Informazione

ALTA INTENSITÀ


"Investimenti destinati ad un modello professionale: Saranno tagliati
i volontari a ferma breve. In futuro un esercito combattente.
Destinati al fronte. Il futuro dei militari italiani è sempre più
all'estero, impegnati in missioni umanitarie e di mantenimento della
pace. Ma è bene tener presente che queste missioni possono comportare
operazioni di combattimento anche ad alta intensità".

http://www.difesa.it/files/rassegnastampa/070530/EJ0CO.pdf

Segnaliamo questa intervista al Generale Mini, già impegnato alcuni anni fa al comando delle truppe di occupazione italiane in Kosovo. Le tesi qui avanzate meriterebbero ciascuna un'ampia riflessione e disamina, impossibili da sviluppare in questa sede. È però il caso di notare, in particolare, come nonostante tutto riaffiorino, quasi compulsivamente, i luoghi comuni sulle presunte "cancellazione dell'autonomia" e "repressione" in Kosovo per "iniziativa di Milosevic". Vengono cioè assunti come veri, in partenza, proprio quegli argomenti che sono stati alla base della "campagna di guerra psicologica condotta nei confronti dei nostri stessi decisori": menzogne costruite nei laboratori occidentali della disinformazione strategica precisamente allo scopo di conseguire lo squartamento della Jugoslavia, giustificando via via la politica del separatismo razziale di Rugova, il terrorismo UCK, la aggressione militare NATO, la occupazione coloniale KFOR, e la (sesta!) secessione "etnica". Finchè queste fallaci premesse non saranno messe in discussione una volta per tutte, sarà a nostro avviso ben difficile poter incidere sulle scelte o addirittura sul corso degli eventi, per determinare finalmente un cambio di rotta... (a cura di I. Slavo)  


http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=15833%20%20

«Italia apprendista stregone in Kosovo»

di Tommaso Di Francesco

su Il Manifesto del 24/05/2007

«L'ostinazione a decretare la perdita di sovranità della Serbia, nonostante la risoluzione 1244, non trova riscontro in altra parte del mondo. Così si impone una soluzione di forza, violenta come la guerra "umanitaria"». Parla il generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo: «Si vuole imporre una secessione. Non mi scandalizzo per la realpolitik. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia»


Si va a tappe forzate all'Onu, dopo che la «mediazione» dell'incaricato Martti Ahtisaari è stata sospesa dal Consiglio di sicurezza. Gira una bozza di risoluzione che prevede unilateralmente l'indipendenza, seppur «internazionalmente controllata per un certo periodo». E' scontro. Washington è pronta al riconoscimento anche se il Consiglio di sicurezza fosse bloccato da un veto russo. Di questo parliamo con il generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo. «Penso che quello di Ahtisaari - ci dice - è un tentativo fallito. La responsabilità più grave sta nell'averlo messo nelle condizioni di gestire un negoziato a senso unico. Così raccoglie i frutti di una manovra non tesa a risolvere il problema di tutte le etnie kosovare, ma della ricerca di una rottura con la Serbia anche con il ricatto». 

Non le sembra che l'Onu abbia svolto troppe e contrapposte parti in commedia?

Qui le Nazioni Unite hanno dimostrato le dimensioni della crisi di credibilità di cui soffrivano da tempo. Ricordo gli accordi di pace di Kumanovo del 1999, e il fatto che la Risoluzione 1244 è stata approvata dopo quegli accordi raggiunti esclusivamente fra le parti militari. Gli accordi hanno sancito due cose: 1) i serbi mantenevano la sovranità su tutto il territorio nazionale e 2) le forze internazionali sarebbero entrate sul territorio serbo, ma solo in Kosovo, dopo il ritiro unilaterale delle forze militari, paramilitari e di sicurezza serbe. Era un ritiro ovviamente poco spontaneo, ma sostanza e forma di un accordo internazionale erano state rispettate. Da quel momento l'Onu è stato sottoposto a pressioni di ogni genere per smentire questa conferma di sovranità della Serbia.

Ma esistono ora gli standard democratici, di salvaguardia delle minoranze, dei diritti umani e religiosi in Kosovo? 

Non solo non esistono standard democratici per le minoranze, ma neppure standard umani. Sulla minoranza serba e su quelle che gli albanesi considerano conniventi con i serbi soltanto perché parlano serbo o dialetti vagamente slavi pesano pregiudizi e criminalizzazioni ingiuste e false. Potrebbe sembrare paradossale, ma la discriminazione e la mannaia della pulizia etnica si sono scatenate proprio contro quei serbi e non serbi che ritenendo di non aver fatto nulla di male sono rimasti a casa propria. E sono stati questi ad essere massacrati per primi, a questi sono state sottratte le legittime proprietà con la forza e l'omicidio. Chi si è macchiato dei delitti contro gli albanesi, e sono stati molti a tutti i livelli, non ha avuto la possibilità di goderne finché è rimasto in Kosovo e chi è riuscito a scappare sta ancora nelle liste dei ricercati. Chi vuole tornare o insiste a non volersene andare dal Kosovo è gente che non ha nulla di cui pentirsi salvo il fatto di appartenere ad una certa etnia. Ora però il problema si è aggravato, tra coloro che parlano d'indipendenza ci sono quelli che ritengono che tale status internazionale dia loro il diritto alla pulizia etnica, interrotta dalle forze di sicurezza della Nato. E tra i serbi che parlano di riappropriazione del Kosovo c'è chi non vuole esercitare una responsabilità di governo equa e democratica, ma vuole vendetta. In più s'inserisce una connessione di corruzione e crimine che aumenta e il rischio che la situazione sfugga di nuovo al controllo.

Perché la comunità internazionale insiste per l'indipendenza senza vedere il precedente che rischia di rappresentare, nei Balcani con l'irrisolta pace di Dayton in Bosnia Erzegovina e in Macedonia, ma anche nel Caucaso e nella stessa Europa?

Si rendono conto dei rischi, ma forse il Kosovo vuole proprio essere il laboratorio di una nuova scrittura delle regole dell'ordine internazionale. Forse si vuole limitare il potere degli stati, si vuole stabilire un principio che la sovranità degli stati non è assoluta e che può essere limitata, ampliata o revocata con un semplice intervento di forza, sia essa militare o politico. Si vogliono forse ripristinare i sistemi delle «colonie», dei «territori», dei «protettorati» o quello delle «amministrazioni fiduciarie». E' da diversi anni che si cerca un nuovo ordine mondiale e che si tenta di riscrivere le regole a suon di pretesti e bombardamenti. La Bosnia ha fatto da laboratorio per la spartizione fra etnie di un territorio nel momento in cui una repubblica si separava dalla federazione. A Timor si è completato il processo di decolonizzazione dando l'indipendenza ad un territorio già colonia portoghese invasa da uno stato terzo. In Kosovo forse si cerca di fare il passo determinante: imporre la secessione. Non sono una verginella da scandalizzarmi per il pragmatismo politico o per l'uso della forza. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia. L'ostinazione nel prendere le parti di una etnia fino ad arrivare a decretare la perdita di sovranità dello stato in cui essa è legalmente inserita non trova riscontro in nessuna altra parte del mondo. 

Il ministro degli esteri Massimo D'Alema, favorevole all'indipendenza, aveva finora insistito sul compromesso. Ora poi in Serbia c'è un nuovo governo e una unità forte, tra il premier Kostunica e il presidente Tadic, sul rifiuto dell'ultranazionalismo ma anche sul rifiuto dell'indipendenza del Kosovo. Perché D'Alema in un momento così delicato, ha provocatoriamente dichiarato all'«Espresso»: «I serbi hanno perso il Kosovo quando hanno cercato di risolvere il problema sopprimendo l'autonomia, invadendolo e facendo pulizia etnica», attribuendo così ai serbi tout-court l'iniziativa che fu invece di Milosevic?

Condivido il giudizio secondo il quale Milosevic e la sua dirigenza hanno «perso» ogni autorità morale sul Kosovo con la cancellazione dell'autonomia e la repressione. Così come noi italiani avremmo perduto qualsiasi autorità morale se avessimo commesso crimini contro le nostre stesse popolazioni o contro quelle poste sotto la nostra tutela anche in regime di occupazione. Ma la giustizia applicabile agli uomini non è la stessa applicabile agli stati. Un uomo si può condannare a morte, un governo si può rovesciare, uno stato si può sanzionare ma non si può più annientare o frazionare. Anche perché non sono gli stati a commettere i crimini, nonostante il termine tanto di moda dello «stato canaglia», ma gli uomini. La sottrazione di sovranità era un diritto di forza che spettava alla guerra di conquista e di aggressione, ma questa guerra è stata dichiarata illegale dalla Carta delle Nazioni Unite. La secessione potrebbe essere raggiunta come termine del processo di autodeterminazione di un popolo, ma è dubbio che questo caso possa essere applicato al Kosovo. I Kosovari non hanno completato la guerra di liberazione. Rugova aveva provato a dichiarare l'indipendenza quando ancora non si sparava, ma non lo ha preso sul serio nessuno. Forse proprio perché non sparava. In piena guerra cosiddetta umanitaria, lui, che comunque era il rappresentante ufficiale degli albanesi kosovari, cercava un accordo con Milosevic e si sarebbe accontentato di un ritorno all'autonomia. E' stato preso per un traditore o per un incapace d'intendere e volere. Forse lo scopo di Rugova non era idealistico come quello del Mahatma Ghandi; forse voleva semplicemente evitare una guerra che lui come ideologo della non violenza e come leader sapeva di perdere. Sarebbe stato superato da altri leader, quelli con i fucili e le uniformi da forze speciali occidentali. Quelli che si erano messi in contatto con Al Qaeda, con i Mujaheddin reduci dall'Afghanistan e dalla Bosnia e quelli che trafficavano in armi e droga. Quelli che in Albania si addestravano con contractor americani pagati a mille dollari al giorno. Lui stesso si convinse a mettere in piedi un esercito di liberazione il cui leader, Zemaj, è stato ammazzato dopo la guerra come gli altri trenta capi del partito di Rugova trucidati in meno di due anni non dai serbi ma dagli stessi avversari politici kosovari. La cosiddetta guerra «umanitaria» in cui è intervenuta la Nato ha interrotto qualsiasi tentativo di soluzione relativamente indolore. E' stato uno dei primi esempi d'ingerenza umanitaria ma non è mai stato ufficialmente un supporto internazionale ad una guerra di liberazione. Tanto è vero che la risoluzione 1244 al termine della guerra stessa ribadisce ancora la sovranità della Serbia. Il Kosovo, perciò, fino ad oggi non è ancora formalmente e sostanzialmente perduto. Ma è indubbio che le pressioni americane sono per l'indipendenza e che l'Italia con i recenti guai nei rapporti con gli americani e con una serie di negoziatori affaticati tende ad usare quel poco di credibilità che gode in Serbia cercando di convincerla a cedere.

Non le sembra che nel 1999 qualcuno, al momento di scatenare la guerra Nato motivata allora come «umanitaria» - 78 giorni di raid aerei su tutta l'ex Jugoslavia con tanti «effetti collaterali» sanguinosi -, non abbia detto la verità al paese e agli stessi militari impegnati, alla fine, in una guerra funzionale ad una secessione etnica? 

La guerra «umanitaria» in Kosovo è stata il risultato di una serie di logiche razionali spinte da manipolazioni emotive. E' il risultato quasi perfetto di una campagna di guerra psicologica condotta nei confronti dei nostri stessi decisori. Non mi meraviglia affatto che molti di essi potessero essere in buona fede. Fin dall'inizio era chiaro che Milosevic non costituiva una minaccia alla sicurezza internazionale, ma usava gli stessi metodi del predecessore Tito per cercare di tenere insieme un puzzle che si stava sfasciando. Era anche chiaro che i presunti massacri e le pulizie etniche di Milosevic dovevano essere provate e verificate. Era chiaro che Stati Uniti e Gran Bretagna avevano già deciso per la spaccatura del Kosovo già ai tempi di quella della Bosnia. Si trattava di una diffusa volontà di punire la Serbia per i fatti bosniaci e per la sua aspirazione a costituire nei Balcani un potere nazionalista serbo che avrebbe cementato una sorta di alleanza slava che di fatto avrebbe ostacolato la tanto sognata espansione occidentale e della Nato a est. Queste certezze erano però poco spendibili a sostegno di un piano d'intervento armato contro la stessa Serbia. Era necessaria una forte spinta emotiva come era successa con il cosiddetto lager di Triplojie in Bosnia. La mossa dell'ambasciatore Walker che denunciò il presunto massacro di Racak fece precipitare le cose proprio nel momento in cui sarebbe servita la calma. Racak fece fallire i colloqui di Rambouillet. Le proposte americane e la stessa presenza dei rappresentanti dell'Uck al tavolo del negoziato erano per i Serbi delle vere e proprie provocazioni. Nessuno si chiese come mai dopo dieci anni di sopportazione, all'improvviso gli albanesi si spostavano in massa oltre il confine albanese e macedone senza allontanarsi di un solo chilometro in più. Gli stessi serbi erano convinti di vincere la battaglia dell'epurazione albanese. Da noi la catastrofe umanitaria aveva più potere persuasivo di qualsiasi discorso alla Camera, ma si parlava anche di cose meno auliche «fermiamoli lì prima che arrivino qui». La situazione era talmente nebulosa che i tribunali tedeschi dichiararono di non avere elementi per considerare profughi i kosovari che chiedevano asilo. E mettevano in dubbio i presunti massacri. Oggi si sta imponendo una soluzione di forza altrettanto violenta della guerra passata. E mi chiedo se non fosse stato meglio imporla subito dopo la guerra, come parte di una debellatio o di un trattato di pace fra parti belligeranti. Allora, anche se illegale come la soluzione di oggi, sarebbe stata capita. Ma anche qui ha agito l'ipocrisia e questa guerra di 78 giorni e otto anni è stata chiamata in tutti i modi possibili fuorchè quello che avrebbe consentito una soluzione drastica. Mi rammarica vedere che gli scrupoli del generale Jackson nel trattare i Serbi come avversari legittimi erano inutili, che la determinazione di Kfor nel salvaguardare i diritti di tutti era strumentalizzata e che gli oltre trecentomila soldati che si sono avvicendati pensando di partecipare ad un processo di stabilizzazione e di pace (compresi gli oltre centocinquanta che ci hanno rimesso la pelle) sono serviti solo a prendere tempo e spendere soldi per una soluzione di forza già scontata e che non risolve niente. Mi dispiace che la nostra ostinazione militare nel difendere i diritti di tutti oggi si traduca in quella della difesa dei diritti di una parte a scapito dell'altra. Mi dispiace vedere che di fronte agli esperimenti di laboratorio politico chi ci rimette è sempre una parte dei cittadini, quella più debole, quella meno tutelata anche dalla giurisdizione internazionale. Ieri erano gli albanesi, oggi sono i serbi. Con questi criteri domani potrebbe succedere anche a noi.




L’eroina “fa bene alla nostra salute”: le forze di occupazione sostengono in Afghanistan  il traffico delle droghe 

Profitti per molti miliardi di dollari per il crimine organizzato e le istituzioni finanziarie Occidentali 

by Prof. Michel Chossudovsky

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

Le forze di occupazione in Afghanistan forniscono l’appoggio al traffico di droga, che procura tra 120 e 194 miliardi di dollari di entrate al crimine organizzato, alle agenzie di spionaggio e alle istituzioni finanziarie dell’Occidente. 
I proventi per molti miliardi di dollari di questo redditizio traffico illecito sono depositati nelle banche Occidentali. Quasi la totalità dei redditi si accumula per interessi corporativi e in favore di associazioni criminali fuori dell’Afghanistan. 
Il traffico di droga della Mezzaluna d’Oro, promosso dalla CIA all’inizio degli anni Ottanta, continua ad essere protetto dai servizi di spionaggio Statunitensi, in collegamento con le forze di occupazione della NATO e dell’esercito Britannico. Secondo gli ultimi sviluppi, le forze di occupazione Britanniche hanno favorito la coltivazione del papavero da oppio tramite annunci pubblicitari a pagamento via radio. 
"Un messaggio radio trasmesso attraverso tutta la provincia ha assicurato gli agricoltori locali che la Forza Internazionale di Assistenza alla Sicurezza (ISAF) a guida NATO non avrebbe interferito con la raccolta attuale del prodotto della coltivazione dei campi di papavero. Questo messaggio affermava: “Alle rispettabili popolazioni di Helmand. I soldati dell’ISAF e dell’Esercito Nazionale Afghano (ANA) non distruggeranno i campi di papavero. Loro sanno che molta gente dell’ Afghanistan non ha scelta nella coltivazione del papavero. L’ISAF e l’ANA non desiderano impedire alla gente di guadagnarsi i mezzi per il loro sostentamento.” ( Riportato da The Guardian, 27 aprile 2007)                                                                                                                                           Mentre i discutibili messaggi sull’oppio sono stati con indifferenza messi da parte come uno sfortunato incidente, vi sono indicazioni che l’economia dell’oppio viene promossa a livello politico ( compreso il governo Britannico di Tony Blair).
Il Senlis Council, un comitato di esperti internazionale specializzato nelle problematiche legate alle politiche sulla sicurezza, sta proponendo la pianificazione in Afghanistan dello sviluppo di esportazioni lecite di oppio, con il proposito di favorire la produzione farmaceutica di antidolorifici, come la morfina e la codeina. Secondo il Senlis Council, "le coltivazioni di papavero sono indispensabili e, se opportunamente regolate, possono costituire una fonte legale di reddito per i contadini Afgani ridotti in povertà, mentre, allo stesso tempo, possono privare di molte delle loro rendite i signori della droga e i Talebani." (John Polanyi, Globe and Mail, 23 September 2006)
Il Senlis Council offre un’alternativa quando propone che "una coltivazione di papavero regolata in Afghanistan" possa venire sviluppata per produrre i necessari farmaci contro il dolore. Però, il rapporto del Senlis trascura di fare il punto sulla questione che è già esistente una struttura per le esportazioni lecite di oppio, comunque caratterizzata da forniture superiori in quantità alla richiesta.
La campagna del Senlis fa parte di una campagna propagandistica, che tende a contribuire a fornire una falsa legittimazione all’economia Afgana dell’oppio, (Vedere il Progetto Senlis nei dettagli), e alla fine serve i potenti interessi in gioco. 
Quanti acri coltivati a papavero da oppio sono richiesti per rifornire l’industria farmaceutica? Secondo la Direzione per il Controllo Internazionale sui Narcotici (INCB), che ha un mandato per prendere in esame le problematiche inerenti alla fornitura e alla richiesta di oppiacei usati per scopi medici, "la fornitura di tali oppiacei per anni è stata a livelli ben superiori alla domanda globale".(Asian Times, febbraio 2006)  La INCB ha raccomandato di ridurre la produzione di oppiacei, dato che le forniture risultano superiori alla domanda. 
Attualmente, è l’India il più grosso esportatore di oppio legale, fornendo circa il 50% delle partite lecite alle compagnie farmaceutiche interessate alla produzione di farmaci contro il dolore. Anche la Turchia è un importante produttore di oppio legale. 
Il lattice dell’oppio Indiano "viene venduto ad industrie farmaceutiche e/o chimiche autorizzate, come la Mallinckrodt e la Johnson & Johnson, secondo norme stabilite dalla Commissione delle Nazioni Unite sui Farmaci Narcotici e dalla Direzione per il Controllo Internazionale sui Narcotici, che richiedono una vasta certificazione opportuna alla rintracciabilità della droga. " (Opium in India)
In India, l’area destinata alla coltivazione legale di papavero da oppio sotto controllo Statale è dell’ordine modesto di 11.000 ettari, considerando comunque che la domanda globale dell’industria farmaceutica mondiale richiede approssimativamente 22.000 ettari di terra assegnata alla produzione di oppio. L’oppio per uso farmaceutico non è fornito in modo insufficiente. La richiesta da parte dell’industria farmaceutica è già soddisfatta. 

La produzione di oppio Afgano sta spiccando il volo

Le Nazioni Unite hanno annunciate che la coltivazione del papavero da oppio in Afghanistan sta spiccando il volo. Nel 2006 si è avuto un incremento del 59% per le aree destinate alla coltivazione del papavero da oppio. Viene valutato che la produzione di oppio è aumentata del 49% rispetto al 2005.                                                                                                                                                                 I media Occidentali in coro accusano i Talebani e i signori della guerra. Funzionari Occidentali hanno dichiarato di ritenere che "il commercio viene controllato da 25 trafficanti, compresi tre ministri del governo." (Guardian, op. cit).                                                                                                      

Allora, per amara ironia, la presenza dell’esercito USA è servita per rafforzare più che sradicare il traffico di droga. La produzione di oppio è aumentata di 33 volte, dalle 185 tonnellate del 2001 sotto i Talebani alle 6100 tonnellate del 2006. Le aree coltivate sono aumentate di 21 volte dall’invasione del 2001 guidata dagli USA. Quello che i documenti dei mezzi di informazione di massa mancano di evidenziare è che nel 2000-2001 è stato proprio il governo dei Talebani ad essere funzionale nel mettere in applicazione con successo un programma di sradicazione della droga, con l’appoggio e la collaborazione delle Nazioni Unite.  Realizzato nel 2000-2001, il programma dei Talebani  di sradicazione della droga aveva portato ad un calo del 94% nella coltivazione del papavero da oppio. Nel 2001, secondo dati dell’ONU, la produzione di oppio era crollata a 185 tonnellate. Immediatamente dopo l’invasione dell’ottobre 2001 a guida USA, la produzione è drammaticamente aumentata, riguadagnando i suoi livelli storici.                                                               

Il Dipartimento dell’ONU su Droghe e Crimine, con sede a Vienna, valuta che il raccolto del 2006 sarà dell’ordine di 6.100 tonnellate, 33 volte il livello della produzione del 2001 sotto il governo dei Talebani  (un aumento del 3200 % in 5 anni). La coltivazione nel 2006 ha raggiunto un record di 165.000 ettari rispetto ai 104.000 nel 2005 e ai 7.606 nel 2001 sotto i Talebani.

Un traffico di molti miliardi di dollari  

 Secondo le Nazioni Unite, nel 2006 l’Afghanistan ha fornito quasi il 92% delle forniture mondiali di oppio, che viene usato per produrre eroina. Le Nazioni Unite stimano che per il 2006 il contributo del traffico di droga all’economia Afgana è dell’ordine di 2,7 miliardi di dollari. Quello che manca di venire sottolineato è il fatto che il 95% dei profitti generati da questo lucroso contrabbando va nelle tasche di comitati di affari, del crimine organizzato e di istituzioni bancarie e della finanza. Solo una piccola percentuale arriva agli agricoltori e ai commercianti del paese di produzione.  (Vedere UNODC, The Opium Economy in Afghanistan, 
http://www.unodc.org/pdf/publications/afg_opium_economy_www.pdf , Vienna, 2003, p. 7-8)

"L’eroina Afgana viene venduta sul mercato internazionale dei narcotici ad un prezzo cento volte più alto del prezzo pagato ai contadini per il loro oppio fuori del campo".(Dipartimento di Stato USA, citazione riferita dalla Voce dell’America (VOA), 27 febbraio 2004).

Sulla base dei prezzi all’ingrosso e al dettaglio sui mercati Occidentali, i profitti generati dal commercio della droga Afgana sono colossali. Nel luglio 2006, il prezzo su strada dell’eroina in Gran Bretagna era dell’ordine di 54 lire sterline, pari a 102 dollari al grammo.  

Narcotici sulle strade dell’Europa Occidentale

Con buona approssimazione, un chilogrammo di oppio produce 100 grammi di eroina pura. 6100 tonnellate di oppio consentono di produrre 1220 tonnellate di eroina, pura al 50%. Il grado di purezza dell’eroina al dettaglio può variare, e sta su una media del 36%. In Gran Bretagna, il grado di purezza raramente supera il 50%, mentre negli USA si aggira sull’intorno del 50-60 %. 

Sulla base dell’assetto dei prezzi al dettaglio in Gran Bretagna per l’eroina, i proventi totali derivati dal traffico dell’eroina Afgana dovrebbero aggirarsi sui 124,4 miliardi di dollari, assumendo un grado di purezza del 50%.  Tenendo come valido un rapporto medio di purezza del 36% e il prezzo medio Britannico, il valore in contante derivato dalle vendite dell’eroina Afgana dovrebbe ammontare sui 194,4 miliardi di dollari.  Sebbene queste cifre non costituiscano valutazioni precise, nondimeno danno l’idea dell’assoluta grandezza di questo traffico di narcotici multimiliardario in dollari fuori dell’Afghanistan. Preso come riferimento questo primo dato che fornisce una valutazione prudente, il valore in contante derivato da queste vendite di eroina, una volta raggiunti in Occidente i mercati al dettaglio, supera i 120 miliardi di dollari all’anno. (Vedere anche le nostre valutazioni in dettaglio per il 2003 in The Spoils of War: Afghanistan's Multibillion Dollar Heroin Trade, by Michel Chossudovsky, - Il bottino di guerra: il traffico di eroina dell’Afghanistan per molti miliardi di dollari. L’UNODC valuta che il prezzo medio al dettaglio dell’eroina per il 2004 sia stato di circa 157 dollari al grammo, considerata una percentuale media di purezza).  

Narcotici: traffico appena inferiore a quello delle armi e del petrolio 

Le valutazioni precedenti sono conformi alle stime ONU rispetto alla natura e all’importanza del traffico globale di droga.  

Il commercio Afgano in oppiacei (92 % della produzione mondiale di oppiacei) costituisce una quota larga del giro d’affari annuale su scala mondiale relativo ai narcotici, che è stato stimato dalle Nazioni Unite essere dell’ordine dei 400-500 miliardi di dollari.    

 (Douglas Keh, “Drug Money in a Changing World – Denaro dalla droga in un mondo che cambia”, Documento tecnico No. 4, 1998, Vienna UNDCP, p. 4. Vedere anche “United Nations Drug Control Program, Report of the International Narcotics Control Board for 1999 – Programma delle Nazioni Unite per il Controllo sulle Droghe, Rapporto della  Direzione per il Controllo Internazionale sui Narcotici ”, E/INCB/1999/1 Nazioni Unite, Vienna 1999, p. 49-51, e Richard Lapper, “UN Fears Growth of Heroin Trade – le Nazioni Unite temono lo sviluppo del traffico dell’eroina, Financial Times, 24 febbraio 2000). 

Sulla base dei dati del 2003, il traffico di droga costituisce “il terzo più importante commercio globale in termini di denaro contante dopo il commercio del petrolio e delle armi ." (The Independent, 29 febbraio 2004). 

L’Afghanistan e la Colombia (con la Bolivia e il Perù) costituiscono i più grossi sistemi economici di produzione della droga nel mondo, che alimentano una florida economia criminale. Questi paesi sono pesantemente militarizzati. Il traffico di droga viene protetto. Un’ampia documentazione denuncia che la CIA ha giocato un ruolo centrale nello sviluppo dei triangoli della droga, sia nell’America Latina che in Asia. Il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha valutato che nel complesso il denaro sporco riciclato si aggira fra i 590 e i 1500 miliardi di dollari all’anno, che rappresentano il  2-5 % del Prodotto Interno Lordo mondiale. (Asian Banker, 15 agosto 2003).
Viene stimato dall’IMF che una grande percentuale del denaro sporco riciclato mondialmente viene collegato al traffico dei narcotici, un terzo del quale viene collegato al triangolo dell’oppio della  Mezzaluna d’Oro.  

Michel Chossudovsky è collaboratore costante di Global Research. Professore di Economia all’Università di Ottawa, è autore di "La Globalizzazione della Povertà", seconda edizione, 
Common Courage Press, 2001,  di “War and Globalization – Guerra e Globalizzazione”, di “The Truth behind September 11 – La verità dietro l’11 settembre” .

© Copyright Michel Chossudovsky, Global Research, 2007

L’indirizzo url di questo articolo è: www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=20070604&articleId=5514 

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Perché la legalizzazione dell’oppio Afgano a scopi terapeutici è un’idea destinata al fallimento  

L’idea di legalizzare le coltivazioni di papavero da oppio dell’Afghanistan per uso terapeutico è riapparsa fra le notizie di questa settimana. Secondo l’“Independent on Sunday”(IOS), ora Tony Blair sta “prendendo in considerazione” il piano che era stato respinto dagli USA ed anche dal Ministero degli Esteri. Anche se lo IOS ce l’ha messa tutta per glorificarsi per i suoi recenti ed estesi servizi sulle droghe, evidentemente questa storia vede la sua fonte nel portavoce del Primo ministro, cosicché non esistono ragioni perché non sia vera.                                                                     Un altro articolo nel Pachistano “ Daily Times” ha affermato  che anche la NATO apertamente stava“prendendo in considerazione” il progetto.
Non è il caso di sorprenderci che questo piano venga preso per lo meno in considerazione.  L’Afghanistan è, come sempre, lacerato dal caos e dalla guerra: gli sforzi attuali di affrontare il traffico illegale di oppio sono chiaramente falliti in modo teatrale. Aggiungiamo a questo il fatto che tutti sanno che i piani di estirpazione proposti sono irrimediabilmente impraticabili ed non hanno alcuna possibilità di successo, e comunque vi può essere una potenziale apertura per prendere in considerazione soluzioni più radicali. Sfortunatamente “considerare” non è “fare”. Quando verrà preso in “considerazione” questo progetto, si riscontrerà che nella sua forma attuale il piano corrisponde ad un’idea destinata a fallire.                                                                                                   Di seguito viene riportato un articolo che appare nel Druglink magazine  di questo mese, in cui si danno le ragioni di tutto questo.

Campi di sogni

Il progetto di Senlis Council di autorizzare la produzione di oppio Afgano a scopo terapeutico ha raccolto molta pubblicità ed appoggi ad alto livello, il più recente dal BMA, l’Ordine dei Medici Britannico. Può questo piano costituire una “pallottola d’argento”, nello stesso tempo curando le ferite dell’Afghanistan e fornendo una soluzione alla “crisi mondiale della sofferenza”? Purtroppo no, argomenta Steve Rolles della “Transform Drug Policy Foundation”.

Almeno superficialmente, questa idea esercita una grande attrazione. Al presente, più della metà della produzione mondiale di oppio è legale ed autorizzata per il mercato farmaceutico (morfina, diamorfina, codeina). Questa produzione non genera profitti criminali, non alimenta conflitti, o non viene venduta ai tossicomani agli angoli delle strade. Noi abbiamo la possibilità di aiutare l’Afghanistan sul cammino verso la sua stabilità economica e politica, e collegare questo al problema dell’evidente diminuzione di richiesta di oppiacei per uso terapeutico per il controllo del dolore? Sfortunatamente no – questa soluzione, che sembra essere una “pallottola d’argento”, deve far fronte ad un insieme di ostacoli di ordine pratico e politico che la rende quasi completamente inattuabile.
Per prima cosa, la “carenza” di oppio ad uso terapeutico è del tutto fittizia. Attualmente, la produzione di oppio legale avviene principalmente in Tasmania, Turchia e in India, sotto lo stretto controllo di agenzie delle Nazioni Unite sulle droghe. Evidentemente, il problema non è dato da una penuria di oppio, ma piuttosto da un sottoutilizzo della produzione attuale. L’INCB, International Narcotics Control Board, la Direzione per il Controllo Internazionale sui Narcotici ha valutato che la domanda mondiale annuale di oppiacei legali (equivalenti in morfina) era di 400 tonnellate metriche e che la sovrapproduzione, dal 2000, aveva permesso di stoccare quantità “che potevano coprire la domanda mondiale per due anni”. La produzione annuale in Afghanistan corrisponde a 610 tonnellate di equivalenti a morfina ( ed è in aumento).  Inondare un mercato già sovra saturo potrebbe potenzialmente provocare esattamente lo sbilanciamento domanda/offerta che il sistema di controllo dell’ONU aveva come obiettivo di prevenire. Quindi, qualsiasi primo intervento dovrebbe avere lo scopo di indirizzare ad una produzione inferiore rispetto a quella attuale e a ben ponderare sulle problematiche attinenti, politiche, burocratiche e legali, prima di prendere seriamente in considerazione una qualche possibilità realistica di legalizzazione della produzione Afgana. 
Il secondo problema è assolutamente di ordine pratico rispetto alla fallimentare situazione in Afghanistan, zona di guerra che presenta ostacoli insormontabili. Sebbene questa transizione dall’illecito al lecito sia stata realizzata in Turchia ed in India, questa ha richiesto un alto livello di investimenti infrastrutturali, l’intervento statuale e apparati di sicurezza, istituzioni delle quali                 l’Afghanistan è interamente carente, visto il suo stato attuale caotico e senza legge. La produzione Afgana dovrebbe anche lottare per competere sui mercati internazionali, con i suoi costi per unità valutati da David Mansfield (1) almeno dieci volte più alti della produzione industrializzata Australiana, la più cara in assoluto. 
Per ultimo vi è il fatto che la richiesta di oppiacei per uso non terapeutico non si annullerà, anche se per ipotesi venisse meno la produzione di oppio Afgano. Rimarrebbe sempre l’opportunità di profitti illeciti lucrativi – a coprire l’assenza della produzione Afgana inevitabilmente arriverebbero altre produzioni illecite – o dall’Asia Centrale o da altre parti. Più verosimilmente, la domanda verrebbe soddisfatta da un’aumentata produzione Afgana da parte degli stessi agricoltori, dei signori della guerra e dei profittatori, e potenzialmente la situazione diverrebbe peggiore.                      Il piano non ha più prospettive di portare a liberazione dalla produzione illecita di oppio per uso non terapeutico di quelle che per decenni hanno avuto uno sviluppo alternativo sempre fallito e l’estirpazione delle coltivazioni. Le brutali realtà economiche dell’offerta e della domanda nella piazza di un mercato completamente privo di regole ed illegale assicureranno tutto questo.                     Ad un certo momento, vi potrà essere posto per legalizzare su piccola scala l’oppio Afgano in futuro, sicuramente per necessità mediche domestiche e forse come parte di un piano di amnistia o come un programma di transizione per i contadini da indurre a coltivazioni alternative. Ma il piano Senlis, così come è stato immaginato attualmente, è un’idea destinata al fallimento - 'visioni da pallottola d’argento ' come lo definisce il TransNational Institute (2). Sanho Tree (membro dell’Istituto di Analisi Politiche di Washington DC) ha descritto il piano come "un’immagine speculare del proibizionismo – di buone intenzioni ma mal concepita, proprio dall’estremo opposto allo spettro politico ". Sebbene risulti senza dubbio proficua per stimolare un dibattito sulla produzione autorizzata di oppio, la proposta sta ora proiettando un’ombra  su un lavoro politico più meditato e cauto che sta impegnado altre Organizzazioni non Governative sulle politiche della droga. Per organizzazioni come “Transform” esiste ora un pericolo, che un tale progetto di “legalizzazione” ipergonfiato ma alla fine predestinato al fallimento sia potenzialmente una mina di un movimento di riforma che tenta di promuovere una ricerca meno pubblicizzata di modelli realistici per la produzione e la fornitura di droga secondo precise normative.    






No Bush-No War Day

Contro la guerra permanente di Bush
Contro l’interventismo militare del governo italiano
L'ultimo comunicato delle reti e delle organizzazioni promotrici della manifestazione nazionale del 9 giugno

 


Si terrà sabato 9 giugno il corteo convocato a Roma da un’ampia coalizione di reti, associazioni, sindacati di base, centri sociali forze politiche che hanno promosso il “No Bush-No War Day”. La manifestazione partirà alle ore 15 da piazza della Repubblica per arrivare fino a piazza Navona.  Si tratta di un primo importante risultato che consente di affermare il diritto all’agibilità politica del centro di Roma anche nel giorno della venuta di Bush. Non ci saranno quindi né “zone rosse” né blindature della città.
Sarà una manifestazione partecipata e popolare, pacifica e determinata, fortemente unitaria vista la pluralità di forze e di culture che ha saputo finora raccogliere – già oltre 200 le adesioni - e aperta a ogni tipo di contributo. Lo si evince dal tipo stesso di piattaforma – “contro la guerra permanente di Bush e contro l’interventismo militare del governo Prodi” – che raccoglie quanto seminato dal movimento contro la guerra degli ultimi anni. Un movimento che si è sempre trovato unito nel chiedere il ritiro delle truppe italiane dai fronti di guerra, che ha sempre contrastato l’aumento delle spese militari, che recentemente si è stretto attorno a Emergency continuando a chiedere la liberazione di Hanefi. Un movimento solidale con il popolo palestinese e con il suo diritto alla terra dopo quarant’anni di occupazione israeliana. Un movimento che contrasta l’avallo italiano allo scudo missilistico USA e che il 17 febbraio scorso ha manifestato compatto contro la decisione del governo italiano di autorizzare il raddoppio della base Usa a Vicenza. 
Pensare che un movimento che si riconosce contro la guerra “senza se e senza ma”, possa separare le responsabilità dell’amministrazione statunitense da quelle del governo del proprio paese, significa consegnarsi a un’idealità antiguerra in grado di riconoscere le responsabilità dell’unilateralismo armato ma muto di fronte alla guerra quando questa diventa multilaterale. 
Del resto, la stessa, recente, scelta del parlamento italiano di dare il via libera, senza nemmeno una votazione, al rafforzamento della missione in Afghanistan con l’invio di nuovi armamenti offensivi, dimostra la crucialità delle responsabilità italiane sullo scacchiere della guerra globale.
La piattaforma che indice il corteo del 9 è incentrata su questi temi: per questo è di per sé unitaria perché parla il linguaggio del movimento. Per queste ragioni la discuteremo nei prossimi giorni, a livello locale e nazionale, con chiunque ci si voglia confrontare seriamente e nel merito. Organizzeremo assemblee, dibattiti, forum e confronti nel migliore spirito che proviene dall’esperienza dei movimenti di massa di questi anni e con la convinzione che non ci siano rivendicazioni immediate più efficaci di queste per rilanciare il movimento contro la guerra come dimostra anche l’esperienza autorganizzata della Carovana contro la guerra. Organizzeremo comitati unitari con l’auspicio che restino sui territori anche dopo il 9 giugno per dare sostanza reale al movimento e farlo fuoriuscire dal solo coordinamento di soggettività organizzate. 
Manifesteremo in tanti, dunque, contro Bush e le politiche di guerra del governo italiano: invitiamo tutti e tutte a partecipare a questo corteo; altre polemiche non ci interessano. 
Altri vogliono manifestare su una piattaforma diversa che non contempli nessun riferimento al governo italiano: si tratta di una divergenza che non può essere nascosta vista la sua rilevanza; una divergenza che si manifesta negli obiettivi che perseguiamo: il ritiro immediato dall’Afghanistan, la revoca del Dal Molin, la revoca dello Scudo spaziale, la revoca degli F35, il taglio delle spese militari a favore di quelle sociali. 
Vogliamo infine che sia garantita la piena agibilità politica a Roma ma anche nella preparazione dei giorni precedenti. Crediamo che debba essere garantito il diritto a manifestare senza limitazioni già a partire dalle città da cui si prepara la mobilitazione. Per questo chiederemo con forza nei prossimi giorni alle Ferrovie italiane, e alle autorità politiche competenti, di farsene garanti.
Nel paese dei privilegi e dei costi della politica che sia almeno concesso il diritto di partecipare a una manifestazione nazionale.

per informazioni e adesioni :9giugnonobush@...