Informazione



Putignano (BA), 11 febbraio 2009

ORE 21.00 (botteghino 20.30)
CINEMA MARGHERITA
(INGRESSO: 7,00 Euro)

JASENOVAC, OMELIA DI UN SILENZIO

di e con DINO PARROTTA

Compagnia Primo Teatro
Elaborazione video: Paqui Polignano
Consulenza storica: Andrea Catone, Paolo Vinella


LA NOSTRA MEMORIA
 
Il 6 aprile 1941, con l'operazione "Castigo", le truppe nazifasciste di Hitler e Mussolini attaccarono ed invasero la Jugoslavia. I 4 anni di occupazione furono atroci: nella II guerra mondiale, dopo l'Unione Sovietica, la Jugoslavia ebbe il maggior numero di morti, civili, massacrati per strada o nei campi di sterminio, e partigiani combattenti. Milioni di uomini, donne, bambini di cui è stato possibile solo un calcolo approssimativo.
Gli ustascia,  nazionalisti cattolici filofascisti, sostenuti e finanziati dal regime di Mussolini, costituirono lo "Stato indipendente di Croazia", con a capo Ante Pavelic e la benedizione del Vaticano. Obiettivo principale della loro politica razzista fu lo sterminio dei serbi cristiano-ortodossi, una vera pulizia etnica. Per barbarie e ferocia, gli ustascia superarono le SS naziste.
Tristemente famoso, salvo che in Italia, divenne il campo di sterminio di Jasenovac, attivo, con esecuzioni giornaliere di decine, centinaia e migliaia di uomini, donne e bambini, dal 21 agosto 1941 al 22 aprile 1945. Comandante del campo di Jasenovac fu il frate francescano cattolico Miroslav Filipović-Majstorović, chiamato dal popolo ‘frate Satana’. Fra le sue prodezze personali, il 7 febbraio 1942, l'uccisione nella zona di Banja Luka di 2750 serbi ortodossi fra cui 250 bambini, in sole dieci ore. Se ne vantò durante il processo che subì in Jugoslavia dopo la guerra. Il Vaticano si limitò a sospenderlo a divinis.
La maggior parte dei massacri, oltre che nei campi di sterminio, avvenne, ad opera di bande ustascia comandate da preti e frati cattolici, nelle strade, nei villaggi, ovunque sotto gli occhi di tutti.  Fra le vittime anche 74.762  bambini, da quelli in fasce fino a quelli di 14 anni.
Durante la sua visita in Bosnia (22.06.2002) papa Giovanni Paolo II, dopo aver beatificato monsignor Stepinac, arcivescovo di Zagabria, complice con i crimini degli ustascia, chiese pubblicamente perdono per queste colpe commesse ‘dai figli della Chiesa Cattolica’. Solo in Italia non se ne è saputo niente. Cosi è rimasta nascosta l'intera vicenda del lager di Jasenovac, la Auschwitz dei Balcani 
(Bibliografia Minima: Marco Aurelio REVELLI, L’arcivescovo del genocidio. Monsignor Stepinac, il Vaticano e la dittatura ustascia in Croazia 1941-45, Milano 1999).


PASSAPAROLA
PER REPLICHE DELLA RAPPRESENTAZIONE  TEATRALE SCRIVERE A
Paolo Vinella: vinrom@...


È disponibile la mostra «Erano solo bambini. Jasenovac: Serbi, ebrei e rom nella "Auschwitz dei Balcani"». La mostra – 47 pannelli del formato 60x85 – è stata realizzata dal Museo delle vittime del genocidio di Belgrado in lingua serbo-croata e racconta la storia di oltre 19.000 bambini che perirono nell’inferno del campo di sterminio. La associazione Most za Beograd, con la collaborazione della compianta prof. Svetlana Stipcevic della cattedra di serbo-croato della Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Bari l’ha tradotta in italiano e riorganizzata parzialmente dal punto di vista grafico, presentandola nel gennaio-febbraio 2007, grazie al patrocinio delle amministrazioni comunale e provinciale di Bari, come di altri soggetti quali il consolato di Serbia, nella sala Murat di Bari. Alla conferenza di presentazione, alla presenza di un foltissimo pubblico, si tennero, introdotte e coordinate da Andrea Catone, le relazioni scientifiche di due storici del Museo delle vittime del genocidio di Belgrado, i professori Jovan Mirković e Dragan Cvetković, nonché quelle del prof. Luciano Canfora, della prof. Svetlana Stipcević, del prof. Antonio Leuzzi (Istituto di Storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea). Alcuni interventi sono disponibili in rete grazie al lavoro dei giornalisti di Telestreet-Bari al sito http://www.telestreetbari.it/content/view/268/15/. Per l’occasione, fu stampato in italiano il catalogo della mostra. Sono anche disponibili dei video fornitici dal Museo di Belgrado.
La mostra è stata poi presentata a Napoli, Trieste, Milano, Poggibonsi (Siena), e in alcuni centri della provincia di Bari (2008: Gravina, Putignano, 2009: Andria) in collaborazione con amministrazioni comunali e/o istituti scolastici e associazioni.


Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari
Associazione culturale di solidarietà con le popolazioni jugoslave
via Abbrescia 97, 70121 BARI.          most.za.beograd@...
- conto corrente postale n. 13087754 - CF:93242490725
L’associazione opera per la diffusione di una cultura critica della guerra e il riavvicinamento tra i popoli con culture, etnie, religioni ed usanze diverse al fine di una equa e pacifica convivenza. Si impegna per la diffusione di un forte senso di solidarietà nei confronti della popolazione jugoslava e degli altri popoli vittime della guerra. Ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
In particolare l’associazione:
- promuove, attraverso raccolte di fondi e donazioni iniziative di solidarietà nei confronti delle vittime della guerra nel campo sanitario, scolastico, alimentare e in ogni altro campo.
- promuove iniziative di sostegno a distanza di bambini jugoslavi
- promuove iniziative di gemellaggio tra enti locali italiani e jugoslavi, tra scuole italiane e jugoslave
- promuove scambi culturali e di amicizia verso il popolo jugoslavo
- promuove iniziative di conoscenza della storia e della cultura jugoslave

(english / francais.
Molti ricorderanno che, prima ancora della trappola diplomatica di Rambouillet, nel gennaio 1999 la tensione attorno alla questione kosovara fu esasperata in tutto il mondo attraverso la messa in scena di Racak, località del Kosovo dove i cadaveri di uomini armati dell'UCK, abbattuti dalla polizia jugoslava nel corso di violenti scontri, furono presentati alle telecamere come "vittime civili di un massacro serbo".


Liberazione 31/1/2009, pag.12-13

Balcani, il volto razzista del fascismo

Enzo Collotti

Se vogliamo cercare di capire cos'è la politica di espansione che il fascismo realizza in direzione della penisola balcanica, dobbiamo tenere conto di una serie di fattori. Il primo è il presupposto storicoculturale del vecchio imperialismo nazionalista che ha nella penisola balcanica uno dei suoi obiettivi principali di espansione. Ricordiamo che la guerra di Libia ha solo come oggetto immediato la Libia: l'obiettivo principale è infliggere un serio colpo all'Impero ottomano e aprire la strada alla penetrazione italiana nei Balcani. Allora si pensava che l'Italia, nella fase del decollo industriale, avesse la capacità di espandersi, di realizzare le proprie ambizioni economiche in quell'area. Questo spiega l'ostilità manifestata, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, alla creazione dello Stato degli slavi del sud e l'ambizione a fare dell'Adriatico un mare interno italiano. Un secondo punto da tenere presente, quando si parla di questa problematica, è il rapporto tra la politica interna e la politica estera dell'Italia. Negli anni del fascismo - segnatamente a partire dalla seconda metà degli anni venti, indipendentemente da quello che era successo fino all'apparente chiusura della questione fiumana con i trattati di Nettuno del 1925 - l'Italia opera una costante politica di accerchiamento della Jugoslavia. Da nord attraverso l'aggiogamento alla politica del fascismo di Austria e Ungheria, da sud attraverso il favoreggiamento del terrorismo macedone. Successivamente l'Italia appoggerà il separatismo croato degli ustascia, che saranno ospitati e armati all'interno dello Stato italiano. Infine verrà l'occupazione dell'Albania, nell'aprile del 1939, come testa di ponte per continuare questa operazione di accerchiamento della Jugoslavia. Il terzo punto riguarda la problematica dei rapporti, in relazione all'area danubiano-balcanica, tra l'Italia e la Germania. Questi rapporti hanno visto fasi diverse, hanno avuto momenti di acuta crisi intorno alla questione austriaca, ma al momento dell'Anschluss (1938) l'Italia è già sulla strada della ritirata, non è più in grado di competere con la pressione germanica. Questo problema del rapporto con la Germania accompagna tutta la fase di avvicinamento alla guerra, e in guerra, per quanto riguarda l'Italia, la situazione balcanica attraverserà diverse fasi. Il 28 ottobre 1940 ha inizio l'aggressione, intrapresa con estrema leggerezza, alla Grecia. Il motto era «spezzeremo le reni alla Grecia», ma l'esercito italiano rischiò di essere rigettato in mare in Albania dalla resistenza che gli si oppose. Questa è la prima fase. La seconda fase si apre nell'aprile del 1941, quando l'invasione della Jugoslavia da parte delle forze della Wehrmacht e dell'esercito italiano apre definitivamente la via non solo alla sconfitta della Jugoslavia, ma anche, e soprattutto, della Grecia. In un primo momento la Grecia non riconosce di essere stata battuta dagli italiani e viene fatto ripetere l'armistizio, perché i greci vogliono firmarlo solo con i tedeschi, riconoscendo di essere stati sconfitti soltanto da loro. Questi sono i presupposti della complessa politica di occupazione che l'Italia praticherà in quell'area, distinguendo abbastanza nettamente fra il settore jugoslavo e quello greco. C'è da dire che il problema delle occupazioni balcaniche è, nella storiografia italiana, un argomento abbastanza marginale. Questo per varie ragioni: prima di tutto per una reticenza, credo tuttora inesplicabile, a occuparsi di questi problemi. Secondariamente - ma solo secondariamente - per il ritardo nell'acquisizione di fonti.
Bisogna distinguere, però, la Jugoslavia dalla Grecia, perché nel secondo caso il ritardo non è solo della storiografia italiana ma anche di quella ellenica, per motivi del tutto interni alla politica di quel paese. Qualcosa di più è stato fatto per quanto riguarda quella che possiamo chiamare, in riferimento al 1941, la ex Jugoslavia. Perché uso questa espressione? Perché la prima conseguenza della sconfitta militare della Jugoslavia ad opera delle potenze dell'Asse fu la totale disgregazione dello spazio jugoslavo: un vecchio obiettivo dell'imperialismo italiano e del fascismo, realizzato con l'appoggio della Wehrmacht. Questo vecchio obiettivo presentava per l'Italia anche notevoli implicazioni di carattere interno: non dobbiamo dimenticare che in tutta l'avventura balcanica vi sono una responsabilità e un peso della dinastia dei Savoia. Basta pensare alla collezione di corone, o di semicorone, che il sovrano italiano accumulò per sé e per la sua famiglia nella penisola balcanica per rendersi conto del significato dell'alleanza fra monarchia e regime. C'è la presenza di una principessa di casa Savoia in Bulgaria, la presenza del re d'Italia come re d'Italia e d'Albania, successivamente il tentativo di imporre un sovrano di casa Savoia - che per fortuna non prese mai possesso del suo trono - in Croazia. Il rapporto tra potere dinastico e regime fascista, poi, comportò anche l'appoggio di settori forti della politica italiana - nel caso specifico penso alle forze armate - ai disegni di dominazione balcanica da parte dell'Italia. Quindi risulta chiara l'influenza complessiva che lo scacchiere balcanico ha avuto rispetto alla posizione dell'Italia, ai caratteri dell'occupazione italiana in quei territori. Tuttora ci interroghiamo sugli obiettivi specifici di quell'occupazione, al di là della generica aspirazione a sottrarre spazio ai nemici, in particolare all'Inghilterra. Il problema del rapporto con l'Inghilterra in relazione alla penisola balcanica è molto importante, perché il patto di Pasqua del 1938 impegnava l'Italia a non modificare lo status quo nel Mediterraneo orientale. La conquista dell'Albania fu, quindi, un vulnus pesante, all'origine dell'accelerazione dell'Italia verso la guerra. Difficile, tuttora, è capire se ci fosse un disegno, un progetto nei confronti delle aree balcaniche, che andasse oltre la conquista territoriale diretta di certi territori. Questo discorso riguarda soprattutto le aree dell'ex Jugoslavia, e in parte anche la Grecia. L'Italia si annette alcuni territori - di fatto ma in parte anche di diritto, perché emana una serie di normative per quanto riguarda le isole ioniche -, operando una sottrazione a carico della Grecia. Fa molto più corpose sottrazioni di territorio a carico della Jugoslavia. Come con l'annessione - o meglio la cosiddetta annessione - della provincia di Lubiana. Agli sloveni promette la cittadinanza italiana senza mai accordarla, estende le occupazioni dalla Dalmazia alle isole dell'Alto Adriatico, stabilisce - e qui è un altro punto di interesse di casa Savoia - un protettorato sul Montenegro: si tratta di un protettorato di fatto, mentre si considera la possibilità di inserire un altro membro di casa Savoia in Montenegro. Inoltre l'Italia amplia il territorio albanese ai danni della Jugoslavia, con l'aggregazione all'Albania del Kosovo e di una parte della Macedonia, formando quella che poi viene definita «Grande Albania». La Macedonia viene divisa con la Bulgaria, quindi si disegna la disgregazione totale di quella che era la vecchia entità statale della Jugoslavia, e l'Italia tenta di allargare anche i confini dell'Albania in direzione dell'Epiro e della fascia costiera greca a sud dell'Albania, la Ciamuria. Più che un progetto di conquiste territoriali, c'è una pratica di conquiste territoriali che è uno dei risvolti della debolezza, non solo politica ma effettiva, della politica italiana. La politica italiana non ha minimamente la capacità di penetrazione e di tenuta della potenza concorrente tedesca, non è in grado di contestare l'egemonia della Germania. A loro volta i tedeschi avrebbero voluto tenere l'area balcanica fuori dal conflitto immediato: la Germania pensava alla penisola balcanica come grande retroterra di carattere economico, area di rifornimenti, oltre che di drenaggio di manodopera in previsione della guerra all'Est. L'Italia non ha nessuna capacità di penetrazione da questo punto di vista, lo si vedrà soprattutto nello scontro di interessi, non solo genericamente nell'area balcanica, ma in particolare in Croazia, dove il riconoscimento apparente di un'egemonia politica italiana viene contraddetto dall'influenza diretta, immediata, di carattere economico della Germania. Quindi ci troviamo di fronte alla problematica che nasce da questo conflitto di interessi e, in parte, dalla mancanza di obiettivi precisi dell'Italia, nonché dalla sua effettiva impreparazione a fare fronte a impegni di quelle dimensioni. Questa situazione è anche all'origine di altre caratteristiche della politica italiana in quei territori, come l'uso indiscriminato della violenza e della repressione nei confronti non solo dei movimenti di resistenza, ma anche, si potrebbe dire adottando un'espressione che oggi usiamo in altri contesti, in forma di guerra ai civili. E questo è un ennesimo risvolto dell'incapacità sia di avere una visione politica sia di dialogare con le popolazioni. Anche in questo caso, i discorsi che sono stati fatti sulla questione dell'«altro» calzano abbastanza bene, soprattutto per quanto riguarda le popolazioni slave, considerate come una sorta di nemico ereditario. Non vi è nessuno sforzo da parte italiana - almeno in base a quanto per ora possiamo documentare - di capire chi è l'«altro». Ne è testimone la pubblicistica che attraversa la stampa italiana dell'epoca e, più specificamente, la stampa diffusa tra i soldati. La propaganda per i soldati doveva cercare di dare loro la forza e il coraggio di operare e di ambientarsi in quel territorio. Perlopiù i militari non sapevano neanche perché erano stati mandati a morire in quelle zone, e per spronarli si dipingeva loro il nemico come appartenente a una civiltà inferiore, si spacciava l'immagine della Balcania tenebrosa. Quest'immagine - che andrebbe studiata attentamente, forse più dal punto di vista antropologico che da quello storico - delinea una Balcania sconosciuta che diventa per le forze italiane un vero e proprio incubo. L'uso indiscriminato della violenza è di sicuro - oltre che determinato dalla consapevolezza dell'inferiorità e incapacità militare italiana - anche il risvolto di questa totale cecità e incomprensione delle popolazioni con le quali l'Italia aveva a che fare. Vi sono alcune ipotesi interpretative che meriterebbero di essere approfondite; ricordo in particolare gli spunti di Sala sul carattere coloniale della presenza italiana nella penisola balcanica. Molti militari e anche funzionari dell'amministrazione italiana vengono mandati in queste terre dopo aver fatto esperienza militare o di amministrazione in Africa orientale o in Libia. Uno dei comandanti italiani con maggiori responsabilità quanto a repressioni, il generale Alessandro Pirzio-Biroli che operava in Montenegro, era stato governatore dell'Amhara. Il punto, qui, non è la carriera di queste persone, ma la loro cultura e il loro modo di guardare ai loro amministrati. Nella migliore delle ipotesi, questi amministrati non sono considerati degni di un rapporto come deve esservi tra popolazioni civili, ma solo sudditi da reprimere. Lo dico in termini spicci, forse brutali, ma la sostanza del discorso è questa, e sarebbe interessante continuare ad approfondire questo tema, perché alle spalle di certi comportamenti vi era una vecchia cultura italiana che aveva sempre guardato agli slavi come a nemici, comunque un popolo barbaro. E' chiaro che in questo contesto, soprattutto nel territorio jugoslavo, la guerra cieca delle forze italiane contro il dispiegamento delle forze partigiane comportò un coinvolgimento molto esteso in operazioni di rappresaglia - anzi, in operazioni che non erano solo di rappresaglia ma anche di feroce contrapposizione alla popolazione civile - e la trasformazione del conflitto in una grande operazione di polizia. Quindi, anche nel confronto tra potere politico - penso alla provincia di Lubiana - e potere militare, l'espropriazione di qualsiasi forma di autorità civile e la trasformazione di ogni operazione in azione di carattere poliziesco o militare diedero alla presenza italiana un carattere di militarizzazione estrema, e di altrettanto estrema violenza. Uno degli esempi più forti di disposizioni per la repressione delle attività partigiane - ma con ampie implicazioni nei confronti della popolazione civile - è rappresentato dalla famosa circolare 3C del marzo 1942, diramata dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, che fu degno successore del generale Ambrosio, poi passato allo Stato Maggiore. Quest'ultimo aveva dichiarato a tutte lettere che la guerra che si combatteva in Jugoslavia era una guerra nella quale non si facevano prigionieri. Affermazioni di questa natura ne potremmo riportare molte, non soltanto grazie alle indagini - e alle relative documentazioni - di Tone Ferenc, uno storico sloveno purtroppo deceduto, ma anche grazie a uno dei pochi studi che l'Ufficio storico militare dello Stato Maggiore dell'Esercito è riuscito a produrre su questi temi, L'occupazione italiana della Slovenia (1941-1943) di Marco Cuzzi.


Stralcio dal saggio di Enzo Collotti "Le occupazioni italiane nei Balcani" in "Dall'Impero austro-ungarico alle foibe" (Bollati-Boringhieri, pp. 304, euro 24,00), in libreria dal 12 febbraio