASP ) der EU als Problem gesehen. Die Sezession des Kosovo von Serbien ist ein Kernstück dieser EU-Politik auf dem Balkan.

In einer internen Beratung zählte der Erweiterungsbeauftragte der EU,  Lawrence  Meredith, unlängst zudem die Probleme des "jüngsten Staates Europas" auf: Es gebe erhebliche Defizite bei den staatlichen Institutionen, eine schwache Justiz, Geldwäsche und andere Machenschaften der organisierten Kriminalität. Minderheiten würden diskriminiert und bei der Zusammenarbeit mit der EU-Justizmission  EULEX  hapere es. Der Titel des Papiers, in dem diese Probleme aufgelistet sind, wirkt da fast schon zynisch. Das Dokument heißt "Fortschrittsbericht".


=== 3 ===


Le confessioni di un assassino


04.12.2009
Nazim Bllaca, ex membro dei servizi d'intelligence dell'UCK, ambienti ritenuti vicini al PDK, partito del primo ministro Hashim Thaçi, ha ammesso il suo coinvolgimento in numerosi assassinii politici. Thaçi smentisce le accuse contro il suo partito ma promette giustizia imparziale
Di Arben Atashi, Fisnik Minci e Vehbi Kajtazi, Koha Ditore, 1 dicembre 2009 (selezionato da Le Courrier des Balkans e Osservatorio Balcani e Caucaso). 


La polizia della missione europea Eulex ha arrestato, la sera di lunedì 31 novembre, Nazim Bllaca. Quest'ultimo ha riconosciuto pubblicamente di aver partecipato a 17 omicidi e a tentati omicidi svelando inoltre nomi di funzionari di Stato, del partito PDK e della polizia che sarebbero come lui implicati in questi crimini. 

Bllaca, 37 anni, originario di un villaggio nei pressi di Lipjan/Ljipljan afferma d'essere un ex agente dei servizi segreti dell'UCK, SHIK. E' stato interrogato lunedì stesso dall'ufficio del Procuratore speciale. Dopo la lunga ammissione è stato incriminato per omicidi e partecipazione al crimine organizzato. 

(…) 

Alla vigilia dell'arresto, la domenica, Nazim Bllaca aveva riconosciuto pubblicamente di essere l'autore di almeno un assassinio e di aver preso parte ad altri atti criminali simili. Lo ha fatto rivolgendosi ai media davanti all'edificio del Parlamento del Kosovo. Lo stesso giorno un filmato amatoriale era stato diffuso da Gani Geci, ex comandante delle Forze armate della Repubblica del Kosovo (FARK) a Drenica e attualmente importante dirigente della Lega democratica della Dardania (LDD). Gani Geci ha dichiarato di aver inviato questo filmato già un mese fa alle autorità competenti Eulex ma che si è poi convinto, a seguito della mancanza di reazione delle autorità europee, a renderlo pubblico. 

Nel filmato Nazim Bllaca spiega di essere stato membro del SHIK, i servizi d'intelligence dell'UÇK durante la guerra, ambienti poi rimasti vicini al PDK di Hashim Thaçi dopo il conflitto. Nazim Bllaca accusa il suo diretto superiore, Azem Syla, di avergli ordinato di eliminare supposti collaboratori dell'UDB, i servizi segreti serbi, che erano dei quadri dei rivali politici del PDK, la Lega democratica del Kosovo fondata da Ibrahim Rugova. 

Le istituzioni del Kosovo hanno rapidamente reagito alle dichiarazioni di Nazim Bllaca. Il primo ministro Hashim Thaçi ha promesso l'apertura di un'inchiesta in merito all'accusatore e sugli accusati ricordando che “nessuno è al di sopra della legge”. Da parte sua, il Presidente Fatmir Sejdiu ha chiesto ai cittadini kosovari di mantenere la calma ed ha garantito che la giustizia del Kosovo farà il suo dovere. Nella sua prima dichiarazione in merito alla vicenda Yves de Kermabon, a capo della missione Eulex, ha dichiarato che ora è necessario che non avvenga alcuna pressione politica sui giudici istruttori. 

L'opposizione è stata invece fin da subito molto critica, affermando che la giustizia in Kosovo non funziona tant'è che Nazim Bllaca ha fatto le sue esternazioni davanti al Parlamento del Kosovo senza essere immediatamente arrestato. 

(…) 

Adem Salihaj, un dirigente della LDD (all'opposizione) ha chiesto all'LDK di rivedere, alla luce delle dichiarazioni di Bllaca, la sua coalizione di governo con il PDK. 

Dal PDK sono state rimandate al mittente tutte le accuse. Ciononostante il primo ministro Thaçi ha chiarito di aver avuto molti incontri, nella giornata di martedì, per essere meglio informato sugli sviluppi della vicenda. “Da questa mattina ho incontrato il presidente Sejdiu, poi ho riunito il Consiglio di sicurezza nazionale, poi ho incontrato i rappresentanti di Eulex, numerosi ambasciatori occidentali e infine abbiamo nuovamente convocato il Consiglio di sicurezza nazionale. Tutti I miei sforzi sono mirati ad affrontare le questioni emerse in questi giorni. E' chiaro che si sta cercando di attentare all'ordine costituzionale e alla sicurezza nazionale”. 

(…) 

Il primo ministro kosovaro ha ribadito più volte che tutti sono uguali davanti alla legge. Lo ha ripetuto anche quando gli è stato chiesto se alcuni alti funzionari dello stato e del suo partito, tirati in ballo da Bllaca, potrebbero essere arrestati: “Nessuno è al di sopra della legge. Tutto si baserà sulla verità. I cittadini del Kosovo devono aver fiducia nella giustizia, quella del Kosovo e quella internazionale”. 

Da parte sua Azem Sylla, ex comandante dell’UCK e in passato a capo del SHIK ha presentato un esposto contro Nazim Bllaca. E quest'ultimo è stato infine arrestato. 



CATTIVI AUSPICI PER L'ANNO NUOVO


Abbiamo commesso l'errore di acquistare il Calendario 2010 de Il Manifesto, "il primo calendario da collezione con tutte le immagini dei rivoluzionari". (*) 

Di Tito si scrive che *inventò* la Jugoslavia...
E' noto invece che lo Stato unitario degli slavi del sud (jugo-slavi) era stato auspicato già da correnti di pensiero ottocentesche ("illirismo"), analoghe al Risorgimento italiano, e si era poi formato in seguito alla I Guerra mondiale, assumendo formalmente sin dal 1929 il nome di "Regno di Jugoslavia".
La personalità "rivoluzionaria" di Tito andrebbe piuttosto riconosciuta per il fatto che egli fu l'unico leader politico europeo ad avere condotto la guerra di guerriglia a fianco dei partigiani nella guerra di Liberazione, fino alla vittoria e alla creazione di una Jugoslavia Federativa e Socialista.

E chi hanno messo al fianco di grandi personalità come Tito, Ho Chi Min, eccetera? Giacinto Pannella! Persino indicandolo come "antimilitarista"!...
In realtà, "Marco" Pannella  è un noto guerrafondaio. Ha appoggiato *tutte* le guerre di aggressione della NATO e degli USA, propagandandole con i suoi interventi mediatici. Al "Manifesto" hanno anche dimenticato che si è fatto immortalare nell'uniforme degli ustascia croati per presentarsi al suo idolo, il fascista Tudjman. (**)

(segnalato a cura di Ivan Istrijan e Italo Slavo)