Informazione

GELLI: "E' FINITA PROPRIO COME DICEVO IO"


# 1. da La Repubblica online:

intervista a Gelli: "Guardo il Paese, leggo i giornali
e dico: avevo già scritto tutto trent'anni fa"

"Giustizia, tv, ordine pubblico
è finita proprio come dicevo io"

dal nostro inviato CONCITA DE GREGORIO

AREZZO - Son soddisfazioni, arrivare indenni a quell'età e godersi il
copyright. "Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci
della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese,
leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco,
pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia,
la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa". Tutto nel
piano di Rinascita, che preveggenza. Tutto in quelle carte sequestrate
qui a villa Wanda ventidue anni fa: 962 affiliati alla Loggia. C'erano
militari, magistrati, politici, imprenditori, giornalisti. C'era
l'attuale presidente del Consiglio, il suo nuovo braccio destro al
partito Cicchitto: allora erano socialisti.

Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del paese. "Se le
radici sono buone la pianta germoglia. Ma questo è un fatto che non ha
più niente a che vedere con me". Niente, certo. Difatti quando parla di
Berlusconi e di Cicchitto, di Fini di Costanzo e di Cossiga lo fa con
la benevolenza lieve che si riserva ai ricordi di una stagione
propizia. Sempre con una frase, però, con una parola che li fissa senza
errore ad un'origine precisa della storia.

Quel che rende Licio Gelli ancora spaventosamente potente è la memoria.
Lo si capisce dopo la prima mezz'ora di conversazione, atterrisce dopo
due. Il Venerabile maestro della Loggia Propaganda 2 è in grado di
ricordare l'indirizzo completo di numero civico della prima casa romana
di Giorgio Almirante, l'abito che indossava la sua prima moglie quel
giorno che gli fece visita a Natale, i nomi dei tre figli di Attilio
Piccioni e da lì ricostruire nel dettaglio il caso Montesi che vide
coinvolto uno dei tre, ricorda il numero di conto corrente su cui fece
quel certo bonifico un giorno di sessant'anni fa, la targa della
camionetta di quando era ufficiale di collegamento col
comando nazista, quante volte esattamente ha incontrato Silvio
Berlusconi e in che anni in che mesi in che giorni, come si chiamava il
segretario di Giovanni Leone a cui consegnò la cartella coi 58 punti
del piano R, che macchina guidava, se a Roma c'era il sole quella
mattina e chi incontrò prima di arrivare a destinazione, che cosa gli
disse, cosa quello rispose.

Questo di ogni giorno dei suoi 84 anni di vita, attualmente archiviata
in 33 faldoni al primo piano di villa Wanda, dietro a una porta
invisibile a scomparsa. "Ogni sera, sempre, ho scritto un appunto del
giorno. Per il momento per fortuna non mi servono, perché ricordo
tutto. Però sono tranquillo, gli appunti sono lì".

Il potere della memoria, ecco. Il resto è coreografia: il parco della
villa che sembra il giardino di Bomarzo, con le statue le fontane i
mostri, la villa in fondo a un sentiero di ghiaia dietro a un convento,
le stanze con le pareti foderate di seta, i soffitti bassi di legno
scuro, elefanti di porcellana che reggono i telefoni rossi, divani di
cuoio da due da tre da sette posti, di velluto blu, di raso rosa, a
elle e a emiciclo, icone russe, madonne italiane, guerrieri d'argento,
pupi, porcellane danesi, un vittoriano buio con le imposte chiuse al
sole di settembre, scale, studi, studioli, sale d'attesa coi vassoi
d'argento pieni di caramelle al limone. Ma lei vive qui da solo?. "Sì
certo solo". E questi rumori, le ombre dietro le porte di vetro
colorato? "La servitù".

Commendatore, gli sussurra una segretaria pallida porgendogli un
biglietto: una visita. "Mi scusi, mi consente di assentarmi un attimo?
E' un vecchio amico".

Gelli è in piena attività. Riceve in tre uffici: a Pistoia, a
Montecatini, a Roma. Oltre che in villa, naturalmente, ma fino ad
Arezzo si spingono gli intimi. Dedica ad ogni città un giorno della
settimana. A Pistoia il venerdì, di solito. A Roma viene il mercoledì,
e scende ancora all'Excelsior. Le liste d'attesa per incontrarlo sono
di circa dodici giorni, ma dipende. Per alcuni il rito è abbreviato.
Al telefono coi suoi segretari si è pregati di chiamarlo "lo zio": "La
regola numero uno è non fare mai nomi ? insiste l'ultimo di una serie
di intermediari ? Lei non dica niente, né chi la manda né perché. La
richiameranno. Quando poi lo incontra vedrà: è una persona squisita.
Solo: non gli parli di politica". Di poesia, vorrebbe si parlasse:
perché Licio Gelli da quando ha ufficialmente smesso di lavorare alla
trasformazione dell'Italia in un Paese "ordinato secondo i criteri del
merito e della gerarchia", come lui dice, "per l'esclusivo bene del
popolo" ha preso a scrivere libri di poesia, ovviamente premiati di
norma con coppe e medaglie, gli "amici" nel '96 lo hanno anche
candidato al Nobel.

"Vorrei scivolare dolcemente nell'oblio. Vedo che il mio nome compare
anche nelle parole crociate, e ne soffro. Vorrei che di me come
Venerabile maestro non si parlasse più. Siamo stati sottoposti a un
massacro. Pensi a Carmelo Spagnolo, procuratore generale di Roma, pensi
a Stammati che tentò di uccidersi. E' stata una gogna in confronto alla
quale le conseguenze di Mani Pulite sono una sciocchezza. In fondo Mani
pulite è stata solo una faccenda di corna.
Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque,
peggio di prima? Prima si prendeva facciamo il 3 per cento, ora il 10.
Io non ho mai fatto niente di illegale né di illecito. Sono stato
assolto da tutto. Le mie mani, eccole, sono nette di oro e di sangue".

Assolto da tutto non è vero, dev'essere per questo che lo ripete tre
volte e s'indurisce. Indossa un abito principe di Galles, cravatta di
seta, catena d'oro al taschino, occhiali con montatura leggerissima,
all'anulare la fede e un grosso anello con stemma. Questo avrebbe detto
dunque a Montecatini, a quel convegno a cui l'hanno invitata e poi non
è andato? Dicono che Andreotti l'abbia chiamata per dissuaderla. "E'
una sciocchezza. Andreotti non è uomo da fare un gesto simile. Si vede
che lei non lo conosce".

Senz'altro lei lo conosce meglio. "Se Andreotti fosse un'azione
avrebbe sul mercato mondiale centinaia di compratori. E' un uomo di
grandissimo valore politico". Come molti della sua generazione.
"Molti, non tutti. Cossiga certamente. Non Forlani, non aveva spina
dorsale. Naturalmente Almirante, eravamo molto amici, siamo stati nella
Repubblica sociale insieme. L'ho finanziato due volte: la seconda per
Fini. Prometteva molto, Fini. Da un paio d'anni si è come appannato".
Forse un po' schiacciato dalla personalità di Berlusconi.
"Può darsi. Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già
allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa
caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare.
Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni".

Vi sentite ancora? "Che domanda impertinente. Piuttosto. L'editore
Dino, lo conosce?, ha appena ripubblicato il mio primo libro: Fuoco!
E' stata la mia opera più sofferta, anche perché ha coinciso con la
morte di mio fratello nella nostra guerra di Spagna. E' un edizione
pregiata a tiratura limitata, porta in copertina il mio bassorilievo in
argento. Ci sono due altri solo autori in questo catalogo: il Santo
padre, e Silvio Berlusconi". Anche Berlusconi col bassorilievo
d'argento? "Certo, guardi". Il titolo dell'opera è "Cultura e valori di
una società globalizzata". Pensa che Berlusconi abbia saputo scegliere
con accortezza i suoi collaboratori? "Credo che in questa ultima fase
si senta assediato. E' circondato da persone che pensano al "dopo". Non
si fida, e fa bene.

E' stato giusto bonificare il partito, affidarlo a un uomo come
Cicchitto. Cicchitto lo conosco bene: è bravo, preparato". Il
coordinatore sarebbe Bondi in realtà. "Sì, d'accordo. Credo che anche
Bondi sia preparato. E' uno che viene dalla disciplina di partito".
Comunista. "Non importa. Quello che conta è la disciplina e il
rispetto della gerarchia". Ha visto il progetto di riordino del
sistema televisivo? "Sì, buono". E la riforma della giustizia? "Ho
sentito che quel Cordova ha detto: ma questo è il piano di Gelli. E
dunque?

L'avevo messo per scritto trent'anni fa cosa fosse necessario fare.
Leone mi chiese un parere, gli mandai uno schema in 58 punti per il
tramite del suo segretario Valentino. Pensa che chi voglia assaltare il
comando consegni il piano al generale nemico, o al ministro
dell'Interno? Ma comunque non è di questo che vogliamo parlare, no?
Vuole anche lei avere i materiali per scrivere una mia biografia?
Arriva tardi: ho già completato il lavoro con uno scrittore di gran
fama". Su una poltrona è appoggiato l'ultimo libro di Roberto Gervaso.
La scrive con Gervaso? "Ma no, ci vuole una persona estranea ai fatti.
Se vuole le mostro lo scaffale con le opere che mi riguardano, le ho
catalogate: sono 344". Certo: il burattinaio è un soggetto
affascinante. "Andò così: venne Costanzo a intervistarmi per il
Corriere della sera. Dopo due ore di conversazione mi chiese: lei cosa
voleva fare da piccolo. E io: il burattinaio. Meglio fare il
burattinaio che il burattino, non le pare?".

Sembra che ce ne siano diversi di burattinai in giro ultimamente. "Il
burattinaio è sempre uno, non ce ne possono essere diversi". E adesso
chi è? "Adesso? Questa è una classe politica molto modesta, mediocre.
Sono tutti ricattabili". Tutti? Mettiamo: Bossi. "Bossi si è creato la
sua fortezza con la Padania, ha portato 80 parlamentari è stato bravo.
Ma aveva molti debiti... Per risollevare il Paese servono soldi, non
proclami. Ho sentito che Berlusconi ha invitato gli americani a
investire in Italia: ha fatto bene, se qualcuno abbocca?

Ma la situazione è molto seria. L'economia va malissimo, l'Europa è
stata una sventura. Non abolire le barriere, bisognava: moltiplicarle.
Fare la spesa è diventato un problema, il popolo è scontento. Serve un
progetto preciso". Per la Rinascita del Paese. "Certo". C'è il suo:
certo forse i 900 affiliati alla P2 erano pochi. "Ma cosa dice,
novecento persone sono anche troppe. Ne bastano molte meno". Allora
quelle che ci sono ancora bastano, tolti i pentiti. "Nessuno si è
pentito. Pentiti? A chi si riferisce? Costanzo, forse. L'unico. Con
tutto quello che ho fatto per lui. Guardi: io non devo niente a nessuno
ma tutti quelli che ho incontrato devono qualcosa a me. Ci sono dei
ribelli a cui ho salvato la vita, ancora oggi quando mi incontrano mi
abbracciano". Ribelli? "Sì, i ribelli che stavano sulle montagne, in
tempo di guerra. Io ero ufficiale di collegamento fra il
comando tedesco e quello italiano. Ne ho salvati tanti". Intende
partigiani. "Li chiami come crede. Eravamo su fronti opposti, ma quando
sei di fronte ad un amico non c'è divisa che conti.

L'amicizia, la fedeltà ad un amico viene prima di ogni cosa".
L'amicizia, sì. La rete. Cossiga l'ha citata giorni fa, in
un'intervista. Ha detto: chiedete a Gelli cosa pensava di Moro. "Da
Moro andai a portare le credenziali quando ero console per un paese
sudamericano. Mi disse: lei viene in nome di una dittatura, l'Italia è
una democrazia. Mi spiegò che la democrazia è come un piatto di
fagioli: per cucinarli bisogna avere molta pazienza, disse, e io gli
risposi ?stia attento che i suoi fagioli non restino senz'acqua,
ministro'". Anche in questo caso tragicamente profetico, per così dire.
Lei cosa avrebbe fatto, potendo, per salvare Moro? "Non avrei fatto
niente. Era stato fascista in gioventù, come Fanfani del resto, ma poi
era diventato troppo diverso da noi. Lei ha visto il film sul delitto
Moro?" Quello di Bellocchio? "No, l'altro. Quello tratto dal libro di
Flamigni.

Ma le pare che si possa immaginare un agente dei servizi segreti che
con un impermeabile bianco va a controllare sulla scena del delitto se
è tutto andato secondo i piani?". Gli agenti dei servizi sono più
prudenti? "Lei conosce Cossiga? Proprio una bravissima persona. E poi
un uomo così colto, uno capace di conversare in tedesco. Un uomo puro,
un animo limpido. Dopo la morte di mia moglie mi mandò un biglietto:
"Ti sono vicino nel tuo primo Natale senza di lei", capisce che
pensiero? Vorrebbe farmi una cortesia? Se lo incontra, vuole porgergli
i miei ricordi, e i miei saluti?".

(28 settembre 2003)


# 2. da l'Unità online, 29.09.2003

Sotto il cappuccio, il governo Berlusconi

di Natalia Lombardo

Gongola il Venerabile, nel vedere che il suo Piano di Rinascita scritto
nel '75 si sta realizzando grazie al governo Berlusconi, che della
Loggia P2 fu uno dei 962 iscritti. «La giustizia, la tv l'ordine
pubblico, avevo scritto tutto trent'anni fa», si compiace il Gran
Maestro massone, che quasi quasi ne vorrebbe anche i «diritti
d'autore»: «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che
tutto si realizza pezzo a pezzo». Che la mappa delle riforme varate
oggi dal governo, sulla Giustizia e sull'indebolimento della Rai per
favorire i privati, sulla gestione repressiva dell'ordine pubblico
(vedi Genova), fosse ricalcata dalle carte di Gelli lo denunciò già
l'Unità il 23 novembre 2001: «Stanno realizzando il piano della Loggia
P2», titolava il nostro quotidiano. Così il «catenaccio»: «Le carte di
Gelli prevedevano: giudici sotto tutela, scuole ai privati, sindacati
esclusi, controlli in poche mani di affari e informazione».

Ieri sulla «Repubblica» un lungo colloquio con il Venerabile nella sua
magione aretina conferma quanto sostenuto da l'Unità. Il piano di
«Rinascita democratica» (si fa per dire), prevedeva la limitazione
dell'autonomia del Csm (ora Castelli va oltre, con il divieto per i
magistrati di esprimere la propria opinione); la responsabilità del
magistrato, la separazione delle carriere tra giudici e pm; la
sottomissione del pm all'esecutivo. Identica l'ispirazione: Gelli
voleva ricondurre la Giustizia «alla sua tradizionale funzione di
equilibrio della società e non già di eversione» (allora si indagava
sulle Stragi di Stato); per Berlusconi i magistrati sono sovversivi se
non «pazzi».

Ma anche sull'informazione la Legge Gasparri, che da mercoledì si vota
alla Camera a tempi contratti, sembra fotocopiata dal Venerabile piano:
stampa e settimanali sotto il controllo di gruppi di giornalisti fidati
attraverso operazioni editoriali, la cancellazione della Rai per
favorire le concentrazioni private in nome della libertà di antenna.
Pochi anni dopo l'impero mediatico berlusconiano prendeva corpo.
Ancora, la P2 prevedeva la scissione dei sindacati («Fatto», recitava
lo slogan di Fi nel '94), l'abolizione dello sciopero e mano libera
alla polizia contro «teppisti ordinari e pseudo politici». Gelli
immaginava inoltre due schieramenti politici e l'acquisto della Dc per
10 miliardi.

Il Maestro di lobby si sentiva il Gran Burattinaio, ora lamenta la
mancanza di eredi: «Oggi c'è una classe politica modesta, mediocre,
sono tutti ricattabili». Fra questi ci mette Bossi: «Ha portato ottanta
parlamentari, è stato bravo. Ma aveva molti debiti... Per risollevare
il Paese servono soldi, non proclami». E qualcuno deve aver aiutato il
Senatur, del quale Gelli sembra condividere l'idea di rimettere i dazi
e l'odio per l'Europa («una sventura»). È scettico, invece, sugli
inviti di Berlusconi agli americani: venite a investire in Italia...
«Ha fatto bene, se qualcuno abbocca...».

Nella striscia rossa de l'Unità, nel 2001, la frase di Gelli appare
oggi come una profezia: «Se le circostanze permettono di contare
sull'ascesa al governo di un gruppo in sintonia con lo spirito dei club
e con le sue idee, allora è chiaro che si può attuare subito il
programma di emergenza». Parole tratte dal Piano sequestrato dalla GdF
nell'81, scoperto nel doppiofondo della valigia della figlia Maria
Grazia. Fu scritto nel 1974-'75 per bloccare l'ascesa del Pci di Enrico
Berlinguer (quasi al 30%) e la sua idea del compromesso storico portata
avanti da Aldo Moro («servirebbe anche oggi», pensa Andreotti).

Nel «club», la Loggia Propaganda 2, erano affiliati impreditori,
politici, militari, giornalisti (Costanzo l'unico «pentito»). L'attuale
premier aveva la tessera n. 625; Fabrizio Cicchitto, allora giovane
socialista lombardiano, la numero 945. A lui ora Berlusconi ha affidato
le redini di FI, come vice di Bondi.


# 3. da "La Repubblica", 30/09/2003

"Ha vinto Gelli, l'uomo del ricatto la nostra battaglia è stata inutile"

Tina Anselmi: su Rai e riforme hanno attuato il piano della P2

CONCITA DE GREGORIO

ROMA - «Gelli ha una scatola nera per ciascuno di quelli con cui è
entrato in relazione. Ha sempre lavorato così: sul ricatto. Anche
adesso: dice, non dice, manda a dire. Sono messaggi obliqui che
arrivano a chi devono arrivare. In un punto sono d'accordo con lui:
nessuno degli affiliati alla P2 si è pentito. Sono ancora tutti lì, uno
è diventato presidente del Consiglio».
In questo momento è in tv che parla di pensioni a reti Rai unificate.
«La Rai ormai è ridotta a questo: un megafono del governo. Diceva il
piano di Rinascita di Gelli: "Dissolvere la Rai -tv in nome della
libertà di antenna, impiantare tv via cavo a catena in modo da
controllare la pubblica oPinione media nel vivo del paese” . Non è
forse quello che è successo?».

Tina Anselmi, staffetta partigiana della Resistenza, parlamentare dc
dalla quinta alla decima legislatura, tre volte ministro, ha dedicato
cinque anni della sua vita ad indagare su Licio Gelli e sulla Loggia
massonica P2.

«La commissione d'inchiesta ci ha impegnati a tempo pieno dal 1981 al
1985. Quando dico tempo pieno intendo che non abbiamo praticamente
fatto altro giorno e notte. Non di rado mi congedavo dai commissari
alle due del mattino per ritrovarli lì sui banchi poche ore dopo. E'
anche per questo che quando leggo le parole di Gelli su Repubblica,
oggi, mi assale lo sconforto».

Sconforto per il tempo dedicato ad una battaglia persa?

«inutile, direi. Tanto lavoro d'indagine, tanti buoni risultati, ne
emergeva una trama cosi chiara: eppure non gli è stato dato alcun
seguito. Il parlamento aveva avuto mandato di togliere il segreto alla
massoneria: rendere visibile un'attività svolta nella segretezza. Non
lo ha mai fatto: non ha mai scritto le leggi di applicazione del
principio costituzionale che non ammette società segrete. Ci sarebbe
ancora tanto lavoro da fare, ma dubito che oggi lo si faccia».

Perché dubita?

«Ma se non è stato fatto finora, si figuri se lo faranno un governo e
una maggioranza parlamentare costellate di ex affiliati alla loggia.
Purtroppo Gelli ha ragione a vantare i diritti d'autore sulle riforme.
Si ricorda cosa diceva il piano di Rinascita?»

In quale punto?

«Quando parla dei tempi delle riforme. Diceva: "Qualora le circostanze
permettessero di contare sull'ascesa al Governo di un uomo politico (o
di una equipe) già in sintonia con lo spirito del club e con le sue
idee di “ripresa democratica”, è chiaro che i tempi dei procedimenti
riceverebbero una forte accelerazione". Difatti hanno avuto
un'accelerazione fortissima».

Che ricordi ha dei politici iscritti alla P2 sentiti in commissione?

«Molto precisi. Li sentimmo tutti, ovviamente. Berlusconi no, allora
era un semplice imprenditore. Però leggo che oggi ha affidato il suo
partito a Cicchitto: lui fu sentito. Ricordo che ebbe anche un diverbio
con Bozzi, il liberale Bozzi».

A che proposito?

«Cicchitto disse di essersi affiliato alla P2 perché attraversava una
fase politica e personale molto delicata. Disse che si sentiva
sommamente insicuro, che aveva qualcuno che lo seguiva come un'ombra.
Raccontò di aver parlato del suo disagio con alcuni compagni di partito
che gli suggerirono questo: "Se vuoi liberarti di quell'incubo
persecutorio vai da Gelli". Così fece. Racconta che Gelli gli
raccomandò di stare tranquillo, che lo avrebbe liberato da quella
persona. Infatti, disse Cicchitto, se ne liberò».

E il diverbio?

"Bozzi si spazientì molto. Gli chiese: ma scusi, lei è un parlamentare,
un alto dirigente del suo partito: è possibile che se percepisce un
pericolo anziché rivolgersi alle autorità, nelle sedi istituzionali,
vada da Gelli? Cicchitto rispose: io ero convinto, in quel periodo, che
la politica fosse in mano ai banditi. Disse proprio cosi: 'banditi'.
Bozzi la trovò una spiegazione inaccettabile».

Quale crede che fosse il reale obiettivo del Piano di Rinascita?

«Gelli e i suoi affiliati volevano controllare il potere e chi lo
gestiva».

Il Venerabile della P2 ripete dl essere stato assolto dalle accuse.

«Bisogna guardare bene i capi d'accusa, e di conseguenza le assoluzioni
da quelle accuse. Non è stata approfondita la materia, in sede
d'inchiesta. Noi d'altra parte non eravamo una commissione giudicante».

Lei crede che la P2 abbia costituito un reale pericolo per la
democrazia?

«Lo credevo e lo credo. Non penso affatto che il pericolo sia cessato.
Gli esponenti della P2 sono, per stessa ammissione di Gelli, molti più
di quei mille nomi scarsi che furono trovati negli elenchi sequestrati
ad Arezzo e a Castiglion Fibocchi. Molte di queste persone sono
insediate in tavoli chiave dello Stato. Hanno fatto carriere brillanti
e continuano a farne. Dopo vent'anni sono ancora tutti lì».

Antidoti?

«Bisognerebbe che reagisse la parte sana dello Stato, che l'organismo
democratico desse un segnale di vitalità. Bisognerebbe. Io non perdo la
fiducia».

INTERVISTA A GORAN BABIC, poeta, intellettuale croato, nato nell'isola
di Vis, formatosi a Zagabria, protagonista di un'elegante poesia in
polemica giornalistica. Attualmente vive da rifugiato a Belgrado.

(pubblicata nel "Dossier Jugoslavia" su Nuova Unità del mese di
dicembre 1996)

D. Come si definisce, profugo politico o emigrante?

R. Non mi definisco in nessuno dei due modi. Mi sono sempre sentito
jugoslavo, cittadino di una terra, di una realtà che mi sembrava
indistruttibile, ed ancora la sento così a livello emotivo. Ma per
quanto riguarda la situazione attuale, questa terra è distrutta e come
tale non esiste più. Dunque, sono cittadino di uno stato che non
esiste. La mia terra era il risultato di un processo storico, ed è
sparita come risultato di circostanze storiche. Usando la storia come
criterio, vediamo che ciò è avvenuto a molti stati che hanno condiviso
lo stesso passato. Sono scomparse nazioni, popoli... ma se parliamo
razionalmente, esistono anche delle emozioni...

A questo proposito, vorrei citare qualche frase dal mio libro "Il
cimitero d'Europa": "Che l'idea dello jugoslavismo arrivi dal lontano
passato è indiscutibile (...) Ogni lettore dovrebbe almeno sapere che
l'idea dell'unificazione degli slavi e dell'etnia slava del sud è molto
antica, non si può neanche dire esattamente quanto. Questa è una tesi
di grande importanza, perché ci sono molto ignoranti che ritengono
l'unificazione vecchia solo di una settantina d'anni, e cioè tanto
quanto l'edificio jugoslavo. Lo stesso tempo sono durati, se non
sbaglio, i papi ad Avignone, ma nessuna persona intelligente, oggi,
mette in dubbio l'esistenza ulteriore della Chiesa Romana. Il Vaticano
ha attraversato nella sua lunga storia innumerevoli crisi, ha ceduto a
debolezze e si è macchiato di vergogne come nessuna creatura di Dio, ed
eccolo oggi vitale e forte più che mai..."

D. Lei proviene da una ex-repubblica jugoslava. Cosa pensa dell'esodo
dei profughi serbi dalla Krajina? Sembra che l'Occidente non veda o non
voglia vedere, e finge di non capire che la Croazia è uno stato
genocida, come lo era nel 1941...?

R. Non ho messaggi da lanciare, né spetta a me lanciarne. Però esiste
un problema e io ho la mia opinione al riguardo. Che l'Occidente veda o
non veda, per ogni persona intelligente è chiaro che l'Occidente vede.
Non solo vede, ma sa tutto. Sa molto di più della gente di media
cultura. Ed è oltretutto colpevole e corresponsabile per quello che è
successo. Perché senza la sua complicità, senza la sua intenzione e
volontà non sarebbe successo tutto questo.

D. Ho letto una sua intervista, in cui lei conclude dicendo: "...
Europa, culla la tua creatura, questo tuo mostro neonato (la Croazia)!".

R. Anche prima di Tudjman l'Europa ha conosciuto un fenomeno simile. Si
chiamava la Spagna di Franco, e l'ha cullata finché le è servito,
finché ha trovato il modo di difenderla. Quando non ha potuto farlo
più, l'Europa si è sbarazzata di Franco molto presto, elegantemente.
L'Europa risolve tutti i suoi problemi con facilità. Però non sono
sicuro che risolverà facilmente questo problema. Qui nei Balcani ha
causato una guerra che durerà a lungo.

Ma per continuare con la seconda domanda, l'Europa naturalmente sa
molto. A Zagabria ero abbonato a una rivista sulla natura, seguivo una
scienza che non era proprio di mia competenza. Mi interessavo allora
concretamente di altre cose. Ho notato però un dettaglio: per un
centinaio d'anni, i Tedeschi hanno esplorato tutte le nostre montagne,
la flora, la fauna. Disegnavano le carte topografiche che noi non
avevamo. Le studiavano attentamente, e perciò anche in questo sapevano
più di noi stessi. Se già allora sapevano della nostra Patria anche più
di noi, se oggi conoscono la composizione dei nostri minerali, le
materie prime, le piante, gli animali, allora conoscono anche gli
uomini. In ogni caso, ho citato questo solo per far capire che
senz'altro sono informati di ciò che sta succedendo qui. Un'altra cosa
è quali sono i loro interessi e cosa vogliono. Su questo possiamo fare
delle supposizioni, tenendo presente il loro interesse generale. Ed io
penso che, se da una parte ciò porta loro dei vantaggi, dall'altra
comporta anche dei danni. Se questi danni si potranno notare subito o
tra qualche tempo, lo vedremo. Neanche questa guerra conviene più,
perché qualcosa sta cambiando in Europa. Non penso che questa guerra
possa in qualche modo allargarsi, danneggiando l'Europa militarmente,
ma la disturba per vari motivi: civili, tecnologici... Non possono
viaggiare liberamente in Medio Oriente come facevano prima.

Molto hanno avuto in ritorno con la produzione e la vendita d'armi. In
questo senso hanno guadagnato. Non guadagneranno in nessun altro modo,
almeno per un periodo... Molti hanno perso la simpatia in questi
territori, la stima... Per esempio, la società nella quale ora vivo
aveva da una decina d'anni una certa inclinazione e simpatie
filoamericane. Ora questo atteggiamento l'hanno perso, e non credo che
in un futuro prossimo lo riconquisteranno. Per quanto riguarda l'umore
verso i tedeschi, essi erano malvisti da sempre (o quasi) nei Balcani,
"grazie" anche ai loro interessi. Trovo molto stupido ciò che stanno
facendo ora. Guardando a lungo termine, non so se gli conviene.

D. Forse una domanda superflua. Cosa pensa dell'ultimo grave episodio
riguardo i profughi serbi espulsi dalla Krajina, fatti oggetto di
lancio di pietre, di insulti, di maltrattamenti da parte della
popolazione croata...?

R. La cosa non mi ha stupito. Di recente ho girato un film-documentario
sul campo di sterminio di Jasenovac. Uno dei superstiti descrive ciò
che accadeva nel lager: quando prelevarono un gruppo di prigionieri
serbi per trasferirli ad Osijek, a lavorare nei campi, anche in quella
occasione essi furono oggetto di lancio di pietre. Perciò quanto è
accaduto giorni fa non è niente di nuovo. Quella stessa "coscienza"
nazifascista è ancora viva.

D. Parlando di film, ha visto l'ultima opera di Kusturica
"Underground"? Trova in questo film una convinzione, un messaggio
politico...?

R. Io non guardo i film come espressione di un pensiero politico,
perché se dobbiamo giudicare così le opere artistiche, siano essi film,
musica, letteratura, o qualunque altra cosa, il balletto... alla fine
della storia noi staremo sicuramente vagando, perché l'arte e la
politica non usano lo stesso linguaggio. Sono due cose diverse che qui
e là si avvicinano, si intrecciano, non so... si ospitano a vicenda. E
così come ritengo che la politica non abbia nulla da cercare nell'arte,
ritengo che l'arte non abbia competenza nel campo della politica...

D. Qualcuno però considera questo film, almeno per ciò che riguarda la
seconda parte, come un pugno allo stomaco della propria Patria.

R. Posso dire solo una cosa: "leggere" un'opera d'arte in questo senso
non porta ad una conclusione intelligente. Può portare solo a certe
conclusioni che ognuno grida in modo diverso. Non accetto assolutamente
un criterio così definito. Ritengo che non sia opportuno, che non
conduca a nulla, solo a degli errori. Il cinema ha i suoi criteri, le
sue leggi. Possiamo "processare" qualunque film, prendiamo per esempio
Rubljov. Cosa significa questo film politicamente? Niente? Invece,
secondo me, è uno dei migliori film mai girati. Non entrerei in questo
genere di discussione, non lo trovo utile... ti aiuta solo a perderti.

Per tornare al problema dell'Europa e tutto quello che sta succedendo
ora, penso che l'artefice principale di questi ultimi eventi, parlando
di persone singole, sia l'odierno Papa Wojtila, e dopo di lui il mondo
al quale appartiene...

D. Anche in Occidente si ritiene che sia lui uno dei primi
responsabili...

R. Sì, lui e il gruppo intorno a lui, Lakovski, Walesa, Caslav Milos,
Adam Misnik, e uno dei più importanti, Zbignjev Berzinski, ed altri. Si
sono trovati nel cuore della tempesta, per così dire. L'anello polacco
era il più debole del blocco orientale, e naturalmente l'Occidente ha
giocato su questo anello della catena. E ci è riuscito.

Questo richiederebbe un'approfondita analisi, e invece il mondo ne
parla poco. Ritengo che un'analisi corretta del fenomeno polacco possa
dare risposte intelligenti su quanto è avvenuto in Europa negli ultimi
15 anni, anche per ciò che rigurda la stessa Polonia, come ad esempio
l'ultima vittoria politica di una fragile sinistra, quando lo stesso
popolo cattolico polacco ha visto che la caduta del precedente regime
non aveva portato nessuna fortuna, né benessere. Dato che ho citato
Wojtila, dirò che egli non agiva solo su scala nazionale ridotta, ma su
una vasta scala mondiale. Lui ha portato dalla sua parte due cose
importanti, ma ha commesso anche due grandi errori. La storia, un
giorno, dimostrerà se dal suo "lavoro" ha ricavato più danno che
guadagno. Le due grandi cose sono: la distruzione del blocco
socialista, e lo ha fatto in modo totale; poi, per 15-16 volte ha
viaggiato in America Latina, per soffocare l'agitazione sociale, il
movimento di liberazione, quel cattolicesimo di sinistra che era
innanzitutto contro la dominazione americana. Wojtila è riuscito a
contenerlo. E qui ha fatto un gioco demagogico, come d'altronde ha
sempre fatto. E' riuscito a sconfiggere anche caricature di regimi,
cone quello di Pinochet: lo ha lasciato al comando dell'esercito, ma lo
ha tolto dalla carica di capo di stato, salvando così una facciata di
dogmatica democrazia, perché non si poteva nascondere il fatto che
Allende era stato democraticamente eletto e che veniva soffocato dal
golpe militare. E per 14 anni non ci sono state sanzioni politiche, non
c'è stato nulla di tutto quello che stanno facendo oggi. Per nascondere
ciò, loro si sono sbarazzati di questa dittatura, ma nello stesso tempo
hanno incaricato il Papa di portare avanti un'opera di pacificazione, e
lui l'ha fatto bene, insieme al Vaticano - non so come definire il
mondo a cui appartiene - la Santa Sede. Non sarò più preciso, non
voglio dare una definizione: forse il Papa appartiene a un movimento
planetario col quale agita il mondo, e lui è il protagonista di questo
grande gioco.

I due grandi errori, di cui non si conosce ancora la negatività, sono:
primo, ha sottovalutato l'Islam. Il Papa ha svolto il suo ruolo non
tenendo conto dell'Islam, non solo come religione, ma come filosofia
politica in espansione, che ha dietro di sé oltre un miliardo di
persone, e che ha dimostrato negli ultimi 15 anni una determinata
tendenza che il mondo occidentale dovrà affrontare. Credo che il
prossimo Papa - perché questo non durerà ancora a lungo - avrà molta
competenza in materia di Islam. Wojtila era un esperto di comunismo,
secondo il loro criterio. Ma neanche il prossimo Papa riuscirà a fare
molto per l'Europa.

D. Forse il cardinale Puljic...?

R. Sì, potrebbe, perché questa guerra nell'ex-Bosnia Erzegovina
dimostra una pessima convivenza tra croati cattolici e musulmani. La
comunità croata in Bosnia Erzegovina era composta di circa 700.000
persone. La maggior parte di essi sono sparsi. Altri 200.000 sono
rimasti in Erzegovina. Nel resto della Bosnia, la Croazia controlla
solo Kiseljak, e può succedere che perda anche quella. Dunque il
prossimo Papa dovrà conoscere l'Islam.

Il secondo errore di Wojtila è che ha portato la religione ortodossa a
diventare qualcosa di vivo, di attivo. Prima di questa nostra tragedia,
la chiesa ortodossa serba ha sempre avuto un carattere benigno,
passivo, non aggressivo, esisteva e basta. Viveva in un suo piccolo
mondo chiuso e non nutriva ambizioni terrene, né aveva la forza per
diventare un fattore importante. Mi pare che Zinovjev abbia detto:
"Miravamo al comunismo ed abbiamo colpito la Russia". Wojtila mirava al
comunismo e ha colpito l'ortodossia. Lo ha dimostrato adesso, il suo
approccio ecumenico non è fatto così, tanto per fare. Ha capito che è
stato un grande errore, perché lui non sarà messo in cattiva luce solo
oggi, ma anche in futuro, e ciò bloccherà la sua espansione nell'Est.

Quando tireranno il bilancio sul suo mandato, tra cose positive e cose
negative, sicuramente avranno un saldo negativo, perché così sarà
giudicato dal loro punto di vista. Figuriamoci dal nostro.

Belgrado, agosto 1955

Intervista raccolta da Ivan Pavicevac

I "CENTRI SOCIALI DEL NORD EST" DI NUOVO IN AZIONE


ALCUNI ANTEFATTI

Molti ricordano gli scontri avvenuti negli scorsi anni tra noi amici
della Jugoslavia e certi ambienti della ex Autonomia padovana, ambienti
che assumono svariate denominazioni a seconda dell'occorrenza ("Ya
basta", "Centri sociali del Nord Est", "Cantieri sociali", "Tute
bianche") ma sono sempre gli stessi personaggi guidati da Luca Casarini
e qualcun altro che gestisce Radio Sherwood ed i Centri Sociali "Pedro"
e "Rivolta".

Il 6 giugno 1999, nel corso di una manifestazione contro la guerra ad
Aviano, dopo svariate indimidazioni contro compagni "colpevoli" di
portare bandiere jugoslave nel corteo si arrivo' persino allo scontro
fisico.
Negli anni successivi, la tensione e' costantemente cresciuta tra i
"casariniani" ed il resto del movimento - non solo quello
antimperialista. I "casariniani", mentre si facevano notare in
molteplici occasioni per le loro sceneggiate di piazza organizzate
d'accordo con le forze dell'ordine e per lo spazio generosamente
concesso loro da tutti i media di regime, sono entrati in attrito
continuo non solo con i gruppi marxisti e leninisti, ma anche proprio
con il vasto movimento contro la guerra, quando ad esempio, nell'ultima
grande manifestazione romana in primavera, hanno autonomamente deciso
di dar fuoco ai Bancomat allo scopo di spaccare il movimento stesso e
far ritornare tutti a casa.

L'ULTIMA LORO PRODEZZA

Il prosindaco di Venezia Bettin, noto sostenitore dei suddetti, ed il
sindaco di Venezia Paolo Costa, con l'assenso -controfirmato-
dell'assessore all'ambiente Paolo Cacciari (PRC), decretano un
revisionistico cambio di nome a Piazzale Tommaseo a Marghera,
intitolato oggi ai "martiri delle Foibe". Il PRC indice una
manifestazione (ovviamente pacifica) ed espone uno striscione durante
la cerimonia con su scritto "Vergogna" contro il cambiamento
revisionistico. Vi partecipano anche i Comunisti Italiani, I Verdi
Colomba (Boato), i Cobas Scuola e la Rete Antirazzista.

I "Centri sociali del nordest" arrivano, minacciano e picchiano prima
la rappresentanza di Rifondazione, poi un gruppo di AN, intervenuto
ovviamente per motivi opposti, costituendo di fatto un servizio
d'ordine di picchiatori alla cerimonia revisionistica. Una provocazione
mirata, dunque, a rendere ingestibile la protesta di piazza, a
difendere con la violenza la scelta revisionistica di rinominare
Piazzale Tommaseo, ad intimorire quei settori del PRC che praticano
coerentemente la rivalutazione della memoria storica della Resistenza e
l'antifascismo.

COMUNICATO STAMPA

della federazione di Venezia del PRC sui gravi fatti di Marghera.

Marghera , 28/09/03

Una gravissima provocazione nei confronti di militanti di Rifondazione
Comunista di Venezia è stata attuata, in modo squadristico, da elementi
facenti riferimento al centro sociale Rivolta di Mestre. In particolare
un esponente della segreteria della federazione provinciale di Venezia
è stato aggredito a calci e pugni da quattro persone, mentre camminava
per strada da solo. All'origine dell'aggressione, il volantinaggio che
il circolo di Rifondazione Comunista di Marghera, assieme ad altri
soggetti politici, ai Cobas ed a semplici cittadini, aveva organizzato
per manifestare il proprio dissenso all'intitolazione di una piazza di
Marghera alle vittime dalmate e giuliane delle foibe. I picchiatori
hanno accusato i militanti di Rifondazione Comunista di essere a favore
delle foibe e dunque hanno sentenziato: "chi è per le foibe vada
infoibato". Ci pare che la gravità del fatto metta in evidenza la
pochezza politico culturale di questi personaggi che, agendo da
invasati, non discernono più nemmeno la differenza del discorso
politico: la censura di Rifondazione Comunista, politica e culturale,
con la tradizione poliziesca e stragista di talune esperienze del
socialismo del secolo scorso, è netta. Talmente netta da essere
tradotta in una pratica politica, coerente con l'esperienza del
movimento dei movimenti, disobbediente ed assolutamente non violenta.
Altrettanto non ci pare di poter dire per coloro che, in nome di
presunte verità assolute, adottano il metodo del pestaggio e
dell'intimidazione come metodo politico. Non abbiamo nulla a che fare
con le foibe, come non abbiamo nulla a che fare con i picchiatori da
qualunque parte dichiarino di collocarsi; condanniamo inoltre, "senza
se e senza ma", gli atti di vandalismo contro il municipio di Marghera
e le offese vigliacche contro esponenti di forze politiche che
consideriamo amiche, come i Verdi. Ciò non toglie che vogliamo
garantito il diritto di esprimere, sempre e comunque, il nostro assenso
o dissenso su tutte le questioni pubbliche. Anche in questa occasione,
quindi, rivendichiamo la nostra posizione politica contro la logica
delle foibe e dei gulag, dei processi politici e dell'aggressione
fisica del dissenso , ma, nel contempo, denunciamo la strumentalità di
riletture storiche parziali che, infine, non hanno reso giustizia né
alle migliaia di vittime di un'ingiustificabile vendetta, né, d'altro
lato, alla generosa lotta del popolo jugoslavo contro il nazismo ed il
fascismo.

Federazione Provinciale del Partito della Rifondazione Comunista Venezia

PESTAGGIO VIOLENTO, CINQUE IN OSPEDALE

(Tratto da La Nuova Venezia del 29 settembre 2003)

domenica 28 settembre 2003, da GR_Padova
Tafferugli all'inaugurazione del piazzale Martiri delle Foibe. Spaccata
la mandibola al consigliere De Simone, pugni anche a Rifondazione
Giovani di An intrappolati e picchiati in via Kossut dai ragazzi del
Rivolta
I primi incidenti al sit-in di protesta Poi l'aggressione "Erano 50,
mascherati ci hanno imprigionato"

Marghera. Bilancio pesante per l'inaugurazione di piazzale Martiri
Giuliano-Dalmati delle Foibe, che ha innescato violenti scontri tra un
gruppo nutrito di giovani che fanno capo ai centri sociali ed esponenti
di destra e sinistra, parimenti contestati per la loro presenza alla
cerimonia. Dai tafferugli escono malconci cinque giovani, che si sono
rivolti all'ospedale di Mestre. Ad avere la peggio il consigliere di
Municipalità Andrea De Simone (An) che ha riportato la frattura della
mandibola con una prognosi di 40 giorni. Tutto inizia intorno alle 10,
quando comincia il sit-in preannunciato da Rifondazione, Cobas Scuola,
Rete Antirazzista e Verdi non violenti. Srotolato il loro striscione ai
piedi del palco i manifestanti iniziano a distribuire un volantino di
protesta.
Cominciano i primi scontri, innescati da un gruppo di giovani dei
centri sociali che, letto il testo del volantino, pare non abbia
gradito la presenza tra i promotori dei Verdi Non Violenti. La
discussione, con insulti e grida, arriva presto a calci e pugni
sferrati ai danni di alcuni rappresentanti di Rifondazione. Lo scontro
si chiude con minacce verbali al consigliere comunale Pietrangelo
Pettenò "risparmiato - riferisce lui stesso - solo perché avevo mio
figlio in braccio". La tensione inizia a salire. La presenza di una
cinquantina tra agenti di polizia e carabinieri in tenuta antisommossa
non contribuisce a tranquillizzare i tanti presenti, tra i quali molti
genitori con bambini che hanno subito abbandonato il piccolo parco
giochi del piazzale. Il timore di nuovi scontri diventa realtà di lì a
mezz'ora, quando una ventina di rappresentanti di Azione Giovani (il
movimento giovanile di An), tutti in giacca e cravatta, viene
circondato ed aggredito mentre si dirige in piazzale per la cerimonia.
Poco dopo riferiranno di essere stati aggrediti da due gruppi di
giovani mascherati, una cinquantina in tutto, nascosti dietro la siepe
di piazzale Tommaseo e nelle vie laterali di piazzale Gar. Il culmine
del pestaggio avviene però in via Kossut, intorno alle 10 e 40, dove i
rappresentanti di An si sono visti intrappolati. "Ci hanno seguito con
un motorino da piazza Mercato - dice il consigliere Andrea De Simone -
ed hanno atteso che fossimo in un punto dove sarebbe stato impossibile
scappare". Le forze dell'ordine sono intervenute immediatamente ma il
blitz è stato repentino, pochi secondi di botte prima della fuga.
Il tutto è durato mezz'ora. La cerimonia si è poi svolta con i
poliziotti schierati con caschi e scudi protettivi nelle vie di accesso
al piazzale, e con un elicottero che ha continuato a sorvolare la zona
nel tentativo di individuare gli aggressori. I giovani di An, ai
carabinieri che hanno raccolto le prime denunce, riferiranno di aver
riconosciuto numerosi giovani del centro sociale Rivolta ed altri che
sarebbero arrivati da Padova e che farebbero riferimento al centro
sociale Pedro. In piazzale sono arrivati con il volto tumefatto,
qualcuno con le labbra spaccate e il naso gonfio per i pugni ricevuti.
Per terra, in via Kossut, è rimasto anche un paio di occhiali rotti.

BETTIN: "DISSENSO, NON ODIO"

"Colombe? Io vedo avvoltoi"
(Tratto da La Nuova Venezia del 29 settembre 2003)

domenica 28 settembre 2003, da GR_Padova Marghera.
Un'inaugurazione rovinata dagli scontri di piazza, quella di Piazzale
Martiri Giulian-Dalmati delle Foibe. Scontri che hanno portato tutte le
autorità invitate a rivedere i propri interventi, a lasciare in tasca
gli appunti e parlare a braccio, per deplorare quanto successo e
rivendicare la bontà della scelta fatta dall'amministrazione nel
riconoscere il martirio di migliaia di persone, uccise da un regime
totalitario solo perché diverse per razza, religione o fede politica.
Il più duro è stato Gianfranco Bettin, tra i più convinti sostenitori
del cambio di nome per piazzale Tommaseo. "In tutta Italia - ha detto
il prosindaco - questo riconoscimento è normale, a Marghera no, perché
il dissenso diventa odio". Bettin attacca anche i Verdi non Violenti
che hanno promosso con Rifondazione la manifestazione di protesta.
"Questi Verdi hanno la colomba nel loro simbolo - ha detto - ma
dovrebbero avere un avvoltoio perché stanno speculando sui morti". E
conclude sottolineando la civiltà di una Marghera che "da sempre
difende la democrazia, che accoglie il diverso, che ha il proprio
futuro nel nuovo nome di piazzale Tommaseo e non nelle scritte apparse
sui muri in questi giorni". Il presidente della Municipalità, Roberto
Turetta, ha chiesto scusa per quanto successo poco prima della
cerimonia sottolineando però che "questa scelta ha creato una
spaccatura, vanificando il tentativo di riappacificazione che ne stava
alla base". "Marghera non merita queste manifestazioni di odio - ha
concluso - avendo dimostrato in più occasioni di essere matura,
tollerante, civile e democratica". Il sindaco Costa, dopo aver ricevuto
in dono una medaglia coniata nel 1947 per ricordare l'esilio dei
dalmati dalle loro terre, ha detto di esprimere "l'orgoglio di Venezia
per aver intitolato questa piazza ai martiri delle foibe, e giustifico
il dissenso solo in un'ottica di insipienza storica che fa gridare
vergogna dagli striscioni e cartelli qui esposti. Abbiamo bisogno di
verità". Il presidente nazionale dell'associazione Giuliani e Dalmati,
il senatore Lucio Toth, nel ringraziare Venezia e tutti i suoi
cittadini ha ricordato i martiri delle foibe indicandoli principalmente
come "i fratelli e le sorelle dei tanti dalmati che hanno combattuto e
sono morti per la nascita di questo stato". (ro.ma.)

RAID VANDALICO NELLA NOTTE CONTRO SEDI DI PARTITI

Mestre. Una notte infiammata dalle scritte spray. Da una parte
svastiche, porte forzate e bandiere imbrattate o rubate. Dall'altra
insulti diretti a politici e parlamentari locali e richiami "ai martiri
del comunismo" apparsi alla vigilia dell'intitolazione di una piazza ai
martiri delle Foibe. Una inaugurazione, funestata dal ricorso alla
violenza. Vittime di un raid vandalico che ha disseminato svastiche tra
Mestre e Marghera sono state le sedi dei partiti del centrosinistra
veneziano.
Colpita anche l'abitazione della parlamentare dei Verdi, Luana Zanella
a cui è stato annerito il campanello di casa ed è stata lasciato
accanto un volgare insulto. Alla sezione dei Democratici di sinistra di
via Hermada a Marghera sono apparse nella notte le svastiche ed è stata
"oscurata" a colpi di bomboletta la bandiera della pace. Ma i vandali
sono andati oltre, forzando la porta del circolo dell'Arci, ospitata
nella sede, e rubando il fondo cassa di 200 euro e imbrattando i muri
di scritte. La scritta "Porci" è stata invece lasciata sulla porta
della sezione Ds di Zelarino. E sono tornate ancora le svastiche, già
apparse mesi fa. Colpite durante il raid notturno anche le sedi dello
Sdi di via Toffoli a Marghera. Alla sede della Federazione dei Verdi in
via Seismit Doda la scritta "fascista" invece era indirizzata contro il
prosindaco Gianfranco Bettin, non nuovo a queste forme di aggressione.
E ancora, a farne le spese è stata la sezione dei Comunisti Italiani di
piazzetta Canova in viale San Marco dove sono state rubate quattro
bandiere, esposte all'esterno; è stata divelta la cassetta delle Poste,
e rovesciati a terra tavolini, sedie e tabelloni. Sulla porta della
sede dei Comunisti è stato lasciato un adesivo del "Movimento Sociale
Fiamma tricolore", consegnato alla Digos della questura di Venezia dal
segretario comunale Carlo Coccato, al momento della denuncia.
(Mitia Chiarin)

DOVEVA ESSERE UNA GIORNATA DI FESTA???

(Tratto da La Nuova Venezia del 29 settembre 2003)

Doveva essere una giornata di festa. Con la città chiamata a
riappropriarsi, attraverso l'intitolazione di un piazzale di Marghera
ai "Martiri giuliano dalmati delle foibe ", di una pagina tragica di
storia nazionale ed europea, da cui sono scaturiti, per 350mila
italiani, diaspora ed esilio. Ma non è stato così: questa domenica di
fine settembre verrà ricordata per la guerriglia urbana e gli scontri
(quattro i ragazzi di Azione giovani finiti al pronto soccorso). Che
qualcosa fosse destinata ad accadere, lo si è capito subito, ieri,
nell'ex-piazzale Tommaseo. Sono passate da poco le 10: esponenti di
Rifondazione comunista protestano, a qualche metro dal palco, sistemato
di fronte al cancello della scuola Visintini. Hanno srotolato uno
striscione rosso con un "Vergogna" a caratteri cubitali e dispensano
volantini, firmati anche dai "Verdi non violenti". Nome che scatena le
prime reazioni. "Alcuni attivisti del Rivolta e del Pedro di Padova -
raccontano i rifondisti - si sono avvicinati, scandendo "Boato,
Boato", e giù offese, prima di prendere a pugni Gigi, un nostro
esponente". Minacce verbali giungono all'indirizzo del consigliere
regionale di Rifondazione Pierangelo Pettenò che ribadisce come "il
Comune abbia la colpa di aver creato steccati, invece di eliminarli".
Passa mezz'ora: accanto allo striscione scarlatto, si posizionano il
picchetto dei lagunari, una trentina di agenti di polizia e carabinieri
in tenuta antisommossa. Di fronte al palco, si stanno concentrando
autorità e una folla di persone e associazioni, tra lo sventolio di
tricolori. Ma si tratta di pace apparente; pochi metri più in là è
guerriglia. I poliziotti vengono richiamati - e vi si precipitano di
corsa - da uno scontro in via Kossuth, la laterale del piazzale, dalla
parte opposta del palco. A prendere le botte, questa volta, una ventina
di ragazzi di Azione giovani. Ne escono malconci in cinque, quattro si
faranno medicare al Pronto soccorso dell'Umberto I. "Erano una
cinquantina. Ci hanno accerchiato: venivamo da piazza Mercato. Dalla
siepe di piazzale Tommaseo, - ricorda Andrea De Simone, capogruppo di
An a Marghera che ha riportato la frattura della mandibola - sono
sbucati quelli del Rivolta. Abbiamo indietreggiato, ma un altro gruppo
di loro ci si è parato davanti". "Pare ci fosse anche Tommaso Cacciari.
L'extraterritorialità con cui operano quelli del Rivolta - commenta con
rabbia il consigliere comunale Raffaele Speranzon - deve finire".
La cerimonia ha inizio sulle parole del presidente della Municipalità,
Roberto Turetta, che chiede scusa per quanto accaduto e rivendica per
Marghera l'essenza di città tollerante e civile. "Quello che facciamo
oggi, riconoscere una tragedia in cui sono morte, secondo storici di
sinistra, almeno 10-12mila persone - esordisce con foga il prosindaco
Gianfranco Bettin - è normale dappertutto, ma non qui, dove è incistata
un'ideologia che diventa livore e mandato politico a colpire". Attacca
i "Verdi non violenti che hanno una colomba, come simbolo, ma
dovrebbero avere un avvoltoio che aleggia sui morti" e invita, però, a
andare avanti da una Marghera che non è "questa" per riprendersi la
"storia per intero". "Abbiamo il dovere - afferma invece il presidente
nazionale dell'Associazione Venezia Giulia Dalmazia, senatore Lucio
Toth che ringrazia Bettin, la Municipalità e la gente di Marghera - di
ricordare a voi quale pulizia etnica abbiamo subìto". "Non si elimina
il problema - conclude il sindaco Paolo Costa prima di scoprire la
nuova denominazione del piazzale - nascondendosi: abbiamo bisogno di
verità, fondamento di democrazia". Ma gli scontri hanno fatto
registrare anche la spaccatura fra Rifondazione e i Centri sociali: la
federazione provinciale del Prc scrive che una "gravissima provocazione
è stata attuata da elementi facenti riferimento al Centro sociale
Rivolta", con l'aggressione di un esponente della segreteria a calci e
pugni. "I picchiatori hanno accusato i militanti di Rifondazione di
essere a favore delle foibe", è scritto nella nota. "Ci pare che la
gravità del fatto metta in evidenza la pochezza politico culturale di
questi personaggi".

(a cura di Italo Slavo)

Wesley Clark: Vom Kriegsverbrecher zum Präsidentschaftskandidaten

Bush wird von den Demokraten „herausgefordert“. Der langgediente
Ex-General Wesley Clark, eine Person, die dem „Sicherheitsbedürfnis“
der USA gut zu dienen weiß, stellt sich der Herausforderung. Die Waffen
des Wahlkampfs sind gewählt: Kriegsverbrecher Bush, als erklärter
Haupt-Feind der Anti-Kriegsbewegung, tritt gegen Kriegsverbrecher mit
Erfahrung, Wesley Clark, als Held der Anti-Kriegsbewegung, an.

„Seine Kandidatur wird mit Sicherheit die Friedenskräfte stärken und
den amerikanischen Präsidenten Georg Bush aus dem Sessel heben.“
schreibt Jim Lobe, Inter Press Service. Clark steht laut Wahlprogramm
gegen den Krieg im Irak, gegen den „Krieg gegen den Terror“, für
demokratische Rechte, für das Recht auf Abtreibung und für ein besseres
Gesundheitswesen. Das alles macht ihn zum Sprachrohr der liberal
orientierten amerikanischen Machtriege. Michael Moore, Bestsellerautor
von „Stupid White Man“, gibt ihn auf jeden Fall seine Stimme und macht
damit dem Namen seines Buches alle Ehre.

Wesley Clark ist der maßgeschneiderte Kandidat, um der
kriegstreiberischen und völkerrechtswidrige Politik der USA in all
ihren Facetten gerecht zu werden: Von der „humanitären“ Politik eines
Bill Clintons, im Zuge derer Jugoslawien 1999 unter einem Bombenteppich
der Nato begraben wurde, bis zur Terror-Politik eines Bush, der im
Alleingang um die Vorherrschaft der USA kämpft. Immerhin hat Clark im
Gegensatz zu Bush auch noch eine Vergangenheit mit Kriegserfahrung
vorzuweisen:

Bereits zu Zeiten des Vietnamkriegs hat er sich als General profiliert.
1994 leitete er die militärischen Intervention in Haiti. In den Jahren
1996/1997 befehligte er das „US Southern Command“ für Lateinamerika,
welches in letzter Instanz verantwortlich zeichnet für die Ermordung
von 2.400 politischen Aktivistinnen und Aktivisten Kolumbiens alleine
in den besagten Jahren und den permanenten Terror der paramilitärischen
Einheiten der Armeen in Peru, Guatemala, Mexiko und Bolivien.

1999 übernahm er schließlich den Oberbefehl über den Angriff der Nato
auf Jugoslawien. Clark selbst hat in einem Interview am 3. Mai 2000 die
Frage, welches Ziel die Nato dort verfolgte, ehrlicher beantwortet als
es zu erwarten wäre: „Die potenziellen Feinde mussten erkennen, dass
die Westmächte militärisch, politisch, diplomatisch und industriell
durchaus im Stande sind, Kämpfe auf hoher Intensität, Bodentruppen
eingeschlossen, zu führen, wenn ihre lebenswichtigen Interessen
verletzt werden oder sogar ihre weniger lebenswichtigen.“ (Interview
IHT, 3. Mai 2000)

Wesley Clark ist einer der Hauptverantwortlichen für Tausende
Todesopfer, die dieser völkerrechtswidrige Krieg gegen einen Staat,
dessen Regierung und Volk nicht bereit war, sich dem Diktat der USA und
deren europäischen Komplizen zu beugen, forderte. Er ist verantwortlich
für den Einsatz von Streubomben und Uranmunition, deren Einsatz als
Kriegsverbrechen gilt und zu Langzeitschäden führt. Er ist
mitverantwortlich für die gezielten Zerstörungen der Infrastruktur
Jugoslawiens, wodurch Millionen Menschen ihrer wirtschaftlichen und
sozialen Grundlagen beraubt wurden.

Clark forderte damals im Mai die Genehmigung von der politischen
Führung der Nato, die jugoslawische Stromversorgung anzugreifen. Es sei
nicht akzeptabel, meinte er, dass die Luftangriffe der Nato bis dato
die „einzigen der Geschichte waren, während denen Liebespaare entlang
des Flussufers in der Abenddämmerung spazieren gingen und vor Cafés im
Freien aßen, um dem Feuerwerk zuschauen zu können.“ (The New Yorker, 2.
August 2000)

Wesley Clark befürwortete auch den Einsatz von Bodentruppen im Kosovo
und meinte im Gespräch mit US-Verteidigungsminister Cohen, dass die
vorgesehenen 28.000 Mann für die Bodentruppen auf 50.000 Mann erhöht
werden müssen, da dies wegen der massiven serbischen Verminungen
notwendig sei.

Besondere Dreistigkeit bewies er mit dem Befehl an den britischen
KFOR-General Jackson, die in Priština stationierte russische Einheit
anzugreifen. Jackson verweigerte diesen Befehl mit der Begründung, er
wolle nicht den Dritten Weltkrieg verursachen.

Und heute? Heute wird Clark als Anti-Kriegsheld und Experte für inneren
Sicherheit lanciert. Doch auch im Falle des Irakkriegs war Clark nicht,
wie heute behauptet wird, gegen den Krieg. Der Kern seiner Kritik an
Bushs Angriffskrieg auf den Irak ist nicht die plötzliche Läuterung und
Besinnung auf das Menschen- und Völkerrecht, sondern eine „Einsicht“
die angeblich seinen Erfahrungen im Kosovokrieg entspringt: „Ich hätte
zuerst die UNO und die Nato als Verbündete gegen al-Qaida gewonnen.
Wenn dann die Zeit reif ist, um gegen den Irak, Iran oder Nordkorea
vorzugehen, hat man eine starke, geschlossene Gruppe von Alliierten.“
(Time Magazine 14. Oktober 2002)

Er verlangte also lediglich eine längere und bessere Vorbereitungszeit
(mehr Truppen und mehr Verbündete) für den Angriff. Am 5. Februar
diesen Jahres sagte er auf CNN, dass „die Glaubwürdigkeit der USA auf
dem Spiel“ stünde, und dass die USA den Krieg notfalls alleine auch
ohne UNO führen müssten.

Nach Berichten versuchte Clark nach Ende seines Diensts als
Oberbefehlshaber Nato-Europa in das nationale Sicherheitsteam von
Präsident Bush aufgenommen zu werden. Dort war man nicht an ihm
interessiert. Verärgert wandte sich daraufhin General Clark den
Demokraten zu, wo er anscheinend mehr Erfolg hatte.

Nach dem Motto: „Einen müsst ihr ja wählen, um eure Stimme nicht zu
'verschenken'. Ein hoch auf das Zwei-Parteien-System“ wird einer das
Rennen machen. Sowohl Demokraten wie Republikaner finden ihre Stützen
im Militär. Sowohl Clark als auch Bush haben die Bedeutung der
militärischen Vormachtstellung der USA, um als Zugpferd der
kapitalistischen Weltwirtschaft zu funktionieren, verstanden. Sowohl
Demokraten wie Republikaner werden weiterhin völkerrechtswidrige
Angriffskriege im Namen der „Gerechtigkeit“ beginnen und die
Souveränität der Staaten und Völker auf der ganzen Welt bedrohen. „Es
lebe Amerika, es lebe die Demokratur des wilden Westens!“

Irina Vana


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Jugoslawisch-Österreichische Solidaritätsbewegung
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