Informazione

Quelli che vogliono squartare la Russia (4)

1. Reazioni e commenti in Russia dopo la tragedia di Beslan (di Mauro
Gemma / resistenze.org)

2. Gli ostaggi della scuola in Russia: chi è il responsabile di tante
morti? (di Peter Franssen / www.anti-imperialism.net)

3. Il terrore al servizio della NATO (con i complimenti di Brzezinski)
(di Jef Bossuyt / ptb.be / resistenze.org)

4. Il grande gioco dietro la strage (di Manlio Dinucci / il manifesto)


=== 1 ===

http://www.resistenze.org/sito/te/po/ru/poru4i18.htm

www.resistenze.org - popoli resistenti - russia - 18-09-04

Reazioni e commenti in Russia dopo la tragedia di Beslan

di Mauro Gemma

Come hanno reagito gli opinionisti russi di fronte agli sviluppi della
tragica vicenda del massacro di Beslan?
Quello che balza immediatamente agli occhi è la singolare sintonia,
che sembra indicare una comune regia, con cui si sono mossi gli organi
di stampa più direttamente legati ai grandi oligarchi, oggi in rotta di
collisione con l’amministrazione presidenziale, a cui si sono associati
alcuni ambienti “radicali” (tale viene considerato il giornale “Novaja
Gazeta”, in realtà finanziato anch’esso dai magnati e in cui  scrivono
alcuni dei principali responsabili della catastrofe della Russia,
ruderi dell’era di Eltsin, di cui hanno esaltato il massacro del
Parlamento avvenuto nel 1993 (1)) e una parte della “sinistra estrema”.

Costoro non hanno esitato a riprendere l’intero armamentario
propagandistico in merito alle questioni della politica russa in uso in
Occidente, il quale sembra proporsi come obiettivo prioritario quello
di mettere in difficoltà l’attuale presidente Vladimir Putin, oggi
impegnato, con una determinazione che non può non essergli
riconosciuta, a districarsi tra gli ostacoli e le contraddizioni che
incontra il suo tentativo di affermare, dopo i disastri provocati dal
decennio eltsiniano seguito alla vittoria controrivoluzionaria del 1991
e che hanno largamente influenzato anche un lungo periodo dei suoi
mandati, un ruolo di primo piano della Russia e la ricostruzione di
quelle fondamentali basi economiche e politiche necessarie al suo
risanamento.

Tra le priorità c’è sicuramente la salvaguardia dell’unità e della
coesione del grande stato eurasiatico, la cui disgregazione e
destabilizzazione rappresenta fin dai primi anni ’90 dello scorso
secolo, senza ombra di dubbio, uno dei principali obiettivi strategici
dei concorrenti imperialisti della grande potenza nucleare, i quali
sono saldamente installati ai suoi confini e dispongono di un micidiale
meccanismo di alleanze politico-militari forse già in questo momento in
grado di intervenire in qualsiasi situazione di crisi che si manifesti
ai margini e all’interno stesso della Federazione Russa.

Ecco allora che non stupisce il fatto che, immediatamente dopo la
presa degli ostaggi da parte del manipolo di terroristi ceceni, siano
apparsi in molti “media” (ricordiamo, che in misura  ragguardevole sono
tuttora controllati dai grandi gruppi oligarchici nazionali colpiti
dalle ultime iniziative di Putin e dai “network” delle comunicazioni
internazionali), pur nel contesto di una scontata esecrazione della
tragedia avvenuta nell’Ossezia settentrionale, una serie di
significativi “distinguo” rispetto al giudizio da dare in merito al
comportamento tenuto dalle strutture federali. Tali esternazioni
sembravano proporsi lo scopo di attribuire le principali responsabilità
della tragedia alle caratteristiche “tecniche” della reazione russa
all’attacco terroristico e ad un’attitudine “cinica” dello stesso
Vladimir Putin, che non avrebbe tenuto nella giusta considerazione gli
aspetti umanitari della vicenda.

Sono state prevalentemente queste interpretazioni di alcuni tra i
principali organi “liberal” russi, ispirati dai loro finanziatori, ad
offrire il pretesto per le “richieste di chiarimento” partite da
governi dell’Occidente ed esponenti dell’establishment americano ed
europeo (a cui si sono immediatamente associati, con trasporto e senza
fermarsi a riflettere un attimo, settori significativi della cosiddetta
“sinistra antagonista” che sembrano aver abbracciato la causa di un
movimento separatista caucasico che, a nostro avviso, ha storicamente
meno ragioni di quelle che potrebbe addurre un eventuale “movimento per
l’indipendenza della nazione indiana” nel West nordamericano o un
movimento irredentista del Sud-Tirolo incorporato nello stato italiano
solo 86 anni fa! (2) ), tese con ogni evidenza a mettere in imbarazzo
nei confronti dell’opinione pubblica russa e internazionale e, in
qualche modo, a “ricattare” un Vladimir Putin alle prese con uno dei
più difficili momenti della propria carriera politica e ancora troppo
condizionato dallo scenario “geopolitico” emerso dalla disgregazione
dell’URSS, dalle pressioni che le potenze imperialiste e i grandi
gruppi economici internazionali sono in grado di esercitare su una
Russia indebolita e costretta ad un ruolo “di più basso profilo” nel
contesto planetario e dalle stridenti contraddizioni che caratterizzano
l’apparato statale e lo schieramento politico-sociale che lo hanno
sostenuto fino ad oggi.

I “distinguo” si sono poi trasformati in un attacco pesantissimo
quando, ad esempio nel caso del commento apparso nel sito internet
“Gazeta.ru”, anch’esso notoriamente finanziato dagli oligarchi, si
invocava la necessità di convocare un tavolo di trattative con i
mandanti del massacro, mettendo così in atto la linea tracciata dal
principale ispiratore della politica americana verso la Russia,
l’autorevole consigliere di vari presidenti USA Zbignew Brzezinski e
dagli esponenti “neoconservatori” che hanno dato vita, insieme agli
uomini di Maskhadov e Zakaev, a un “Comitato Americano per la Pace in
Cecenia” (a cui sicuramente fa riferimento quella campagna dei radicali
italiani a sostegno della “resistenza cecena”, che oggi potrebbe
trovare inaspettate sponde anche in una “sinistra antagonista” pronta
ad “abboccare all’amo”, come già avvenne nel caso della Jugoslavia),
che si propone di fare pressione sulla Russia perché negozi il
definitivo sganciamento della Cecenia dal corpo dello stato federale
russo, preparando così le condizioni per la rivendicazione di nuove
“indipendenze”.

Tutto ciò sta ad indicare con chiarezza la straordinaria sintonia
esistente tra gli sviluppi della situazione cecena e le mosse politiche
delle cordate dei magnati e dei loro protettori occidentali, i cui
interessi oggi vengono messi ancora più in discussione dalla prepotente
riaffermazione della necessità di forme efficaci di controllo statale
sulle risorse strategiche del paese. Nell’articolo di “Gazeta.ru” dal
titolo “Una politica esplosiva”, il suo autore afferma in modo
esplicito che “il detonatore principale  dei terroristi è rappresentato
da Putin e dalla sua crudele politica” e  si fa portavoce delle “elites
estromesse dal potere”, affermando che esse intendono rientrare in
gioco anche  esternando la loro disponibilità ad  intavolare un dialogo
con i terroristi a tutto campo e “non solo sulle questioni che fanno
comodo a Putin” (3).

Un altro coro di violente critiche all’operato del presidente è venuto
poi da alcuni settori dell’estrema sinistra, con l’attribuzione
all’attuale amministrazione di presunte caratteristiche “zariste”,
proponendo in alcuni casi la discutibile tesi dell’esistenza di un
aggressivo “imperialismo russo”, a cui si opporrebbe la “resistenza
cecena”, e sottovalutando, o addirittura rimuovendo del tutto, il ruolo
che l’imperialismo e i suoi alleati nella regione stanno svolgendo, con
frenetico attivismo (4).

Una sottovalutazione del contesto internazionale, in cui si è
consumata la tragedia di Beslan, a onor del vero e a dispetto delle
valutazioni che questo partito aveva esplicitato almeno fino a non
molto tempo fa, caratterizza oggi, a nostro parere, anche le posizioni
del “Partito Comunista della Federazione Russa” (o almeno quella metà
circa del gruppo dirigente del PCFR che non ha seguito la scissione
dello scorso luglio che ha dato vita in questi giorni al “Partito
Comunista Russo del Futuro”), il quale, nella sua ormai radicata e per
certi aspetti pregiudiziale opposizione a quello che definisce il
“regime di Putin”, sembra dimenticare che il Presidente russo, nella
sua strenua difesa del carattere unitario della Federazione, non è poi
così distante dalle tesi che, a più riprese, i comunisti hanno espresso
in merito alle implicazioni geostrategiche della “questione cecena” e
che sono apparse in documenti ufficiali e negli interventi dello stesso
Ghennadij Zjuganov (5).

Della  vera natura dell’attacco propagandistico dei “media” dimostra
invece di avere piena consapevolezza l’intellettuale marxista Dmitrij
Jakushev che, nel sito di “Levaja Rossija” (Russia di sinistra), di cui
è redattore, ha pubblicato un tagliente articolo (6), in risposta ai
critici di Putin di ogni colore.
Jakushev, che non da oggi lamenta l’assenza in Russia di una forza
autenticamente “antimperialista” capace di condizionare pesantemente
“da sinistra” Putin (che pur sempre rimane il rappresentante della
“borghesia nazionale”, di cui incarna le aspirazioni e i limiti), entra
in durissima polemica con le tesi dei “radicali” e dei “sinistri”
sostenitori della “resistenza cecena” (indicando esplicitamente
Politkovskaja e Kagarlitskij), mettendo direttamente in relazione la
campagna scatenatasi in Russia e in Occidente con le dinamiche (7)
dell’attacco terroristico, che su tale campagna evidentemente intendeva
fare affidamento.

Scrive Jakushev: “Si può affermare che il piano dell’attacco
terroristico di Beslan era il seguente: sequestrare una grande quantità
di bambini, allo scopo di rendere impossibile un assalto, e allo stesso
tempo ottenere la pressione dell’ “opinione pubblica democratica
mondiale” per costringere le autorità russe a sedersi al tavolo delle
trattative con i leader dei banditi, che nelle persone di Zakaev e
Maskhadov avevano già cercato di presentarsi come garanti degli
ostaggi. Naturalmente le trattative sarebbero potute cominciare solo
con la mediazione delle istituzioni dell’imperialismo. Tutto ciò non
rappresenta che il logico proseguimento della politica condotta
dall’imperialismo nella regione e in rapporto alla Russia”. Ma gli
avvenimenti non si sono svolti secondo le intenzioni dei mandanti
dell’attacco per ragioni puramente dovute al caso, quando l’esplosione
accidentale di un ordigno nella palestra della scuola di Beslan, ha
fatto precipitare la situazione, determinando le condizioni del
sanguinoso epilogo della tragedia, che certamente ha messo in rilievo
anche lo stato comatoso in cui versano le strutture della sicurezza
russa devastate dalle “riforme” postsovietiche.

A Jakushev non sfugge l’elemento di novità rappresentato dalla
reazione di Putin in questa occasione, rispetto alle precedenti, quando
nelle dichiarazioni degli “ambienti ufficiali” russi ci si è sempre
attenuti esclusivamente al tradizionale “cliché” del “terrorismo
internazionale” e del richiamo alla sola matrice di “Al Qaeda”. Questa
volta, afferma ancora Jakushev, “si è manifestato un evento
straordinario e completamente nuovo…Mai in precedenza Putin aveva
indicato così chiaramente  i veri ispiratori del terrorismo”. Nel suo
messaggio alla nazione – fa osservare Jakushev – il presidente afferma,
con toni autocritici, che “bisogna riconoscere che non abbiamo mostrato
comprensione della complessità e della pericolosità dei processi che
avevano luogo nel nostro proprio paese e nel mondo intero. Quantomeno
non abbiamo saputo reagire adeguatamente. Abbiamo mostrato debolezza. E
ai deboli gliele suonano. Alcuni vogliono strapparci un pezzo più
grasso, altri li aiutano. Li aiutano pensando che la Russia, una delle
più grandi potenze nucleari, continui a rappresentare per loro una
minaccia. Dunque, la minaccia va eliminata. Il terrorismo,
indubbiamente, è solo uno strumento per raggiungere questi scopi” (8).

Ora – è la conclusione di Jakushev -, “non si possono più nutrire
dubbi sul fatto che dietro ai banditi, che terrorizzano la popolazione
della Russia, ci siano i servizi speciali dell’imperialismo” e che “il
vero obiettivo di coloro che oggi sconvolgono il Caucaso settentrionale
non sia la libertà della Cecenia, ma l’attuale potere russo e la stessa
Russia”.


Note

(1) Incredibile appare l’esaltazione che il giornale “Liberazione”
(“Anna Politkovskaya, la giornalista che fa paura al Cremlino, 9
settembre 2004) fadel ruolo dei personaggi che gravitano attorno ai
vari comitati e fondazioni “per i diritti umani” (che, oltre alla causa
dei ceceni, stanno seguendo con trepidazione la “persecuzione” del
magnate truffatore ed evasore Khodorkovskij), dirette emanazioni delle
lobby statunitensi che intendono spartirsi la Russia. Tali organismi,
di cui sono noti i legami con gli attivisti radicali italiani 
filo-NATO, che da tempo conducono un’isterica campagna antirussa nel
nostro paese, hanno il compito, esattamente come è avvenuto nella ex
Jugoslavia, di preparare le condizioni per ogni genere di interferenza
occidentale negli affari interni della Russia, proponendo uno scenario
da “emergenza umanitaria”, ingigantendo i numeri delle vittime e delle
distruzioni  che sarebbero provocate dalla presenza militare russa,
giustificando di fatto la bestiale ondata terroristica (questa si ad
aver provocato ormai migliaia e migliaia di vittime in diverse località
della Russia, in particolare tra gli appartenenti ad etnie caucasiche,
musulmani e cristiani ortodossi), dimenticando che molti osservatori
internazionali sono pronti a riconoscere che le consultazioni condotte
dall’amministrazione russa circa la proposta di autonomia alla Cecenia
in ambito federale non possono essere considerate una farsa.

Non è privo di significato, poi, che gli stessi personaggi (a
cominciare dalla Politkovskaya), così ostinatamente schierati a fianco
del micronazionalismo dei banditi ceceni (solo perché così piace ai
loro amici americani), non esitino a scagliarsi contro le autonomie
presenti all’interno della confinante Georgia ( occorrerebbe ricordare
che in Abkhazia - dove Sabina Morandi, senza preoccuparsi della
coerenza delle proprie affermazioni, non ha alcuna esitazione ad
accreditare la tesi di Politkovskaya e soci su presunte  “pulizie
etniche” da parte dei russi - l’80% della popolazione ha tuttora il
passaporto della Federazione Russa!), in predicato di entrare nella
NATO, frequentata dalle truppe americane e retroterra del terrorismo
ceceno, avamposto dell’accerchiamento in atto della Federazione
Russa.   

A proposito dell’attività delle organizzazioni “informali”  sembrano
appropriate le riflessioni che lo stesso presidente russo Vladimir
Putin ha fatto il 26 maggio scorso, in occasione del suo messaggio
all’Assemblea Federale: “Certo non tutti nel mondo hanno intenzione di
confrontarsi con una Russia indipendente, forte e fiduciosa in sé
stessa. Oggi nella concorrenziale lotta globale vengono attivamente
utilizzati strumenti di pressione politica, economica e informativa. Il
rafforzamento del nostro senso dello stato a volte viene spacciato per
autoritarismo... Alcune parole sulle organizzazioni sociali non
politiche. Nel nostro paese esistono e lavorano costruttivamente
migliaia di istituzioni e unioni civili. Ma non tutte sembrano
orientate alla difesa dei reali interessi delle persone. Per una parte
di queste organizzazioni il compito prioritario è diventato la
riscossione di finanziamenti da parte di influenti fondazioni
straniere. Per altre il mettersi al servizio di gruppi discutibili e di
interessi commerciali. Perciò i problemi più acuti del paese e dei suoi
cittadini non vengono presi in considerazione. Si deve dire che, quando
il discorso verte sulle violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo,
della limitazione degli interessi reali delle persone, a volte la voce
di simili organizzazioni neppure si leva. E ciò non stupisce:
semplicemente non possono “mordere la mano” da cui ricevono il
cibo(...). Sul messaggio di Putin all’Assemblea Federale è disponibile
una rassegna stampa nel n. 81 di  “Nuove Resistenti”,
http://www.resistenze.org

Per capire la complessa rete che sta dietro alla campagna
internazionale di discredito del presidente russo, torna utile leggere
l’articolo apparso nelle pagine dell’autorevole giornale britannico
“The Guardian” (8 settembre 2004), firmato da John Laughland,
fiduciario del “British Helsinki Human Rights Group”:

“... Le cosiddette “crescenti critiche” sono di fatto dirette da uno
specifico gruppo dello spettro politico russo e dei suoi sostenitori
americani. Gli esponenti che dirigono le critiche russe al modo come
Putin ha gestito la crisi di Beslan sono i politici filo-USA Boris
Nemtsov e Vladimir Rizhkov – uomini associati alle riforme del mercato
neo-liberale più spinto che hanno avuto effetti tanto devastanti sotto
Boris Eltsin così amato dall’Occidente – e il Carnegie Endowment’s
Moscow Centre. Fondato dal quartier generale di Washington, questa
influente fondazione – che opera in coppia con la militare-politica
Rand Corporation, allo scopo di produrre documenti sul ruolo della
Russia nel sostegno agli USA a ristrutturare il “Più grande Medio
Oriente” – ha ripetutamente biasimato Putin per le atrocità in
Cecenia... Costoro tengono essenzialmente la stessa linea che è stata
espressa dai leader ceceni, come Ahmed Zakaev, in esilio a Londra...
La durezza nei confronti di Putin si spiega forse con il fatto che,
negli USA, il gruppo che  si impegna per la causa cecena è
rappresentato dal “comitato Americano per la Pace in Cecenia” (ACPC).
La lista degli “americani in vista” che sono suoi membri è una rassegna
dei più rappresentativi neoconservatori sostenitori entusiasti della
“guerra al terrore”. Essa include Richard Perle, noto consigliere del
Pentagono; Elliot Abrams con la fama di Iran-Contra; Kenneth Adelman,
ex ambasciatore USA all’ONU che aveva incitato all’invasione dell’Iraq,
pronosticando che sarebbe stata “una passeggiata”; Midge Decter,
biografo di Donald Rumsfeld e direttore della Heritage Foundation di
destra; Frank Gaffney del militarista Centre for Security Police; Bruce
Jackson, ex ufficiale dell’intelligence militare USA e una volta
vice-presidente della Loockeed Martin, ora presidente del Comitato USA
sulla NATO; Michael Ledeen dell’American Enterprise Institute,
ammiratore del fascismo italiano e ora fautore di un cambiamento di
regime in Iran; e R. James Woolsey, ex direttore CIA, che è uno dei
principali sostenitori dei piani di George Bush di rimodellare il mondo
musulmano in base alle direttive USA.
L’ACPC diffonde energicamente l’idea che la ribellione cecena mette in
evidenza la natura non democratica della Russia di Putin, e ricerca
sostegni per la causa cecena, enfatizzando la serietà delle violazioni
dei diritti umani nella minuscola repubblica caucasica. Il comitato
paragona la crisi cecena alle altre cause “musulmane” alla moda, Bosnia
e Kosovo, giungendo alla conclusione che  solo un intervento
internazionale nel Caucaso è in grado di stabilizzare la situazione...
Provenendo da entrambi i partiti politici, i membri dell’ACPC
rappresentano la spina dorsale della politica estera dell’establishment
USA, e le loro opinioni sono di fatto quelle dell’amministrazione USA”

John Laughland, “The Cechens’ American friends”,
The Guardian, September 8 2004
http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,1299318,00.html

(2) Non ritorniamo sulle caratteristiche della “questione caucasica”,
che sono state da noi esaminate in precedenti lavori pubblicati, a più
riprese, da L’ERNESTO.

(3) “Una politica esplosiva”
http://www.gazeta.ru/comments/2004/09/02_a_162210.shtml
 
(4) Esemplare è il lungo commento che il gruppo trotskista russo
“Resistenza socialista” dedica agli avvenimenti di Beslan, in cui,
invece di interrogarsi sul fatto che, nella situazione attuale di
grande debolezza dell’insieme delle forze comuniste e di tutto il
movimento di classe del paese, l’unica realistica alternativa a Putin e
al suo blocco sociale diretto dalla “borghesia nazionale” potrebbe
essere rappresentata dalla rivincita della “borghesia compradora” e dal
definitivo assoggettamento della Russia alle logiche dell’imperialismo,
si ipotizzano fantapolitici sbocchi rivoluzionari, e si discetta in
modo delirante addirittura sulla possibilità di sottrarre l’egemonia
sulla “resistenza cecena” alle mafie locali. “Beslan. L’inizio della
fine di Putin”. http://www.socialism.ru/analyses/russia/2004/beslan.html

(5) Interventi di Zjuganov e di altri esponenti comunisti russi sulla
questione cecena e, più in generale, su quella “delle nazionalità”,
sono apparsi in L’ERNESTO e in http://www.resistenze.org

(6) Dmitrij Jakushev, “Chi dà ordini al terrore?”
http://www.left.ru/2004/12/yakushev_terror111.html

(7) Sulla “regia occulta” del massacro di Beslan rimandiamo anche alla
lucida analisi di Manlio Dinucci apparsa con il titolo “Il grande gioco
dietro la strage” in “Il Manifesto”, 10 settembre 2004. [vedi piu'
sotto]

(8) La traduzione, a cura di Mark Bernardini, del “Messaggio alla
Nazione” di Vladimir Putin è reperibile nel n. 87 della rassegna “Nuove
Resistenti” in http://www.resistenze.org


=== 2 ===

Tratto da www.anti-imperialism.net

Gli ostaggi della scuola in Russia: chi è il responsabile di tante
morti?

Peter Franssen

Durante gli ultimi 25 anni, gli Stati Uniti hanno utilizzato alcuni
fondamentalisti religiosi in parecchie guerre sporche.
L’uomo alla base di questa strategia è Zbigniew Brzezinski. Nel luglio
del 1979 è l’allora consigliare nazionale alla sicurezza e persuade il
presidente Jimmy Carter ad incastrare l’Unione Sovietica nella trappola
di una guerra di lunga durata. Il governo afgano avrebbe sicuramente
fatto appello all’Unione Sovietica se si fosse scontrato con una forte
opposizione militare interna, ritiene Brzezinski. E’ per questo che gli
USA organizzano questa opposizione, la addestrano e la dotano di un
armamento moderno. E quello che Brzezinski aveva previsto si avverò.
L’Unione Sovietica invia decine di migliaia di soldati in Afghanistan,
per poi ritirarsi dieci anni più tardi, indebolita e demoralizzata.

Gli americani hanno applicato questa strategia una seconda volta in
Bosnia negli anni ‘90. Un rapporto del Parlamento americano ha
affermato quanto segue: “Gli Stati Uniti hanno trasformato la Bosnia in
una base islamica militante dove vengono addestrati migliaia di
Mujaheddin.” Lo scopo ed il risultato, in questo caso, è la distruzione
della Jugoslavia.

Dal 1991, gli americani seguono la stessa strategia in Cecenia. Qui, la
strategia deve condurre all’esplosione del Caucaso ed all’indebolimento
della Russia.
Zbigniew Brzezinski, attualmente, è co-presidente del Comitato
americano per la pace in Cecenia, un comitato che dice di lottare per
la pace in Cecenia, ma che, in realtà, determina la strategia di guerra
degli USA nel Caucaso. L’altro co-presidente è Alexander Haig, un
generale di estrema destra. Brzezinski è anche, e non è un caso, un
consigliere lautamente pagato della società petrolifera BP-Amoco. La
Cecenia si trova nel cuore del Caucaso, una regione ricca di petrolio e
di gas. È attraversata dalle condotte di gas e di petrolio che
collegano il Mare Caspio al Mare Nero.
La Cecenia è importante a causa del petrolio, ma anche per la sua
posizione strategica. Nel passato, l’Europa occidentale ha considerato
la regione come una testa di ponte per fare esplodere la Russia da sud.
Dopo la rivoluzione comunista del 1917, è di là che le truppe francesi
e britanniche si sono dirette verso Mosca. Nel 1942, la Germania
nazista ha occupato una parte della Cecenia per aprire da lì un secondo
fronte. Se gli Stati Uniti arrivassero a staccare la Cecenia dalla
madre-patria, sarebbe un duro colpo per la Russia che ha perso già
l’Estonia, la Lettonia e la Lituania nel nord, l’Ucraina, la
Bielorussia e la Moldavia ad ovest, la Georgia e l’Azerbaigian a
sud-ovest, e le cinque repubbliche dell’Asia centrale.

Un massacratore “coraggioso e degno di elogi”

L'uomo che ha organizzato la presa di ostaggi nella scuola di Beslan la
settimana scorsa è Chamil Bassaïev. Nel 1991, con un mitra ed alcune
granate in mano, lo troviamo al fianco del futuro presidente della
Russia, Boris Eltsin, all’epoca del colpo di stato condotto da
quest’ultimo, che porterà alla frantumazione dell’Unione Sovietica. Più
tardi, la CIA (i servizi segreti americani) fa passare Bassaïev per i
suoi campi di addestramento in Afghanistan ed in Pakistan. L’uomo qui
riceve la visita del ministro della Difesa pakistano, Aftab Shahban
Mirani, del ministro degli Interni Naserullah Babar e del capo dei
servizi segreti pakistani, Javed Ashraf. Tre generali che collaborano
strettamente con la CIA e che sono gli organizzatori del sostegno
fondamentalista alla ribellione cecena.
Chamil Bassaïev è in Cecenia dal 1995. È l’autore di parecchi orribili
atti di terrore, come il raid contro la città di Budennovsk. Qui prende
1.500 malati in ostaggio, in un ospedale. 147 di essi perderanno la
vita. Il maggiore americano Raymond Finch descrive questo crimine nella
rivista ufficiale dell’esercito USA, il Military Review del giugno
1997, e ne trae questa conclusione: “I metodi utilizzati da Bassaïev
sono crudeli e violano le leggi della guerra. Ma se consideriamo queste
azioni alla luce del lotta cecena per l’indipendenza, allora appaiono
come coraggiose e degne di elogi.” Quello stesso uomo coraggioso e
degno di elogi ha di nuovo sulla coscienza la morte di centinaia di
bambini. La citazione del maggiore non è un lapsus di un militare
isolato. All’inizio di agosto di quest’anno, Brzezinski stesso fa
sapere che gli Stati Uniti accorderanno l’asilo ad Ilyas Akhmadov.
Quest’uomo è complice di crimini di guerra. È uno dei collaboratori più
importanti del dirigente separatista ceceno Aslan Maskhadov. In luglio,
Maskhadov promette un aumento degli attentati. Promette di assassinare
chi vincerà le elezioni presidenziali di fine agosto. Cosa che non
impedisce gli americani di accordare l’asilo al suo collaboratore (come
suo “ministro degli esteri”, ndt) Akhmadov. Non solo, questo
personaggio è assunto con un buono stipendio alla National Endowment
for Democracy, un’organizzazione diretta da Paul Wolfowitz
(vice-ministro della Difesa), Frank Carlucci (ex-direttore della CIA) e
dal generale Wesley Clark (ex-comandante in capo della NATO). Gli
americani dimostrano così ancora una volta che sostengono il terrorismo
contro la Russia ed i Russi, uomini, donne e bambini.

La mancanza di volontà di Putin

All’epoca sovietica, si poteva passeggiare la sera senza paura nelle
grandi città. Uno o due volte all’anno, si sentiva uno sparo. Oggi, al
centro di Mosca e di Leningrado, dei colpi d’arma da fuoco echeggiano
50 volte al giorno. Fino al 1991, prima della restaurazione del
capitalismo nella vecchia Unione
Sovietica, non c’erano frontiere interne. Nel Caucaso vivevano in
amicizia popoli russi e non russi. Nessuno si chiedeva dove era
esattamente la frontiera, per esempio, tra la Georgia e la provincia
russa della Cecenia. Non c’erano guardie alla frontiera, né degli
incidenti di frontiera. La sicurezza e la pace sono scomparse. La
restaurazione del capitalismo ha portato guerra e terrore. I genitori
russi si chiedono con ansia: il mio bambino oggi tornerà da scuola sano
e salvo?
Nel 1945, alcuni politici e delle bande di mafiosi hanno provato a
separare l’Ucraina dall’Unione Sovietica. Ma gli operai ed i contadini
ucraini hanno organizzato dei gruppi di difesa e di propaganda
politica, dei comitati di quartiere, hanno rafforzato il Partito
comunista... Dopo cinque anni, quei banditi sono stati battuti. Ed ora?
Invece di fare la guerra ai terroristi, Putin ed i suoi predecessori
sono stati trascinati nella guerra contro il popolo della Cecenia. È la
ragione per cui i separatisti possono rimanere in sella per così tanto
tempo. Il presidente ed il governo, complici della restaurazione del
capitalismo, non vogliono mobilitare il popolo, perché questo
significherebbe la fine dei terroristi, ma anche la loro. In Russia non
c’è altra soluzione che il socialismo. Solo il popolo in prima persona
può eliminare il problema del terrorismo e del separatismo.


=== 3 ===

http://www.resistenze.org/sito/te/po/ru/poru4i03.htm
www.resistenze.org - popoli resistenti - russia - 03-09-04

da PTB - Parti du Travail de Belgique - www.ptb.be

Il terrore al servizio della NATO (con i complimenti di Brzezinski)

di Jef Bossuyt

Per comprendere le cause della terribile tragedia di Beslan, riteniamo
utile riprendere alcuni brevi ed efficaci stralci del contributo di Jef
Bossuyt, apparso tempo fa nel sito internet del Partito del Lavoro del
Belgio, dopo l’assalto terrorista ceceno al Teatro Dubrovka di Mosca.

Nel 1995, il terrorista ceceno Shamil Basajev penetrava in Russia con
due camion di esplosivo e 150 uomini armati. L’obiettivo: un’azione
terroristica a Mosca, con lo scopo di obbligare i russi a negoziare.
Veniva tuttavia bloccato nella piccola città di Budionnovsk, dove
prendeva in ostaggio 1.500 pazienti di un ospedale, dei quali più di
100 moriranno nel corso dell’assalto degli inseguitori. A tal
proposito, il maggiore americano Raymond C. Finch dichiarava: “I metodi
utilizzati da Basajev sono crudeli e violano le leggi di guerra. Ma se
noi giudichiamo queste azioni alla luce della lotta indipendentista
cecena, esse si rivelano coraggiose e degne di elogio” (Military
Review, Giugno 1997).
Il 7 ottobre 1999, in una lettera indirizzata al segretario generale
della NATO George Robertson, il presidente ceceno Maskhadov gli
chiedeva “di intervenire in Cecenia nel quadro del nuovo ordine
mondiale stabilito dalla NATO” (...)

L’autorità di Maskhadov deriva dai suoi committenti stranieri, in
primo luogo da Zbigniew Brzezinski, ex consigliere di Reagan e di Bush
padre. Costui è presidente del Comitato americano per la democrazia in
Cecenia ed esige che Putin negozi una “soluzione politica” con il
presidente Maskhadov. Il 16 agosto 2002 (poco tempo prima dell’assalto
di Mosca, nota del traduttore), il Comitato si riuniva nel
Liechtenstein. Erano presenti, oltre ai fondatori americani, i ceceni
Khasbulatov e Aslakhanov, insieme al rappresentante del presidente
Maskhadov, il suo “plenipotenziario” (che ha trovato in seguito rifugio
in Occidente) Akhmed Zavkajev. Si è discusso un piano mirante a
conferire alla Cecenia uno statuto speciale sotto la sorveglianza
internazionale dell’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la
Collaborazione in Europa) (Sanobar Chermatova, in “Moskovskye Novosti”
del 27 agosto 2002)

Nella sua opera “La grande scacchiera”, Brzezinski consigliava di
continuare ad indebolire la Russia e di scinderla in una
“confederazione russa più aperta, composta da una Russia europea, da
una repubblica della Siberia e da una repubblica dell’Estremo Oriente”.
(...)        

Traduzione a cura del Centro di Documentazione e Cultura Popolare


=== 4 ===

da "Il Manifesto" del 10 settembre 2004
BESLAN

Il grande gioco dietro la strage

Interessi. Un intreccio geopolitico e affaristico che provoca vittime
innocenti

MANLIO DINUCCI

L'attacco alla scuola di Beslan non è stato solo un atto terroristico
di kamikaze ceceni ma una complessa azione militare professionalmente
preparata. Come confermano anche gli inviati del New YorkTimes, mesi
prima era stato nascosto sotto il parquet della biblioteca un grosso
deposito di armi e munizioni e i membri del commando, dotati di tute
mimetiche in uso nella Nato e maschere antigas, conoscevano
perfettamente la pianta della scuola. Tale azione non può essere stata
organizzata da un singolo gruppo, senza una rete diappoggi sia
all'interno che all'esterno della Russia. Dietro la nuova strage degli
innocenti vi è quindi non solo l'aspirazione all'indipendenza, che
anima il popolo ceceno sin dall'epoca zarista, e il rifiuto russo di
concederla. Vi è il «grande gioco» interno e internazionale attorno a
una posta di enorme importanza strategica: il controllo dell'ex Unione
sovietica e, in particolare, delle sue ricchezze energetiche.
All'interno della Federazione russa è in corso lo scontro tra grossi
esponenti dell'oligarchia economica e Vladimir Putin che,
contrariamente a quanto essi si aspettavano, ha accentrato il potere, e
con esso i profitti della vendita del petrolio e del gas naturale,
nelle mani degli uomini fidati della sua amministrazione. Il
miliardario Mikhail Khodorkovskij, padrone della compagnia petrolifera
Jukos, aveva tentato la scalata al potere politico con l'appoggio della
statunitense ExxonMobil cui stava per vendere un terzo della Jukos, ma
è stato imprigionato per aver evaso le tasse. Il banchiere Boris
Berezovskoj, rifugiatosi a Londra, da tempo sostiene e finanzia il
gruppo ceceno di Shamil Bassaev, indicato come organizzatore
dell'attacco di Bessan. Il fine politico di tale azione era quello di
colpire il prestigio di Putin, presentatosi come uomo forte in grado di
risolvere la questione cecena e garantire la sicurezza della Russia.

Lo ha ben capito Putin che, nel discorso televisivo di sabato sera
(sottovalutato dai media), sottolinea: «Alcuni vogliono strappare via
un grosso pezzo del nostro paese. Altri li aiutano a farlo. Li aiutano
perché pensano che la Russia, una delle più grandi potenze nucleari del
mondo, costituisce ancora una minaccia e che tale minaccia deve essere
eliminata. Il terrorismo è solo uno strumento per conseguire tali
scopi» (The New York Times, 5 settembre). Il messaggio è chiaro ed è
chiaro a chi è diretto.

Gli Stati uniti, disgregatasi l'Unione sovietica, proclamano
esplicitamente nel 1994 che la regione del Caspio rientra nella loro
«sfera d'interessi». Nello stesso anno, l'anglo-statunitense Bp-Amoco
si assicura in Azerbaigian (membro con la Russia della Comunità di
stati indipendenti) una prima concessione petrolifera. Nello stesso
anno scoppia la guerra in Cecenia (repubblica della Federazione russa),
i cui capi ribelli, arricchitisi dal 1991 con i proventi petroliferi,
sono sostenuti dai servizi segreti turchi (longa manus della Cia).
Quando, dopo gli accordi di pace del 1996, la Russia inaugura nel 1999
l'oleodotto tra il porto azero di Baku sul Caspio e quello russo di
Novorossiisk sul Mar Nero, esso viene sabotato nel tratto in territorio
ceceno. I russi realizzano allora un bypass attraverso il Daghestan, ma
in agosto un commando ceceno di Bassaev lo rende inagibile. In
settembre, Mosca effettua il secondo intervento armato in Cecenia.
Nello stesso anno, per iniziativa di Washington, viene aperto un altro
oleodotto che collega Baku al porto georgiano di Supsa sul Mar Nero,
mettendo fine all'egemomia russa sull'esportazione del petrolio del
Caspio. Nello stesso anno, sempre su iniziativa statunitense, Turchia,
Azerbaigian, Georgia e Kazakistan decidono di costruire un oleodotto
che collega Baku al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, sottraendo
alla Russia il controllo sull'esportazione della maggior parte del
petrolio del Caspio.

Contemporaneamente gli Stati uniti si muovono per distaccare da Mosca
le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, portandole nella
propria sfera d'influenza. Dopo l'11 settembre Washington dà la
spallata decisiva, installando basi e forze militari, oltre che in
Afghanistan, in Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan e
Georgia. L'area è dienorme importanza, sia per la sua posizione
geostrategica rispetto a Russia, Cina e India, sia per le grosse
riserve di petrolio e gas naturale del Caspio (su cui si affacciano
Kazakistan e Turkmenistan), sia per la sua vicinanza alle riserve
petrolifere del Golfo, dove con l'occupazione dell'Iraq gli Usa hanno
rafforzato la loro presenza militare. In compenso però Bush ha espresso
il suo dolore per le vite innocenti sacrificate a Beslan, assicurando
di «essere con il popolo russo, cui dedichiamo le nostre preghiere».

http://www.ilmanifesto.it/
il manifesto - 21 Settembre 2004

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INTERVISTA

Memoria cancellata del misfatto coloniale

Parla lo storico Angelo Del Boca: «La Libia non può dimenticare la sua
storia»
Il vicepremier italiano Fini è favorevole a togliere le sanzioni a
Tripoli, a patto che i libici cancellino la celebrazione della
sconfitta delle truppe italiane. «Un popolo sovrano - dice Del Boca -
non azzera la propria lotta per l'indipendenza»
TOMMASO DI FRANCESCO

E'di fatto la notizia di queste ore: la Commissione europea ha deciso
di togliere l'embargo, compreso quello delle armi, alla Libia
sostenendo la richiesta italiana legata però al rigido controllo
dell'immigrazione clandestina; su questo Bruxelles è pronta a inviare a
Tripoli una «commissione tecnica». E anche gli Stati uniti tolgono le
sanzioni, dopo i danni pagati per gli attentati di Lockerbie e Berlino
e soprattutto dopo l'accettazione libica della sua «rinuncia» ai
progetti - cartacei - di dotarsi di armi di distruzione di massa.
Nessuno però, finora, aveva addotto, tra le condizioni occidentali, la
richiesta alla Libia di rinunciare alla storia della sua lotta per
l'indipendenza. L'ha fatto in questi giorni l'«avanguardista»
vice-premier italiano Granfranco Fini, quello che si è scagliato contro
il «pacifismo pilatesco». «Ha ragione Pisanu quando dice che è giusto
togliere l'embargo alla Libia - ha dichiarato - ma allora dobbiamo
chiedere alla Libia di togliere dal suo calendario il giorno della
vendetta contro gli italiani» - parlava della celebrazione libica del
24 ottobre 1911, quando le truppe d'occupazione italiane vennero
sconfitte a Sciara Sciat. Di questo «revisionismo di governo» abbiamo
parlato con lo storico del colonialismo italiano Angelo Del Boca, del
quale in questi giorni l'editore Mondadori ha pubblicato un prezioso
libro di storia dell'imprese militari italiane in Libia, «La disfatta
di Gasr Bu Hàdi», un altro rovescio, il più grave, del colonialismo
italiano in Libia. «Ma come può - ci dice subito Del Boca - un popolo
sovrano dimenticare la lotta per la sua indipendenza?».

Con quale diritto e legittimità il vice-premier Fini sembra voler porre
le sue condizioni?

La battuta di Fini ha una sola spiegazione. Il vicepremier ignora del
tutto la storia dei rapporti italo-libici, dimentica i 30 durissimi
anni dell'occupazione italiana della Libia durante i quali per
difendere la propria patria 100.000 libici hanno perso la vita. A
quell'epoca la Libia contava 800mila abitanti, il che significa che un
libico su otto è stato ucciso in combattimento o è stato condannato
all'impiccagione, oppure è morto nei 13 tremendi lager creati dal
generale Graziani nella Sirtica. Si può chiedere ai libici di
dimenticare una strage di quelle proporzioni, cancellando le origini
della loro nazione?

Fini è il rappresentante di questo revisionismo storico di governo che
cancella i crimini di guerra italiani per promuovere una memoria a
senso unico - già lo ha fatto per le foibe. Ma come può azzerare anche
le promesse mai mantenute per le riparazioni dei danni di guerra?

Da decenni i libici si attendevano dal governo italiano non soltanto
riparazioni materiali per le vittime dell'occupazione italiana, ma
anche - e direi soprattutto - una esplicita ammissione della colpa
coloniale. Va detto però che nessun governo della repubblica ebbe in
passato il coraggio di sciogliere questo debito morale. Il che provocò
diffidenze, risentimenti, e persino la proclamazione in Libia, appunto,
di una giornata della vendetta. Bisognerà attendere il primo dicembre
del 1999 per assistere ad una svolta significativa nei rapporti
italo-libici. Il coraggio di pronunciare una chiara condanna del
colonialismo l'ha infatti avuto il presidente D'Alema appena arrivato
in visita a Tripoli. Al premier libico Mohammed Ahmed El Mangus,
D'Alema dichiarava: «I rapporti tra i nostri due paesi hanno avuto
nella loro storia momenti diversi come quello molto negativo del
colonialismo, ma oggi è possibile costruire un rapporto su una base
nuova di amicizia, collaborazione, rispetto reciproco».Qualche ora
dopo, rendendo omaggio ai martiri di Sciara Sciat e di Henni, le prime
vittime della repressione italiana del 23-'24 ottobre 1911, D'Alema
esprimeva una condanna del colonialismo ancora più netta: «Qui gli eroi
nazionali sono stati giustiziati dagli italiani». Queste chiare
ammissioni di colpa avrebbero però avuto una maggiore rilevanza se
fossero state seguite da gesti concreti, come ad esempio la bonifica
dei campi minati della Cirenaica, che ogni anno mietono decine di
vittime, la costruzione di un ospedale d'avanguardia a Tripoli - tante
volte promesso da Giulio Andreotti - la riconsegna alla Libia della
Venere di Cirene, trafugata da Italo Balbo e donata al gerarca nazista
Herman Goering. L'elenco delle promesse italiane alla Libia è lungo a
non finire ma nessuna promessa è mai stata mantenuta. Berlusconi,
riprendendo la vecchia offerta di Andreotti vuol chiudere il
contenzioso coloniale donando «un centro medico all'avanguardia» del
costo stimato 62milioni di euro. Forse, dieci anni fa, questo dono
sarebbe stato accolto con favore. Oggi non più. Oggi Gheddafi pretende
un'autostrada. Per l'esattezza la costruzione di una litoranea dalla
Tunisia al confine con l'Egitto, del costo 20 volte superiore a quello
dell'ospedale offerto da Berlusconi. E' lo scotto che si paga
rimandando di decennio in decennio una soluzione.

Ora si parla di «accordi» tra Italia e Libia, con la promessa di una
missione di polizia italiana per «controllare le coste» e fermare così
l'immigrazione africana. Dimenticando che non è questione di poche
centinaiaia di poliziotti - in una operazione tutta di facciata come il
manifesto ha denunciato - né di coste: la Libia ha la frontiera interna
aperta sulla grande crisi dell'Africa nera. Cosa pensi di questi
accordi annunciati?

Sull'accordo italo-libico per fronteggiare gli sbarchi di clandestini
ci sono alcuni punti oscuri. Sta bene l'invio a Gheddafi di mezzi, di
elicotteri, di aeroplani per sorvegliare le migliaia di chilometri di
frontiere. Ma io ho qualche dubbio che la Libia, che vive un momento di
ipernazionalismo sotto la guida di Gheddafi sia disposta ad accettare
«l'intrusione» di superpoliziotti italiani senza che questo venga
interpretato come messa in discussione della sovranità del paese. Ma la
questione più incredibile è quella dei centri di accoglienza in Libia.
Il governo italiano alimenta questa possibilità nonostante il ministro
libico che si occupa degli affari interni e dell'immigrazione, Nasser
El-Mabruk, abbia finora risposto il contrario, dichiarando: «Sono
proprio contrario all'idea di centri di accoglienza come fossero delle
riserve umane». Che significato hanno questi centri di assistenza, che
che rischiano di diventare una specie di lager, di campi
concentramento. Il mio dovere di storico è ricordare che lì, con il
generale Graziani, ne abbiamo già fatti 13 di campi di concentramento.
Vogliamo proprio fare altri campi di concentramento? Il ministro libico
Nasser El-Mabruk proponeva, in alternativa, forme di residenza, luoghi
dove vengano rispettati i diritti umani, la salute, il welfare:
insomma, per impedire davvero che gli immigrati arrivino sulle coste
libiche per poi venire in Europa, bosogna creare possibilità di vita
civile in Africa, nei paesi di partenza.

Com'è possibile che l'autorevolel Corriere della Sera in questi giorni,
abbia deciso di offrire ai suoi lettori davvero un incredibile
"servizio storico": raccontare la cronologia dell'avventura italiana in
Libia con sole due date, il 1911 e il 1970?

Sì, è incredibile. A parte le inesattezze raccontate: non sono turche
le truppe che infliggono la dura sconfitta agli italiani a Sciara
Sciat, erano soprattutto i libici, che avevano fatto comunella con i
turchi, cosa che gli italiani non si aspettavano, perché il console
Galli aveva detto purtroppo che i 100.000 italiani che sbarcavano col
generale Caneva sarebbero stati accolti con i tappeti rossi. Ma il
fatto più grave è che così si dimentica la resistenza libica.
Praticamente ci si ferma alla presenza italiana in Libia, allo sbarco,
ma si cancella poi quello che è stato il periodo più drammatico e
sanguinoso, che va dal 1919-1921 al 1932, con la riconquista della
Libia fatta con i metodi di Badoglio e di Graziani. Fini dimentica
completamente che è proprio in base a questi crimini che i libici hanno
creato la giornata della vendetta, perché sono soprattutto memorie che
loro non possono cancellare. Cè un palazzetto a Tripoli, il Palazzetto
del Mutilato, dove ci sono le schede di tutti le 100.000 vittime
dell'occupazione militare italiana, ogni morto, quando è possibile, ha
vicino una foto con la descrizione dei motivi della sua morte: se in
combattimento, o fucilato, o impiccato.

Il giorno della vendetta è il 24 ottobre 1911, quello della battaglia
di Sciara Sciat?

Sì. Lo ricordano perché, dopo l'uccisione di alcune centinaia di
soldati italiani, ci fu la reazione terrificante di Giolitti. Ci sono
telegrammi che lui invia al generale Caneva veramente terribili, come
quelli che Mussolini inviava a Badoglio e a Graziani durante la guerra
del `35-'36 in Etiopia dicendo: «Usate i gas». Non solo. Ci sono stati
circa un migliaio di morti in rappresaglie e poi, la cosa più grave,
4000 libici sono stati deportati in Italia. Anche su questi deportati -
sono 5000 tra l'11 e il `40 - i libici chiedono notizie. Anche su
questo abbiamo promesso e mai mantenuto. Come non abbiamo mai visto in
Italia il film su Omar el Mukhtar, l'eroe nazionale libico. Impiccato
nel 1932 dagli italiani.

---

Disfatte, non solo Sciara Sciat

E' in libreria da alcune settimane il nuovo libro dello storico del
colonialismo, Angelo Del Boca, «La disfatta di Gasr Bu Hàdi», con un
sottotitolo illuminante «1915: il colonnello Miani e il più grande
disastro dell'Italia coloniale», edito da Mondadori (pp. 149, 14 euro).
Il libro descrive una sconfitta italiana peggiore di quella di Sciara
Sciat nella Libia del 1911, oggetto in questi giorni della richiesta
del vicepremier Gianfranco Fini che si rivolge a Tripoli perché
cancelli quella data dalle celebrazioni nazionali libiche. Si parla del
1915, subito dopo l'abbandono fatto dagli italiani del Fezzan, la
regione interna della Libia, che gli italiani avevano appena occupato.
E' una storia «grande» che si avvale della narrazione di una storia
«minima», quella di una figura militare: il colonnello Miani, che aveva
guidato una spedizione straordinaria, conquistando con 1200 uomini e 10
cannoni la vastissima regione interna del Fezzan, grande come l'Italia.
Poi però, non avendo ricevuto aiuti e rinforzi per consolidare
l'occupazione dal ministro delle colonie Ferdinando Martini, fu
costretto a soccombere di fronte alle nuove rivolte della popolazione
libica. La disfatta di Gasr Bu Hàdi peserà molto sul successivo
sviluppo del colonialismo italiano.

E' un libro molto accurato. Contiene una novità straordinaria: 87
fotografie scattate dallo stesso colonnello Miami, finora inedite, mai
viste sulla più che documentata conquista italiana della Libia del
1914-1915 e veramente stroardinarie.

---

Dal 1911 al 1970, cronologia dell'avventura militare, e non solo, degli
italiani in Libia

3 ottobre 1911 - I centomila soldati agli ordini del generale Caneva
sbarcano sulle coste di Tripolitania e Cirenaica, dopo l'ultimatum
italiano respinto dalla Turchia.
23 ottobre 1911 - Le truppe turche sostenute da partigiani libici
attaccano gli italiani a Sciara Sciat e ne fanno scempio. Giolitti
ordina a Caneva la repressione più dura. E' la caccia all'arabo, 4 mila
libici vengono deportati in Italia.
18 ottobre 1912 - Con la pace di Ouchy, l'Italia entra in possesso
della Libia e delle isole del Dodecaneso. Ma al momento del cessate il
fuoco occupa solo le coste.
12 agosto 1914 - Con l'occupazione di Ghat, il colonnello Antonio Miani
completa la conquista del Fezzan.
28 novembre 1914 - Comincia, con la decimazione della guarnigione di
Sebha, la grande rivolta araba. Gli italiani ritirano tutti i presidi.
29 aprile 1915 - Il colonnello Miani viene battuto a Gasr bu Hadi. Il
ministro delle Colonie Ferdinando Martini confida agli intimi: «Peggio
di Adua!».
1922-1932 - La riconquista della Libia, già avviata con i governi
liberaldemocratici, viene completata da Mussolini, il quale non
risparmia ai libici le peggiori atrocità: si distingue il generale
Rodolfo Graziani, soprannominato «macellaio degli arabi».
16 settembre 1931 - Nel campo di concentramento di Soluch viene
impiccato l'anziano leader della resistenza Omar el-Mukhtar.
22 gennaio 1943 - Gli inglesi occupano Tripoli, dopo aver battuto ad
El-Alamein le forze italo-tedesche. Con la perdita della Libia finisce
l'impero coloniale italiano.
1 settembre 1969 - Con un colpo di stato incruento, il giovanissimo
Gheddafi si impadronisce del potere.
21 luglio 1970 - Gheddafi promulga tre leggi per la confisca dei beni
degli italiani e degli ebrei e l'espulsione di tutti i membri delle due
comunità.

(english)

Quelli che vogliono squartare la Russia (5)

1. The Chechens' American friends (John Laughland / The Guardian)

2. North Ossetia: Self-Determination and Imperial Politics (James
Petras)

3. Europe's "moral imperialism" (Ivan Nikola Guerra / Pravda.ru)

4. Putin accuses 'complicit' West of harbouring Chechen
terrorists (Chris Stephen / The Scotsman)


MORE LINKS:

Chechnya: From BHHRG's archives
http://www.bhhrg.org/LatestNews.asp?ArticleID=45

Beslan: The real international connection (by Brendan O'Neill)
http://www.spiked-online.com/Printable/0000000CA6CA.htm

Putin vents his anger at the West: Don't tell me to talk to
child-killers
http://news.independent.co.uk/low_res/
story.jsp?story=559044&host=3&dir=73


=== 1 ===

http://www.guardian.co.uk/print/0,3858,5010448-103677,00.html
http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,,1299318,00.html
http://www.artel.co.yu/en/izbor/Krize_u_svetu/2004-09-13.html
http://www.oscewatch.org/pressDetails.asp?ArticleID=25

The Guardian September 8, 2004


The Chechens' American friends

The Washington neocons' commitment to the war on
terror evaporates in Chechnya, whose cause they have
made their own

By John Laughland


An enormous head of steam has built up behind the view
that President Putinis somehow the main culprit in the
grisly events in North Ossetia. Soundbites and
headlines such as "Grief turns to anger", "Harsh words
for government", and "Criticism mounting against
Putin" have abounded, while TV and radio
correspondents in Beslan have been pressed on air to
say that the people there blame Moscow as much as the
terrorists. There have been numerous editorials
encouraging us to understand - to quote the Sunday
Times - the "underlying causes" of Chechen terrorism
(usually Russian the widespread use of the word
"rebels" to describe people who shoot children shows a
surprising indulgence in the face of
extreme brutality.

On closer inspection, it turns out that this so-called
"mounting criticism" is in fact being driven by a
specific group in the Russian political spectrum - and
by its American supporters. The leading Russian
critics of Putin's handling of the Beslan crisis are
the pro-US politicians Boris Nemtsov and Vladimir
Ryzhkov - men associated with the extreme neoliberal
market reforms which so devastated the Russian economy
under the west's beloved Boris Yeltsin - and the
Carnegie Endowment's Moscow Centre. Funded by its New
York head office, this influential thinktank - which
operates in tandem with the military-political Rand
Corporation, for instance in producing policy papers
on Russia's role in helping the US restructure the
"Greater Middle East" - has been quoted repeatedly in
recent days blaming Putin for the Chechen atrocities.
The centre has also been assiduous over recent months
in arguing against Moscow's claims that there is a
link between the Chechens and al-Qaida.

These people peddle essentially the same line as that
expressed by Chechen leaders themselves, such as Ahmed
Zakaev, the London exile who wrote in these pages
yesterday. Other prominent figures who use the Chechen
rebellion as a stick with which to beat Putin include
Boris Berezovsky, the Russian oligarch who, like
Zakaev, was granted political asylum in this country,
although the Russian authorities want him on numerous
charges. Moscow has often accused Berezovsky of
funding Chechen rebels in the past.

By the same token, the BBC and other media sources are
putting it about that Russian TV played down the
Beslan crisis, while only western channels reported
live, the implication being that Putin's Russia
remains a highly controlled police state. But this
view of the Russian media is precisely the opposite of
the impression I gained while watching both CNN and
Russian TV over the past week: the Russian channels
had far better information and images from Beslan than
their western competitors. This harshness towards
Putin is perhaps explained by the fact that, in the
US, the leading group which pleads the Chechen cause
is the American Committee for Peace in Chechnya
(ACPC). The list of the self-styled "distinguished
Americans" who are its members is a rollcall of the
most prominent neoconservatives who so enthusastically
support the "war on terror".

They include Richard Perle, the notorious Pentagon
adviser; Elliott Abrams of Iran-Contra fame; Kenneth
Adelman, the former US ambassador to the UN who egged
on the invasion of Iraq by predicting it would be "a
cakewalk"; Midge Decter, biographer of Donald Rumsfeld
and a director of the rightwing Heritage Foundation;
Frank Gaffney of the militarist Centre for Security
Policy; Bruce Jackson, former US military intelligence
officer and one-time vice-president of Lockheed
Martin, now president of the US Committee on Nato;
Michael Ledeen of the American Enterprise Institute, a
former admirer of Italian fascism and now a leading
proponent of regime change in Iran; and R James
Woolsey, the former CIA director who is one of the
leading cheerleaders behind George Bush's plans to
re-model the Muslim world along pro-US lines.

The ACPC heavily promotes the idea that the Chechen
rebellion shows the undemocratic nature of Putin's
Russia, and cultivates support for the Chechen cause
by emphasising the seriousness of human rights
violations in the tiny Caucasian republic. It compares
the Chechen crisis to those other fashionable "Muslim"
causes, Bosnia and Kosovo - implying that only
international intervention in the Caucasus can
stabilise the situation there. In August, the ACPC
welcomed the award of political asylum in the US, and
a US-government funded grant, to Ilyas Akhmadov,
foreign minister in the opposition Chechen government,
and a man Moscow describes as a terrorist. Coming from
both political parties, the ACPC members represent the
backbone of the US foreign policy establishment, and
their views are indeed those of the US administration.

Although the White House issued a condemnation of the
Beslan hostage-takers, its official view remains that
the Chechen conflict must be solved politically.
According to ACPC member Charles Fairbanks of Johns
Hopkins University, US pressure will now increase on
Moscow to achieve a political, rather than military,
solution - in other words to negotiate with
terrorists, a policy the US resolutely rejects
elsewhere.

Allegations are even being made in Russia that the
west itself is somehow the purpose of such support is
to weaken Russia, and to drive her out of the
Caucasus. The fact that the Chechens are believed to
use as a base the Pankisi gorge in neighbouring
Georgia - a country which aspires to join Nato, has an
extremely pro-American government, and where the US
already has a significant military presence - only
encourages such speculation. Putin himself even seemed
to lend credence to the idea in his interview with
foreign journalists on Monday.

Proof of any such western involvement would be
difficult to obtain, but is it any wonder Russians are
asking themselves such questions when the same people
in Washington who demand the deployment of
overwhelming military force against the US's so-called
terrorist enemies also insist that Russia capitulate
to hers?


John Laughland is a trustee of the British Helsinki
Human Rights Group - www.oscewatch.org


=== 2 ===

http://archives.econ.utah.edu/archives/a-list/2004w37/msg00031.htm

North Ossetia: Self-Determination and Imperial
Politics

James Petras - September 8, 2004

The monstrous deliberate slaughter of over 330 parents
and children in the Beslan school gymnasium by Chechen
terrorists is not as the BBC claims a “tragedy” but a
vicious criminal act.

To understand the nature of the conflict between the
Russian state and the Chechen terrorists it is
important to focus on the socio-political forces and
issues in dispute. For the bulk of the US and European
media the issue is the ‘self-determination” of the
Chechens. But who and what does the ‘self” refer to ?
With the disintegration of the former Soviet Union,
both in Russia and in the Baltic, Balkan and Caucasian
states criminal gangs allied with corrupt members of
the former Soviet apparatus seized and pillaged public
resources controlling the economies and state
apparatus. Gangsters became billionaires and
billionaires contracted assassins to eliminate rivals,
competitors and any regulatory authorities who
questioned their practices. According to Paul
Klebnikov - the recently assassinated editor of the
Russian edition of Forbes Magazine - one of the most
brutal of the vicious gangs operating in Moscow was
the Chechen mafia. Allied with Russian billionaires
and through them with the Russian security system they
accumulated large fortunes which they laundered via
Western banks and through their extensive networks
with their operatives in Chechnya. Any Chechen who
protested or questioned the Chechen mafia was quickly
eliminated. For the Chechen mafia operating in Russia,
Chechnya was the “home base” - the sanctuary to which
they could always find a safe haven. The Chechen mafia
was instrumental in financing arming and providing
military cadres and leaders to the Chechen
“independence movement”. What was at stake was the
creation of a mafia fiefdom controlled by gangsters,
warlords and Islamic fundamentalists.

Writing of the First Chechen War (1994-96), Paul
Klebnikov wrote:

“The Chechen War was a gangster turf war writ large.
Chechen organized crime groups in Moscow and other
Russian cities maintained subsidiaries in their
ancestral homeland. Chechnya was a key transit point
in the Russian narcotics trade and the Moscow-based
gangsters sent a large part of their profits back to
the homeland. The same Russian officials and security
officers who patronized Chechen organized crime groups
in Moscow also patronized the Chechen government by
allowing (it) to appropriate millions on tons of
Russian oil at little or no cost” (Godfather of the
Kremlin, Harcourt 2000, page 40).

Klebnikov went on to point out that the Chechen
warlords and gangsters received their arms from
corrupt Russian army commanders and security forces
(page 41). To the question of who are the political
forces of self-determination in the case of Chechnya,
the answer is the gangsters, warlords, and extremist
terrorists, like Shamil Basayen, Salman Raduyev and
fundamentalists like Movladi Udugov. Between 1995-97
the notorious Russian oligarch, Boris Berezovsky,
maintained a close relationship with these Chechen
warlords (Klebnikov, page 261). Today they both share
a common and absolute hostility to President Putin and
his attempt to control crime and pillage.

Chechen warlords sought to gain a semblance of
“legitimacy” for their fiefdom by provoking a conflict
with Russia and securing US and European support. From
the end of the 1980’s, but particularly after 1991,
the CIA gave the highest priority to fomenting the
break up of the Soviet Union by financing and arming
local separatist movements. The first wave of
break-ups took place in Kazakhstan, Uzbekistan and
Georgia. Washington and London were not at all
concerned about whether the new leaders were Islamic
fundamentalists, ex-Stalinist autocrats, or Mafia
gangsters - the important issue was to destroy the
USSR, and undermine Russian influence throughout the
Caucasus and South Asia. Following the “independence”
of these former Soviet republics, the US especially
moved in to create client regimes, signing oil
contracts and building military bases.
‘self-Determination” was a transitional slogan toward
rapid incorporation into the new US hegemonic zone.
Russia under US client ruler Yelsin acceded to all
these US acquisitions “advised” by gangsters, mafia
billionaires and the most corrupt “oligarchs” in
recent history.

The US empire, having succeeded in the first wave of
client acquisition, moved further to foment a second
wave to include other Russian autonomous territories,
even closer to strategic centers of the Russian state.
Chechnya was a choice target for historic reasons.
During the US-sponsored Islamic uprising and invasion
against the secular reform-minded Afghan republic in
1989, Washington teamed up with Saudi Arabia, Pakistan
and other Muslim states (including Iran) to recruit,
finance and arm tens of thousands of Muslim
Fundamentalists from all over the Middle East, North
Africa, Southern Caucasus and Southern Asia. Numerous
“volunteers” from Chechnya fought in Afghanistan
against the Afghan government and its supporters. The
US achieved a pyrrhic victory in Afghanistan: it
severely weakened the decaying Soviet state, but
created tens of thousands of well-armed and trained
fundamentalist network. While one sector of the
Islamic forces went into opposition to the US in Saudi
Arabia and elsewhere another group lent itself to US
imperial strategy in the dismemberment of Yugoslavia
and Russia.

Thousands of Afghans fighters from the Fundamentalist
armies went to Bosnia, where they were armed and
financed by the US to fight against the Yugoslavs and
in favor of a separatist state under US tutelage.

Many writers on the left ignored the presence of these
“volunteers” who were in the frontlines in ethnic
purges of Serb enclaves and who detonated a terrorist
bombing in a major market in Sarajevo to focus Western
opinion on Serb “genocide”. Following the successful
dismemberment of the major regions of Yugoslavia and
the division of the new “mini-states” into US and
European clients, the US moved toward adding a new
regions to the empire. Washington and Europe backed
the separatist Kosovo Liberation Army, first with
financing, training and arms and later by declaring
war against the remnant of Yugoslavia. Chechens
participated with the so-called Kosovo Liberation
Army, a widely recognized terrorist group that was
classified as “criminal” by Interpol prior to becoming
a Washington client. The KLA was financed from several
“internal sources”. In part it derived funds from its
control over the drug routes from South Asia and the
Middle East and in the large-scale trade in sex
slaves. Later it raked in dollars and euros from the
brothels in “liberated” Kosovo. Above all it stole
land, businesses and personal property from the
expelled Serb population and stole billions of dollars
from Western aid. Under Nato protection, the KLA
ethnically cleansed over 200,000 residents who were
not ethnic Albanians and became a de-facto client
state living off of Western handouts and with all of
its factories and mines shut. The US contracted
Halliburton to build huge military bases in Southern
Europe, Kosovo, Bosnia and Afghanistan all of which
were US battlegrounds where Washington had sponsored
separatist movements under the guise of
‘self-determination”. These are all now being
converted into client states.

Chechen separatists developed close working relations
and terrorist skills working with the US and Western
Europe in all of these conflicts and became the
beneficiaries of US diplomatic, political and military
support (via Saudi Arabia). Like the Kosovars, the
Chechen leaders came out of a mafia-financed network,
which uses nationalist rhetoric to cloak gangster
rule.

Throughout the 1990’s to the present, the West has
backed the Chechen terrorists even as they draw
heavily on support from Moscow gangsters and Islamic
fundamentalists. Their leaders embrace a “rule or
ruin” policy, refusing any status except to separate
from Russia and become a US client. For the US, a
victory for the Chechen terrorists would become a
springboard for further dismemberment of Russia
throughout the Caucasus.

The Chechens combine the violent tactics they learned
in controlling gangland activity in Russia with the
terrorist practices of the Afghan war which targeted
female rural school teachers and medical workers for
beheading, throat slitting and the skinning of
“Communist” captives alive. Their current practice of
placing of bombs in theaters, airplanes, apartment
complexes and the horrible killing and maiming of
hundreds of school children and their parents and
teachers has a bloody, US-sanctioned precedent. The
Chechens combine the worse of the Mafia and Islamic
fundamentalists - cold-blooded murder of innocent
victims to establish theocratic warlord rulership.
Western Policy In response to the Chechen terrorist
assaults, all the Western mass media continued to
refer to them as “nationalists”, “militants”, “rebels”
and as legitimate representatives of the Chechen
people, even after they had massacred the school
children. In the immediate aftermath, all the print
and electronic media, from the BBC to the Guardian, to
Le Monde, New York Times etc. criticized the Russians
for failing to negotiate with the terrorists - even as
the terrorists were murdering children and even after
they had set off explosives maiming innocent kids.
Nothing captures the profound media commitment to
empire and backing for the dismemberment of Russia
than its support of the terrorists in the midst of
mass murder. The most primitive and craven support for
terrorist demands in the midst of national grief and
international outrage finally provoked the Russian
state to react with indignation - and for some of the
media to temporarily downplay its support of the
terrorists and the breakup of Russia.

The Russian media was no exception. Most of the
privately owned media and commentators yearn for the
return of the Yeltsin period of servility and
enrichment and seek to discredit and destroy the Putin
regime. Many of the billionaire oligarchs have close
working relations with the Chechen leaders, especially
Boris Berezovsky. The oligarchs and their pundits in
the Russian media echo the Western political and media
line of blaming the Russian security forces rather
than the Chechen terrorists. Eyewitness survivors
provide vivid accounts of bombing and killings prior
to the Russian rescue operations - thus putting the
lie to the Western cover-up for the terrorist action.

In England the British government provides asylum to a
major Chechen terrorist leader sought by Russian
authorities. In the United States, one of Chechnya’s
separatist leaders, Ilyas Akhadov, was given asylum
last August, largely through the efforts of “American
Committee for Peace in Chechnya” chaired by Carter’s
National Security Adviser Zbigniew Brzezinski and
Reagan’s Secretary of State Alexander Haig - principle
backers of the Fundamentalist invasion and destruction
of the secular Republic of Afghanistan in the 1980’s.
Brzezinski’s life-long obsession has been the total
dismemberment of Russia - and its reduction to a
feudal enclave controlled by the West via local
oligarchs, warlords and gangsters - like those he
backs in Chechnya. Brzezinski and his neo-conservative
colleagues in the National Endowment for Democracy -
the civilian face of the CIA - awarded this terrorist
‘spokesman” a research grant, including a monthly
allowance, medial insurance and travel expenses.

Anglo-US governments and their “political fronts”
provide sanctuary to the Chechen terrorist leaders as
part of their strategy to sustain a war of attrition
against Russia and especially Putin using the Chechen
people as guinea pigs. The outcome of Chechen
independence would most likely resemble Kosovo - a
client state, with a big US military base, run by
gangsters and warlords, trafficking in drugs,
sex-slaves and military contraband - and deeply
involved in fomenting separatist terror along Russia’s
southern border - namely the Republic of Dagestan
(which is multi-ethnic and close to the oil and gas
rich Caspian Sea). The enemy of Russia is not an
autonomous Chechen Republic but a terrorist
gangster-run state, controlled by US and British
security forces, aimed at further dismembering Russia
and destroying Putin’s efforts to reform the Russian
state.

One of the possible unanticipated consequences however
is that the terrorist slaughter and maiming of
hundreds of children and parents in Beslan’s public
school, may give Putin the chance to get rid of all
the security officials left over from the Yeltsin
regime. It may force Putin to create a new efficient
security regime capable of breaking up the gangs and
gangsters (Chechen and otherwise) who have financed
the terrorists. More important he will have to realize
that Anglo-US imperialism is not a partner against
terror but an accomplice of terrorists in their
mission to fragment Russia and destroy its public
authority. Conclusion To understand Washington’s
application of the principle of ‘self-determination”
of nations requires a critical class perspective of
the concept. Washington applies it in cases like
Kosovo and Chechnya where it controls the client
forces, despite their political illegitimacy their use
of terrorist methods. For the Anglo-American empire
builders ‘self-determination” is used as a slogan to
dismember adversarial states, and convert the new
mini-entity into an enclave or military base and
political client.

The fundamental question that needs to be raised prior
to the issue of self-determination is what is the
nature of the political and social forces supporting
self-determination - are they part of a national
project or are they mere puppets of an imperial power
struggle. Chechnya illustrates the latter, while Iraq
and Palestine represent cases of independent national
struggles against colonial occupation. The rather
mindless support of many on the left of the Kosovo and
Chechen gangsters under the principle of
‘self-determination” without any prior analysis of the
context and politics reveals their mediocrity and
worse their servile submission to imperial propaganda.

The question of the day is Anglo-American global
imperial expansion - directly through colonial wars
and indirectly through surrogate ‘separatist”
terrorists. The mass murder in Chechnya should at a
minimum, provoke some critical re-thinking of the
issue of what is involved in the Chechen War, who are
its backers and who stands to benefit.

In the United States the principle backers of the
Chechen ‘separatists” are the same neo-conservative
Zionists, who promoted the invasion of Iraq and are
unconditional backers of Israel and ethnic cleansing
of Palestinians: Perle, Wolfowitz, Ledeen, Feith and
Adelman among others. The pro-Chechen “left” travels
with strange comrades!

The dual standards which the US and Europe apply when
evaluating terrorism is most blatantly evident in the
case of Chechnya’s terrorist leaders. Ilyas Akmadov
was awarded asylum in the US despite the fact that
Russian security investigators claim they have
evidence of Akhmadov’s ties to Chechen terrorist
leaders, Aslan Maskhadov and the notorious Shamil
Basayev. Britain has granted asylum to Akmed Zakayev -
a spokesman for Maskhadov and a “Cultural Minister” of
his “opposition government”, as the terrorist network
is referred to by their sponsors. Maskhadov has sent
Umar Khabuyev to France, Apti Bisultanov to Germany ,
among other “ministers at large”. The Western regimes
demonstrate that when it comes to pro-Western Chechen
terrorist there is no crime - even the mass murder of
over 150 children - which is sufficiently brutal to
warrant extradition.

Western regimes” dual policy toward terrorism is
informed by the question of whom the terror is
directed against. It is a myth to speak, as Washington
does, of worldwide struggle against terror. Washington
and Europe in the past and in the present support
terrorist groups in Kosovo, Afghanistan and Chechnya -
as they supported them in the 1980’s in Nicaragua,
Mozambique and Angola. For Washington, the issue of
terror is subordinated to a more basic question: Does
it weaken the enemies or opponents of empire? Does it
lead to future military bases? Can the terrorist
groups be recycled as client regimes? For the past 13
years the US and Europe has been instrumental in
fomenting separatist movements in the former Soviet
Union, Russia and Yugoslavia, which practice terror
and violence to secure their aims. It is only recently
that President Putin has come to realize that there is
no end to imperial expansion - short of Red Square.
His co-operation with Washington in fighting terror
directed against the US (Al Queda) has not resulted in
reciprocal support for Russian efforts to defeat
terror in the Caucasus. The big question is whether
Putin is willing or able to have a complete
reappraisal of Russian foreign policy especially a
reappraisal of US-Russian relations, which is central
to the Kremlin’s struggle against terror.

Finally one may ask why do so many apparent
“progressives” and “leftist intellectuals” parrot the
US imperialist line of ‘self-determination” for
Chechnya? Is it ignorance of the social forces in
Chechnya? Do they simply decontextualize terrorist
acts and impose abstract principles out of slovenly
intellectual habits? Or are they simply bending to
pressure by their right-wing colleagues to
“consistently support ‘self-determination”
everywhere”? Whatever the case these pro-imperialist
toadies are incurable: Even in the midst of Chechen
mass murder of harmless children in Beslan, they blame
“the Russians for not surrendering to terrorists”
demands. Did any of these progressives and principled
leftists condemn Bush after 9/11 for not negotiating
and rewarding Osama Bin Laden? Of course not! They
supported Bush’s “war on terrorism” even when it
involved invading and occupying a foreign country. Why
then the reticence in supporting Putin’s effort to
stamp out terrorism within the boundaries of Russia?
Can it be that the progressives have more in common
with their imperial rulers than they care to admit,
especially when it comes to questions of war and
peace, terrorism and self-determination?


=== 3 ===

http://english.pravda.ru/printed.html?news_id=14094

Europe's "moral imperialism" - 09/07/2004 15:27

I am reading about the ridiculous will of the European driven diplomacy
to request from Russians an "urgent explanations" to the outcome of
Beslan tragedy.

What I asked to myself is "what kind of right they presume to have in
order to demand explanations"?

The real question is: even in a world without war, in a world of
established of democracy, in a world without starving people, is
imperialism possible?

I was tempted to reply "in such a world, it is impossible", then the
European position about Russia made me change the idea. Another kind of
imperialism is possible.

An imperialism with no weapons, with no economic power. A "moral"
imperialism.

Let us take some nations and build them an image of human right
defenders. Let us built them the image of the Kant's republic of peace.
Let us create them an image of pure, angelic

total democracy-driven country. Let us create them an image of "the
land of the true freedom, the land of true pacific collaboration
between peoples".

Let them bring any positive moral attribute. What will be the result?
The result will be they will acquire a terrific moral weight. This
means, they will acquire moral authority.

They will be able to judge anyone in the world. They will be the

absolute court, being able to put on trial entire peoples, their
leadership, anything.

In a democracy-based world, a negative sentence of that "moral court"
can erode any politician, can expel any person or any group from the
civic behavior. Condemnation from that moral court will became a real
ostracism, in the ancient Greek sense of the term: people are literally
expelled from the civic community, period.

What is the matter of that supposed "moral supremacy"? What is its
purpose? The purpose is imperialism.

Being able to go in whatever place and say "this is right, this is
wrong, you should do this, you shouldn't do that".

A new kind of imperialism, that uses the conscience of masses to
erode leadership, and uses moral condemnation to manipulate the
conscience.

I think it was very important that Russia refused any bound about
that imperialism. I think that because, I hope, in future the world
will be really a peaceful word , and I hope democracy will be raised
everywhere. And I think if we accept that "moral supremacy" of some
countries (Holland, Belgium, France, Germany, Sweden, Norway), then we
will fall under a new

kind of imperialism. We will lose our freedom, even in a "human
right" dressed way to lose them.

Perhaps I have in mind that the "moral supremacy" of the Middle
Europe is a false under the historical point of view. All that
countries were powerful and especially the later colonialists countries.

Belgium should explain to the whole world its role in the Lumumba
affair. And I am not talking things happened 300 years ago, I am
talking about the events occurred some decades ago. Holland should
explain to us its role in that Luna-park that was the apartheid regime
in South Africa. France left Algeria in the 60 decades. Germany...OK,
don't shot fishes in a glass.

What are the historical reasons of that "moral supremacy" they claim
to have? What is the right they created a court in their country that
have authority everywhere in the world, claiming upper of the state
authority of any other government?

I am glad that president Putin defined their position as "blaspheme".

Just an example: Italy had the strongest terrorism phenomena in the
whole West Bank, during the 1970-80s decades. We beat them. We are the
only nation in the West Bank that can claim to have really beaten an
entire branch of terrorism.

In that period that kind of Imperialism was started, and France gave
asylum to some of the most ferocious terrorist. They said we were
"violating their civil rights".

What was the result?

The result is now one ferocious terrorist they given asylum,
condemned in Italy for 4 cold-blood reasonless murders

is wanted by the French police, escaping and hiding in THEIR country,
and they are shaming of that with us.

That is the result of "moral supremacy" they want to build. I
disagree, this is not morality, this is a moral driven imperialism.

This is the reason I approve the position of the president Putin and
of the whole Russia about that Europe driven diplomacy. I think we must
destroy that moral imperialism while it is beginning, forbidding that
countries to have any power out of their borders.

If we fail, we will be condemned to a perpetual trial, a trial with
Middle-European judges who decide what is right and what is wrong to do
in our own houses.

Ivan Nikola Guerra

PRAVDA.Ru


=== 4 ===

http://news.scotsman.com/international.cfm?id=1094802004

The Scotsman
September 18, 2004

Putin accuses 'complicit' West of harbouring Chechen terrorists

CHRIS STEPHEN

The Russian president, Vladimir Putin, yesterday
accused the West of harbouring Chechen terrorists,
speaking hours after rebel leader Shamil Basayev
claimed responsibility for the Beslan school massacre.

In a statement likely to further chill Russia’s
cooling relations with Europe and the United States,
Mr Putin said the West’s "patronising and indulgent
attitude to the murderers amounts to complicity in
terror".
His remarks came the day after Moscow summoned
Britain’s chargé d’affairs, Stephen Wordsworth, to the
Russian foreign ministry to hear complaints about
London’s decision to grant asylum to a Chechen
politician and an exiled Russian tycoon.
Mr Wordsworth was told that the men, Chechen rebel
spokesman Akhmed Zakayev and tycoon Boris Berezovsky,
should be stopped from making "slanderous statements".

Meanwhile, the Organisation for Security and
Co-operation in Europe has criticised Moscow for
failing to provide accurate coverage of the Beslan
siege and accused the government of opening a
"credibility gap" between the state, media and the
people.
A day of dramatic announcements began with the
statement, via a rebel website, that Chechen guerrilla
leader Basayev was finally accepting responsibility
for the Beslan attack, saying a unit named
Riyadus-Salikhin carried out the operation.
But Basayev insisted it was government forces, not his
rebels, that were responsible for the massacre two
weeks ago that has left 326 dead and another 100
people missing.
"A terrible tragedy occurred in the city of Beslan.
The Kremlin vampire destroyed and wounded 1,000
children and adults," said the Basayev statement.
He repeated an earlier offer of peace if the Kremlin
would grant Chechnya independence, something Moscow
has ruled out. "We can guarantee that all of Russia’s
Muslims would refrain from armed methods of struggle
against the Russian Federation, at least for ten to 15
years," said the statement.
The United States yesterday denounced Basayev’s
admission. The US deputy secretary of state, Richard
Armitage, said: "He has proved beyond the shadow of a
doubt that he is inhuman."
Basayev’s comments have also ended speculation that
the Beslan slaughter might trigger a pause in
fighting, with the rebel leader, Russia’s most wanted
man, saying more attacks would follow.
"We are not bound by any circumstances, or to anybody,
and we will continue to fight as is convenient and
advantageous to us, and by our rules," he said.
What sort of attacks those rules allow is unclear, but
Russia has been battered by a violent summer of
attacks that its security forces have been powerless
to prevent.
Mr Putin, meanwhile, accused the West of hypocrisy by
fighting against Osama bin Laden while at the same
time giving sanctuary to Chechen rebels. "We faced
double standards in the attitude towards terrorism,"
he said.
Mr Putin warned that attempts to negotiate with
Chechen separatists were as dangerous as the
appeasement of Nazi Germany in the years before World
War Two.
"I urge you to remember the lessons of history, the
amicable deal [with Adolf Hitler] in Munich in 1938,"
he said. "Any surrender leads to them widening their
demands and makes losses worse."
Mr Putin’s comments are likely to put further distance
between Russia and the West, which has repeatedly
criticised Russia for human rights violations in
Chechnya.
Eyebrows were raised in Europe this week when Mr Putin
announced that, as part of his campaign against
terrorism, he would scrap elections for Russia’s
regional governors, and will appoint them himself.
Britain is in the firing line because of its decision
to give Berezovsky and Zakayev asylum.
Russia regards Zakayev as a terrorist, and wants
Berezovsky, a former television mogul and
power-broker, to return to Russia to face fraud
investigators. Both exiles are frequent critics of Mr
Putin. ....

LA SCONCERTANTE SOMIGLIANZA TRA GLI EFFETTI DELL'URAGANO IVAN E QUELLI
DELLE BOMBE DELLA NATO


http://www.webheaven.co.yu/usa/ivan/parallel.htm

Da: "minja m."
Data: Lun 20 Set 2004 04:50:15 Europe/Rome
A: 1 KPAJ 3A HATO <kpaj-3a-hato@ mailcity.com>
Oggetto: [Fwd: Ivan - Amazing Similarity]

-------- Original Message --------
Subject: Ivan - Amazing Similarity
Date: Sun, 19 Sep 2004 22:21:46 +0200
From: Andrej Tisma

Ivan - Amazing Similarity

Hurricane Ivan has hit Florida, USA in mid September of 2004 causing
chaos and carnage among citizens. Houses and bridges were torn down,
and panic was seen in people's eyes. The effects were similar to those
of the NATO bombing of Yugoslavia in 1999 led by the USA. See here some
examples of that amazing similarity of destruction scenes.

http://www.webheaven.co.yu/usa/ivan/parallel.htm

[ Sul caso del pestaggio subito da Michel Collon a Bruxelles da parte
di poliziotti durante una manifestazione contro i bombardamento della
NATO sulla Jugoslavia vedi anche:

I minuti più lunghi della mia vita
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3577 ]


21/9: Brutalités policières à Bruxelles, dernière audience

par MICHEL COLLON

1. Audience mouvementée au procès Collon / Policiers de Bruxelles -
Ville : Lequel des deux ment ? (9/9/2004)

2. Demain, mardi 21/9, 8h45, dernière audience du procès Collon/ Police
de Bruxelles:
Le contribuable bruxellois paiera-t-il à la place de ses flics brutaux?

Voir aussi:
Les minutes les plus longues de ma vie. Pourquoi je demande justice
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3544
Reprise du procès Collon / Flics brutaux de Bruxelles
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3766

Bientôt sur le site www.michelcollon.info !


=== 1 ===

Audience mouvementée au procès Collon / Policiers de Bruxelles - Ville :

Lequel des deux ment ?

« L'une des deux parties ment complètement. Laquelle ? » Ce commentaire
d'une journaliste résume bien l'affaire Michel Collon contre police de
Bruxelles - Ville, poursuivie ce 6 septembre. Deux policiers sont
accusés d'arrestation arbitraire et de coups et blessures très graves
commis pour briser une manifestation contre la guerre de l'Otan en
Yougoslavie, le 3 avril 1999 (Voir précédent mail Les minutes les plus
longues de ma vie ).

La salle est encore plus remplie que la fois passée. L'audience débute
par la présentation des images tournées par différentes télés. Elles
montrent Michel Collon embarqué très rudement, mais intact, dans une
camionnette policière d'où il ressortira avec 4 côtes fracturées.

- Les policiers Van Impe et Jongen : « Nous n'avons pas frappé Collon
dans la camionnette qui l'emmenait vers le commissariat. Il gesticulait
et se démenait, alors nous avons dû le maintenir au sol mais nous ne
l'avons pas frappé. »
- Michel Collon : « Dès qu'il n'y a plus eu de témoin, ces deux
policiers n'ont pas cessé de me frapper à coups de poings sur la tête
et de coups de pied dans les côtes, durant toute la durée du trajet. »
- Le procureur Mawet : « Les policiers disent n'avoir rien fait. Mais
tous les autres témoins les contredisent. Pour ces brutalités
extrêmement graves, je réclame à leur encontre un an et huit mois de
prison, éventuellement avec sursis. Il s'agit de donner un
avertissement face à de tels actes, commis dans l'exercice de leurs
fonctions. »
Et il ajoute :
- « Les policiers prétendent que Monsieur Collon aurait eu ses 4 côtes
fracturées, non dans la camionnette où il se trouvait seul avec eux,
mais durant l'arrestation qui a précédé, où d'autres policiers sont
intervenus. Quel intérêt aurait-il à prétendre cela, puisque de toute
façon, il y aurait lieu à poursuites judiciaires ? »

"Tous des connards!"

Tout le réquisitoire du procureur taille en pièces la version
mensongère des deux policiers. Egalement dans une autre affaire où Van
Impe est poursuivi pour avoir arrêté et violemment tabassé un jeune
supporter éméché après le match Belgique - Russie en 2000. Là aussi,
Van Impe ment, déclare le procureur qui réclame huit mois
supplémentaires.
Comme à l'audience précédente, les deux brutes sont venues avec un 'fan
club' d'une quinzaine de collègues, à l'attitude arrogante et
menaçante. Lesquels 'supporters' se permettent de ricaner durant la
projection des images de l'interview accordée par Michel Collon sur son
lit d'hôpital, dans l'état qu'on imagine. Le procureur dénonce cette
attitude, une raison supplémentaire de donner une leçon à ces policiers.
Leçon manifestement pas comprise. En sortant du tribunal, un de ces
flics lance : « Ce ne sont tous que des connards ! »

Le procureur Mawet stigmatise également l'arrestation illégale et
arbitraire de Michel Collon, particulièrement visé comme organisateur
de la manifestation. Très important pour tous ceux qui ont eu ou auront
à faire à l'arbitraire policier : le procureur a indiqué les bases
juridiques de la question. « A supposer qu'il y ait un trouble de
l'ordre public, on ne peut faire usage de la force que d'une manière
raisonnable et après avoir épuisé toutes les autres possibilités de
solution (par la négociation) ». L'arrestation d'office est pour
certains flics un moyen d'intimider, d'établir leur pouvoir. Mais ils
n'en ont pas le droit.
Bon à savoir. En effet, plus nous racontons cette histoire, plus nous
entendons d'autres témoignages de victimes de brutalités commises
systématiquement dans certaines communes bruxelloises. Si vous en avez
la possibilité, ne vous laissez pas arrêter arbitrairement. Et si vous
l'avez été, déposez plainte. Vous avez des droits !

Faire confiance aux p-v?

Justement. A propos de la Justice dans ce genre d'affaires en général.
Le procureur dit : « Nous sommes bien obligés de faire confiance aux
procès-verbaux que nous transmettent les policiers ». Mais ici, il
laisse entendre clairement que les procès-verbaux des responsables de
la police ne disaient pas du tout la vérité. Alors, on se demande :
quand un jeune se fait accrocher arbitrairement par un policier, et
qu'il se retrouve pareillement accusé de 'rébellion', 'outrage' et
autres délits imaginaires, quand il n'a pas la chance d'avoir, comme
dans ce cas, des caméras de télévision autour de lui à ce moment, ainsi
que des témoins au-dessus de tout soupçon, quelle chance a-t-il
d'obtenir justice face à des mensonges policiers ?

Une dernière anecdote qui en dit long sur certaines mentalités. Le
policier Jongen a accusé les manifestants d'avoir « entonné des chants
de guerre ». En réalité, comme le démontrent les enregistrements TV, il
s'agissait du célèbre « We shall overcome », le chant de Joan Baez et
des pacifistes à l'époque de la guerre du Vietnam. Manifestement,
certains ne voient pas la paix comme tout le monde. (8.9.04)

Dernière audience : mardi 21 septembre, 8h45, Palais de Justice de
Bruxelles, 50ème chambre correctionnelle. Plaidoiries des policiers,
répliques des victimes et du procureur.


=== 2 ===

Demain, mardi 21/9, 8h45, dernière audience du procès Collon/ Police de
Bruxelles

Le contribuable bruxellois paiera-t-il à la place de ses flics brutaux?

MICHEL COLLON

C'est demain, mardi 21 septembre qu'aura lieu au palais de Justice de
Bruxelles, le procès de Lucien Van Impe et Bernard Jongen, poursuivis
pour m'avoir arrêté illégalement lors d'une manifestation pour la paix
en 1999 et fracturé 4 côtes.
Ces deux policiers nient, mais le procureur a démontré qu'ils
mentaient. Que vont-ils encore inventer?
Le procureur a aussi souligné que l'arrestation arbitraire est un délit
grave. Bon à savoir pour tous les manifestants à venir.

Mais, entre temps, la Ville de Bruxelles est, comme on dit, "intervenue
à la cause". Elle semble décidée à payer les dommages causés par ses
policiers brutaux.
Très curieux. Car un employeur est tenu de payer les dommages causés
par son employé, mais seulement s'il s'agit d'inadvertance ou de faute
légère. C'est par contre tout à fait exclu en cas de faute grave ou
intentionnelle comme ici. Cela veut-dire que le bourgmestre et sa
majorité communale couvrent de telles violences policières ? Ce serait
un curieux message 'démocratique" !

Encore plus curieux : une décision de ce genre doit normalement être
approuvée par les conseillers communaux. En ont-ils vraiment discuté ?
Expliqueront-ils au contribuable bruxellois que c'est à lui de payer
pour ces flics brutaux ? On sera très intéressé d'entendre ce qu'en
pensent les conseillers PS, PSC et Ecolo.

Sur l'attitude de l'ancien bourgmestre de Donnéa et de la Ville de
Bruxelles dans cette affaire, nous en dirons davantage à l'audience.

Tous ceux qui peuvent se libérer sont bienvenus. Il est important de
montrer à la police qu'elle n'a pas tous les droits!
Palais de Justice de Bruxelles, 50ème chambre correctionnelle, 8h45.


Semira Adamu : manif + débat

Samedi prochain, 25/9, auront lieu également à Bruxelles une
manifestation et un débat à l'occasion du 6ème anniversaire de la mort
de Semira Adamu, jeune réfugiée nigériane, assassinée par des gendarmes
à l'aéroport de Bruxelles.

Quelli che vogliono squartare la Russia (3)

1. I mandanti involontari degli attentati terroristici siedono nelle
redazioni dei giornali occidentali
“Hanno di nuovo ammazzato dei russi? Ovviamente, è colpa di Putin”
(Oleg Rjazanov, Pravda.ru - traduzione di Mark Bernardini)

2. Beslan, Basaiev rivendica: "Nella scuola siamo stati noi"
(Repubblica on line 17/9/2004)

3. Le mille fidanzate di Allah
«In Russia le attentatrici cecene di solito non si uccidono da sole.
Vengono fatte saltare in aria a distanza. Le uccidono da vigliacchi»
(Marina Forti, il manifesto - 03 Settembre 2004)


=== 1 ===

THE ORIGINAL TEXT, IN ENGLISH:
Editors of Western newspapers order terrorist acts unintentionally
(by Oleg Ryazanov)
http://english.pravda.ru/world/20/91/365/14107_tragedy.html

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I mandanti involontari degli attentati terroristici siedono nelle
redazioni dei giornali occidentali

07.09.2004 17:51

Sulle pagine di “PRAVDA.Ru” prosegue la discussione sull’atteggiamento
preconcetto della stampa e degli ambienti politici occidentali nei
confronti del problema del terrorismo in Russia. Le recenti
dichiarazioni del ministro degli esteri olandese, che ha preteso
spiegazioni dal governo russo in merito alla tragedia di Beslan, hanno
suscitato un’esplosione di emozioni. Successivamente, sono apparse
delle note in cui si affermava che le parole del ministro erano state
travisate e non aveva preteso alcunchè. Sarà... Ma allora come
interpretare le parole del primo ministro francese Jean-Pierre
Raffarin, che ha preteso dalla Russia le “necessarie informazioni” sui
fatti di Beslan? O le affermazioni del capo del ministero degli esteri
ceco, Kiril Svoboda: “Abbiamo il diritto ed il dovere di chiedere cosa
vi sia accaduto”? Quindi, probabilmente non è solo questione del
ministro olandese…

Per i giornalisti occidentali gli attentati terroristici sono un’ottima
occasione per raccontare della crudeltà di Putin.  I mandanti
involontari degli attentati terroristici siedono nelle redazioni dei
giornali e negli uffici dei difensori dei diritti dell’uomo.

L’obiettivo principale del grande gioco dei terroristi è proprio la
prevedibile reazione dei mass media occidentali. I terroristi hanno
compreso da un pezzo che dopo ogni loro sortita sanguinosa i
giornalisti europei e statunitensi, come i “cani di Pavlov”, daranno
una nuova bordata di critiche all’indirizzo della Russia: “Hanno di
nuovo ammazzato dei russi? Ovviamente, è colpa di Putin”.

Il primo ministro olandese ha preteso che gli si spieghi come sia stata
possibile la tragedia di Beslan? Ma poteva accadere anche nella
fortunata Olanda, se per vicini avesse la Cecenia anzichè il Belgio...

L’obiettivo dei terroristi gregari è quello di ammazzare più russi
possibile. Lo scopo dei capi terroristi è quello di fare della Russia
un Paese reietto, un paria.

Nelle pubblicazioni occidentali scrivono dei desaparecidos in Cecenia.
Quanti di questi in realtà si sono uniti ai banditi? Chi può dimostrare
il contrario? Cosa ci si deve attendere in generale da dei parenti, a
parte la versione secondo cui il figlio o la figlia sono stati rapiti
dai russi? Qualcuno ha contato quanti pacifici ceceni negli ultimi
quattro anni sono morti per mano dei guerriglieri? Quali azioni compie
attualmente la Russia, che permettano di affermare che prosegue la
linea dura nei confronti della Cecenia? Sono finiti i bombardamenti e
le bonifiche, è sempre più la polizia cecena a combattere contro i
banditi. Persino dopo gli attentati terroristici più sanguinosi non
sono previste operazioni militari in Cecenia. Chiunque conosca almeno
un minimo la situazione cecena, capisce che la Russia punta sul
trasferimento graduale del potere ai ceceni.

L’Occidente ritiene che la motivazione che spinge i terroristi ad
uccidere sia la vendetta per i parenti morti. Come reagirà l’Occidente
quando a vendicarsi saranno i russi che hanno perso i propri cari in
attentati terroristici? A Budnovsk più di 150 abitanti pacifici, 129 al
“Nord-Ost”, più di 400 in Ossezia, e così via, le esplosioni di Mosca e
di Kaspijsk, la morte di militi e poliziotti...

L’Occidente preme affinchè si faccia entrare la Russia nel club degli
Stati civili, quindi deve comportarsi conseguentemente. La massa
predominante della popolazione russa non percepisce affatto alcun
vantaggio ad essere amici dell’Occidente. In compenso ricorda bene che
con i comunisti tempo un mese si sarebbero regolati i conti con i
terroristi, senza alleati della NATO.

Supponiamo che la Russia rinunci al diritto di essere membro del
Consiglio d’Europa e si ponga come obiettivo prioritario quello di
fermare il terrorismo con ogni mezzo. C’è forse in Europa qualcuno che
dubita del fatto che il loro alleato USA abbandonerebbe ogni norma
internazionale se si dovesse porre la questione di salvare la vita a
degli americani? E allora perchè alla Russia si propongono regole del
gioco diverse?

La “guerra per l’indipendenza” della Cecenia viene condotta da persone
che si distinguono per rara crudeltà e perfidia. E risulta sempre più
difficile distinguerli dai nazisti di Hitler. Sono solo più fanatici e
meno istruiti. Affermano di essere per il popolo ceceno. Chi possono
difendere dei mascalzoni che prendono in ostaggio dei bambini? Che
mente e che coscienza può avere chi appoggia questa feccia, la nasconde
e le fornisce scorte?

La risposta vien spontanea: lo può fare solo un mascalzone come loro.

Che Stato costruiranno quelli che in Occidente vengono chiamati
ampollosamente “insorti”? La Svizzera cecena, la Gran Bretagna cecena,
la Turchia cecena, o l’Afghanistan dei talebani? Previsioni?

Su cosa poggerà l’economia cecena? Sull’economia dell’odiata Russia?
Sugli aiuti umanitari occidentali? Sui soldi di Bin Laden? Sulle
riparazioni di guerra imposte alla Russia? Sul commercio d’armi e sulla
fabbricazione di dollari falsi?

Non c’è nessun presupposto per il quale se la Russia dovesse accettare
lo scenario che le viene proposto dai critici occidentali, gli
attentati terroristici cesseranno. Che condizioni deve accettare la
Russia affinchè non la facciano più esplodere? Ritirare le truppe?

Gli USA, al contrario, per prevenire gli attentati terroristici hanno
mandato le truppe in Afghanistan ed in Iraq. In dei territori che
giuridicamente non fanno parte degli Stati Uniti. Ed hanno nominato dei
governanti senza alcuna libera elezione, oltretutto leali al cento per
cento nei confronti degli USA. La legittimità di Hamid Garzai è ben più
discutibile di quella di Alchanov, eletto con votazione diretta.

I consigli dei parlamentari e dei mass media occidentali possono
rendere schizofrenico il governo russo. Da quest’ultimo si pretende
contemporaneamente di trattare con i terroristi e ciononostante di non
dare loro alcuna possibilitа di ammazzare cittadini russi. Cioè,
eliminare con successo coloro con i quali bisogna mettersi d’accordo.

L’Occidente ritiene in generale che le trattative siano la panacea per
ogni cosa. Ma con chi si può trattare in Cecenia? Con Maschadov? Già
prima della seconda guerra cecena gli uomini di Gelaev hanno assaltato
il palazzo presidenziale di Maschadov ed hanno massacrato la sua
scorta. In realtà Maschadov è semplicemente un personaggio decorativo
che conoscono in Occidente. La sua influenza è misera ed un patto con
lui non avrà alcun valore reale [SI NOTI IL PARALLELO POSSIBILE CON
IBRAHIM RUGOVA IN KOSMET, ndCNJ]. Alla prova dei fatti, di quei
separatisti guerriglieri moderati di cui va parlando l’Occidente, ormai
non ce n’è più. Da un pezzo la schiacciante parte dei sostenitori di un
tempo di Maschadov o ha deposto le armi, o combatte dalla parte della
Russia.

L’Occidente deve anche capire che a governare la Cecenia non sarà chi
vince le elezioni, ma chi sarà appoggiato dal raggruppamento meglio
armato e più abile in combattimento. Basaev? Per molti in Europa Basaev
è una sorta di Garibaldi ceceno.  Per la Russia, invece, è il Bin Laden
ceceno...

Perchè l’Occidente boicotta l’attuale governo ceceno? Teme la vendetta
dei terroristi? La buonanima di Kadyrov ed il Presidente fresco di
elezione Alchanov sono ben più vicini alla civiltà che non i vari
signori della guerra che combattono contro la Russia.

Magari l’Occidente finalmente capirà che la guerra in Cecenia non è
solo quella della Russia contro i separatisti. E’ da un decennio che
c’è una guerra civile, in cui la parte più civile della società cecena
si contrappone all’impeto dell’oscurantismo.

Chi vorrebbe vedere vincitore l’Occidente?

...Ho un’immagine davanti agli occhi, una foto ricordo. Al centro un
uomo vestito di tutto punto, sembrerebbe un europeo, uno istruito. Lo
tengono per le spalle ai due lati due guerriglieri barbuti in tuta
mimetica. Davanti a tutti c’è un bambino. Uno dei guerriglieri gli
punta alla schiena il mitra. L’europeo tiene sopra la testa un
cartello: “La Russia spieghi come è potuto accadere”.


Oleg Rjazanov

(traduzione di Mark Bernardini, revisione del testo a cura del CNJ)

PRAVDA.Ru


=== 2 ===

www.repubblica.it
da Repubblica on line 17/9/2004

Messaggio del leader indipendentista ceceno su Internet
"L'operazione è costata 8.000 euro. Non mi finanzia bin Laden"

Beslan, Basaiev rivendica - "Nella scuola siamo stati noi"

"Nostri anche la strage a Mosca e i due aerei caduti"
Il sito è quello usato di solito dai guerriglieri


MOSCA - Il leader separatista radicale ceceno Chamil Basaiev ha
rivendicato l'azione terroristica nella scuola di Beslan,
nell'Ossezia del Nord e la serie di attentati che ha colpito la
Russia, dalla strage alla metropolitana di Mosca agli attentati a due
aerei di linea lo scorso agosto. La rivendicazione è apparsa in una
lettera pubblicata sul sito internet vicino agli indipendentisti
Kavkazcenter.com. Con un linguaggio a metà strada tra quello militare
e quello manageriale, Basaiev spiega anche i costi di quelle
operazioni e i vantaggi che ne sono seguiti: Beslan, con il suo
seguito tragico, sarebbe costata 8.000 euro. Inoltre, Basaiev addossa
a Putin la responsabilità politica di quel massacro voluto per
mantenere il potere con l'appoggio dei leader occidentali.

Il messaggio, la cui autenticità non può essere verificata, è firmato
Abdallah Chamil, il nome di battaglia di Basaiev. Il sito
Kavkazcenter.com è quello usato generalmente dagli indipendentisti
ceceni per diffondere i loro messaggi.

La lettera. "Grazie ad Allah - è scritto nella lettera - la brigata
dei martiri 'Riadous-Salikhin' ha portato a termine una serie di
operazioni militari sul territorio russo". Sul sito le brigate si
attribuiscono anche l'autobomba alla stazione della metropolitana
Rijskaia a Mosca (il 31 agosto, 10 morti), operazione "condotta dal
dipartimento regionale dei martiri a Mosca, l'esplosione dei due
aerei civili condotta dal dipartimento delle operazioni speciali (24
agosto, 90 morti". L'assalto alla scuola di Beslan che ha causato la
morte di oltre 500 persone, sempre secondo la rivendicazione, è stata
portata a termine "dal secondo battaglione di martiri posta sotto il
comando del colonnello Orsthkoiev".


Oama e i soldi. Poi Basaiev aggiunge: "Non conosco Osama Bin Laden e
non ho preso soldi da lui. L'operazione di Beslan - che Basaiev ha
provocatoriamente battezzato 'Nord-west', rifacendosi al massacro del
teatro Dubrovovka di Mosca dell'ottobre 2002, dove era in programma
lo spettacolo Nord-Ost - è costata in tutto 8.000 euro".

"Dagli stranieri - si legge nel comunicato con cui Basaiev si
attribuisce una delle più sconvolgenti stragi terroriste degli ultimi
anni - ho avuto solo 10.000 dollari e 5.500 euro. Praticamente faccio
la guerra solo con i soldi del bilancio della Federazione russa.
Armi, automobili, esplosivi sono tutti nostri trofei. Le uniche spese
sono per l'alimentazione e i vestiti. Per arrivare a Mosca quei soldi
non bastavano".

Il commando. "All'operazione 'Nord-West' - prosegue il terrorista -
partecipavano 33 mujahiddin, fra cui due donne. Ne avevo preparate
quattro, ma due sono state spedite a Mosca il 24 agosto per salire
sui due aerei che poi abbiamo fatto esplodere". Il commando di Beslan
comprendeva, stando a Basaiev, "12 ceceni, due cecene, nove ingusci,
tre russi, due arabi, un osseto, un tartaro, un kaardino e un guran
(un popolo siberiano, ndr) totalmente russificato".

Quanto a Nur Pasha Kulaiev, il sopravvissuto nelle mani della polizia
russa, "lo conoscevo poco, conoscevo meglio il fratello Kan Pasha, li
ho inclusi nel gruppo all'ultimo momento per fare numero. E' arrivato
alle 16,30 del 31 agosto, e alle 20 li avevo già spediti sul luogo
dell'operazione. All'unico di loro che conoscevo, Kan Pasha, che non
aveva il braccio destro, ho dato una pistola e una granata. Agli
altri ho distribuito mitra con due o tre cambi di munizioni, e gli ho
spiegato che il loro dovere era solo di fare la guardia".

"Non abbiamo sparato ai bambini". Basaiev ha definto "una tragedia
orribile" la morte dei bambini: "il mostro del Cremlino ha ferito e
ucciso un migliaio di bimbi". "I miei mujaeddin non hanno sparato sui
bambini, non hanno avuto alcuna lite, hanno solo seguito i miei
ordini, che erano: se parte il blitz dei russi, o avviene una
esplosione nella palestra, andare tutti avanti ad attaccare, non
restare nell'edificio, non tentare di difenderlo. Cercare di morire
in modo dignitoso, facendo il massimo di danni al nemico e diventando
così l'esempio per quelli che verranno dopo".

Le richieste a Putin. Basaiev parla anche dei negoziati che avrebbe
voluto fare con i russi: "Le nostre richieste erano di fermare
immediatamente la guerra in Cecenia, poi iniziare il ritiro delle
truppe. Se (il presidente russo Vladimir) Putin avesse rifiutato,
allora avremmo chiesto le sue dimissioni.

"Se Putin avesse firmato il decreto di sospensione immediata della
guerra e avesse ritirato le truppe nelle caserme, avremmo distribuito
l'acqua. Dopo aver ottenuto una conferma sul ritiro reale delle forze
russe dalla Cecenia, avremmo dato da mangiare. Appena i russi
avessero iniziato il ritiro dalle montagne, avremmo liberato i
bambini fino a dieci anni. Gli altri li avremmo rilasciati a ritiro
completato - prosegue il lungo messaggio di rivendicazione - se Putin
si fosse dimesso, avremmo rilasciato tutti i bambini, trattenendo gli
adulti per avere ostaggi con cui effettuare la ritirata in Cecenia".

La mediazione fallita. Stando a Basaiev, tutti questi punti erano
stati ben chiariti, per iscritto, all'ex presidente inguscio Ruslan
Aushev che aveva fatto da mediatore nel secondo giorno della presa di
ostaggi. "Una delle cassette che abbiamo consegnato ai russi, e che
loro hanno detto era vuota, conteneva in realtà gli appelli degli
ostaggi a Putin".

Le colpe di Putin. "Putin ha deciso di fare il blitz per soddisfare
le sue ambizioni imperialiste e mantenere la poltrona", sostiene
Basaiev. Colpevoli sono anche, afferma, "i leader occidentali che lo
hanno benedetto perché facesse quella strage. Chiediamo con forza una
indagine pubblica su Beslan fatta dall'Onu, dall'Unione europea e da
tutti quelli che hanno condannato la nostra azione. Siamo pronti a
dare qualunque assistenza nell'indagine e a fornire qualunque
informazione in nostro possesso".

(17 settembre 2004)


=== 3 ===

http://www.ilmanifesto.it/

il manifesto - 03 Settembre 2004

Le mille fidanzate di Allah

Chi sono le shahidki, «donne martiri» cecene, perché vanno a morire
imbottite di esplosivo? In Cecenia solo le donne vanno a morire, e non
sempre di propria volontà. Il fanatismo religioso c'entra poco, scrive
la giornalista russa che ne ha ricostruito in un libro le storie
personali di tragedia e morte
«Missione compiuta», dice l'uomo nell'auto. Ha appena azionato il
meccanismo a distanza che ha fatto esplodere l'ordigno contenuto nella
borsa della ragazza. Ride soddisfatto, spegne la videocamera. In quel
momento non sa ancora che la ragazza è riuscita a sopravvivere
MARINA FORTI

Chi sono? Perché giovani cecene vanno a farsi esplodere in un teatro
gremito o nella metropolitana di Mosca, o in un commissariato di
polizia? Donne giovanissime, a volte con figli, per chi, o per cosa
vanno a morire - e a seminare morte? Fanatismo religioso, si dice: le
donne-kamikaze sono il ritrovato più impressionante delle frange più
fondamentaliste del movimento islamico in Cecenia, la regione del
Caucaso che sta precipitando in una nuova fase di una guerra ormai
decennale. La religione però c'entra molto poco con la scelta di tante
giovani cecene di farsi shahidki («donne martire»), come le chiamano i
russi, dalla parola araba shahid che significa «martire». Le loro
storie personali dicono altro: «Sono giunta alla conclusione che
l'unica ragione che può spingerle a cercare la morte è una tragedia
personale o una vita infelice», scrive la giornalista russa Julija
Juzik: donne a cui non è rimasta scelta.

Per un anno, tra il 2002 e il 2003, Juzik ha percorso la Cecenia per
capire da dove venivano le giovani che si erano fatte saltare in questo
o quell'attentato, va a parlare con familiari o chi ne aveva condiviso
gli ultimi mesi di vita, ricostruisce i passaggi che le hanno portate a
diventare «martiri». Il risultato di questa indagine è un libro
pubblicato a Mosca dall'editore Ultracultura (2003), Le fidanzate di
Allah - l'edizione italiana, aggiornata alla primavera 2004, sarà
pubblicata con lo stesso titolo dalla Manifestolibri (traduzione di R.
Frediani, in libreria a ottobre).

Le kamikaze «sono state create ad arte», dichiara Juzik (in
un'intervista citata nella prefazione all'edizione italiana). Osserva:
nella storia delle guerre caucasiche, per centinaia di anni, «non c'era
mai stato un ceceno - tantomeno una cecena - che si sia coperto di
esplosivo»: combattevano, non facevano i martiri. In Russia si suole
fare il parallelo tra Cecenia e Palestina, con terrorismo e attentati
suicidi: anche in là ci sono donne kamikaze. Ma la differenza, oltre a
tante circostanze storiche, è che «in Cecenia gli uomini non si fanno
saltare in aria. Danno un valore troppo alto alle proprie vite. (...)
In Cecenia muoiono solo le donne». E spesso, neppure di propria
volontà...

Più dell'islam, nei destini di quelle ragazze conta una struttura
sociale tradizionale in cui le donne sono sottomesse. «Sono donne la
cui vita è stata distrutta, che non hanno futuro, che vanno a morire
non per dimostrare la loro devozione ad Allah».

Allah compare, certo, nei video che ritraggono giovani velate di nero,
bandana verde sulla fronte, occhi vitrei. La prima in assoluto, la
diciassettenne Hava Baraeva, è stata trasformata in una leggenda. Era
il giugno 2000. Un video la ritrae mentre dice: «Sorelle, è giunto il
nostro momento! Dopo che i nemici hanno ucciso quasi tutti i nostri
uomini, i nostri fratelli e mariti, solo a noi rimane il compito di
vendicarli. (...) E non ci fermeremo neanche se per questo dovremo
diventare martiri sulla via di Allah. Allah Akhbar», dio è grande.
«Vendicarli»: così nasce il mito delle «vedove nere». Il video la
mostra mentre sale su un camion, con viso ispirato, e si lancia contro
un distaccamento di polizia speciale in un villaggio della Cecenia.
L'immagine seguente mostra da lontano l'esplosione: lei andava a morire
e «i suoi compagni stavano vigliaccamente tra i cespugli» a filmare.
Hava, ricostruisce la giornalista russa, era cresciuta in affidamento a
un uomo, un dirigente islamico indipendentista, di cui si è innamorata
- anzi, completamente soggiogata. Molte giovani donne saranno
soggiogate e tradite dagli uomini di cui si fidavano. Altre sono
devastate dall'aver visto uccidere un uomo che amavano, i figli, la
casa. Storie terribili (in questa pagina ne citiamo due). «Solo poche
ragazze erano davvero credenti e praticanti; tutte le altre avevano un
motivo personale, o semplicemente non avevano scelta». Il martirio? «In
Russia le attentatrici cecene di solito non si uccidono da sole.
Vengono fatte saltare in aria a distanza. Le uccidono da vigliacchi».

Nella sua indagine, Jilija Juzik raccoglie dettagli molto precisi sui
campi di addestramento da cui sono arrivate le giovani andate a morire
nel teatro di Mosca, primavera 2002: due villaggi di montagna di cui,
scoprirà, la polizia speciale russa è perfettamente al corrente.
Raccoglie informazioni su nuovi campi di addestramento. Nella prima
edizione (russa) della sua indagine avvertiva: di là verranno le
prossime «bombe viventi». Cita nomi, luoghi, «sapevo anche che i leader
delle bande armate avevano ricevuto un ordine per l'invio di donne
martiri» per azioni programmate tra la fine del 2003 e l'inizio del
2004, alla vigilia delle presidenziali russe: come poi è avvenuto.

Ma perché i servizi russi non le hanno fermate, si chiede? Descrive i
«reclutatori» di future martiri: vanno in carca di «donne giovani nelle
cui famiglia siano stati distrutti i legami familiari o di clan, o
orfane di padre; di giovani donne sorelle o vedove di combattenti
uccisi, di donne di famiglie molto religiose o wahabite. ... Coloro,
prima di tutto, che non hanno nessuno che possa difenderle». Ma perché
le forze speciali non fermano i reclutatori? «Vuol dire che questa
guerra serve comunque ancora a qualcuno?».

ARTEL - http://www.artel.co.yu/

1. KO JE NARUCCILAC TERORISTICKOG AKTA U BESLANU
Dmitrij MAKAROV, naucni saradnik
Instituta za Istok Ruske akademije nauka

2. CCETVRTI CCECCENSKI PREDSEDNIK
Jurij FILIPOV, politicki komentator RIA "Novosti"


=== 1 ===

KO JE NARUCCILAC TERORISTICKOG AKTA U BESLANU

http://www.artel.co.yu/sr/izbor/terorizam/2004-09-17.html

Moskva, 17. septembra 2004. godine
RIA "Novosti"
Specijalno za Artel - Geopolitiku

Dmitrij MAKAROV, naucni saradnik
Instituta za Istok Ruske akademije nauka

"Nassa zemlja - sa nekada najmocnijim sistemom odbrane svojih spoljnih
granica - za tili cas nassla se nezasticenom ni sa Zapada, ni sa
Istoka. Jedni zele da od nas otrgnu sto "masniji" komad, drugi im u
tome pomazu. Terorizam je, naravno, samo instrument za postizanje tih
ciljeva", - tako je predsednik Rusije Vladimir Putin prokomentarisao
dramu sa uzimanjem talaca u Beslanu, u Severnoj Osetiji.

Ko je konkretno smislio, organizovao i platio taj i druge teroristicke
akte na teritoriji Rusije? Ko su njihovi izvrsioci, koje ciljeve oni
svaki put postavljaju sebi i kako se protiv njih boriti? Dopustite,
danas nema ni jednog Rusa koji sebi ne postavlja takva pitanja. Tim pre
sto se mnogi pribojavaju, da uzimanje talaca u Beslanu nije i poslednja
akcija terorista.

Za nestabilnost u Rusiji, na Severnom Kavkazu, zainteresovane su mnoge
snage, ali je veoma slozeno pronaci konkretne narucioce zlocina.

Akcije, slicne uzimanju talaca u Beslanu, korisne su radikalnim
islamistima, koji vec dugi niz godina pokusavaju da se ubace na Severni
Kavkaz i otrgnu ga od Rusije, ili pak da tamo stvore za nju stalno
zariste napetosti i postepeno sire svoj uticaj u pravcu Povolozzja.

Odredjeni interes za destabilizaciju Severnog Kavkaza imaju oni, koji
su zainteresovani za transport kaspijske nafte po juznoj marsruti -
preko Gruzije i Azerbajdzana. Ovde se presecaju interesi i
juznokavkaskih republika, i krupnih zapadnih naftnih kompanija.

Istovremeno, ne sme se zaboravljati ni to, da nestabilnost na Severnom
Kavkazu u odredjenoj meri prozivodi i Zapad, jer to stvara tlo za
vrsenje pritiska na Rusiju.

Nisu tajna ni veze severnokavkaskih ekstremista sa bliskoistocnim
dzihadistima. Jos pocetkom 90-ih godina oni su poceli aktivno osvajati
severnokavkaski prostor, implantirati tamo svoju ideologiju, upucivati
svoje proverene kadrove, kako vojne strucnjake, koji su se kalili u
"vrucim tackama", tako i ideologe.

Izmedju ostalog, poznato je da je jedan od glavnih ideologa cecenskog
dzihada, Saudijac Muhamed Abu Omer Al-Sejf. Dodjossi sa arapskog istoka
cesto su se nalazili i nalaze na celu najubojitijih teroristickih
odreda.
Najpoznatiji medju njima su Hatab i Abul Valid.

Arapi, koji su dosli na Kavkaz, ne veruju bas uvek lokalnom zzivlju,
odnosi koji se uspostavljaju medju njima ne mogu se okvalifikovati
dobrima. One umerenije severnokavkaske islamisticke grupe ne kriju u
privatnim ragovorima svoj odnos prema Arapima. Njima se ne dopada to,
sto oni namecu svoje vidjenje kako treba delovati, staraju se da
promovisu one ljude koji su im po volji, ne fermajuci za to mogu li oni
doneti i realnu korist stanovnistvu, dati doprinos preporodu islamskog
obrazovanja itd. I sto je najznacajnije, Arapi polaze od sopstvenih
arapskih ubedjenja da je neophodno stvaranje islamske drzave, ne
shvatajuci da severnokavkasko drustvo nije spremno na to.

Sa svoje strane, radikalne severnokavkaske grupe mire se sa prisustvom
tudjina, bez obzira na to stro ih cesto iritiraju neumesni ponos i
sumnja Arapa. Medjutim, pragmatizam pobedjuje, jer upravo zahvaljujuci
Arapima kavkaski ekstremisti su dobili dostup finansijskim izvorima.

Do 1999. godine u republikama Severnog Kavkaza aktivno su funkcionisale
filijale razlicitih islamskih humanitarnih organizacija i fondova.
Danas je dokazano da su mnogi od njih bili sponzori teroristickih
grupacija. Izmedju ostalog, preko odelenja saudijske organizacije
"Al-Haramejn" u Bakuu, doznacavana su znacajna sredstva za
severnokavkaske radikalne dzamaate, pocev od Dagestana pa do
Karaccajevo-Ccerkasije.

Posle 1999. godine legalna aktivnost tih fondova na ruskoj teritoriji
je obustavljena. Medjutim, nije moguce zatvoriti sve kanale
finansiranja teroristickih grupacija, jer se pare mogu davati i u
gotovini, ne koristeci se bankarskim uslugama.

Istovremeno, situaciju olakasava okolnost da su mnogi arapski rezimi,
izmedju ostalog Saudijske Arabije, suoceni sa eksplozijom ekstremizma i
terorizma na sopstvenoj teritoriji, poceli preispitivati svoju
politiku. Oni su spoznali da se taktika izvoza ekstremizma, kada su
vlasti precutno stimulisale lokalnu mladezz da ide vojevati u
Avganistanu, u Bosni, na Kosovu i Ceceniji, samo da bi se ratosiljali
problema u sopstvenoj kuci, kao bumerang vraca toj vlasti. I mladjani
Saudijci, koji su "okusili ccari" na vrucim tacckama, vracaju se kuci i
pocinju da predstavljaju opasnost po tamosnju vlast. Zato se danas i
pojavljuje kudikamo vise mogucnosti za saradnju izmedju Moskve i
El-Rijada u sferi suprostavljanja ekstremizmu.

Ocigledno je da bi bez finansijske potpore izvana nivo teroristicke
aktivnosti na teritoriji Rusije bio nizi. Medjutim, ne treba
zaboravljati da cecenski konflikt vec sam po sebi generisse
ekstremizam, a i izvan granica Cecenije, u drugim regionima Severnog
Kavkaza, politicka i socijalna situacija stvara povoljno tle za
pojavljivanje uislamskih grupacija.

Problem je i u tome, sto radikale simpatissu mnogi od onih koji
apsolutno ne dele idejne principe islamista, niti zele da zive u drzavi
kojom bi upravljali ti ljudi. Jednostavno, oni su uspeli da se
pozicioniraju kao nepomirljivi borci protiv korupcije, koja se aktivno
siri u severnokavkaskim republikama, boraca za socijalnu pravicnost.

I zaista, malo je aktivnih dzihadista koji su uvuceni i
diverzionisticko-teroristicke akcije na Severnom Kavkazu, iako je
njihova baza medju omladinom prilicno velika. Tesko je navesti precizne
brojke, jer su proracuni veoma spekulativni. Cak sredinom 90-ih godina,
kada su mnogi islamisticki dzamaati delovali javno, navodjene su
razlicite brojke. Na primer, jedni su govorili da je u Dagestanu
izmedju 2 i 3 procenta stanovnistva uvuceno u rad islamistickih
grupacija ili da ih simpatise, dok su drugi govorili o 10-15 procenata
stanovnistva kavkaskih republika.

Ukoliko procenat simpatizera radikala i zaista dostize 10 procenata, to
je vec opasna tendencija. Eksplozija se moze dogoditi u svakom
trenutku. Za to je dovoljno da se pogorsa socijalno i vojno-politicka
situacija na Kavkazu pa da nastanu zarista novih konflikata. Upravo smo
to uocavali u poslednje vreme u Ingussetiji i u Severnoj Osetiji.

Sem toga, za mnoge kavkaske republike aktuelan je problem smene vlasti.
Na primer, u Dagestanu se sada aktivizira konfrontacija izmedju vlasti
i opozicije uoci prvih direktnih predsednickih izbora, predvidjenih u
2006. godini. Problemi sa prelaskom vlasti mogu nastati i u
Kabardino-Balkariji i u Ingussetiji. U takvim uslovima bez po muke se
moze destabilizovati situacija.

Rzume se, takve oruzane akcije kao sto je zauzimanje skole u Beslanu,
ne izazivaju saosecanje medju stanovnistvom Severnog Kavkaza. To je
bilo ocigledno nakon upada terorista u Dagestan 1999. godine. Kada
dodje do nasilja, narocito ako se radi o teritoriji Kavkaza, vecina
lokalnog zivlja okrece ledja radikalima i proklinje ih. Medjutim, odnos
stanovnistva prema njihovim akcijama ne zaustavlja teroriste.

Stvar je u tome sto danas na Severnom Kavkazu ne postoji jedinstveni
islamisticki pokret niti postoje vise-manje centralizovane islamisticke
strukture. Pokusaji ujedinjavanja islamskih grupa preduzimani su
sredinom 90-ih godina. Oderdjeni uspeh na tom pravcu postignut je 1999.
godine.
Stvoreni su, na primer, "Islamski dzamaat Dagestana", na celu sa
Bagautdinom, "Kongres naroda Icckerije i Dagestana" i drugi. Nakon
1999. godine, kada su teroristi upali na teritoriju Dagestana i kada su
federalne snage pocele uzvratnu operaciju, sve te strukture su
prakticno unistene. Mnogi njihovi vodje ili su poginuli, ili su se
probili na Kavkaz i presli u druge zemlje.

Danas se preduzimaju pokusaji obnavljanja centralizovanih uislamisickih
struktura. Periodicno se u medijima pominju nazivi novih organizacija.
Izmedju ostalog, "Zdruzzena komanda mudzahedina Dagestana", "Dzamaat
mudzahedina Dagestana", promovissu se prezimena nekih islamistickih
lidera, kao sto je Rabani Halilov, kome pripisuju organizaciju
terioristickih akata u Kaspijsku 2002. godine. Medjutim, te
organizacije i njihovi lideri nemaju znacajniju tezinu cak ni na nivou
Dagestana, a kamo li na citavom Severnom Kavkazu.
Na toj pozadini izdvaja se organizacija "Rijad us-salihiin", na celu sa
Ssamiljom Basajevom. Licno Basajev je svojevrsni etalon za sve
dzihadisticke grupe, ali je tesko kazati koliko je on i realni
rukovlodilac za omanje ekstremisticke celije rasute po svim republikama
Kavkaza. Jer njegovi interesi i interesui sitnih lokalnih grupa
apsolutno se mogu i ne podudarati. I cak prilikom organiacije
zajednikcih akcija medju teroristima mogu nastati razlike.

U svakom slucaju, teroristicke akte vrse one snage, koje pljuju na
simpatije ili antipatije drustva i koje su zainteresovane samo za
realizaciju sopstvene strategije.

Prema tome, i drzava mora imati strategiju borbe protiv terorizma i
ekstremizma. Ocigledno da je potrebno reformisati oruzane strukture
koje se bave borbom protiv terorizma, uspostaviti efiksniju
korodinaciju svih sistema vlasti i slojeva drustva, stabilizovati
socijalnu i politicku situaciju u regionima. A nije na poslednjem mestu
ni borba protiv korupcije.

Po mom uverenju, znacajno je takodje diferencirati prilaz politickom
islamu. Tojest, ne tretirati sve islamisticke grupacije kao neposredne
protivnikje, protiv kojih se treba boriti jedino oruzanim metodama.
Bezuslovno, to nije lako uraditi.

Postoje takozvane umerene islamisticke grupe koje, priznajuci
neophodnost i pozeljnost stvaranja islamske drzave na Severnom Kavkazu,
smatraju da se to ne moze ostvariti uz pomoc nasilja. Takvih na
Severnom Kavkazu ima podosta.

Najpoznatiji lider medju umerenim islamistima u 90-im godinama bio je
Ahmed - Kadi Ahtajev, osnivcc i lider Islamske partije Prepororoda.
Nakon sto se ta organizacija raspala, on je formirao novu -
"Al-Islamija" i delovao na kulturno-prosvetmom planu, kritikujuci rad
radikalnih islamista. On je predskazivao da ce njihov put dovesti do
katastrofe, i pokusavao unapredjivati dijalog sa vlasscu, nikada ne
pozivajuci na njeno nasilnicko svgravanje.

Na zalostr, 1999. godine umereno krilo islamista na Severnom Kavkazu se
raspalo. Ahtajev je umro ranije - jos 1998. godine. Sada neki mladi
islamisti, narocito predstavnici inteligencije, oni koji su
istiovremeno stekli i svetsko, i islamsko obrazovanje, pokusavaju
preosmisliti basstinu Ahtajeva. Ali ipak novih briljantnih figura medju
njima nema.

Medjutim, i umereni islamisti sa aspekta nacionalnih ruskih interesa
predstavljaju zabrinjavajucu pojavu. Nema jasnosti da li umereni
islamizam tretirati kao nekakvu protivtezu radikalnom, ili kao prvu
stepenicu na putu ka njemu. Zato drzava i nema strategiju delovanja u
odnosu na politicki
islam, nema resenja - pokusati razvijati dijalog sa umerenim
elementima, jacati ih, racunajuci da ce oni postati protivteza
dzihgadistima ili, obrnuto, njih treba marginalizovati, posto,
ojacavsi, oni mogu stvoriti novu opasnost po vlast. Pitanje nije
reseno, iako u praksi vlast pre koristi taktiku totalnog pritiska na
svako ispoljavanje islamizma, ne deleci njegove pristalice na umerene i
radklane.

Svakako da ne treba zaboraviti da umereni islamisti uzivaju odredjeni
autoritet, i njihov uticaj moze biti upotrebljen da bi se otrgnuo od
terorista makar deo ekstremisticki raspolozene mladezzi.

Sem toga, drzava mora da se ukljuci u proces preporoda islamskog
obrazovanja, pored ostalog da finansira proucavanje svetskih disciplina
u islamskim ustanovama, ako sami muslimani govore da za to oni nemaju
para.

Rusiji je takodje potrebno da stvori solidne islamske skolske ustanove,
u kojima bi predavali i istaknuti strani predavacci. Bolje je da oni
predaju ovde i da se studenti nalaze ovde, u toj socijalnoj sredini,
nego u arapskim ili drugim muslimanskim zemljama, i da potpadaju pod
uticaj druge kulture i druge situacije.

Spisak recepata za borbu protiv ekstremizma i terorizma mogao bi se
nastaviti, ali je problem - kako ih realizovati.


=== 2 ===

CCETVRTI CCECCENSKI PREDSEDNIK

http://www.artel.co.yu/sr/izbor/azija/2004-09-07.html

Moskva, 06. 09. 2004. godine
RIA "Novosti"
Specijalno za Artel - Geopolitiku

Jurij FILIPOV, politicki komentator RIA "Novosti"

Koliko se promenila politicka situacija u Ceceniji nakon sto je na
predsednickim izborima u toj republici pobedio Alu Alhanov? Na prvi
pogled, moze se ucciniti da se nisu dogodile krupnije, principijelne
promene. Jer u toku izborne kampanje Alhanov je sebe promovisao kao
sledbenika promoskovske linije svog prethodnika Ahmada Kadirova, koji
je poginuo u teroristickom aktu 9, maja ove godine. U alhanovskom
predsednickom programu nije moguce pronaci ni jendu inovaciju, koja taj
program sustinski razlikuje od analognog programa Ahmada Kadirova, koji
je objavljen u jesen 2003. godine.

Za sada nema vidljivijih pomaka ni sa aspekta jacanja bezbednosti i
slabljenja vojne konfrontacije u Ceceniji. I u noci kada su brojani
glasovi u republici, kao sto je to i uboicajeno ovde, odjekivala je
paljba.

Pa ipak bi se moglo tvrditi da se u vezi sa pobedom Alhanova ocrtao,
preciznije receno, ocrtava, niz politickih pomaka koji, ukoliko stojeca
iza njih tendenicja ojaca, mogu dovesti do sustinske promene situacije
u Ceceniji.

Prvo, Alhanov je prvi od cetiri cecenska predsednika koji nikada nije
ratovao protiv Rusije sa oruzjem u rukama. Cak stavise, u 90-im
godinama, u jeku rusko-cecenske konfrontacije, kada nije bilo moguce
predvideti ishod, on je ucestvovao u borbenim operacijama protiv
separatista na strani proruski raspolozenih Cecenaca.

Do nedavnih izbora bilo je moguce samo nagadjati koliko u Ceceniji ima
takvih proruskih Cecena. Moskva je izjavljivala da je takvih ljudi
ogroman broj, velika vecina, dok su separatisti Mashadova tvrdili da ih
je ssaccica, mozda desetina ili stotina i da su svi oni - izdajnici
svog naroda.

Nakon predsednickih izbora mozemo kazati da je istina, kao sto to cesto
biva, negde na sredini. Za Alhanova je glasalo preko 320 hiljada ljudi
- a to, razume se, nije nekakvih "stotinak" onih koji su protiv
cecenske nezavisnosti, vec vise od polovine cecenskih biraca. Ali ne i
velika vecina, kako bi to zelela Moskva. Ali jeste vecina.

Sada ti ljudi po prvi put u poslednjih petnaest godina imaju mogucnost
da se aktivno politicki udruzuju i da u svojoj republici deluju u sklau
sa svojim pogledima, na celu sa novoizabranim liderom koji ima veoma
velika ovlascenja.

Mnogo stosta zavisice od toga, koliko ce Alhanov uspeti da ubedljivo
dokaze, da je njegova proruska orijentacija zaista vredela toga, da se
nje pridrzava tokom svih petnaest godina cecenske zbrke.

I ovde je potrebno ukazati nadrugi politicki pomak, koji bi mogao da
kardinalno utice na situaciju u Cecenskoj republici. Nije vazno toliko
to sto Alhanov, kao i oni koji ga podrzavaju u Ceceniji, zauzima
prorusku poziciju, koliko je od sustinskog znacaja to, sto i Moskva, sa
svoje strane, prihvata i odobrava njegove inicijative.

O tome da ce prihodi od realizacije cecenske nafte ostajati u
republici, mnogo je govorio, obracajuci se ruskim vlastima, predsednik
Kadirov. Slicni motivi prozimali su i izjave lidera cecenskih
separatista, predsednika Mashadova, dok je on komuniicrao sa Kremljom
90-ih godina.

Mashadov je, medjutim, proglasen zloccincem. Kadirov se, pak, bez
obzira na to sto je cesto priman u Kremlju, ipak nije izborio za to.
Alhanov u tom pogledu ima mnogo vise uspeha. Jos pre predsednickih
izbora njegov predlog o obnovi Cecenije uz pomoc prihoda ostvarenih
izvozom republicke nafte naisao je na podrsku predsednika Rusije
Vladimira Putian. Sem ociglednih ekonomskih i finansijskih prednosti za
Ceceniju, to ukazuje i na to da novi cecenski predsednik Alhanov ima u
Kremlju ne jednostavno privremene saveznike, sa kojima je kontakt
uspostavio slucajno, vec istomisljenike sa kojima se moze i treba
izgradjivati dugorocna politika.

Kako ce se pokazati i do cega ce dovesti navedeni politicki pomaci
pokazace vreme. Na razvoj politicke situacije u Ceceniji i do dana
danasnjeg veliki uticaj cine sluccajnosti. Jedna jedina mina sa
daljinskim upravljanjem ovde moze porusiti sve ono, u pravcu cega su
cecensko drustvo i politicari isli mesecima i godinama.

Pa ipak, politicke promene u Cecenije su ocigledne. I tendencija se
nastavlja.

Vier Jahre danach, katastrophale Bilanz im Kosovo

[ Catastrofico è il bilancio di 4 anni di occupazione coloniale del
Kosovo-Metohija da parte della NATO: a tracciarlo è nientepopodimeno
che l'ex direttore dell'Istituto federale tedesco per gli Studi
sull'Oriente... Più sotto, la traduzione in lingua tedesca di un
articolo di M. Markovic sullo stesso tema, da noi già fatto circolare. ]


1. Katastrophale Bilanz im Kosovo
Sollen Serben wieder zurück? Interview mit Prof. Dr. Wolf Oschlies
vormaliger Leiter des Bundesinstituts für ostwissenschaftliche Studien
(J. Elsässer / Junge Welt)

2. Kosovo - Vier Jahre Danach (Milos Markovic / ARTEL)


=== 1 ===

17.09.2004

Interview
Interview: Jürgen Elsässer

Katastrophale Bilanz im Kosovo: Sollen Serben wieder zurück?

jW sprach mit Prof. Dr. Wolf Oschlies

* Prof. Dr. Wolf Oschlies war Leiter des Bundesinstituts für
ostwissenschaftliche Studien, das 2000 mit der Stiftung Wissenschaft
und Politik verschmolzen wurde. Beide Institutionen wurden bzw. werden
von der Bundesregierung finanziert und genutzt.


F: Das Kosovo wird seit über fünf Jahren von der UN mit Hilfe der
NATO-geführten Streitmacht KFOR verwaltet. Welche Bilanz ziehen Sie?

Katastrophal. Alles hat sich vom Schlechten zum Schlimmeren entwickelt.
Der größte Teil der Nicht-Albaner wurde vertrieben, über 200000
Menschen. 1200 Menschen wurden ermordet, vor allem Serben und Roma.

F: UNMIK, die UN-Mission für Kosovo, gibt eine wesentlich niedrigere
Zahl an.

Die Zahl der Ermordeten stammt von Zoran Zivkovic. Der damalige
serbische Premier, ein durchaus pro-westlicher Politiker, gab sie im
Oktober 2003 bei einer serbisch-albanischen Konferenz in Wien im
Beisein von EU-Spitzenpolitikern bekannt.

F: NATO und UN rechnen sich als Erfolg an, daß die während des Krieges
1999 geflüchteten Albaner zurückgekehrt sind.

Und wie! Nach Berechnung der Belgrader Regierung betrug die
Rückkehrrate 120 Prozent. Bekannt ist, daß mit den Flüchtlingen auch
»Plünderungs-Touristen« kamen. Auch das Buch des Tschechen Martin
Dvorák, eines früheren UNMIK-Mitarbeiters, steht gegen die geschönten
Erfolgsbilanzen.

F: Im Westen wird immer wieder vor großserbischem Nationalismus
gewarnt. Aber wie steht es mit den großalbanischen Bestrebungen?

Die finden sich nicht nur in den Erklärungen der angeblich aufgelösten
UCK oder ihres Nachfolgers ANA, sondern auch in einem Manifest der
Albanischen Akademie der Wissenschaften und Künste in Tirana, das unter
dem Titel »Ausgangspunkte für eine Lösung der albanischen nationalen
Frage« veröffentlicht wurde. Das älteste Balkan-Volk, die Albaner,
brauche demnach seinen »ethnisch reinen« Staat, zu dem auch das Kosovo,
Teile Südserbiens, Mazedoniens, Montenegros und Nord-Griechenlands
gehörten. Apropos UCK: Sie wurde zum kleineren Teil in das Kosovo
Protection Corps überführt und zum größeren Teil intakt gelassen. Diese
Strukturen spielten eine entscheidende Rolle bei der Gewaltwelle im
März dieses Jahres.

F: Welche Perspektive sehen Sie?

Die Aussichten sind nicht sehr positiv. Im von NATO und UNMIK
proklamierten Frieden laufen bereits drei Kriege, und ein vierter ist
möglich. Erstens findet schon jetzt ein albanisch-albanischer Krieg
statt: In den letzten Monaten wurden etwa 40 Funktionäre der Partei
Ibrahim Rugovas von UCK-Terroristen umgebracht. Zweitens läuft der
Krieg der Albaner gegen die Serben und andere Minderheiten. Drittens
hat der Krieg gegen KFOR und UNMIK begonnen. »Unabhängigkeit oder
Krieg« lautet seit Jahren der Kampfruf in der kosovo-albanischen
Presse. Wenn die NATO abzieht, kommt es zum vierten Krieg: Dem der
Balkan-Staaten Griechenland, Mazedonien, Bulgarien und
Serbien-Montenegro gegen die Albaner. Der großalbanische Nationalismus
bedroht sie alle.

F: Was wäre die Alternative?

Holt die Serben wieder rein ins Kosovo! Laut UN-Resolution 1244 sollte
schon vor Jahren »eine vereinbarte Zahl jugoslawischen und serbischen
Personals die Erlaubnis zur Rückkehr erhalten«, um im Kosovo
Sicherungsfunktionen zu übernehmen. Für die segensreichen Wirkungen
serbischer Sicherheitskräfte gibt es einen Präzedenzfall: Im Herbst
2000 griff die UCK im Presevo-Tal an, außerhalb des Kosovo, in der
entmilitarisierten Sicherheitszone an der Südgrenze Serbiens. Die KFOR
reagierte rasch: Die Sicherheitszone wurde an Serbien zurückgegeben,
serbisches Militär rückte ein, und der Spuk war zu Ende. Warum ist
dergleichen nicht längst im Kosovo geschehen?

F: Sind Sie mit Ihren Expertisen zur Bundesregierung durchgedrungen?

Auf die eine oder andere Weise habe ich Gehör gefunden. Aber im Zuge
der Fusion des Kölner »Bundesinstituts für ostwissenschaftliche
Studien« mit der »Stiftung für Wissenschaft und Politik« wurden die
Kompetenzen der Fachleute beschnitten. Man sagte mir, die
»Balkanschlagseite« und der »Rußlandbauch« in unserer Forschung müßten
beseitigt werden. Das Ergebnis möge jeder selbst beurteilen. Mich geht
es gottlob nichts mehr an.


* Hintergrundbericht dazu folgt in der Wochenendausgabe

http://www.jungewelt.de/2004/09-17/018.php


=== 2 ===

Kosovo - Vier Jahre Danach
http://www.artel.co.yu/de/izbor/jugoslavija/2004-09-18.html

informgraf@ yahoo. com

Milos Markovic, Journalist
Belgrad, 31 August 2004

Über vier Jahre sind vergangen, als am 9. Juni 200 die internationalen
Streitkräfte im Kosovo mit der Absicht einrückten, in diesem Gebiet die
Ordnung herzustellen, das Leben zu normalisieren und
Gleichberechtigung, Freiheit, Demokratie, Menschenrechte und andere
wesentliche zivilisatorische Errungenschaften zu gewährleisten. In
dieser serbischen Provinz befindet sich die größte Konzentration
internationaler Streitkräfte in Europa, der mehre zehntausend Soldaten
angehören, die hauptsächlich von den Mitgliedstaaten der NATO gestellt
werden. Einen dominierenden Einfluss hat Amerika - sowohl was die
Bewaffnung, als auch auch die militärischen und politischen Kompetenzen
betrifft.
Die angebliche Diskriminierung und ethnische Säuberung der im Kosovo
lebenden Albaner dienten bekanntlich Amerika als Vorwand, die
NATO-Bombardierung Jugoslawiens zu organisieren. Nach 78 Tagen
zerstörerischer Bombardierung des Landes, die zahlreiche Menschenopfer
und unschätzbare Sachschäden forderte, ging diese internationale
Aggression unter dem Diktat Amerikas mit dem Kumanovo-Abkommen am 9.
Juni 2000 zu Ende. Kosovo ist im verbleib Serbiens geblieben, aber
unter internationalem Protektorat und ohne Präsenz der serbischen Armee
und Polizei. Doch das Tragische und Wesentliche ist, dass Kosovo auch
ohne Serben geblieben ist, denn etwa 80% der serbischen Bevölkerung
wurde von den albanischen Terroristen vertrieben, die bei allem von den
USA enorme Unterstützung und Hilfe bekamen. Nach der Vertreibung der
Serben aus Kroatien und Bosnien-Herzogowina war das die größte
Fluchtwelle eines Volkes aus seiner jahrhundertealten Heimat.
Nach vierjähriger Verwaltung des Kosovo kann durchaus die dokumentierte
Behauptung aufgestellt werden, dass es sich hierbei um die komplette
Okkupation eines wesentlichen Teils eines angeblich unabhängigen und
souveränen Staates handelt. Die gegenwärtige Lage im Kosovo ist
vielleicht die schwerste in seiner langen und delikaten Geschichte.
Diese Situation ist die wahre Kehrseite der angeblichen westlichen
Zivilisation. Nirgendwo dominieren die Gesellschaft terroristische und
mafiöse Zusammenhänge in solch einem Ausmaß. Das Kosovo wurde zum
größten Drogenumschlagplatz Europas. Das Kosovo ist der größte Markt
für "Mädchenhandel". Das Kosovo ist ein Zentrum internationaler,
terroristischer Kräfte. Das Kosovo wurde zum Symbol für Verbrechen,
Plünderung, Prostitution, Drogen, Morden und die Vertreibung eines
Volkes!
Welchen "Erfolg" die sogenannten internationalen Kräfte im Kosovo zu
verzeichnen haben, belegt u.A. die Tatsache, dass im März dieses Jahres
unter den Augen dieser Kräfte über 150 Kirchen und Klöster -
hauptsächlich im Mittelalter erbaute, kulturgeschichtlich äußerst
wertvolle Gebäude - von albanischen Extremisten zerstört wurden und
größtenteils vollständig ausbrannten. Gleichzeitig wurden tausende
serbischer Häuser in Brand gesteckt und unzählige Gräber geschändet.
Ein größerer Vandalismus und Barbarismus ist kaum vorstellbar. Die
wenigen Serben, die in ein paar Kosovo-Enklaven noch geblieben sind,
leben in äußerster Unsicherheit und Unfreiheit - ihre Kinder werden
z.B. auf dem Schulweg von Gepanzerten Militärfahrzeugen begleitet.
Wo ist die Freiheit, wo die Demokratie, wo der Frieden, wo sind die
Menschenrechte, die vor allem Amerika garantierte?
Kann sich beispielsweise ein Deutscher vorstellen, dass in einem seiner
Bundesländer Deutsche kein elementares Bürgerrecht wahrnehmen dürfen,
während alle Reichtümer - Natrurschätze, Betriebe, Privatvermögen -
sich in Händen von Okkupanten befinden, die mit dem Versprechen auf
Einführung zivilisatorischer Wohltaten einmarschiert sind?
Die Kosovo genannte, serbische Tragödie ist im gewissen Sinne auch eine
Schande Europas, das nahezu gleichgültig zuschaut, wie in einem Teil
Europas die hegemonistischen, amerikanischen Interessen verwirklicht
werden. Es ist wohl niemandem Klar, dass die internationale Mission im
Kosovo nichts gebracht hat, außer tragische Folgen für ein ganzes Volk.
Und die Obrigkeit in Belgrad hat unter dem offensichtlichen
amerikanischen Diktat nahezu keinen Protest erhoben. Das Volk, dessen
Lebensstandart unerträglich ist, scheint betäubt zu sein, sich in einem
Zustand der Niedergeschlagenheit zu befinden. Es scheint, als müssten
die Menschen nach dem Verlust aller Illusionen über die angebliche
Demokratie - die hier zu einer international geförderten Mafiokratie
verkam - erst zu Besinnung kommen.

Un piccolo passo per Dassaut,
un grande passo per l'Humanitè

Surrealista, la festa del giornale comunista l'Humanité, dove mi son
trovato questo week-end a Parigi. Quando voi avete fatto il pieno, di
stand in stand, di materiale che incita alla lotta di classe per il
progresso sociale, la giustizia e la pace, avete la possibilità di
mettere insieme tutto questo pesante fardello in una borsa di plastica.
Offerta generosamente da... la società di armamenti Dassault, sponsor
ufficiale della festa! Sì, uno degli uomini più ricchi di Francia. Che
per vendere meglio i suoi cannoni ha fatto man bassa di tutti gli
editori e i media francesi che ha potuto. Con una censura ferrea. Un
picolo passo pubblicitario per Dassault, un grande passo verso la
caduta finale per l'Humanité.
Sfortunata coincidenza? No, quando aprite il programma ufficiale della
festa la prima pagina che si presenta ai vostri occhi è una pagina
pubblicitaria per un'altra industria di armamenti: EADS. Con i simboli
di tutte le sue armi che hanno già assassinato ai quattro angoli del
pianeta: l'elicottero da combattimento Eurofighter, il sistema di
spionaggio Gladio, il missile Meteor. Senza dimenticare l'Airbus A400M,
che può trasportare centinaia di soldati Francesi nel cuore dell'Africa
affinché le multinazionali possano continuare a rapinare le sue
ricchezze.
Riassumendo, uno crede di essere ad un volgare salone dell'armamento, e
dubito che i militanti di base siano stati consultati su questo
orientamento. Triste per un giornale il cui fondatore Jean Jaurès disse
all'epoca: "Il capitalismo porta in se la guerra come la nuvola la
tempesta".

Michel Collon

Traduzione di FB

[ na srpskohrvatskom:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3814
en francais:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3812 ]

[ riceviamo e volentieri giriamo la seguente segnalazione a proposito
di una iniziativa organizzata in Germania : ]

https://www.cnj.it/INIZIATIVE/KosmetHeidelberg.jpg

Wir laden herzlich ein zum Abend über

KOSOVO und METOHIJA

Von und mit:
Jelena Bojovic
Vojislav Petrovic
aus Belgrad


Samstag
18. September 2004
"Badischer Hof"
Schwetzingerstr. 27
HEIDELBERG - Kirchheim


PROGRAMM

Begrüssungswort

Vera Krstic
Kriegsopfer-Kinderfürsorge e.V. Viernheim

Kosovo und Metohija aus historischer Sicht

Vortrag von Kurt Wolff

Dokumentarfilme
(Kamera: Jelena Bojovic)

"Die Festung Garic" (1999)

"Es war einmal die Festung Garic" (2000)

"Weder da noch dort" (2003)

"Das 21. Jahrhundert" (2004)

Kurze Pause

Performance

"Serbischer Tango"

mit Jelena Bojovic
und Vojislav Petrovic

Offene Diskussion

https://www.cnj.it/INIZIATIVE/KosmetHeidelberg.jpg

http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
index.cfm?fuseaction=news.view1&NewsID=3362


Croazia: che tempo fa a Sveti Rok?

Un tempo era parte dell’autoproclamata repubblica serba di Krajna. Ora
è roccaforte del nazionalismo croato. Viaggio estivo tra lapidi
commemorative e fotografie di criminali di guerra.

(14/09/2004)

Di Leonardo Barattin *

Con due articoli pubblicati il 17 e il 30 agosto dall’Osservatorio sui
Balcani, Drago Hedl – redattore del settimanale croato Feral Tribune –
ha portato alla ribalta il villaggio di Sveti Rok e la sua vicenda
recentissima.

Situato nel cuore della Lika, all’interno di quella che dal ‘91 al ‘95
fu l’autoproclamata repubblica serba di Krajina guidata da Milan
Martić, questo piccolo centro abitato si trova poco discosto dalla
strada statale che attraversa da nord a sud i territori “liberati”
nell’agosto 1995 con l’Operazione Tempesta.

Sveti Rok è balzato agli onori delle cronache per l’intitolazione di
una lapide commemorativa al suo concittadino Mile Budak (1889-1945) -
scrittore e Ministro della Cultura e della Religione nel Governo NDH,
promotore di leggi e politiche volte ad azzerare la presenza del gruppo
etnico serbo in Croazia - e per il blitz con il quale essa è stata
prontamente rimossa per decisione del governo Sanader.

L’omaggio a questo protagonista del governo ustascia di Ante Pavelić ha
provocato accese polemiche, dichiarazioni ambigue e divisioni di campo
all’interno dei confini della Croazia, portando ancora una volta alla
superficie i temi più cari del nazionalismo e ultranazionalismo croato
in opposizione alle ragioni di chi vede la Croazia proiettata verso una
dimensione europea. Per la sua valenza il fatto ha dunque trasceso la
ristretta dimensione locale per occupare intere pagine di cronaca e
commento di quotidiani e settimanali nazionali e non: Jutarnji e
Večernji List, Slobodna Dalmacija, Feral Tribune, Zadarski Regional, ...

La lapide commemorativa, incastonata nel muro che delimita l’area di
rispetto della chiesa parrocchiale di Sveti Rok e sormontata dalla
Croce, definiva Budak “patriota croato” morto assassinato “per la causa
del popolo croato” (la condanna a morte comminatagli dall’autorità
jugoslava comunista fu eseguita il 7 giugno 1945) ed era stata posta
dai “patrioti croati dell’emigrazione e della terra croata”. La lapide
al letterato Budak (la motivazione addotta dai sostenitori
dell’intitolazione del monumento era infatti la celebrazione dello
scrittore e non dell’uomo politico), decorata con simboli grafici della
tradizione artistica e religiosa croata, poneva poi a fianco del
ritratto di Budak la significativa immagine di un fuoco ardente.

“Dio, patria e famiglia”, elementi fondanti della cultura nazionale e
nazionalista croata, vengono così ricomposti in questo quadro,
all’interno del quale la componente famigliare è rappresentata dal
duraturo, solido e rinnovato legame tra la comunità degli emigrati e la
comunità dei rimasti. A Sveti Rok si assiste infatti alla riunione
della famiglia, ossia all’abbraccio tra i membri della cosiddetta
diaspora (i fuggitivi e gli esuli filo-NDH al termine del Secondo
conflitto mondiale) e la comunità di coloro che, rimanendo, hanno
presidiato il territorio negli anni della Jugoslavia comunista. La
presenza viva e forte dell’emigrazione è segnalata anche da altri
elementi, come la costruzione da parte dell’associazione
croato-canadese “Sveto brdo” di un monumento intitolato ai caduti “per
la patria croata” - posto lungo la strada statale all’altezza della
svolta per il villaggio.

La vicenda di Sveti Rok si inserisce in un contesto più ampio. Situata
tra la città di Gospić e la cosiddetta “sacca di Medak” – entrambe note
per i fatti di sangue contro la popolazione serba locale che hanno
portato all’incriminazione dei generali Norac e Ademi – ed i centri
etnicamente ripuliti di Gračac e Knin, Sveti Rok (assieme al caso di
Slunj, anch’esso menzionato da Hedl) pare rappresentare la punta
avanzata ed emersa di un ben più vasto clima di ferma ed orgogliosa
rivendicazione dei fatti della guerra patriottica nella Croazia
occidentale e di legame spirituale con il passato ustascia. Se la
simbologia ustascia si limita generalmente alla presenza sui muri di
numerose “U” sormontate dalla croce cattolica, più forte è il messaggio
pubblico legato agli eventi della guerra ‘91-’95: la fitta presenza di
bandiere nazionali ricorda con determinazione ossessiva il pieno
possesso del territorio da parte croata e costituisce un chiaro monito
agli “altri”; messaggi dell’HSP (partito dell’estrema Destra croata
guidato da Anto Đapić, estremamente attivo in quest’area) affissi a
Gospić chiedono “la Croazia ai Croati”, mentre manifesti di sostegno ai
generali Norac (“E’ colpevole perché ha difeso la patria”) e Gotovina
(ricercato dal TPI per crimini contro l’umanità commessi nel corso
dell’Operazione Tempesta) compaiono in vari centri abitati sulle
vetrate di bar, farmacie ed altri esercizi commerciali. A Knin, poi,
l’addetto alla vendita dei biglietti per la visita della fortezza alla
domanda su chi sia la persona ritratta nel quadretto in vendita tra i
souvenirs afferma che si tratta del generale Ante Gotovina, il quale “è
un eroe e un problema. Un eroe per noi e un problema per il mondo”.

Ma se la volontà di affermare la croaticità dei luoghi e di celebrare
le forme e gli effetti della guerra patriottica fanno ancora vibrare
l’aria di queste terre fatte di catene montuose, pietra, altipiani e
gole, manifestazioni simili giungono fin sulla costa, nella turistica
Zara, dove vacanzieri in cerca di una posa fotografica possono
imbattersi nell’immagine esibita con orgoglio di Mirko Norac: una sua
gigantografia campeggia sul muro esterno del bar Tiffany, ai margini
del centro storico, mentre un manifesto che proclama Gotovina “eroe e
non criminale” è affisso in vista all’interno di un negozio di
elettrodomestici presso la Chiesa di San Simeone.

Atteggiamenti, questi, che nella tormentata città di Zara rievocano
l’attribuzione della cittadinanza onoraria allo stesso Gotovina
nell’inverno del 2002 e le tensioni politiche che a Zara e da Zara da
tempo si sprigionano.


* Leonardo Barattin è uno di quei molti italiani che girano i Balcani
per lavoro. E’ responsabile esteri di un’azienda del nord est

» Fonte: © Osservatorio sui Balcani

[ Sulla questione della lingua e letteratura serbocroate e della loro
"abolizione per legge" negli staterelli etnici sorti dallo squartamento
della Jugoslavia, vedi anche, nel nostro archivio
http://groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/messages :
*** Il croato creato e la frattura delle lingue - Un commento di Babsi
Jones, da http://www.exju.org/comments/590_0_1_0_C/ - JUGOINFO 6 Gen
2004
*** Koliko trebas jezika? Srpski, Maternji, Crnogosrski,
Montenegrinski... - JUGOINFO 7 Set 2004
e l'articolo di Luka Bogdanic “Serbo o croato? L’uso geopolitico della
lingua”, apparso su Limes a gennaio 2004 ("Il nostro oriente. I Balcani
alle porte") ]


http://komunist.free.fr/arhiva/sep2004/glisic.html
Arhiva : : Septembar 2004.

Jezičko pitanje

Jezik je jedno od bitnih spoljnih obeležja u definisanju nacije, iako
su poznati značajni primeri kada više nacija govori istim jezikom.
Najpoznatiji takvi slučajevi su, nesumnjivo, na engleskom i nemačkom
govornom području. Nešto slično se događalo i na prostorima bivše SFRJ,
gde je do "deobe" istog jezika došlo između četiri priznate nacije:
Srbima, Hrvatima, Muslimanima (sada Bošnjaci) i Crnogorcima. Postoje i
nacije čiji pripadnici govore različitim jezicima, poput Švajcaraca,
Belgijanaca ili Indijaca.

Iako su postojale nužne razlike u lokalnim varijantama
srpsko-hrvatskog, bilo je nesporno da se radi o istom jeziku, jer
razlike postoje i u drugim jezicima i te razlike su često uslovljene
specifičnim razvojem određene zajednice na određenom geografskom
području. Opšte su poznati primeri, opet iz nemačkog jezika, u okviru
koga postoji čak šest lokalnih varijanti, ali samo jedan književni,
priznati jezik koji je zajednički svima. Dobar i poučan primer
predstavljaju i Kinezi čiji se govorni jezik u lokalnim varijantama
može da bude potpuno nerazumljiv nekome iz drugog dela te velike
zemlje, ali se svuda isto piše, a za zvaničnu, književnu varijantu
izabran je tzv. kantonalni kineski. U poređenju sa nemačkim i kineskim
jezikom (iako to nisu jedini primeri, ali su dovoljno reprezentativni),
razlike koje postoje između hrvatske i srpske varijente
srpsko-hrvatskog (ili hrvatsko-srpskog) su potpuno zanemarljive.

Nabujali nacionalizam, tačnije njegovi ideolozi i nosioci insistirali
su na potpunom i trajnom razdvajanju svega što je zajedničko među
narodima koji su činili rastočenu državu. Jedna od tih stvari je i
jezik. Neverovatnom brzinom je prihvaćen stav o tome da su srpski i
hrvatski posebni jezici i ta podela je ozvaničena u zakonima, školskim
programima i diktiranom javnom mnjenju. Na čemu se, zapravo, temelji ta
podela? Ni na čemu, izuzev na činjenici da su Srbi – Srbi, a Hrvati –
Hrvati! U Hrvatskoj je, u prvom periodu državotvoračkog romantizma
dolazilo do komičnih pokušaja stvaranja novih reči (tzv novogovor)
kojim bi se uvećala razlika u odnosu na srpsku varijantu istog jezika,
ali su ti pokušaji doživeli zasluženi krah. Podela je ostala zakonska,
tačnije politička, ili još bolje – veštačka. Na ovom mestu nameću se
neka pitanja: Na osnovu kojih elemenata se može zaključiti da Hrvati u
Vojvodini npr. govore baš hrvatskim jezikom?

Kao što to obično biva, društveni procesi nastavljaju svojim tokovima
do logičnog kraja, pa se i ovde situacija dalje komplikovala. U Bosni i
Hercegovini je proglašen bošnjački jezik po državnom osamostaljenju, a
u Crnoj Gori postoji tendencija da se proglasi crnogorski kao poseban
jezik. Ova dva primera zaslužuju posebnu pažnju, iako ne donose ništa
novo, što se već u Srbiji i Hrvatskoj nije dogodilo.

Kada je proglašeno (ozvaničeno, ozakonjeno) postojanje bošnjačkog
jezika, to je bio jezik, uslovno rečeno, koji su "prihvatili" samo
bosanski Muslimani-Bošnjaci, dok su se Srbi i Hrvati držali svojih
"matičnih" naziva istog jezika. Bošnjački jezik je srpsko-hrvatski
obogaćen turcizmima. Ali, bilo je bitno nazvati ga drugačije, jer, po
nečijoj logici, bez "ekskluzivnog" naziva jezika nema ni države. I tek
onda nastaju muke: Muslimani-Bošnjaci iz Sandžaka prihvataju novi naziv
jezika jer BiH smatraju svojom maticom, bez obzira na to što je njihov
govor bliži srpskom nego bosanskom. Od ovog silnog bogatstva različitih
jezika obogaćene su samo zbirke anegdota. Poput pojedinih novih reči
koje su nametane u Hrvatskoj (kao što su zoroklik, svesmjer ili
zrakomlat), tako je i preterano ijekaviziranje u Sandžaku umelo da
stvori situacije za viceve. Poznata je anegdota u kojoj jedna visoka
opštinska službenica u Novom Pazaru šaljući svog vozača da joj nešto
kupi dodala: ... i uzmi sjebi šta hoćeš.

Pitanje crnogorskog jezika kao posebnog predstavlja kulminaciju
narečenog procesa. Čitava konstrukcija o crnogorskom jeziku kao
posebnom se zasniva na tzv. "mlađem jotovanju", tj. na glasovima koji
su specifični za crnogorsku varijantu jezika (šj, žj). Temeljenje teze
o posebnom jeziku na osnovu jedne tako male gramatičke razlike (da ne
kažem anomalije) od književnog jezika je upravo smešno. Kada bi ovaj
kriterijum bio dovoljan, skoro svaki region u Srbiji i Hrvatskoj bi
mogao da proglasi svoj jezik, pa bismo se suočili sa niškim,
leskovačkim, šumadijskim, zagorskim, dalmatinskim itd. jezicima. Stvar
je, međutim, u tome da se lokalni govor često razlikuje od književne
varijante jezika, ali ta razlika nije dovoljna da se proglasi poseban
jezik, pa čak ni u slučaju da se u čitav izbor umeša nacionalna
komponenta. Jer, poseban jezik jeste jedno od obeležja nacionalnosti,
ali nije nužno obeležje, a još manje jedino. Stoga je bitno da se
shvati da sama činjenica da Srbi, Hrvati, Bošnjaci (ili Muslimani) i
Crnogorci govore istim jezikom ne znači da te nacije kao takve ne
postoje – naprotiv. One imaju dovoljno drugih elemenata koji ih čine
nacijama (kultura, teritorija, zajednička istorija itd) da ih "deoba"
jezika u tome ni najmanje ne ometa. Pri svemu tome treba imati na umu i
činjenicu da se u definisanju nacije ne mogu taksativno nabrojati svi
njeni elementi. Ono što je zaista bitno, to je subjektivni osećaj
pripadnosti jednog broja ljudi jednoj etničkoj grupi. Za taj osećaj
posebno ime jezika nije preterano bitno.

Ipak, ovo do sada navedeno nasilje nad jezikom se ne završava samim
njegovim proglašenjem. Svaki od ovih novokomponovanih jezika se u
stvarnosti suošava sa nizom problema, a najveći je taj da se ove
promene prosto "ne primaju" u narodu. To je slučaj sa novoskovanim
rečima u Hrvatskoj i Bosni, ali i sa pokušajem u Srbiji da se oduzme
jedna od osnovnih karakteristika jezika kojim govorimo – njegova
dvopismenost. Srpskohrvatski jezik ima dva pisma – ćirilično i
latinično i svi pokušaji da se to promeni se, za sada, razbijaju u
stvarnosti kao talasi o hridi. Na ovom primeru se vidi koliko je
nacionalistima malo stalo do bogatstva svog jezika, jer je ta
dvopismenost jedinstvena u svetu i stvar kojom bi trebalo da se
ponosimo.

Poslednjih godina se u Srbiji razvila polemika na tu temu, ali su
argumenti koje koriste obe strane tragično pogrešni. "Ćiriličari"
zastupaju tezu da se ćirilica potiskuje, a njihovi oponenti da latinicu
treba učiti zarad "povratka u svet". Ćirilica je pismo koje deca u
Srbiji prvo nauče, ona je, dakle njihovo prvo pismo, pa, samim tim, ne
može biti zaboravljena. Srpsko-hrvatska latinica je pismo koje je
potpuno analogno ćirilici, nastala je na istim principima i mnogo više
ima zajedničkih stvari sa ćirilicom, nego sa latinicom koja se koristi
u zapadnim (germanskim, romanskim, pa i slovenskim jezicima), tako da
ona nema nikakve veze sa "povratkom u svet" i učenjem engleskog ili
bilo kog drugog jezika npr. Zapravo, vidljivo je izbegavanje i jedne i
druge strane da priznaju ono što svi znaju: srpsko-hrvatski jezik još
uvek postoji, uprkos svim naporima da se zvanično ukine. Čak i kada bi
sve jezikoslovne mere (tačnije: nasilje) uspevale iz prve i bile
oduševljeno prihvaćene, bilo bi potrebno bar sto godina da postojeći
jezik "umre". U datom slučaju bi se mogla parafrazirati poznata
latinska izreka na sledeći način: Lingua longa, vita brevis!

Srpsko-hrvatski (hrvatsko-srpski) jezik je, dakle, žrtva politike, i to
nacionalističke politike. Ali ipak, mnogo manja žrtva od miliona ljudi
koji govore tim istim jezikom. Za utehu, ostao im je on i celokupna
kultura zabeležena uz pomoć tog jezika na koju jeste nabacana prašina,
ali nije uništena.

Nenad Glišić