Informazione


IL COMITATO PER LA VITA DEL FRIULI RURALE

E GLI ANTIFASCISTI DELLA BASSA

 

TI INVITANO A

GRIS

DI

BICINICCO

ALLE ORE 14.30 DEL PRIMO NOVEMBRE

PER RICORDARE


UN CAMPO DI

CONCENTRAMENTO

FASCISTA RUBATO ALLA MEMORIA


avevamo visto costruire un campo enorme che sembrava fatto apposta per le belve feroci. Un giorno ci dissero che erano arrivati i Russi e allora andammo a curiosare con non poca paura, ma con nostra sorpresa scoprimmo che non erano diversi da noi. Più tardi arrivarono gli Sloveni e quando se ne andarono la gente si rubò ogni cosa ed ora una cava si è portata via anche la terra… a me è rimasto uno sgabello che ti affido…                         Marino Lestani di Cuccana

        

davanti alla cava Stefanel intervengono

 

L’A.N.P.I. PROVINCIALE, ALDEVIS TIBALDI, EDI MAURIGH

 

prolusione di

ALESSANDRA KERSEVAN

 

la posa di un cippo commemorativo sarà preceduta da un momento conviviale


Per dirla con le parole di Luis Sepulveda “un popolo senza memoria è un popolo senza futuro” e il caso del campo di concentramento di Gris di Bicinicco è la più eclatante dimostrazione che siamo alla deriva.

La memoria dei fatti che hanno macchiato la dignità del nostro popolo e, di converso, l’eroica guerra di liberazione sono state messe all’angolo e una società in cui si agitano false lusinghe, la partecipazione popolare viene sistematicamente disarmata e i luoghi della memoria negletti. I valori della Costituzione repubblicana nati dalla Resistenza vengono continuamente messi in dubbio e la stessa ricostruzione dei fatti storici, spesso abbandonata all’arbitrio di una informazione dozzinale, quando non ispirata dai rigurgiti di una nostalgia che si rifà al fascismo.

La memoria aggrega, può essere il collante che unisce generazioni; la memoria è la base per un umanesimo che costituisce il cemento di una convivenza civile ispirata al confronto e al dialogo costruttivo. Forse proprio per questo è trascurata. Ricordare la vergogna dei campi di concentramento sorti nella nostra regione è dunque un dovere imprescindibile e il ricordo deve trovare una costante ed appassionata diffusione nelle scuole di ogni ordine e grado. Eppure quelle tremende vicende sono rimaste sepolte per anni, troppi. Troppe sono state le omertà, troppe le complicità e troppe le autoassoluzioni tese ad accreditare la facile convinzione degli “Italiani brava gente”.

 

Quelle che si sono avute nei due campi di Gonars e Gris sono vicende tremende. Erano sorti con l’idea di internare le migliaia di militari russi che la paranoia mussoliniana si era illusa di catturare in una guerra di invasione che, anziché vittoriosa, si è rivelata una tremenda disfatta. Diventarono ben presto, il luogo di detenzione e di morte per migliaia di donne, bambini e uomini sloveni e croati strappati dai luoghi natii per spopolare e terrorizzare le terre di conquista. Migliaia di esseri umani scaricati dai treni bestiame e poi avviati a piedi, talvolta sotto le ingiurie e gli sputi dei residenti storditi da una propaganda becera, sino a raggiungere i miseri alloggi di fortuna dei campi. La fame ed una denutrizione dovuta spesso alla avidità dei carcerieri ha reso la prigionia un inferno e in cinquecento morirono fra sofferenze inenarrabili.

 

Il campo di Gris (alias Campo A) fu inizialmente destinato alla prigionia di militari ed ex militari dell’esercito jugoslavo, poi, dopo averli trasferiti in altri luoghi di detenzione, nell’autunno del 1942 anch’esso si trasformò in un reclusorio per la popolazione civile, massimamente per i sopravissuti dell’altro infame campo insediato nell’isola di Arbe. Anch’esso fu, dunque,  un luogo di sofferenze e di morte, almeno sino al fatidico otto settembre, quando, con la fuga dei militari di guardia, i più si diedero alla macchia.

 
Ambedue i campi -e con essi il quartiere comando- furono ben presto saccheggiati e demoliti dalla popolazione residente, ma se quello di Gonars rimase pur sempre nella memoria dei più e facilmente identificabile, quello di Gris finì preda della avidità dei cavatori e di una Amministrazione che si prestò, e tuttora si presta, a far scomparire ogni traccia e riconoscibilità del luogo. Dopo decenni di oblio, il Comitato per la Vita del Friuli Rurale ha deciso di affidare la celebrazione del Campo di Gris ad Alessandra Kersevan, la massima  e coraggiosa autorità storica cui va il merito di aver dissepolto la verità dei lagher italiani e tenere alta la fiaccola dei valori della Resistenza.


 

LA DISINFORMAZIONE E' STRATEGICA

[Cette article en langue francaise: La communication est stratégique

par Manlio Dinucci - Le ministre italien de la Défense vient de lancer une vaste offensive de communication pour convaincre ses concitoyens du bien-fondé de sa politique. Derrière la rhétorique pseudo-militaire se cache une simple campagne de propagande...

http://www.voltairenet.org/article180729.html ]

http://www.marx21.it/internazionale/pace-e-guerra/23016-la-comunicazione-e-strategica.html
La comunicazione è strategica

di Manlio Dinucci | da il Manifesto
29 Ottobre 2013
Chi l’avrebbe detto che il prof. Mario Mauro, laureato in lettere e filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e con l’esperienza militare di caporalmaggiore di leva, sarebbe divenuto un esperto di strategia? Nominato ministro della difesa, ha emanato una «Direttiva sulla comunicazione strategica».

Il presidente Napolitano – si spiega nella premessa – ha dichiarato che occorre reagire a disinformazioni e polemiche che colpiscono lo strumento militare, posto nello spirito della Costituzione a presidio della partecipazione italiana alle missioni di stabilizzazione e di pace. Informare su cosa la Difesa sta facendo per assolvere i compiti istituzionali, non è quindi solo un dovere, ma una necessità per contrastare la diffusione di informazioni scorrette. Come quella – precisiamo – che noi del Manifesto diffondemmo nel 2011, denunciando la guerra di Libia e le sue vere ragioni, mentre il presidente Napolitano garantiva che «non siamo entrati in guerra, siamo impegnati in un’azione autorizzata dal Consiglio di sicurezza».

L’opinione pubblica e i mass media, sottolinea la Direttiva, devono essere messi in condizione di comprendere e apprezzare la necessità di avere uno strumento militare capace, flessibile e proiettabile. Le nuove minacce alla sicurezza impongono di estendere l’impegno della Difesa lontano dai confini nazionali, per anticiparle e prevenirle. Una mancata risposta alla Comunità Internazionale (leggi la Nato sotto comando Usa) non danneggerebbe soltanto l’immagine del Paese, ma metterebbe a rischio anche i suoi interessi strategici ed economici.

Occorre di conseguenza aumentare nel pubblico la consapevolezza che le operazioni militari contribuiscono alla crescita del Paese e che l’Italia vi deve assumere ruoli di sempre maggiore responsabilità. Come quello, confermato da Mauro alla recente riunione Nato dei ministri della difesa, di partecipare al contingente di oltre 20mila uomini che resterà in Afghanistan dopo il 2014 e alla spesa di 4 miliardi di dollari annui da elargire al governo afghano (uno dei più corrotti al mondo). Nelle operazioni militari, spiega la Direttiva, la comunicazione strategica deve essere considerata alla stregua delle altre funzioni operative. In altre parole, mentre si impegnano forze militari nelle guerre, occorre convincere i cittadini sulla necessità di farlo.

La stessa opera di convinzione, specifica la Direttiva, va fatta nei confronti delle comunità che vivono presso installazioni militari (convincendo ad esempio la popolazione di Niscemi a accettare il Muos) e dei cittadini restii ad accettare i programmi militari di investimento (convincendoli che è bene spendere 15 miliardi di euro per i caccia F-35). La comunicazione strategica è diretta in generale ai media, al mondo della scuola, alle università, alle associazioni culturali.

Deve allo stesso tempo puntare sugli «attori culturali» (giornalisti, conduttori di programmi televisivi, blogger e altri, perché convincano l’opinione pubblica a sostenere le forze armate e le loro operazioni) e sui «decisori politici» (ossia sui parlamentari perché votino leggi che rafforzino il settore militare). Non si tratta solo di informare i destinatari delle scelte della Difesa, chiarisce la Direttiva, ma anche che questi siano coinvolti nel buon esito delle decisioni assunte. In altre parole: quella pianificata dal ministero della difesa non è solo una colossale campagna di disinformazione, condotta da personale scelto e appositamente formato, ma un vero e proprio piano di militarizzazione delle menti.
 
  ===  Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - ONLUS https://www.cnj.it/ http://www.facebook.com/cnj.onlus/  === * ===


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(srpskohrvatski / italiano)

Kosovo conteso tra Turchia, Serbia e Albania

1) Erdogan fa il sultano: “Il Kosovo è Turchia” (M. Santopadre)
2) Dugi prsti od Bosfora do Kosova / Mani lunghe dal Bosforo al Kosovo (Glassrbije.org)
3) NKPJ: BOJKOT IZBORA NA KOSOVU I METOHIJI


Sulle responsabilità turche nella guerra fratricida in Jugoslavia si veda:
IL RUOLO DELLA TURCHIA NELLA CRISI JUGOSLAVA
a cura del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia (1999)

Sulla problematica kosovara e l'irredentismo pan-albanese si veda tutta la documentazione raccolta alla nostra pagina dedicata:


=== 1 ===


Erdogan fa il sultano: “Il Kosovo è Turchia”

Martedì, 29 Ottobre 2013 10:44
Marco Santopadre

E' crisi diplomatica e politica tra Serbia e Turchia dopo le affermazioni del premier turco Recep Tayyip Erdogan durante un recente viaggio nella provincia serba a maggioranza albanese che nel 2008 ha dichiarato la propria indipendenza, conquistata grazie all’intervento militare della Nato. 
Parlando a migliaia di persone nella città di Prizren – nel sud del paese - il premier turco ha esaltato gli stretti legami storici e culturali con il Kosovo (eredità della dominazione ottomana dei Balcani) da lui definito sua 'seconda patria'. Nel suo bagno di folla a Prizren, Erdogan - affiancato dai premier kosovaro Hashim Thaci e da quello albanese Edi Rama - aveva detto fra l'altro che ''il Kosovo è Turchia e la Turchia è Kosovo'' e che i popoli turco e kosovaro hanno la stessa storia e la stessa civilizzazione. ''Quando vengo in Kosovo mi sento a casa mia'' ha detto il leader dell’Akp che poi ha ricordato che “Noi siamo così vicini che Mehmet Akif Ersoy, il poeta autore dell'inno nazionale turco, era originario di Pec, in Kosovo".

Le dichiarazioni di Erdogan sono suonate a Belgrado come un’inaccettabile provocazione. Dopo le dure critiche a Erdogan giunte dal ministero degli esteri serbo, a condannare l'atteggiamento invadente del premier turco sono stati anche il capo del governo di Belgrado, Ivica Dacic, e il suo vice, Aleksandar Vucic. Per Dacic, che ha annunciato una protesta ufficiale del suo governo, le affermazioni di Erdogan ''non sono diplomatiche'' e non contribuiscono alla stabilità politica in Kosovo. Il vicepremier Vucic ha parlato di ''enorme scandalo'' e ha chiesto le ''immediate scuse'' da parte di Erdogan. Il premier turco, ha osservato Vucic, sa molto bene che ''il Kosovo non è turco sin dalle guerre balcaniche'' di più di un secolo fa. Di affermazioni scandalose da parte del premier turco ha parlato anche il presidente del parlamento serbo Nebojsa Stefanovic.
Mentre la Serbia e altre decine di paesi del mondo continuano a non riconoscere l’indipendenza di quello che ormai in molti considerano un narco-stato, la Turchia è stato cinque anni fa il primo paese a riconoscere il distacco di Pristina da Belgrado.

A parte le aspirazioni da sultano di Erdogan – che cerca anche di far dimenticare alla sua opinione pubblica una crisi economica crescente e le proteste popolari schiacciate dalla repressione – ad interessare il premier di Ankara sono gli affari che molte imprese turche stanno da tempo realizzando in un paese dove vive una consistente minoranza turcofona e dove la popolazione albanese di fede islamica guarda alla Turchia con sempre maggiore simpatia. Non a caso l’ex comandante dell’UCK (più volte accusato ma senza esito di corruzione e vari crimini di guerra) Thaci ha ringraziato Erdogan per il costante appoggio e la stretta cooperazione che Ankara mantiene con il Kosovo. Prima del bagno di folla a Prizren i tre capi di governo avevano partecipato all'inaugurazione del nuovo terminal dell'aeroporto internazionale di Pristina "Adem Jashari". Realizzato su 42 mila metri quadrati e con una capacità di 4 milioni di persone all’anno, il nuovo terminale é costato 130 milioni di euro, una parte dei quali di provenienza turca. In cambio un consorzio francese a partecipazione turca ha ottenuto, fin dal 2010, la gestione dell’aeroporto per i prossimi 20 anni. 

Erdogan era tra l’altro accompagnato da una folta delegazione di ben 600 persone: alcuni ministri ma soprattutto imprenditori ed esponenti di varie istituzioni culturali ed economiche del suo paese. 


=== 2 ===


Dugi prsti od Bosfora do Kosova


Sub, 26/10/2013 - 
Turski premijer, usred Prizrena, izjavljuje da je Kosovo Turska. Tužilaštvo u južnoj Mitrovici otvorilo istragu protiv srpskog ministra bez portfelja Aleksandra Vulina zbog navodnog ilegalnog ulaska na Kosovo i zatražilo izdavanje poternice za njim. Prema podacima Centralne Izborne Komisije, na Kosmetu broj glasača je čak za 40 hiljada veći od ukupnog broja stanovnika prema popisu obavljenom pre dve godine. U ovakvoj atmosferi, građani Kosmeta treba da donesu odluku kome će ukazati poverenje na lokalnim izborima koji se održavaju 3. novembra.

Dok se funkcionerima Srbije zabranjuje ulazak na Kosovo i Metohiju, turski premijer Redžep Tajip Erdogan je u društvu Hašima Tačija, usred Prizrena, poručio da je Kosovo Turska, što je izazvalo oštre reakcije državnog vrha Srbije. Premijer Ivica Dačić je izjavu turskog premijera ocenio kao direktnu provokaciju Srbije i najavio da će Ministarstvo inostranih poslova preduzeti odgovarajuće mere. Vicepremijer Aleksandar Vučić smatra da je ta izjava veliki skandal i traži hitno javno izvinjenje Turske i njenog premijera. “To je nedopustivo ponašanje u međunarodnim odnosima i treba videti kakve će biti reakcije drugih zemalja", rekao je Vučić i naglasio da Erdogan vrlo dobro zna “da Kosovo nije tursko još od balkanskih ratova”.

Potpuno neprimerena izjava Erdogana verovatno se može objasniti, ali ne i opravdati. Političari u predizbornim kampanjama često namerno prelaze liniju korektnosti, pravila igre, ponekad čak i dobrog ukusa. Erdoganova izjava je bila upućena turskom življu koga je najviše baš u Prizrenu i okolini, u smislu motivacije da izađu na izbore i daju svoj glas Tačijevoj stranci. Ona ima i pravac usmeren za “domaću upotrebu”, za hranjenje desnice sa “otomanskim ambicijama”, ali je sa aspekta prostora gde je izgovorena, dakle, u stranoj državi, i vremena, u jeku predizborne kampanje, i nediplomatska, i sa aspekta međunarodnog prava neprihvatljiva. I u smislu otvaranja žarišta, više nego opasna.

Lokalni izbori na Kosovu, iako su suštinski jako bitni, ako ne i presudni za opstanak srpskog življa, od starta su u velikoj meri “internacionalizovani” i poligon su za eksponiranje interesa i mnogih drugih, a ne samo Beograda i Prištine. Po sebi trusno područje, nepromišljenim izjavama i postupcima može se dovesti u stanje eskalacije sukoba, a to je možda u nečijem interesu, ali nikako ne i u interesu Srba koji na Kosovu žive.

Prema rečima premijera Dačića, i pored svih problema, Vlada se trudi da Srbi izađu na izbore 3. novembra, jer je to u interesu srpskog naroda. Jedan od problema koji zvanični Beograd treba da reši je manipulacija Prištine biračkim spiskovima. U poslednje tri godine, između parlamentarnih i predstojećih lokalnih izbora na Kosovu, birački spisak je uvećan za 200.000 birača. Na Kosovu sada ima više birača nego stanovnika. Manipulacija glasovima birača na Kosovu nije novina. Već više puta se dešavalo, tokom posleratnih izbora, da u pojedinim opštinama na Kosmetu izlaznost bude veća i od 100 odsto upisanih birača.

Ostaje nada da će se glave ohladiti i poslednju predizbornu nedelju ostaviti na promišljanje onima o čijim se sudbinama odlučuje.

Autor Slađana Pavić


Mani lunghe dal Bosforo al Kosovo

26. 10. 2013. - Il primo ministro turco ha dichiarato nel bel mezzo di Prizren che il Kosovo fa parte della Turchia. La procura nella Mitrovica meridionale ha aperto un’inchiesta contro il ministro serbo senza portafoglio Aleksandar Vulin perchè sarebbe entrato illegalmente in Kosovo, e chiede un mandato di cattura per lui. Secondo i dati della Commissione elettorale centrale kosovara, in Kosovo e Metochia il numero degli elettori sarebbe di addirittura 40mila superiore all’intero numero dei cittadini secondo il censimento di due anni fa. In un’atmosfera del genere i cittadini del Kosovo devono decidere a chi dare la fiducia alle elezioni amministrative che si terranno il 3 novembre. Servizio di Sladjana Pavic.

E mentre ai funzionari della Serbia viene vietata l’entrata in Kosovo e Metochia, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan fa compagnia a Hasim Taci, e nel bel mezzo di Prizren dichiara che il Kosovo è la Turchia, e questo a causato una reazione severa del vertice statale serbo. Il premier Ivica Dacic ha valutato la dichiarazione del primo ministro turco come una provocazione diretta contro la Serbia, ed ha annunciato che il Ministero degli esteri prenderà misure adeguate. Il vicepremier Aleksandar Vucic ritiene che la dichiarazione sia scandalosa e chiede subito dalla Turchia e dal suo premier delle scuse pubbliche. “È un comportamento inammissibile nei rapporti internazionali e bisogna vedere quali saranno le reazioni degli altri paesi”, ha dichiarato Vucic, ed ha sottolineato che Erdoğan sa benissimo che “il Kosovo non è turco dalle Guerre balcaniche”.

L’assolutamente inappropriata dichiarazione di Erdoğan si può probabilmente spiegare, ma non anche giustificare. I politici nella campagna elettorale spesso trasgrediscono la linea della correttezza, le regole del gioco, e avvolte anche del buon gusto. La dichiarazione di Erdoğan era indirizzata verso i cittadini turchi maggiormente presenti proprio a Prizren e nei dintorni, nel senso della motivazione a uscire alle urne e a dare il proprio voto al partito di Taci. Essa ha pure “un uso domestico” e dovrebbe alimentare la desta con “Ambizioni ottomane”, ma dal punto di vista del territorio nel quale è stata espressa, dunque in un paese straniero, e del tempo, nel mezzo della campagna elettorale, è pericolosa, non è diplomatica ed è inaccettabile dall’aspetto del diritto internazionale.

Le elezioni amministrative in Kosovo, anche se sostanzialmente molto importanti, se non determinanti per la sopravvivenza della popolazione serba, da subito sono state in gran misura “internazionalizzate”, e sono il poligono per l’esposizione degli interessi anche di tanti altri, e non soltanto di Belgrado e di Pristina. Nel territorio già caldo, dichiarazioni e comportamenti sconsiderati possono portare all’esplosione degli scontri, che è forse nell’interesse di qualcuno ma non sicuramente dei serbi che vivono in Kosovo e Metochia.

Secondo il premier Dacic, nonostante tutti i problemi, il governo incoraggia i serbi a votare alle elezioni del 3 novembre perchè è nell’interesse del popolo serbo. Uno dei problemi che la Belgrado ufficiale dovrebbe risolvere sono le manipolazioni di Pristina con gli elenchi degli elettori. Negli ultimi tre anni, tra le elezioni parlamentari e le imminenti amministrative in Kosovo, l’elenco ha ricevuto 200mila nuovi elettori. In Kosovo adesso ci sono più elettori che cittadini. Le manipolazioni con i voti non sono una novità in Kosovo. È accaduto più volte alle ultime elezioni che in alcuni comuni l’uscita alle urne sia superiore al 100% degli elettori iscritti.

Resta solo la speranza che le teste si raffredderanno, e che lasceranno l’ultima settimana della campagna elettorale a quelli che devono decidere del proprio destino.


=== 3 ===

(NKPJ invita al boicottaggio delle elezioni in KiM)


BOJKOT IZBORA NA KOSOVU I METOHIJI


Nova komunistička partija Jugoslavije (NKPJ) poziva građane južne srpske pokrajine Kosova i Metohije da bojkotuju lokalne izbore zakazane za 03. novembar koje organizuje marionetski pro-iimperijalistički režim u Prištini. Bojkotom izbora građani treba da iskažu svoje protivljenje prema svim organima imperijalističke kvazi države u srcu Balkana, kao i otpor okupaciji i rasparčavanju naše domovine.


Institucije tzv. Republike Kosovo su samo posredni organi u izvršavanju vlasti zapadnih imperijalista uz pomoć njihovih marioneta, te otud bojkot lokalnih izbora predstavlja progresivan patriotski, slobodarski i antiimperijalistički čin svih građana koji žive na tlu Kosova i Metohije.

Ono što je posebno zgražavajuće u vezi tih izbora jeste stav buržoaske proimperijalističke vlasti u Beogradu koja se zalaže za njihovo uspešno organizovanje, poziva srpsko življe da se odazove na njih i učestvuje na njima sa sopstvenom listom. Takvim stavom buržoaski režim u Beogradu demonstrira potpunu poslušnost imperijalističkim centrima moći u Briselu i Vašingtonu i faktički priznaje "nezavisnost" Kosova, teritorije naše domovine koja je od 1999. godine pod okupacijom NATO soldateske. Otud je važno spomenuti da se bojkotom jasno iskazuje i protivljenje pro-imperijalističkoj politici buržoaske vlade koja slepo izvršava naredbe svojih gazda iz Vašingtona i Brisela. Vlada Srbije obmanjuje građane srpske nacionalnosti sa Kosova i Metohije time da će ako glasaju za njenu listu "Srpska", Beograd „biti više prisutan“ na toj teritoriji. NKPJ poziva Srbe i sve ostale građane Kosova i Metohije da ne nasedaju propagandi zvaničnog Beograda jer odavno je jasno da srpska buržoaska vlada nema nikakve interese koji mogu biti na bilo koji način oprečni interesima imperijalističke tamnice naroda Evropske unije, koja se jasno zbog svojih hegemonističkih interesa opredelila za nezavisnost Kosova.

Lista "Srpska" niti je srpska niti je patriotska, ona svojim učešćem na izborima doprinosi samo legalizovanju imperijalističkih ciljeva na tlu bivše Jugoslavije i Balkana. Zato na pozive zvaničnika Vlade Srbije na „jedinstvo u ovakvoj situaciji“ što podrazumeva jedinstvenu podršku listi "Srpska", treba odgovoriti jedinstvom u neizlaženju na lokalne izbore.

Ni druge srpske liste koje će se pojaviti na kosovskim izborima ne zastupaju ni za jotu drugačiji pristup kosovskoj problematici od vlade u Beogradu, i redom doprinose legalizovanju političkih institucija lažne države Kosovo, što samo i jedino predstavlja korist za imperijaliste.

NKPJ poručuje da je 03. novembar dan kada će institucije lažne države Kosovo zadobiti žestok udarac i nepoverenje građana slabom izlaznošću na lokalne izbore. To je zalog za dalju borbu i otpor naroda protiv imperijalističke okupacije i ciljeva oličenih u stvaranju lažne države Kosovo. Naše jedinstvo biće grobar imperijalizma na Balkanu i drugde u svetu.

Zato poručujemo - jedinstveno u bojkot lokalnih izbora na Kosovu i Metohiji.

Sekretarijat Nove komunističke partije Jugoslavije

Beograd,

23.10.2013




(francais / deutsch / italiano)

Campagna internazionale razzista contro i Rom

0) LINKS
1) Il caso di Leonarda: espulsa dalla Francia, per essere aggredita in Kosovo
2) Per Maria una campagna internazionale razzista contro i Rom (G. Carotenuto)


=== 0: LINKS ===

Sulla leggenda razzista dei "rom che rapiscono i bambini" e sui pogrom razziali scatenati in Italia negli ultimi anni si veda la documentazione linkata alla nostra pagina:

Gli eterni indesiderati
Di questi giorni la vicenda di Leonarda, ragazza rom espulsa dalla Francia, è finita sui principali media internazionali. Ma verso dove "ritornano" i rom espulsi dal fortino Europa? Riceviamo e volentieri pubblichiamo 
Anna Calori 22 ottobre 2013

Comment vivent les Rroms du Kosovo ?
Ils étaient au moins 100.000 avant 1999. Aujourd’hui, tout ou plus 30.000 Rroms, Ashkalis et Egyptiens vivent encore au Kosovo, tant dans les enclaves serbes que dans le sud, majoritairement albanais. Collectivement accusés de « collaboration » avec le régime serbe par les extrémistes albanais, ils ont été victimes d’un redoutable nettoyage ethnique, et restent toujours exclus et marginalisés au sein du nouvel État. Retrouvez notre dossier.

Grèce : Les Roms, les « anges blonds » et le racisme de tous les jours
Le Courrier des Balkans - De notre correspondant

Serbie : « l’ange blond » de Novi Sad était bien rom
Un groupe de skinheads de Novi Sad, en Voïvodine, a essayé d’enlever samedi dernier un enfant de deux ans à son père de nationalité rrom, au prétexte que celui-ci avait le teint plus clair que son père... Les agresseurs ont pris la fuite quand le père a menacé d’appeler la police. - 23 octobre 2013

Bambini rapiti dai Rom, i dati della Polizia di Stato
maggio 21, 2008 di Sergio Bontempelli

Newsletter vom 11.10.2013 - Grenzen dicht! (II)
BERLIN/BELGRAD/SKOPJE (Eigener Bericht) - Nach dem gestrigen Beschluss über den Aufbau eines neuen Abwehrsystems gegen Flüchtlinge von außerhalb Europas ("Eurosur") fordert die Bundesregierung neue Möglichkeiten zur Abschottung gegen unerwünschte Einwanderer aus Südosteuropa. Dabei geht es vor allem um Wege, Bürger Bulgariens und Rumäniens nach dem Schengen-Beitritt beider Länder bei Bedarf von Deutschland fernhalten zu können. Im Kern richtet sich das Berliner Begehren gegen die Minderheit der Roma. Berlin und Brüssel üben bereits seit 2010 massiv Druck auf die fünf Nicht-EU-Staaten Südosteuropas aus, Roma an der Einreise in die EU und nach Deutschland zu hindern, obwohl diese ihnen nach Einführung der Visafreiheit formal offensteht. Unter heftigem Druck aus Westeuropa haben insbesondere Mazedonien und Serbien Gesetze eingeführt, die es ihnen ermöglichen, Roma willkürlich an der Ausreise zu hindern; der Menschenrechtskommissar des Europarats läuft ebenso wie sein Amtsvorgänger und diverse Menschenrechtsorganisationen dagegen Sturm. Mit den Willkürgesetzen hat etwa Mazedonien innerhalb von nur 18 Monaten ungefähr 6.500 seiner Bürger an der Ausreise gehindert und damit - maßgeblich auf deutschen Druck - die Allgemeine Erklärung der Menschenrechte gebrochen...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58707


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IL MINISTRO DEGLI INTERNI VALLS NELLE MIRE DEI COMPAGNI DI PARTITO

Francia, ragazzina kosovara prelevata dallo scuolabus ed espulsa. La «gauche» insorge

Leonarda, 15 anni, Oltralpe da cinque, rispedita in Kosovo con la famiglia. Il ministro Valls: «Nessuno dubiti dei miei servizi»



L’ESPULSIONE - Leonarda, 15 anni, ragazzina rom, è stata fermata dalla polizia ed espulsa dalla Francia con tutta la sua famiglia mentre era in gita scolastica. La polizia avrebbe ordinato ai professori di fermare il pullman con gli studenti per portar via l’adolescente, davanti agli occhi dei suoi compagni. La vicenda è stata riportata dal Reseau Education sans Frontieres sul giornale on line Mediapart. I fatti risalgono al 9 ottobre scorso e si sono svolti nell’est della Francia. Il giorno stesso la giovane è stata messa su un aereo per il Kosovo insieme ai genitori e ai cinque fratelli.
Leonarda, che parla francese e frequenta regolarmente la scuola da tre anni, risiedeva con la famiglia in un centro di accoglienza per richiedenti asilo nel comune di Levier. Secondo diverse fonti, la famiglia Dibrani viveva ormai in Francia da cinque anni e la sua situazione era sul punto di essere regolarizzata.

«SOTTO CHOC» - La vicenda ha scosso i socialisti che si sono detti «sotto choc» per le condizioni in cui la ragazzina è stata fermata e consegnata alla polizia. Valls, nel mirino delle critiche, ha ordinato un’inchiesta e si è così difeso: «Tutti mantengano il sangue freddo e nessuno dubiti neppure per un attimo che le regole del diritto vengono applicate dai miei servizi con intelligenza, discernimento e umanità» (fonte: Ansa).

16 ottobre 2013
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da http://www.blitzquotidiano.it/ 

MITROVICA  - Leonarda Dibrani, la giovane kosovara espulsa il 9 ottobre scorso dalla Francia, è stata aggredita domenica 20 ottobre a Mitrovica insieme alla sua famiglia da un gruppo di sconosciuti.

Secondo la polizia, i Dibrani al momento dell’aggressione “erano a passeggio”. Leonarda nella giornata di sabato aveva respinto al mittente l’offerta del presidente francese Francois Hollande.

“Può tornare ma soltanto lei” aveva detto il presidente. Leonarda, che ha solo 15 anni, ha declinato l’offerta.


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25 ott 2013

Per Maria una campagna internazionale razzista contro i Rom

Dunque anche Maria, la bimba bionda la foto della quale ha fatto il giro d’Europa, non era stata rapita. Semplicemente le persone che si occupavano di lei non erano degne di essere credute, in quanto Rom.

I suoi genitori biologici, Sasha e Atanas Roussev, Rom bulgari, erano troppo poveri per mantenerla e l’avevano affidata alla coppia residente in Grecia alla quale Maria era stata sottratta. Questi l’avevano detto fin dall’inizio ma non erano stati creduti. Troppo poveri i genitori di Maria, così poveri da non poter tenere neanche i figli. Ovvero sottoproletari il babbo e la mamma di quella bimba bionda che per i media razzisti -in quanto bionda- doveva essere una principessina sottratta a chissà quale castello di fate. Fosse stata bruna non se ne sarebbero mai curati, anche se le persone che la tenevano fossero state vichinghe.

Dunque una volta di più (ricordo sempre il libro della Caritas “la zingara rapitrice”) non c’è stato né sequestro né compravendita di bambini, solo troppo disagio, forme di vita troppo arcaiche e inaccettabili per noi che ci sentiamo così civili. Ma basta guardarsi indietro e solo due o tre generazioni fa l’Italia e l’Europa erano pieni di figli di genitori troppo poveri per tenerli, affidati a terzi quando andava bene, abbandonati negli altri casi. Ne abbiamo cancellato perfino la memoria e con questa l’umanità, la capacità di capire l’universo povertà.

Oggi non ci piace come vivono i poveri, non ci piacciono i proletari, ci fanno schifo i lumpen, non ci piacciono i Rom. Ma di questo si tratta perché questa è solo una storia di troppa povertà per loro e troppo razzismo e classismo.  Per noi.

Gennaro Carotenuto




(english / italiano)

La Commissione Europea strangola Lubiana

1) La Commissione europea rimanda Lubiana al 2015 (30 maggio 2013)
2) Crisi: Slovenia, Ue ritiene non adeguate misure risanamento (9 luglio 2013)
3) Merkel, Slovenia risolva problemi settore bancario (13 luglio 2013)
4) Deficit pubblico sloveno 1,3 mld euro primo semestre (19 luglio 2013)
5) Rigassificatore di Zaule, la Slovenia dirà “no” all’Ue (22 luglio 2013)
6) Slovenia: Bratušek bocciata, “arrabbiati” in piazza (28 luglio 2013)
7) Pressure from European Union heightens political crisis in Slovenia (31 July 2013)
8) Slovenian government privatizes state corporations (16 September 2013)
9) L’Europa manda gli ispettori a Lubiana (2 ottobre 2013)
10) I bilanci sloveni sotto i riflettori di Olli Rehn (3 ottobre 2013)
11) FMI conferma recessione in Slovenia nel 2013 e 2014 (9 ottobre 2013)
12) Mounting government crisis in Slovenia (28 October 2013)


=== 1 ===

La Commissione europea rimanda Lubiana al 2015

di Mauro Manzin 
su “Il Piccolo” del 30 maggio 2013

La Slovenia si salva in corner e non viene sanzionata dalla Commissione europea bensì “rimandata a settembre”, o meglio, al 2015 termine entro il quale dovrà improrogabilmente portare a termine tutta una serie di riforme indicate dal “governo” comunitario in nove punti e tra cui spiccano il risanamento del sistema bancario, portare a termine l’opera di privatizzazione, risolvere il problema dell’iper-indebitamento delle imprese, concludere la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro.
E, se da una parte Lubiana col suo premier Alenka Bratušek tira un sospiro di sollievo, dall’altra sa bene che non c’è più tempo per temporeggiare, bisogna rimboccarsi le maniche e iniziare a lavorare duro. Non lasciano vie di scampo le parole pronunciate ieri a Bruxelles dal commissario agli Affari economici Ollie Rehn. «La Slovenia ha imboccato la strada delle riforme - ha detto - ma deve fare ancora molto. Il governo ha iniziato a ripulire il sistema bancario. Le riforme - ha precisato - che mi sono state indicate dal ministro delle Finanze ‹ufer in una lettera mostrano alcuni sviluppi positivi. Così continuando la Slovenia riuscirà nei prossimi due anni a diminuire il suo debito pubblico».
La Commissione chiede dunque a Lubiana di proseguire sulla strada delle riforme strutturali in grado di riportare il rapporto debito pubblico-Pil entro i parametri di Maastricht nei prossimi due anni. Dovrà altresì cancellare alcuni evidenti squilibri fiscali per offrire all’economia del Paese gli strumenti adatti alla crescita che a sua volta garantirebbe il potenziale necessario a combattere la disoccupazione.
Per quanto riguarda il sistema pensionistico, Bruxelles “invita” la Slovenia a pensare oltre il termine del 2020 determinando i parametri di età collegati alle pensioni di vecchiaia considerando l’allungamento della vita media in Europa ma garantendo altresì le risorse necessarie a coprire le spese. Per quanto riguarda il sistema bancario la Commissione ritiene che Lubiana dovrà accettare, con l’aiuto dei partner europei, la nomina di un consigliere indipendente che controllerà le reali capacità delle attività bancarie e garantirà un migliore funzionamento delle due banche più in affanno (Nova Ljubljanska Banka e Nova Kreditna Banka Maribor) che già richiedono l’aiuto dello Stato in modo da correggere i propri bilanci.
Questo presuppone anche eventuali ricapitalizzazioni che però, avverte Bruxelles, dovranno svolgersi nel pieno rispetto delle regole sugli aiuti di Stato previste dall’Ue. La palla ora passa nelle mani del governo sloveno che, a questo punto, dovrà prendere provvedimenti duri e impopolari che metteranno a dura la prova la coesione dello stesso esecutivo.


=== 2 ===

Crisi: Slovenia, Ue ritiene non adeguate misure risanamento

(fonte www.ansa.it 9 luglio 2013)

Dopo il vertice dell’Eurogruppo la Slovenia ha ricevuto due richiami da Bruxelles sul tema della soluzione della crisi finanziaria. Fino a ottobre il governo di Lubiana dovrà prendere provvedimenti per diminuire il deficit di bilancio e per il risanamento del settore bancario. “La Commissione ha seguito il nostro dibattito parlamentare sulla manovra finanziaria dichiarando che abbiamo mostrato un impegno non adeguato a soddisfare le loro richieste”, ha detto il ministro dell’economia Uros Cufer.
Il commissario per gli affari economici e finanziari Olli Rehn ha ribadito che il tempo sta scadendo: “Ad aprile ho detto che la situazione della Slovenia era seria, ma ancora sotto controllo, se il governo avesse preso provvedimenti tempestivi. Confermo quelle parole anche oggi, ma dobbiamo renderci conto, che il tempo passa”.


=== 3 ===

Merkel, Slovenia risolva problemi settore bancario 

(fonte www.ansa.it 13 luglio 2013)

La Slovenia deve risolvere i problemi del proprio settore bancario, eliminando così un serio problema per lo sviluppo del Paese. È quanto ha affermato la cancelliera tedesca Angela Merkel nella conferenza stampa seguita all'incontro, a Berlino, con la premier slovena Alenka Bratusek.
È molto importante, ha aggiunto Merkel, che le banche slovene riconquistino la fiducia degli investitori internazionali. La cancelliera ha anche espresso il proprio apprezzamento per le privatizzazioni avviate dalla coalizione che sostiene Bratusek, annunciando l'interesse delle imprese tedesche.
“La Germania non è solo un paese amico della Slovenia, ma anche il suo partner economico più importante”, ha sottolineato Merkel. La Germania, ha aggiunto, è interessata a partecipare al processo di privatizzazioni in Slovenia, mentre il premier Bratusek da parte sua ha confermato, che le aziende tedesche sono le benvenute per eventuali investimenti in Slovenia.
Angela Merkel si è detta convinta che il governo sloveno sappia al meglio cosa debba fare per uscire dalla crisi. Tra gli impegni prioritari vi è il ritorno della fiducia nelle banche slovene, che però presuppone gli stress test da parte di agenzie internazionali. Tra i temi del colloquio a Berlino anche le possibili collaborazioni tra aziende start-up slovene e quelle tedesche, che hanno un punto forte nelle infrastrutture.


=== 4 ===

Deficit pubblico sloveno 1,3 mld euro primo semestre

(fonte www.ansa.it 19 luglio 2013)

Il deficit pubblico della Slovenia registrato nei primi sei mesi dell'anno è risultato di 1,3 miliardi di euro: già nel primo semestre è stata quindi quasi superata la soglia del deficit di 1,5 miliardi di euro, prevista dall'ultima manovra finanziaria per tutto il 2013. Nello stesso periodo dell'anno scorso il deficit si era attestato a 850 milioni di euro.
Il deficit nel mese di giugno è stato di 135 milioni di euro, 40 milioni in meno rispetto a maggio, ma nettamente superiore al dato di giugno 2012, quando era risultato di soli 2,7 milioni di euro. I dati forniti dal ministero dell'Economia parlano di una spesa pubblica di 4,8 miliardi di euro per il primo semestre di quest'anno (a fronte dei 4,6 miliardi dell'anno scorso). Per l'anno in corso le previsioni della spesa pubblica sono di 9,6 miliardi di euro. I nuovi crediti, richiesti dallo stato sloveno nei primi sei mesi del 2013, sono stati di 4,3 miliardi di euro, nello stesso periodo sono stati ripagati 1,8 miliardi di debiti.


=== 5 ===

Rigassificatore di Zaule, la Slovenia dirà “no” all’Ue 

(fonte www.ilpiccolo.it 22 luglio 2013)

Il governo sloveno ha cambiato idea riguardo al voto sulla lista dei Progetti prioritari di Interesse Comune dell’Ue: il voto sloveno - mercoledì 24 a Bruxelles - sarà contrario alla lista, per la presenza in essa del progetto del rigassificatore di Zaule che Gas Natural vorrebbe realizzare in quell’area nella provincia di Trieste.
A dichiararlo è stato il ministro per le infrastrutture Samo Omrzel. Il governo di Lubiana in una prima dichiarazione nei giorni scorsi aveva annunciato l’astensione, perché oltre al rigassificatore di Zaule nella lista (che sarà votata in pacchetto) ci sono anche sette progetti che interessano la Slovenia.
Oggi il ministro Omerzel ha comunicato il cambio di linea e il no alla lista europea: «Con il voto negativo vogliamo mandare un segnale forte sulla nostra contrarietà al rigassificatore di Zaule».


=== 6 ===

Slovenia: Bratušek bocciata, “arrabbiati” in piazza

di Mauro Manzin, su Il Piccolo del 28 luglio 2013

La rivolta popolare slovena non è morta. Anzi, continua il proprio lavoro con solerzia e preannuncia per il prossimo 13 settembre la sesta manifestazione nazionale contro il malgoverno, la corruzione e le istituzioni. «Il nuovo governo Bratušek non ha cambiato la politica, ha sostituito qualche volto ma non il modo di amministrare lo Stato», spiega il rappresentante di Vse slovenska ljudska vastaja (Vlv) la sigla che comprende i movimenti degli “arrabbiati”, Uroš Lubej sentito dal Dnevnik di Lubiana. «E poi - spiega ancora Lubej - le richieste fatte dal movimento nell’ultima manifestazione dello scorso 27 aprile non sono state soddisfatte».
In quel frangente, lo ricordiamo, gli “arrabbiati” avevano chiesto tra l’altro «una nuova politica economica in grado di creare occupazione, di garantire paghe decorose e la sicurezza sociale», «processi a carico di quanti negli ultimi 20 anni hanno derubato la Slovenia», la fine della «politica di tagli e di risparmi imposta dai diktat dell’elite finanziaria e politica europea», nonché «il congelamento dei patrimoni di coloro i quali nell’ultimo ventennio hanno gestito denaro pubblico ma non sono in grado di giustificare la provenienza dei propri beni immobili e finanziari».
Visti poi gli esiti degli ultimi processi in Slovenia dove sono volati anni di galera in clamorosi casi di corruzione e appropriazione indebita o abuso d’ufficio è chiaro che il proselitismo popolare degli “arrabbiati” è in grande ascesa. E i politici “di professione” se ne sono accorti e hanno iniziato a girare come api sul miele sul movimento popolare. I maggiori sommovimenti si hanno all’interno di una sinistra slovena sempre più spaccata in mille rivoli con altrettanti sedicenti leader o capibastone.
Il risultato è un’ulteriore frammentazione a sinistra con la più o mena velata intenzione di far nascere nuovi partiti riconducibili alla stessa area socio-ideologica. Il caso fin qui più palese è quello del Comitato per una società giusta e solidale che a fine maggio ha preannunciato l’intenzione di voler dare vita a una nuova formazione partitica di sinistra. Uno dei suoi leader, Tone Vrhovnik Straka parla di una dozzina di gruppi che hanno intensificato il confronto da cui scaturirà il programma del nuovo partito.
I fondatori sono tranquilli, dicono di poter contare già su circa 700 potenziali aderenti e che, quindi, non avranno difficoltà a raccogliere le 200 firme necessarie per la costituzione in partito politico. Tutto questo il prossimo autunno. E il Comitato strizza l’occhiolino al movimento degli “arrabbiati” invitandoli a confluire nell’iniziativa per «ridare rispetto alla politica». Ma la Vlv va con i piedi di piombo. Si rende conto che la trasformazione in partito potrebbe essere la pietra tombale sulla protesta. E sa che tante mani tese puntano solo a un abbraccio mortale. Insomma, “normalizzare per controllare”. «Non c’è fretta - frena Lubej - dobbiamo restare un movimento».


=== 7 ===


Pressure from European Union heightens political crisis in Slovenia


By Markus Salzmann 
31 July 2013


The Slovenian government of Prime Minister Alenka Bratusek is coming under increasing pressure. While European Union (EU) representatives demand harsher austerity measures, a power struggle has erupted between the head of government and Zoran Jankovic, the influential mayor of the country’s capital, Ljubljana.

The European Commission is demanding more budget cuts from the euro zone country in ex-Yugoslavia. According to Slovenian media reports, representatives of the “euro group” of euro zone finance ministers declared that current efforts aimed at deficit reduction were inadequate.

It is feared that problems arising in its financial sector could make Slovenia the euro zone’s next major crisis, requiring a bailout from the European Stability Mechanism (ESM). Analysts regard Slovenia as the next candidate for a bailout from the euro zone countries’ rescue fund.

The European Commission wants Slovenia to limit new borrowing to less than 3 percent of gross domestic product (GDP) by 2015. This year’s debt is expected to reach 7.9 percent, because the state is pumping huge amounts of money into the banks.

Euro group leader Jeroen Dijsselbloem called on the government to reduce the escalating deficit by October, while EU monetary affairs commissioner Olli Rehn called the situation serious but manageable, warning that “the clock is ticking”.

After the euro group meeting, Slovenian finance minister Uros Cufer said EU officials would now discuss the new austerity measures that have to be implemented. Cufer told the STA news agency, “The European Commission is following our debate on the supplementary budget and regards our efforts to balance the budget as insufficient to meet their demands.”

Last April, the EU had already demanded rigorous cuts from Slovenia similar to those enforced on Greece and Cyprus. It demanded cuts to public sector wages cuts, to pension and social security systems, and in education and health care.

Bratusek recently faced criticism due to the deficit of 4.4 percent of the country’s GDP and found himself compelled to revise the budget. The EU recently allowed the government in Ljubljana two more years—until 2015—to effect a balanced budget. The deficit will amount to about €1.5 billion (US$2 billion) this year.

Slovenia is already paying huge sums to obtain these foreign loans. “Slovenia is currently expending about 1.5 percent of its budget just to pay them off”, said political analyst Marko Lovec. He doubts that the cuts made so far will be enough.

By resorting to tax increases and privatising many formerly state-owned enterprises, Bratusek is continuing policies of the former government of Janez Jansa. His aim is to make the population pay for the restoration of the countries’ ailing banks, which are in debt to the extent of approximately €7 billion (US$9.3 billion) or a fifth of the GDP.

Taxes were increased on July 1. The rate of VAT was increased by 1.0 percent to 9.5 percent, which the government estimates would bring about €1 billion (US$1.3 billion) into the state coffers. There were also cuts in public spending, and civil servants’ salaries were again reduced.

Public shares in the Mercator supermarket chain were sold off in May. The sales volume amounted to about €500,000 (US$664,000), making it the biggest privatisation transaction in recent years. The state also plans to sell public shares in a further 15 large companies, including those in the country’s second largest bank, Nova KBM, Slovenia Telecom, and Adria Airways. Bratusek has already announced that more companies will be privatised if necessary.

Government representatives have been officially protesting for months that they would be able to make the required cuts without the “troika”—the European Commission (EC), European Central Bank (ECB) and International Monetary Fund (IMF)—having to intervene.

When Bratusek and German chancellor Angela Merkel recently met, it was stressed that German companies should have the opportunity to participate in the privatisation of state enterprises in Slovenia.

Since the outbreak of the global economic crisis, unemployment in the country has risen by more than 10 percent. Poverty is becoming more and more acute. An average Slovenian family today spends almost 25 percent of its income on food alone. The government intends to transfer bad loans to a so-called bad bank, but this step has not yet received approval from the EC, apparently because the so-called stress tests for banks have not yet been completed.

The prospects for the former Yugoslav constituent republic are bleak. A recent report from the Ernst & Young accounting firm estimates that Slovenia’s economy will shrink by 4.9 percent this year, with the trend continuing into 2014. Exports to the EU are projected to fall 2.5 percent, and unemployment could reach 14 percent next year.

Under these conditions, violent conflicts are erupting inside the Slovenian political elite. Zoran Jankovic, Ljubljana’s mayor and former head of the Positive Slovenia (PS) party, publicly opposed the government’s financial plans.

Jankovic called on the party he himself founded to hold a party congress in order to reinstate him as its leader. Earlier this year, he was forced to step down from the party leadership over corruption allegations. “But Jankovic still has support within the party”, said political analyst Lovec in an interview. If it actually comes to a vote between Jankovic and Bratusek, the prime minister’s chances would be very slim.

The conflicts within the PS are purely tactical, however. Both Bratusek and Jankovic support the rigid austerity policy.

However, the return of Jankovic would dramatically affect the coalition. The PS’s coalition partners—the Desus pensioners’ party and the Social Democratic Party (SD)—have announced that Jankovic’s return to power would mean the collapse of government. Lovec comments, “If Jankovic triggers a political crisis, the stalling of budgetary consolidation and consequent inability to continue borrowing money on international markets would mean that the Troika would be heading for Slovenia”.

But the ruling parties above all fear a resurgence of popular protest. In late 2012 and early this year, tens of thousands participated in protests. The demonstrators’ anger was directed at the austerity programme of Janesz Jansa’s right-wing government, whose policies Bratusek is now continuing.



=== 8 ===


Slovenian government privatizes state corporations

 
By Markus Salzmann 
16 September 2013

 

The Slovenian government is seeking to bail out the country’s heavily-indebted banks at the expense of the population through the privatization of 15 state-owned enterprises and other cost-cutting measures. These cuts are the government’s response to the demands of the European Union, which has long been calling for privatization and spending cuts.

The telecommunications company Telekom Slovenije, the country’s main airport, the airline Adria Airways, the laser manufacturer Fotona and the winter sports clothing firm Elan are also being put up for sale.

According to estimates by Citigroup, the sale of shares in these companies will raise between €500-€750 million, which will then be available to compensate Slovenia’s distressed banks. The privatization process will begin at the end of the month, Prime Minister Alenka Bratusek recently told reporters.

To speed up the sale of Telekom Slovenije, various shareholders, holding 73 percent of its shares, with a total value of €530 million, have signed an agreement.

A favorite among the potential investors is Deutsche Telekom, whose subsidiaries Hrvatski Telekom (Croatia) and Magyar Telekom (Hungary) delivered a memorandum of understanding for the sale of 49.13 percent of their own shares.

China Southern Airlines is on the verge of acquiring Adria Airways and is interested in the Joze Pucnik Aiport in the capital. This was confirmed by the managing director of the airport, Zmago Skobir. China Southern Airlines is the largest Asian carrier and is seeking to expand in Europe.

It is clear that the privatization of the 15 companies is only the beginning. According to the Wall Street Journal, there is an even larger potential for privatization in Slovenia, where the government holds shares in over 80 companies with a value of just under €9 billion. “I think there is a reluctance still to sell the family silver,” Timothy Ash of Standard Bank told the Wall Street Journal .

In contrast to other Eastern European countries where state-owned enterprises were sold off quickly in the 1990s, the privatization process in Slovenia has been slower, with many industries and factories remaining at least partially under state control. This was one of the reasons for the relative prosperity in Slovenia and its low unemployment rate compared to other Eastern European countries. Currently one in eight employees works in a state-owned enterprise.

The sale of public enterprises comes together with layoffs, the reduction of wages and deteriorating working conditions, the proceeds of which will be used to pay off the banks’ debts.

The total of the “bad” loans on the balance sheets of Slovenian banks is estimated at around €7 billion, about 20 percent of the country’s GDP. Support extended to the financial institutions has caused the country's budget deficit to hit 7.9 percent of GDP, the highest in Europe. Around €1.2 billion were recently pumped into the Nova Ljubljanska Bank and the Nova Kreditna Banka Maribor to keep them afloat. Last year, Slovenia’s budget deficit was 4 percent of GDP.

The planned establishment in June of a so-called “bad bank,” which would receive underperforming assets from the Slovenian banks, has been postponed. A spokesman for the Slovenian “bad bank” (DUBT) said the European Commission has still not cleared asset transfers to take place. Observers assume that the Commission wants to wait for results of “stress tests” planned for 18 Slovenian banks, and results are expected by the end of the year.

As in Greece and Cyprus, the EU is pressing Slovenia to implement massive cuts to social spending and workers’ wages. In July, Brussels urged Slovenia to carry out “more effective” measures. The austerity programs that have already been implemented, including cuts in wages in the public sector, the raising of the retirement age and an increase in the standard value added tax (VAT) rate by two percentage points, has led to a deepening of the recession.

Saso Stanovnik, Chief Economist of the investment firm Alta Invest, said, “We can expect a steeper fall of consumption, and also of GDP, in the third quarter precisely because of the VAT increase.”

In the first six months of this year, Slovenia’s GDP fell by 3.2 percent, and economists expect a further 3 percent contraction by the end of the year. The decisive factor for the massive slump is shrinking domestic demand as a result of austerity measures. Unemployment, which is already at 9.6 percent, could reach 14 percent in the coming year.

At the same time, corporate taxes will be incrementally reduced by 2015 from 20 to 15 percent. Business organizations argue, however, that even this tax cut is insufficient. Recently they gave the government a “wish list,” demanding, among other things, further tax cuts and a deregulation of labor laws to improve competitiveness.

In March of this year the center-left coalition of Positive Slovenia (PS), the Social Democrats (SD) and the Democratic Party of Pensioners of Slovenia (DeSus), formed a government claiming they would rectify the budget deficit. So far the government has done nothing to quell fears that Slovenia will be the next candidate for a bailout from the EU.

Following renewed pressure from Brussels, Prime Minister Alenka Bratusek (PS) announced new austerity measures, which will be made public in late September. “The measures will not be popular,” Bratusek declared, adding, “We do not know exactly how much we need and how much we will save with the new package.”



=== 9 ===

L’Europa manda gli ispettori a Lubiana 

di Mauro Manzin
su www.ilpiccolo.it 2 ottobre 2013

L’Unione europea manda gli ispettori in Slovenia. Con un tempismo perfetto la Commissione Ue, esattamente il giorno dopo l’approvazione della legge di stabilità 2014-2015 da parte del governo Bratušek, invia un proprio pool di funzionari assieme a un gruppo di ispettori della Bce a verificare quanto fatto da Lubiana a fronte delle nove richieste formulate dalla Commissione stessa lo scorso maggio. In quella occasione Bruxelles aveva dato quattro mesi di tempo alla Slovenia per rimettere i suoi conti in ordine e stabilizzare i suoi dati macroeconomici “graziando” così di fatto Lubiana del provvedimento di infrazione.
«È una missione tecnica - precisano dalla Commissione Ue - che fa parte di un processo e non è connessa alle voci di una richiesta di aiuto all’Europa da parte della Slovenia». Ricordiamo che l’Europa ha chiesto a Lubiana di provvedere al ribilanciamento dei propri dati macroeconomici, aggiustare i bilanci delle banche, attuare una concreta privatizzazione, trovare una soluzione al super indebitamento delle proprie aziende, proseguire nel consolidamento delle finanze pubbliche, migliorare la concorrenzialità, riformare il sistema pensionistico e il mercato del lavoro nonché migliorare il sistema giudiziario per quanto riguarda l’eccessiva lentezza delle sentenze civili e commerciali di primo grado.
E adesso è giunto il momento, per la Commissione Ue e la Bce, di controllare se “i compiti a casa” affidati al governo sloveno sono stati svolti correttamente. E per vedere qual è la reale situazione della Slovenia basta leggere gli ultimi dati appena emessi dall’Ufficio nazionale per le elaborazioni statistiche. Nel primo semestre di quest'anno la Slovenia ha ricapitalizzato le proprie banche per un totale di 441 milioni di euro. Tale iniezione di liquidità negli istituti bancari ha comportato un deficit del 10,1% nel primo trimestre e del 4,7% nel secondo.
Il debito pubblico sloveno a fine del primo trimestre è stato di 19,1 miliardi di euro per un ammontare del 54,8% del Pil. Gli introiti dalle imposte e dalla tassazione nel secondo semestre dell'anno in corso sono cresciuti del 3,1% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Le uscite dalle casse dello stato per coprire gli interessi dall'indebitamento nel primo semestre sono state calcolate in 428 milioni di euro ovvero l'11,3% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. L’Ufficio di analisi macroeconomica e sviluppo (Umar) fa sapere invece che il Pil nel 2014 farà segnare un -0,8% mentre una leggera crescita è prevista per il 2015 (+0,4%).
Così appare del tutto giustificata la critica mossa da molti analisti economici sloveni alla legge di stabilità predisposta dal governo definita «del tutto ottimistica». Pesanti anche le critiche dell’opposizione. «Con questa legge di bilancio - afferma il leader dei democratici (Sds) ed ex premier Janez Janša (centrodestra) - la Slovenia ha definitivamente abdicato alla sua scelta di risolvere la crisi senza chiedere aiuti». «Per questo - incalza ancora Janša - consigliamo il governo di riconoscere quanto prima la propria incapacità di risolvere da solo i problemi del Paese e di chiedere quanto prima un aiuto alle istituzioni internazionali».
L’ex premier sostiene inoltre che anche i governi degli altri Paesi in gravi difficoltà continuavano a ripetere di non necessitare degli aiuti internazionali come la Grecia o Cipro. «Ecco - precisa pungente Janša - la situazione slovena è a mezza via tra quelle di Atene e di Nicosia». La vera palla al piede della Slovenia è la pesante crisi del sistema creditizio. Gli esiti degli stress test che si stanno effettuando sulle tre principali banche del Paese (Nova Ljubljanska Banka, Nova Kreditna Banka Maribor e Abanka) saranno noti i primo di novembre ma appare sempre più chiaro che l’operazione salvataggio avrà bisogno di 5 miliardi di euro. Dove trovarli?


=== 10 ===

I bilanci sloveni sotto i riflettori di Olli Rehn

(fonte “la Voce del Popolo” 3 ottobre 2013)

Lubiana si trova sotto i riflettori dell’Esecutivo comunitario. I motivi sono di carattere strettamente economico e finanziario. La Slovenia deve mettere ordine nei conti e fare i “compiti per casa” richiesti da Bruxelles. I funzionari dell’UE, comunque, non hanno fretta.
Appena a metà novembre, infatti, si troveranno sul tavolo della Commissione europea i documenti di bilancio sloveni per i prossimi due anni. Fino ad allora non arriveranno prese di posizioni ufficiali da Bruxelles. Lo ha detto il portavoce del commissario europeo agli Affari monetari, Olli Rehn.
Gli esperti della Commissione europea, come rileva Radio Capodistria, esamineranno attentamente i due documenti, poi verrà espressa una valutazione come per tutti gli altri Paesi dell’Eurozona. Secondo fonti ufficiose, le nuove Finanziarie non sarebbero strutturate in maniera tale da seguire tutte le direttive di Bruxelles; una delle riserve riguarderebbe il pianificato taglio degli investimenti invece del ridimensionamento delle spese correnti.
Pertanto è possibile che il governo sloveno debba apportare delle modifiche alle due Finanziarie, sulla base delle indicazioni che arriveranno da Bruxelles. Quello che conta, sottolinea il portavoce di Rehn, è ridare fiducia all’economia, progredendo su tre fronti; consolidamento fiscale, sanamento del sistema finanziario e privatizzazione delle principali società statali.
Per quanto riguarda le previsioni rese note ieri dall’ufficio per le analisi macroeconomiche e lo sviluppo, il portavoce di Rehn ha detto che la Commissione europea pubblicherà le proprie previsioni autunnali il prossimo 5 novembre; in quell’occasione terrà conto di entrambi i bilanci preparati dal governo e di tutti gli altri provvedimenti fiscali e strutturali. Nessun commento alle voci di un possibile programma di aiuti alla Slovenia.
Da segnalare in proposito che è in missione a Lubiana una delegazione della Commissione europea e della BCE per verifiche sull’attuazione delle riforme macroeconomiche; si tratta di una missione tecnica - assicurano fonti dell’UE, - assolutamente non legata all’ipotesi di richieste d’aiuto slovene all’estero.
Ma gli occhi ora sono puntati soprattutto sulla missione a Lubiana di una delegazione della Commissione europea, composta da rappresentanti per gli affari economici e monetari. Al centro degli incontri anche la questione del reddito minimo garantito e di altri interventi in materia di politica sociale, tutti però strettamente legati alla situazione economica del paese.
Alla domanda se la Slovenia debba ricorrere agli aiuti del meccanismo europeo di stabilità, detto anche fondo salvastati, il ministro Mrak Kopač - come riporta Radio Capodistria - ha detto di non averne discusso con il commissario Andor e di non voler fare congetture. Il ministro ha confermato che entro l’anno sarà pronto lo schema di garanzia per i giovani, elemento chiave per combattere la disoccupazione in questa fascia della popolazione attiva. Il quadro finanziario non è stato ancora definito. La Slovenia conta comunque sui fondi europei per incentivare l’occupazione. Sono in ballo 8 milioni di euro circa.
Lubiana è stata inserita all’ultimo momento nello schema di garanzia europeo, che prevede stanziamenti a quei Paesi che hanno aree con una disoccupazione giovanile superiore al 25 p.c. I fondi previsti dal bilancio comunitario 2014-2020 andranno dai 6 agli 8 miliardi di euro. Si è recato intanto in missione a Bruxelles - come sottolinea Radio Capodistria -, il ministro del Lavoro, della Famiglia, degli Affari sociali e delle Pari opportunità, Anja Kopač Mrak. Nella capitale belga ha avuto colloqui con il commissario europeo alla Politica occupazionale e agli Affari sociali, Laszlo Andor.
Si è trattato di un’occasione per parlare di riforme e politica sociale. Si è discusso anche di disoccupazione giovanile. Il ministro ha ribadito che il problema chiave per la Slovenia è il sistema bancario, non le riforme che riguardano direttamente il suo dicastero.


=== 11 ===

FMI conferma recessione in Slovenia nel 2013 e 2014 

(fonte www.ansa.it 9 ottobre 2013)

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha rivisto al ribasso le stime della recessione slovena: per l'anno in corso la contrazione del Pil dovrebbe essere del 2,6% (le previsioni di aprile parlavano di un -2,5%), per il 2014 si prevede invece un calo dell' 1,4% (ad aprile era prevista una crescita dell' 1,5%).
Se le stime saranno confermate, la Slovenia sarà l'unico Stato dell'eurozona oltre a Cipro a registrare una contrazione dell'economia. L'inflazione slovena, sempre secondo i dati Fmi, dovrebbe essere del 2,3% nel 2013 e dell'1,8% nel 2014. Il tasso di disoccupazione dovrebbe aumentare leggermente dal 10,3% del 2013 al 10,9% nel 2014 mantenendosi comunque sotto la media europea del 12,3%.


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Mounting government crisis in Slovenia


By Markus Salzmann 
28 October 2013


At the end of September, Slovenia’s government declared for the first time that it would apply for support for the country’s highly indebted banks from the European Union (EU). Until then, the centre-left coalition led by Prime Minister Alenka Bratusek had repeatedly opposed the subordination of the country to the EU’s permanent bailout fund (ESM), while imposing their own strict austerity and privatisation measures.

Slovenia has been a candidate for a bailout from the ESM and International Monetary Fund (IMF) for some time. The European Central Bank has already allegedly pressed the government to apply for funds from the ESM. A final decision is expected after the results of the banks’ stress tests, which are due in November.

The crisis situation has recently intensified, as two smaller banks were shut down by the central bank because they had huge amounts of bad loans on their books. Slovenia’s banks, which are mainly controlled by the state, are sitting on bad debt totalling more than €7.5 billion, which is equivalent to more than 20 percent of GDP.

In addition, Slovenia has been severely affected by the global economic crisis due to its dependence on exports. The head of the central bank Bostjan Jazbec stated recently that the domestic economy would contract this year by 2.6 percent, much more than the 1.9 percent previously anticipated.

All estimates suggest that the recession will continue until 2015 in the country that has been an EU member since 2004. Although Slovenia’s economic output forms only a tiny fraction of the EU’s overall output, a further bailout programme would sharply diminish the trust of the markets in the Euro zone, as several analysts have noted.

The European Commission and Eurogroup chairman Jeroen Dissjelbloem has demanded energetic reforms from the government. The government presented a draft budget earlier this month, aimed at cutting the budget from 7.9 percent to 3 percent by 2015. The budget is to be adopted in parliament at the end of November.

Prime Minister Alenka Bratusek explained that although the budget was “risky”, it was the only way to solve the country’s problems without the assistance of the EU and IMF. The government has already passed an austerity programme earlier this year. It increased VAT to 22 percent, reduced wages in the public sector and offered up 15 state companies for privatisation.

At the end of last year and in early 2013, hundreds of thousands participated in demonstrations against the radical spending cuts. Prior to the outbreak of the financial crisis, the unemployed, pensioners and single parents were already living in poverty. Since then, the number of those in poverty has sharply increased. Currently 15 percent of Slovenians live below the poverty line. Roughly 45 percent of those employed earn less than €600 per month. Officially, the average wage in Slovenia is €900.

The crisis has led to sharp conflicts within the ruling elite. Bratusek has tied the passage of the budget to a vote of confidence in her government in order to force through the cuts. “The budget is the most important document of every government. Therefore I find it reasonable to attach it to a vote of confidence,” she stated.

However, although Bratusek was able to win the vote in cabinet, the conflict is by no means over. Within the governing coalition and her own party disputes are intensifying.

Bratusek’s party, Positive Slovenia (PS), cancelled its long planned party conference at the end of September to prevent an escalation of the political crisis. A struggle over the vote for party leader was threatened at the congress, which was originally planned for October 19. Ljubljana mayor Zoran Jankovic, who founded the party in 2011, was contemplating the removal of Bratusek and taking over the leadership himself once again.

Bratusek announced she would resign as head of government if she lost the party leadership. This would have inevitably led to new elections, delaying the austerity measures and making the acceptance of an EU bailout unavoidable. For these reasons, the leadership of the PS backed Bratusek and postponed the congress for two years. The deputy leader of the PS, Masa Kociper, justified this to the press by saying that “the interests of the state are more important than those of the party.”

The PS’s coalition partners, the Social Democrats (SD) and the Pensioners’ Party (DeSus), declared that they would give up their place in the government if Jankovic took over the leadership of the party. Jankovic resigned as party leader in February, clearing the way for the foundation of the coalition under Bratusek. The two coalition partners had refused to cooperate with Jankovic, who is implicated in a number of corruption scandals.

Business circles welcomed the cancellation of the PS’s party congress. “Catastrophe prevented, a sigh of relief for Slovenia’s credit worthiness,” remarked Abbas Ameli-Renani from the Royal Bank of Scotland. In the opinion of analysts, international assistance is still likely to be required. According to Bratusek, at this point the amount of money required by the banks is “completely unknown.” As a result, the government is planning further cuts. “We are preparing further intensive measures so that we do not need to ask for assistance.”




(srpskohrvatski / italiano)

Jovanka Broz inumata al canto di "Bella ciao"

1) LINKS / LINKOVI
2) SAUČEŠĆE / MESSAGGI DI CORDOGLIO
3) NOTIZIE / NOVOSTI
4) ПАРТИЗАНКА, ХРАБРА ЈОВАНКА (SUBNOR)


=== 1: LINKS / LINKOVI ===

Jovanka Budisavljevic Broz è stata inumata ieri, 26 ottobre 2013, a Belgrado. Al canto di "Bella ciao" l'hanno salutata migliaia di cittadini, all'interno del complesso della "Casa dei Fiori", sul retro del Museo di Storia della Jugoslavia, dove riposa anche Josip Broz Tito. Almeno 70 i pullman giunti dalle altre repubbliche jugoslave. Erano presenti i rappresentanti delle associazioni partigiane, dei partiti comunisti ed operai, ed i compagni combattenti con Jovanka nella Sesta Divisione partigiana della Lika...

Sahranjena Jovanka Broz

Novosti online | 26. oktobar 2013. 09:51 > 13:42 | Komentara: 86
Jovanka Broz sahranjena je u Kući cveća, pored Titovog groba, uz melodiju "O bela ćao", a na ploči od belog venčačkog mermera je, zlatnim slovima, identičnim onim na Titovoj ploči, ispisano "Jovanka Broz 1924-2013"...
Najmanje 70 autobusa dolazi iz bivših republika ... Na platou ispred Kuće cveća, mnogi od 10.000 okupljenih građana koji su došli da isprate Jovanku, plaču. Nose slike maršala Tita i zastave...


I partizani na sahrani Jovanke Broz

B. RADIVOJEVIĆ - V. CRNJANSKI SPASOJEVIĆ | 23. oktobar 2013. 21:21 | Komentara: 25
Organizacioni odbor precizirao detalje sahrane Jovanke Broz: Ispred Kuće cveća u počasnom stroju biće gardisti, a uz nadgrobnu ploču nekadašnji partizani. Najavile se delegacije iz Slovenije, BiH, Hrvatske, Crne Gore


VIDEO I SLIKE / FOTO E VIDEO DELLA CERIMONIA DI INUMAZIONE: 

VIDEO: IN MEMORIAM - JOVANKA BROZ

UN SCARICA DI ODIO FASCISTA CONTRO LA PARTIGIANA JOVANKA, SUL SITO INTERNET DEGLI IRREDENTISTI ITALIANI:


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Di seguito il testo del telegramma inviato a nome del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - ONLUS dal nostro presidente I. Pavičevac:

Duboko suosjecanje i poslednji pozdrav drugarici Jovanki Broz. Neka joj je vjecna slava!
CNJ - Jugocoord, Rim

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Izjave povodom smrti Jovanke Broz:

SUBNOR

SRP

Pokret Socijalista

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POSVETA DRUGARICI JOVANKI BROZ


Povodom smrti Jovanke Broz Koordinacioni Odbor komunističkih i radničkih partija država s prostora bivše Jugoslavije, izražava duboka suosjećanja s njenom rodbinom i brojnim poštovaocima njenog lika i djela sa ovih prostora i širom svijeta.

Gotovo da nije moguće zamisliti Titov lik i pojavu u brojnim prilikama u kojima smo ga susretali i gledali bez njenog dostojanstvenoga osmjeha i prisustva iz kojeg se iščitavala istovjetnost s Titom i njeno nastojanje da s Titom kao državnikom i oko njega bude sve u najboljem ozračju. No, drugarica Jovanka nije bila samo odana supruga Josipa Broza, već prije svega mlada SKOJ-evka, antifašistički borac za oslobođenje i bolji život svoga i svih južnoslavenskih naroda, s ratnim činovima i priznanjima u čemu je ostala dosljedna do zadnjega časa svoga života. S njom nas najdublje povezuje ljubav prema Titu i svemu onome što su zajedno simbolizirali, a to je konvencionalnim jezikom rečeno – NOB, revolucija i poslijeratna socijalistička izgradnja, a prozaički – naša sretna djetinjstva, roditeljstva, stvaralaštvo u slobodi, sveopćoj sigurnosti i napretku, a što je, na našu veliku žalost, sve prekinuto secesijom 90-ih godina prošlog stoljeća. Jovanki Broz izražavamo veliku zahvalnost za sva njena dobra i plemenita djela koja je učinila tokom svog revolucionarnog života i žal  što njena životna  pregnuća pred kraj života nisu bila uzvraćena.

  

Neka joj je vječna slava i hvala.

 

Koordinacioni Odbor komunističkih i radničkih partija.

-         Socijalistička radnička partija Hrvatske  SRP

-         Komunisti Srbije  KS

-         Savez komunista Bosne i Hercegovine  SK BiH

-         Komunistička partija Makedonije KPM

-         Jugoslavenska komunistička partija Crne Gore  JKP CG

-         Kulturno društvo komunist Slovenija  KDK



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da www.glassrbije.org

Beograd: Sahranjena Jovanka Broz

Sub, 26/10/2013 

Uz vojne počasti i plotun jedinice Garde Vojske Srbije u Beogradu je sahranjena Jovanka Broz, udovica predsednika SFRJ Josipa Broza Tita, potpukovnik JNA i nosilac Partizanske spomenice 1941. Jovanka Broz je sahranjena u Kući cveća, pored Titovog groba, a na ploči od belog mermera, zlatnim slovima, identičnim onim na Titovoj ploči, ispisano je "Jovanka Broz 1924-2013". Uz predstavnike državnog vrha, sahrani su prisustvovali članovi diplomatskog kora i stranih delegacija, a pored premijera Ivice Dačića, od Jovanke Broz oprostili su se u ime porodice njen sestrić Goran Aleksić i predsednik SUBNOR-a Miodrag Zečević. Jovanka Broz je preminula u nedelju 20. oktobra u Beogradu, u 89. godini.

(Izvor: Međunarodni radio Srbija)

Belgrado: funerali di Jovanka Broz

26. 10. 2013. 
Con gli onori militari e la pattuglia dell’Unità di guardia dell’Esercito serbo, a Belgrado ci sono stati i funerali di Jovanka Broz, vedova del presidente della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, tenente colonnello dell’Armata nazionale jugoslava e portatrice della Medaglia partigiana del 1941. Jovanka Broz è stata sepolta nella Casa dei fiori accanto a Tito, e sulla lapide di marmo bianco è stato inciso con le lettere d’orate identiche a quelle della lapide di Tito, “Jovanka Broz 1924-2013”. Oltre i rappresentanti del vertice statale, ai funerali erano presenti i membri del coro diplomatico e delle delegazioni straniere, e oltre al primo ministro Ivica Dacic, in nome della famiglia a Jovanka hanno dato l’ultimo saluto suo nipote Goran Aleksic e il presidente del SUBNOR Miodrag Zevecic.

Jovanka Broz è morta domenica 20 ottobre a Belgrado all’età di 89 anni.


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Jovanka sarà sepolta nel mausoleo di Tito 

di Stefano Giantin
su www.ilpiccolo.it 22 ottobre 2013

Il dado è tratto, il suo ultimo desiderio doveva assolutamente essere soddisfatto. La vedova di Tito, Jovanka Broz, sarà sepolta vicino al Maresciallo. Così ha stabilito ieri il governo serbo, che ha specificato che la salma dell’anziana ex compagna del leader jugoslavo, morta domenica a Belgrado, sarà inumata «nella Casa dei Fiori, parte del complesso del Museo della storia della Jugoslavia», dove da trenta e più anni riposano le spoglie di Tito.
I dettagli della cerimonia e la logistica sono stati delegati a un comitato organizzativo, istituito ad hoc dall’esecutivo serbo e guidato dal ministro Rasim Ljajic, assieme al primo ministro, Ivica Dacic, uno dei politici più vicini alla defunta. Comitato, riunitosi ieri pomeriggio, che ha deciso che i funerali di Jovanka – a cui saranno tributati gli onori militari, poiché Jovanka si fregiava del grado di maggiore grazie al coraggio dimostrato da partigiana durante la guerra di Liberazione – si terranno sabato prossimo, a mezzogiorno.
Il corpo di Jovanka dovrebbe essere tumulato in una delle grandi stanze accanto alla tomba di marmo che custodisce i resti di Tito, magari quella dove oggi sono esposti i “testimoni” più belli delle Staffette della gioventù dedicate a Tito. Impossibile, per motivi tecnici, legali e non solo, sistemare Jovanka nello stesso mausoleo edificato a uso esclusivo del leader jugoslavo, protetto da una lapide pesante quasi dieci tonnellate, visitato in 30 anni da 17 milioni di persone. In ogni caso, il desiderio di Jovanka e dei familiari a lei più vicini è stato appagato.
Familiari che, tuttavia, anche nel momento del lutto si sono dimostrati almeno in apparenza piuttosto divisi, come già accaduto nel caso ancora aperto e scottante dell’eredità di Tito. Nada Budisavljevic, provata dalla morte della sorella più anziana, ha respinto ogni tentativo di approccio da parte della stampa. Più loquace invece un altro dei nipoti di Tito, Joška Broz, fondatore del minuscolo Partito comunista serbo, super jugonostalgico, che ha affermato ieri al “Telegraf” di Belgrado che, malgrado tutto, Jovanka «è stata fino alla fine la moglie legittima» di Tito e per questo «ha diritto a essere sepolta vicino a lui».
Molto critica, invece, un’altra nipote del Maresciallo, Saša Broz, che via Facebook ha esordito spiegando per prima cosa che Tito dovrebbe essere in una tomba «a Zagabria», città che amava tanto. «Era un cittadino del mondo», l’imbeccata polemica, «ma prima di tutto era un croato». E Jovanka? Dopo la separazione «mio nonno non la menzionava mai», fate voi.
Riferimenti a go-go sui giornali serbi invece alla figura di Jovanka. Perché trent’anni d’isolamento? Chi aveva paura di lei? Impossibile rispondere, illustra l’analista Zoran Dragišic. Certo «è che era molto vicina a Tito», tutto fa pensare «che fosse un grande amore, il loro». E che Jovanka, da first lady e «alto ufficiale dell’esercito, conoscesse molte cose segrete sulla guerra», la Seconda mondiale, e sui processi interni alla Jugoslavia titina. «Aveva le chance per fare male a persone molto importanti», Dragišic suggerisce una spiegazione realistica alla sua caduta nel fango.
Certamente, conclude l’analista, «cosa accadde fra lei e Tito nessuno potrà mai veramente saperlo». Cosa accadde fra i due sembra però non interessare ai nostalgici che arriveranno a Belgrado sabato, difficile ancora prevedere in quanti. «Ci saremo, è tutto organizzato», promette al telefono da Bihac, in Bosnia, Hakija Abdic, presidente della Lega degli Antifascisti dell’Europa sudorientale. Ci saranno perché, assicura Abdic, i funerali della «moglie del Maresciallo» e soprattutto «di una coraggiosa partigiana», ultimo simbolo della Jugoslavia, devono essere celebrati come si deve.


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ПАРТИЗАНКА, ХРАБРА ЈОВАНКА


Београд, 26. октобар 2013. Дедиње, Кућа цвећа, тик из Музеј историје Југославије. И много, много народа. Опроштај од партизанке, храбре Јованке Будисављевић Броз. Супруге, верног сапутника председника оне чувене и поштоване земље и маршала Тита.

На сахрани су говорили председник Владе Србије Ивица Дачић, председник СУБНОР-а Србије проф.др Миодраг Зечевић и Горан Алексић у име породице.

Сахрани су присуствовали и многобројни борци, ратни другови из Шесте личке, припадници Пратећег батаљона, представници организација из многих крајева Србије а и и бивших република.

Дошли су да се поклоне и амбасадори Русије, Белорусије и више афричких држава из негдашњег корпуса несврстаних.

На опроштају од Јованке Броз били су и потпредседник Владе Расим Љајић, министри Славица Ђукић Дејановић и Александар Антић, генерални секратар Владе Вељко Одаловић, као и представници Војске и многе истакнуте личности из јавног, друштвеног, политичког и културног живота наше државе.

Сахрани је присуствовала и супруга Председника Републике Србије, Драгица Николић.

ГРЕХ  ПРЕМА  ИСТОРИЈИ  И  АНТИФАШИЗМУ

Опраштајући се од Јованке Броз, председник Владе Ивица Дачић је рекао:

”Прилика је да признамо себи да смо починили грех и према Јованки Броз и према сопственој историји, историји у којој нације и народи граде свој идентитет. Јованка Броз била је и наша прва дама, понос и представник државе. Заборављајући Јованку, заборавили смо нас.

Однос који смо имали према њој, на жалост, имамо према свему што радимо, а то је до оног тренуткакад се нека епоха заврши брже боље све, и лоше и добро, препуштамо забораву. Често смо се понашали као да се никад није догодило. Србија се односила према Јованки као да није била жена која је упознала светске политичаре и свуда дочекивана са достојанством.

Јованка Броз је била поносни представник наше државе и постала жргтва политичког обрачуна и борбе око Тита.

Неправда је почела да се исправља пред крај њеног живота, а кад сам јој, пре неку годину, уручио пасош и личну карту, рекла је да неће нигде да путује.

Опроштај од Јованке је још један опроштај од Титове епохе и прилика и да се подсетимо наше антифашистичке борбе – тог највећег изгубљеног блага.

Тога се данас неки одричу, опреоштају не присуствује ни један представник владе држава насталих на тлу бивше Југославије.

Ово је одлазак последње иконе бивше Југославије. Почивај у миру поред човека коме си посветила живот и од којег си силом и неправдом била раздвојена” – рекао је председник Владе Србије Ивица Дачић.

ВЕЧНО  ЋЕМО  БРАНИТИ  ИДЕЈЕ  И  ДЕЛО  НАШЕ  МЛАДОСТИ

Други говорник на сахрани био је председник Републичког одбора СУБНОР-а Србије, проф.др Миодраг Зечевић:

”Другарице Јованка Будисављевић Броз! Рат си почела и завршила у легендарној Шестој личкој. Била си храбар ратник. Међу најхрабријима. Два ордена за храброст, што је ретко и за хероје. Била си борац војске и покрета који је победио фашистичког окупатора и  југословенску издају.  У 16. години, 1941. године постала си партизанка. Два пута те куршуми непријатеља нису мимоишли.

После рата си уз Тита који је обележио антифашистичку борбу против фашизма и политички цео XX век. У вашој вези има симболике из песме личке ратне бригаде „Шеста личка, спасила Маршала“ – песме која је постала  култна  не само личких већ југословенских партизана.

У целом периоду била си наша другарица Јованка, и ми твоји. СУБНОР ти је доделио признања која је имао и пажњу која је била несебична. Твој живот поред историјске громаде, без обзира на спољне ефекте, није био ни мало лак и једноставан. Такву личност  могао је да прати само човек  посебног кова, искован у револуцији.

Кад си остала сама, живот ти тек није био лагодан. Једно мало одужење дуга државе је сахрана поред вољеног човека, коме си поклонила младост и посветила живот.

Почивај у миру. Била си и бићеш део нас. Кад не буде више наших ратних другова остаје за будућа времена СУБНОР који ће носити, чувати и бранити вечне идеје и дело наше младости.

Хвала ти, другарице Јованка Броз. за учињено и опрости све и свима” – рекао је у опроштајном говору проф.др Миодраг Зечевић, председник СУБНОР-а Србије.

ИСПУЊЕНА  ПОСЛЕДЊА  ЖЕЉА

Јованка Броз имала је последњу жељу – да буде сахрањена у Кући цвећа, крај свог супруга, председника Тита.

Сестрић Јованке, дипломата Горан Алексић, потврдио је на испраћају да је Влада Србије испунила ту једноставну људску молбу.

”Почиваће поред свог животног сапутника кога је неизмерно волела, коме је била одана до краја. Њен живот био је несвакидашња прича, од ратних вихора, преко општег благостања обележеног и вером и надом у још боље сутра, до необјашњиве одбачености. Била је усамљена, 36 година је гордо, поносно, и пркосно, посвећена чувању части, угледа, идеала једног времена, једне велике земље и једног човека”.

Јованка Броз је сахрањена у кругу породице и у присуству чланова Владе Србије и СУБНОР-а. Уз почасни плотун и звуке војничке трубе, после скидања државне тробојке са ковчега.

Поред вечне куће Јованке Броз Будисављевић, тик уз гробницу председника СФРЈ маршала Јосипа Броза Тита, у невеликој згради подно негдашње резиденције у Ужичкој улици на Дедињу, у Београду, више часова текле су колоне људи у жељи да одају последњу пошту и искажу поштовање храброј жени- партизанки.

За испраћај је, иначе, било акредитовано и око 300 медијских екипа из 35 домаћих и 40 редакција из иностранства.





(english / francais / italiano)

Kosovo: una "guerra giusta" per uno Stato-mafia

1) FLASHBACK: IL NOSTRO UOMO, UN GUERRIERO DI DIO. Un informatore dei servizi segreti tedeschi era tra quelli che hanno tirato i fili del pogrom antiserbo in Kosovo nel 2004
2) Dichiarazione Di Costituzione Dell’ ASSEMBLEA PROVVISORIA DELLA PROVINCIA DEL KOSOVO METOHIJA
3) NEWS: Verso le "elezioni di novembre"... continuano gli attacchi terroristici sul territorio
4) Kosovo: U.S., NATO, Ex-KLA Troops Drill For Anti-Serb “Crowd Control”
5) Niente Miss Universo per la più bella del Kosovo. La Russia non riconosce il suo Paese
6) PIERRE PÉAN: KOSOVO : UNE GUERRE JUSTE POUR UN ETAT MAFIEUX


=== 1: FLASHBACK ===

[Der originaler Text:

Unser Mann, der Gotteskrieger

Ein BND-Informant gehörte zu den Rädelsführern der antiserbischen Pogrome im Kosovo.

Von Jürgen Elsässer - FreiTag, 26.11.2004

kann man an folgender URL lesen:

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4067 ]


FreiTag, 26.11.2004

Il nostro uomo, un guerriero di Dio

Un informatore del BND era tra quelli che hanno tirato i fili del pogrom antiserbo in Kosovo


di Juergen Elsaesser
FreiTag, 26.11.2004

Il 17 e 18 marzo del 2004 si è verificato in Kosovo un pogrom in piena regola contro i serbi ed altri non-albanesi, la peggiore esplosione di violenza avvenuta dalla fine della guerra nell'estate del 1999. Ci sono state 19 persone uccise (in un primo momento si parlava perfino di 31 vittime) e circa 1000 feriti, oltre a 30 monasteri/chiese ortodosse e 500 case serbe demolite, e 4500 non-albanesi cacciati via.

La scorsa settimana sul notiziario ZDF-Heute [della seconda rete televisiva tedesca, ndT] un agente al soldo dei servizi segreti tedeschi (BND) ha ammesso di essere stato tra i principali artefici dell’”incendio” di marzo [2004]. Si tratta di Samedin Xhezairi che nell’esercito clandestino albanese UCK operava con il nome di battaglia “comandante Hodza”. L’uomo ha combattuto nel 1999 nella 171.brigata dell’ UCK contro i serbi. Dopo che questa guerra del 1999 con l’aiuto della NATO è stata vinta, Xhezairi ha passato la frontiera ed ha preso parte nella primavera del 2001 alla 112. brigata nell’insurrezione dell’UCK in Macedonia. Lì ha comandato un’unità composta da altri stranieri, guerrieri di Dio, nella regione di Tetovo. Quando nel giugno 2001 quest’unità è stata accerchiata dall’esercito macedone vicino ad Aracinovo, l'esercito degli USA l'ha sciolta. Con Xhezairi e i suoi mudjaheddin si sono salvati altri 17 consiglieri militari statunitensi.

Xhezairi – come mostrano i documenti della NATO resi pubblici dalla ZDF - attualmente è coordinatore di una rete segreta composta da appartenenti del formalmente sciolto UCK che oggi operano nel Corpo di Protezione del Kosovo e nella Polizia kosovara, dunque nelle organizzazioni riconosciute dalla amministrazione ONU (UNMIK) e dalle truppe d’occupazione dirette dalla NATO (KFOR). Mediante questa rete è stato sobillato il pogrom di marzo. Xhezairi stesso ha dato ordini ai terroristi a Prizren e Urosevac. Ma la NATO sospetta allo stesso tempo che egli abbia buoni contatti con AlQaida e con Hezbollah.

Anche se le forze mercenarie di Pullach [sede del BND, ndT] avrebbero agito nella sommossa antiserba senza consultarsi con i loro mandanti, rimane però un'altra accusa, confermata da tre testimoni. Il BND avrebbe sorvegliato le conversazioni telefoniche dell’uomo e perciò prima del pogrom era a conoscenza del progetto. Perchè da Pullach non hanno informato le truppe di protezione della KFOR in Kosovo o almeno il contingente delle forze armate tedesche stanziato lì?

Forse perchè al governo federale tedesco sta bene se i serbi vengono cacciati via e il nodo kosovaro si può così finalmente sciogliere, senza proteste da parte di minoranze noiose, alla vecchia maniera tedesca – “la Serbia deve morire“ [nell'originale:“Serbien muß sterbien” - lo slogan in rima forzata che indicava l’intenzione delle forze occupanti austriache e tedesche nei confronti della Serbia nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, ndT]. Il ministro della difesa Peter Struck si è già più volte espresso per una “soluzione della questione dello status”, come se lo status della Provincia [di Kosovo e Metohija] nella Risoluzione ONU 1244 non fosse già del tutto chiarito – lì è attestata palesemente la sua appartenenza alla Serbia-Montenegro secondo il diritto internazionale. L’amico di partito di Struck, il presidente del SPD Franz Müntefering, a fine agosto 2004 ha preso posizione molto esplicitamente “che il Kosovo è in grado di essere uno Stato indipendente”. Anche la attivista per la politica estera della SPD Uta Zapf si è subito entusiasmata sulla questione dell’”indipendenza kosovara”: “Un tale Stato sovrano sarà poi incorporato nelle strutture europee”. La più insolente proposta è venuta dalla FDP che ha caldeggiato l’annessione del Kosovo alla UE. Il territorio dovrebbe essere ceduto all’”Europa” come “amministrazione fiduciaria”, è scritto nella proposta che il deputato FDP Rainer Stinner ha lanciato nell’aprile 2004. “La sovranità del Kosovo passerebbe poi all'Europa”. Stinner ha detto alla redazione del portale internet german-foreign-policy.com che dopo l’annessione “un capo europeo si occuperà della politica estera e di difesa” del Kosovo. Questo lavoro potrebbe forse farlo l’eterno traffichino Guido Westerwelle. O forse si dovrebbe lasciare la piccola repubblichetta musulmana sotto la protezione della nuova nazione membro dell’UE, la Turchia? Le proposte sono tante. Il fatto però è che i serbi danno ancora fastidio. Ma per questo abbiamo gente come Xhezairi.


[trad. di M. Jovanovic Pisani, rev. di A.M. per CNJ-onlus]



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(The following text, in english: 
THE DECLARATION ON ESTABLISHMENT OF THЕ PROVISIONAL ASSEMBLY OF AUTONOMY PROVINCE OF KOSOVO AND METOHIJA
ZVECAN - 04. July 2013.



Dichiarazione Di Costituzione Dell’ Assemblea Provvisoria Della Provincia Del Kosovo Metohija

Scritto da Beoforum

Zvecan, Kosmet , 04 Luglio 2013

 

Noi, cittadini liberi e responsabili della Repubblica di Serbia,

Rappresentanti liberamente e legittimamente eletti dalla popolazione del Kosovo e Metohija, nell rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica di Serbia – in qualità di membri delle assemblee municipali nella provincia autonoma del Kosovo e Metohija, che è parte della Repubblica unica e indivisibile di Serbia,

Riconoscendo il bisogno urgente e necessario, in maniera organizzata, di proteggere le nostre vite e famiglie, le nostre case e proprietà, gli altri diritti umani e le libertà fondamentali, la dignità di cittadini, l'identità e l'integrità, la cultura e la religione, il patrimonio culturale e storico, ecc ,

Rispettando la Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia e respingendo tutti gli atti illegali secessionisti,

Facendo riferimento alla Carta delle Nazioni Unite, dell'Atto finale di Helsinki e alla risoluzione ONU 1244 (1999),

Rifiutando la separazione proclamata dal movimento secessionista albanese, della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija dalla nostra Repubblica di Serbia, contro la nostra volontà democraticamente espressa, così come contro la Costituzione, in modo illegale e priva di significato,

Seguendo la volontà inequivocabile della popolazione dei comuni Kosovska Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok e Leposavic, liberamente espresso con il referendum che si è tenuto il 15 febbraio 2012, di non-accettazione delle istituzioni della cosiddetta Repubblica del Kosovo,

 

Ricordando che la Costituzione della Repubblica di Serbia indica esplicitamente che la Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija è parte integrante del territorio della Repubblica di Serbia, che ha una posizione di sostanziale autonomia all'interno dello stato sovrano della Serbia e da questa posizione il Kosovo e Metohija, segue la responsabilità costituzionale di tutti gli organi dello Stato per rappresentare e tutelare gli interessi statali della Serbia in Kosovo e Metohija, nelle sue relazioni politiche interne ed estere, come pure che la sovranità viene dalla popolazione e nessuno organo di stato, di gruppo o individuale può stabilire la sovranità della popolazione, o stabilirne il governo, trasgredendo la volontà liberamente espressa della popolazione,

Riguardo questo,

Rifacendosi alla Dichiarazione dell'Assemblea Nazionale del popolo serbo, tenutasi il 22 Aprile 2013, a Kosovska Mitrovica, che ha  respinto il '" Primo accordo principale che regola la normalizzazione delle  relazioni", che a Bruxelles il 19 aprile 2013, firmato dal Primo Ministro della Repubblica di Serbia, Ivica Dacic e dal "presidente del governo del Kosovo", Hashim Thaqi, in contrasto con la volontà del popolo serbo e della popolazione della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, ed al rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica di Serbia, in quanto è contro la Costituzione e contro le leggi della Repubblica di Serbia. I cittadini che sono fedeli alla Repubblica di Serbia, i comuni con maggioranza serba e tutte le altre istituzioni della Repubblica di Serbia in Kosovo e Metohija vengono abbandonate e spinte nel "sistema costituzionale e legale" non riconosciuto e illegalmente proclamato dalla cosiddetta Repubblica del Kosovo,

degli  albanesi dal Kosovo e Metohija,

Resistendo a enormi pressioni e ogni tipo di ingiustizia,alla violenza legale e al dispotismo politico di persone potenti, ai i serbi e alla popolazione della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, che rispettano la Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia e dell’auto-governo locale in cui vivono,vengono imposti un altro governo sovrano, un "quadro e  istituzioni giuridiche" della cosiddetta autoproclamata ed illegale Repubblica del Kosovo,

Con la nostra libera volontà e con la decisione del popolo che rappresentiamo, ci siamo riuniti in Zvecan il 04. Luglio 2013, e secondo l'articolo 2 e 12 della Costituzione della Repubblica di Serbia e degli articoli 88 e 89, delle leggi sul autonomie locali, abbiamo istituito l'Assemblea provvisoria della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, e deciso di adottare:

La dichiarazione di costituzione della Assemblea provvisoria della provincia di autonoma del Kosovo e Metohija

Stabilendo i seguenti Decreti generali

1. Che l’Assemblea provvisoria della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija (nel testo a seguire : Assemblea provvisoria) è l'organo rappresentativo della popolazione della Repubblica di Serbia nella Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, che rispetta Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia, e che il diritto di autonomia territoriale è affermato dentro la Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia.

Autorità

2. L’Assemblea  provvisoria istituirà uno statuto provvisorio della Provincia Autonoma di Kosovo e Metohija, ed esso sussisterà, fino a quando non verrà stabilita una legge su una sostanziale autonomia della Provincia del Kosovo e Metohija  in continuità con la Costituzione e le leggi della Repubblica di Serbia; ed esso disporrà temporaneamente l'esecuzione dei diritti sull’ autonomia territoriale.

Dopo l'emanazione di una legge su una sostanziale autonomia della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija, l’Assemblea provvisoria emetterà uno Statuto di Autonomia della Provincia del Kosovo e Metohija e altri atti generali (decisioni), in cui i diritti in materia di autonomia territoriale saranno coordinati con questa legge.

Composizione ed organi dell'Assemblea provvisoria

3. L’Assemblea provvisoria sarà composta da ____ membri-delegati che devono essere eletti dai membri dei consigli dei Comuni del territorio di Kosovo e Metohija.

4. Il mandato di membro-delegato dell'Assemblea provvisoria durerà fino alla elezione della prima composizione dell'Assemblea della Provincia Autonoma del Kosovo e Metohija ed al massimo potrà essere di quattro anni dal giorno della costituzione dell'Assemblea provvisoria.

5. Ogni Comune, firmatario del documento circa l'istituzione dell’Assemblea provvisoria ha almeno 5 (cinque) membri delegati nell’ Assemblea provvisoria. L'atto di costituzione può essere ulteriormente sottoscritto da un gruppo di cinque o più Associazioni registrate di sfollati provenienti dal Kosovo e Metohija, che guadagnano il diritto a 5 (cinque) membri nell’Assemblea provvisoria.

6. L’Assemblea Provvisoria ha il Presidente, il Vice Presidente, una Segreteria e gruppi di lavoro.

Sessioni dell'Assemblea provvisoria e il modo di lavoro

7. L’Assemblea provvisoria è pubblica.

8. L’Assemblea provvisoria si riunirà in due sessioni annuali regolari e straordinarie se sarà ritenuto necessario.

9. L’Assemblea provvisoria emetterà una Direttiva di Procedure che in dettaglio disporranno le regole e le modalità di lavoro.

10. Tutte le altre questioni saranno regolate con i documenti dell’’Assemblea provvisoria.

Zvecan, 17 Luglio 2013

Attuali Membri dell'Assemblea Provvisoria della Provincia Autonoma del Kosovo and Metohija

Municipalità di Kosovska Mitrovica 
Municipalità di  Zvecan
Municipalità di Leposavic
Municipalità di Zubin Potok
Municipalità di Pec
Città di Pristina (Gracanica)
Municipalità di Novo Brdo
Altre…

Da Beoforum – Traduzione di Enrico Vigna per Forum Belgrado Italia



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VIDEO: RTS - Novembarski "lokalni izbori" na Kosovu i Metohiji - 07.10.2013
http://www.youtube.com/watch?v=AdwYP9Cj3kc

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da www.glassrbije.org/ italiano

Nuova esplosione a Kosovska Mitrovica

19. 10. 2013. -

Dopo la mezzanotte a Kosovska Mitrovica settentrionale le persone ignote hanno gettato la bomba sulla terrazza dell’appartamento di Ninoslav Djeric, il candidato della lista Iniziativa civica serba a Mitrovica. Nel momento dell’esplosione, nella quale nessuno è stato ferito, Djeric si trovava nel suo appartamento con la consorte e figlia. Nelle ultime 24 ore questo è il secondo incidente dinamitardo a Kosovska Mitrovica settentrionale. Nella deflagrazione di ieri mattina sono stati dannneggiati alcuni uffici. La direttrice dell’Ufficio dell’amministrazione a Mitrovica Adriana Hodzic,  candidato sindaco di Mitrovica alle elezioni amministrative del 3 novembre, ha detto che nel mirino degli attacchi dinamitardi si trovano le persone che fanno parte del processo elettorale a Mitrovica.

Vulin: traguardo degli attacchi è che serbi abbandonino Kosovo

19. 10. 2013. 

Il Ministro senza portafoglio per il Kosovo Aleksandar Vulin ha condannato l’attacco contro l’appartamento di Ninoslav Djeric, il quale è il candidato della lista Iniziativa civica serba a Mitrovica settentrionale. Egli ha detto che lo scopo di quell’attacco è che tutti i serbi abbandonino il territorio del Kosovo. L’ultimo attacco dinamitardo contro il candidatro dell’Iniziativa civica serba a Kosovska Mitrovica merita soltanto disprezzo e condanna. L’uomo che l’ha compiuto ha soltanto uno scopo, che i serbi non vivano in Kosovo e che le pulizie etniche organizzate dai terroristi albanesi siano portate e termine dalla mano serba, ha dichiarato Vulin all’agenzia Tanjug.

Dacic: nell’interesse dei serbi kosovari è che partecipino alle elezioni in Kosovo

19. 10. 2013. - 
Il premier serbo Ivica Dacic ha invitato oggi i serbi kosovari a votare alle elezioni amministrative del 3 novembre per le forze politiche che condurranno la politica della Belgrado ufficiale. Queste forze avranno la capacità di difendere gli interessi dello Stato serbo. Per ogni serbo la visita in Kosovo rappresenta un viaggio religioso, ha detto Dacic rivolgendosi ai cittadini che si sono radunati nel cortile del monastero Gracanica. Le autorità di Pristina non dovrebbero opporsi alla partecipazione di Belgrado alle elezioni in Kosovo, perché i serbi che vivono sul suo territorio sanno che l’unico garante che i loro diritti saranno rispettati è l’aiuto di Belgrado e la collaborazione con le sue autorità. Pristina non ha vietato le visite ai rappresentanti politici che consigliano alla popolazione serba di non presentarsi alle urne, e di collaborare con le sue autorità. Dobbiamo prendere il potere nelle nostre mani e usarlo per la relizzazione dei nostri interessi, ha dichiarato Dacic. Egli ha invitato i rappresentanti politici dei serbi kosovari a non litigare e a cercare le soluzioni che rafforzeranno l’unità del popolo serbo.


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Kosovo: U.S., NATO, Ex-KLA Troops Drill For Anti-Serb “Crowd Control”


http://www.eucom.mil/article/25471/525-bfsb-and-multinational-soldiers-test-readiness-at-silver-saber

October 24, 2013


525 BfSB and multinational soldiers test readiness at Silver Saber
U.S. Army Staff Sgt. Cody Harding 4th Public Affairs Detachment

CAMP VRELO, Kosovo: U.S. soldiers from Company C, 1st Squadron, 38th Cavalry Regiment, quickly unload their helicopters and with shields and batons in hand, rush towards their staging area.

Just up the road, members from the Kosovo Police and the European Rule of Law Mission in Kosovo (EULEX) are attempting to calm a growing group of demonstrators. The crowd is becoming increasingly violent and EULEX’s capabilities to disperse the crowd are quickly exceeded.

To help control the escalating situation, EULEX requests assistance from Kosovo Forces and the U.S. soldiers waiting up the road quickly move forward to conduct a relief-in-place with their EULEX counterparts.

Thankfully, the demonstrators here are simply role-players for a training exercise called Silver Saber held at Camp Vrelo Oct. 16. Members from the Kosovo Police, EULEX and KFOR took part in the three-day exercise to help improve the coordination between the different security elements in Kosovo and to test their crowd and riot control capabilities.

The soldiers from the 525th Battlefield Surveillance Brigade make up part of KFOR’s Multinational Battle Group-East: a multinational task force made up of soldiers from nine different countries as well as National Guardsmen from five states.

Silver Saber brought a number of these KFOR soldiers together with their Kosovo Police and EULEX counterparts to train on crowd and riot control, relieving a multinational unit currently engaged in CRC, breaching various obstacles and medically evacuating a casualty.

U.S. Army Col. David Woods, the MNBG-E and 525th BfSB commander, said this exercise was important because it gave KFOR, who operates as a third responder, the opportunity to work with the other security elements in Kosovo.

“We [KFOR] are in a role as a third responder – and that’s not typical for us,” said Woods, a Denbo, Pa., native. “We are typically the lead and that’s hard for us sometimes to wrap our heads around.”

U.S. Army Staff Sgt. Robert Musil, the noncommisioned officer in charge for Detachment 3, Company C, 1st Squadron, 38th Cavalry Regiment, said another challenge the U.S. soldiers faced was their inexperience in performing CRC as a part of peace support operations.

“Nine months ago, none of us had done anything like this [CRC] before,” said Musil, a Chicago native. “We’re traditionally a light infantry or recon element, so CRC isn’t something we’re used to.”

To help learn escalation the soldiers from the 525th BfSB leveraged the experience and expertise of their multinational partners.

The 525th BfSB soldiers hit the halfway point for their deployment right before Silver Saber, and Woods said he has seen a considerable amount of development within the battle group.

“Our formation has grown significantly,” said Woods. “I’m confident that we are more than prepared and resourced to deal with any circumstance or any situation that presents itself in Kosovo.”



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Niente Miss Universo per la più bella del Kosovo
La Russia non riconosce il suo Paese


Il concorso si svolge a Mosca: per solidarietà alla Serbia
gli organizzatori hanno detto no a Mirjeta Shala


PRISTINA – La kosovara, niet: in naftalina l’abito con lo strascico, niente scarpina di cristallo, per non parlare del principe azzurro… La favola di mezzanotte di Mirjeta Shala, 19 anni, cenerentola albanese del piccolo villaggio di Vucitrin che sta sulla strada fra Pristina e la Serbia, è già finita prima ancora di cominciare. Al gran ballo moscovita di Miss Universo, il prossimo 9 novembre, lei non ci sarà. E non perché non abbia le misure giuste, anzi: 1,83 d’altezza, gran fisico, volto da modella, ha già avuto più d’una copertina. Il punto è che Mirjeta l’estate scorsa è stata eletta Miss Kosovo e la finalissima del concorso di bellezza, per la prima volta, quest’anno si terrà in Russia: uno dei Paesi che non vogliono riconoscere l’indipendenza dell’ultimo nato degli Stati europei, proclamata cinque anni fa. Il presidente russo Vladimir Putin, grande fratello dei Balcani, grande amico della Serbia e soprattutto storico sostenitore delle pretese di Belgrado sul Kosovo, è stato invitato come ospite d’onore alla serata di Mosca. Sarebbe stato proprio lo staff del Cremlino a porre il veto al miliardario americano Donald Trump, che da quasi vent’anni organizza la passerella delle bellezze universali: troppo imbarazzante dover applaudire la rappresentante d’una nazione che, per la Russia, nemmeno esiste.

DON’T CRY FOR ME, ALBANIA - Ci sta piangendo ancora, Mirjeta. E non le importa che le abbiano promesso d’ammetterla d’ufficio all’edizione dell’anno prossimo. O che la manderanno a Miss Mondo. O che pure Miss Albania, Fiorabla Dizdari, per solidarietà etnica si sia ritirata dalla competizione. Il motivo ufficiale, «non ci sono le garanzie necessarie di sicurezza», nasconde (male) una battaglia geopolitica che non risparmia nemmeno le reginette di bellezza: dagli Usa all’Italia, passando per Tonga e le Isole Vergini, sono 106 i governi di tutto il mondo che riconoscono il Kosovo, ma cinque Stati dell’Ue (come la Spagna) e potenze influenti (dalla Cina alla Russia, dal Vaticano a Israele) ancora non accettano l’indipendenza dalla Serbia. La decisione degli organizzatori è irrevocabile e basta andare sul sito di Miss Universo per vedere come l’Albania e il Kosovo, in bella vista nell’edizione 2012, siano spariti dall’elenco partecipanti 2013. La stampa di Pristina ci rimane male: il giornale Koha Ditore ricorda come le Miss Kosovo degli ultimi cinque anni abbiano dato lustro al concorso, una sia arrivata nella top 10 finale, un’altra fra le prime sedici, mentre Aferdita Dreshaj (2011) ha conquistato i titoli del gossip pubblicizzando bene il suo flirt con l’attore Leonardo Di Caprio.

PROTESTANO ANCHE I GAY - Le critiche più roventi sono rivolte però agli americani, padrini storici d’un concorso che sopravvive a più di sessant’anni di storia, raggiunge 600 milioni di telespettatori e va ora alla ricerca di ricchi mercati all’Est. Pristina è l’unico posto al mondo che abbia dedicato un viale e una statua a Bill Clinton, il presidente che nel 1999 bombardò Belgrado e sostenne l’Esercito di liberazione kosovaro. E Donald Trump, che in passato non ha nascosto le sue velleità politiche, prospettando anche una candidatura alla Casa Bianca, ora in Kosovo è quasi più detestato di Putin. Le tv gli rinfacciano l’incoerenza tra quest’attenzione per l’uomo forte di Mosca e l’epoca invece in cui proponeva il boicottaggio economico della Cina comunista, «da trattare come un nemico». Nasce male, la trasferta moscovita dell’uomo che Forbes incorona fra i 300 più ricchi del mondo: la scelta d’invitare Putin al gran ballo delle miss è stata criticata anche dalle associazioni mondiali per i diritti Lgbt. «Trump s’inchina allo Zar dell’omofobia», è il titolo d’un appello che gira sul web. «In Russia c’è qualcosa di peggio d’essere attivisti di Greenpeace», ironizzava giorni fa la vignetta d’un giornale canadese, Le Droit, riferendosi ai recenti arresti degli ecologisti: «È peggio essere gay». La sera del 9 novembre, chissà, omosex, ambientalisti e kosovari potrebbero trovarsi a contestare tutt’insieme.


(makedonski / english / francais / italiano)

Il lavoro sporco dei "giornalisti" sulla Siria

1) I cecchini di Assad e le donne incinte (F. Santoianni)
2) I razzi chimici di Ghuta provengono dall’esercito turco (VoltaireNet)
3) M. Parenti: Syria, Sarin, and Casus Belli
4) I macedoni e l’impero USA
Thierry Meyssan affronta tre esperti di politica internazionale tornando sui parallelismi tra le guerre in Jugoslavia e in Siria: l’intervento dell’internazionale jihadista, al fianco di Stati Uniti e ’Unione europea, il ruolo d’Israele e l’addestramento militare dei combattenti dell’Esercito libero siriano da parte dell’UCK in Kosovo, ecc...


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ESEMPI DI BUON GIORNALISMO:

L'INTERVISTA DI RAINEWS24 AL PRESIDENTE SIRIANO BASHAR AL-ASSAD

http://www.rainews24.it/it/video.php?id=36229


MILENKO NEDELKOVSKI SHOW 27.09.2013 (makedonski)


ESEMPI DI GIORNALISMO DI GUERRA:

Le Monde, grandeur et décadence d’un journal au-dessus de tout soupçon
Ahmed Bensaada - 6 octobre 2013

La Repubblica riporta senza firma notizie false, per aizzare l'odio contro la Siria e spianare la strada a nuovi crimini di guerra della NATO:
"Siria, la denuncia: cecchini si allenano contro donne incinte. Lo ha dichiarato al britannico Times il chirurgo David Nott"


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I cecchini di Assad e le donne incinte

25 ottobre 2013

Sempre più avvilente smontare le bufale che ci arrivano dalla Siria. L’ultima, quella dei “cecchini d Assad che sparano su donne gravide”, per le sue evidentissime assurdità non meriterebbe una riga di commento se, anche in Italia, non fosse stata presa come oro colato da “prestigiosi” organi di informazione quali: RepubblicaCorriere della seraSole 24 oreUnitàIl GiornaleRAI…. e da innumerevoli siti internet (tra i quali ci piace menzionare Globalist).
Su questo penoso accorrere di “giornalisti” alla ciotola dell’informazione di regime potremmo spendere analisi sociologichefiumi di parole, improperi… Ma sarà per un’altra volta. Rassegniamoci, quindi, ad analizzare i punti salienti di questa ennesima bufala di guerra.
Il tutto nasce il 19 ottobre quando un chirurgo inglese – tale David Nott –  dichiara prima alTimes e poi alla BBC  di aver lavorato come volontario in non meglio precisati “ospedali in Siria”. Lì sarebbe stato testimone di una sconvolgente verità. I cecchini di Bashar Assad si esercitano quotidianamente sparando su specifici punti del corpo delle vittime civili. Punti che vengono stabiliti dai loro comandanti, di giorno in giorno, per verificarne le capacità e che almeno un giorno alla settimana hanno come obiettivo le pance delle donne incinte. “In un solo giorno oltre sei donne incinte sono state colpite da cecchini ed il giorno dopo altre due. Tutte le madri si sono salvate ma i feti nelle loro pance non sono sopravvissuti. Le donne incinte sono state tutte colpire all’utero. (…) Si trattava quasi di un gioco in cui i cecchini venivano premiati con pacchetti di sigarette.” E a conferma di questa verità mostra l’immagine di una radiografia: un feto con una pallottola conficcata nel cranio.
Va da sè che un qualsiasi giornalista degno di questo nome, prima di pubblicare una simile panzana, qualche domanda se la sarebbe pur posta. Ad esempio, ma che interesse avrebbe oggi Assad a fare sparare sulle donne incinte? Oppure quale sbalorditiva arma riuscirebbe ad uccidere un feto salvando (otto volte su otto!) la donna che lo ha nella pancia? Ma sarebbe bastato dare una occhiata alla “radiografia” per buttare fuori a calci dalla redazione l’esimio chirurgo David Nott: quale pallottola riuscirebbe ad entrare in un cranio senza spappolarlo o, almeno, frantumarlo?
Ma è mai possibile che nessun giornalista si sia sentito in dovere di porsi queste ovvie domande? Si, è possibile. Basti pensare al dilagare di bufale come quella dei bombardamenti sulle panetterie, del napalm sulla scuola, del Sarin a Gouta….
E allora che dire di questi giornalisti? Come scritto prima, le analisi sociologiche, i fiumi di parole le riserviamo per un’altra occasione. Stavolta, abbandoniamoci agli improperi.

 

Francesco Santoianni


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I razzi chimici di Ghuta provengono dall’esercito turco

RETE VOLTAIRE | 11 OTTOBRE 2013

Il canale televisivo al-Iqbariya ha tramesso domenica 15 settembre 2013 una lunga intervista a un prigioniero che racconta come avesse trasportato razzi chimici da una base militare turca a Damasco. Secondo questa testimonianza, l’esercito turco intendeva provocare un intervento internazionale contro la Siria. Il bombardamento limitato sarebbe stato accoppiato a una vasta operazione di comunicazione.

Questa intervista è stata seguita da un dibattito tra il generale Ali Maqsud e l’analista politico Thierry Meyssan sul coinvolgimento turco nel conflitto e la proposta della Russia per l’adesione della Siria alla Convenzione che vieta le armi chimiche.

       
Traduzione di Alessandro Lattanzio


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Da: Michael Parenti 
Data: 30 settembre 2013 09.00.21 GMT+02.00
Oggetto: [Clarity] Syria, Sarin and Casus Belli article


Here is an article (below and attached) that may be of interest to you.
Please feel free to post or publish.

Syria, Sarin, and Casus Belli   


by Michael Parenti

 

U.S. Secretary of State John Kerry announced that on August 21 the Assad government slaughtered 1,429 people, including 426 children, in a sarin chemical attack in Ghouta, a Damascus suburb. (Doctors Without Borders put the total at about 300.)  Secretary Kerry insisted that now the United States had no choice but to launch U.S. bombing attacks against President Bashar al-Assad, devolving into another of America's "humanitarian wars."

 

The Sarin Mysteries

Following Kerry, President Obama announced that the situation in Syria had changed irredeemably since August 21. The United States would have to attack. But, on second thought, Obama decided to leave the decision up to (a seemingly reluctant) Congress.

A few weeks later, Turkish prosecutors issued a lengthy court indictment charging the Syrian rebels with seeking to use chemical weapons. The indictment suggested that sarin gas and other "weapons for a terrorist organization" were utilized by the opposition and not by the Assad government.

The "Syrian freedom fighters" include men who are not even Syrian, much like the many mujahedeen who fought the Soviets in Afghanistan but who were not Afghani. As reported in the Wall Street Journal (September 19, 2013),  the ISIS, an Iraqi al Qaeda outfit operating in Syria, "has become a magnet for foreign jihadists" who view the war in Syria not primarily as a means to overthrow Assad "but rather as a historic battleground for a larger Sunni holy war.  According to centuries-old Islamic prophecy they espouse, they must establish an Islamic state in Syria as a step to achieving a global one."

 
Wrong Hands
Meanwhile, a Mint Press News story quoted residents in Ghouta who asserted that Saudi Arabia gave chemical weapons to an al Qaeda-linked group. Residents blamed this terrorist group for the deadly explosions of August 21. They claimed that some of the rebels handled the weapons improperly and thereby set off the explosions. Anti-government forces, interviewed in the article, said they had not been informed about the nature of the weapons nor how to use them. “When Saudi Prince Bandar gives such weapons to people, he must give them to those who know how to handle them,” complained one rebel militant.
 
At the same time, the Russian government submitted a 100-page report to the United Nations in early September, regarding an attack upon the Syrian city of Aleppo in March 2013. It concludes that the rebels---not the Syrian government---used the nerve agent sarin. According to a member of the U.N. independent commission of inquiry, Carla Del Ponte, there were "strong, concrete suspicions . . .  of the use of sarin gas." Del Ponte added: "This was used on the part of the opposition, the rebels, not the government authorities." Many of those killed by the gas attack were Syrian soldiers, according to the report.
 
If true, then we might wonder why are chemical weapons and other weaponry and supplies being supplied to various al Qaeda-type groups? Is not al Qaeda a secret terrorist organization that delivers death and destruction upon people everywhere? Are we Americans not locked in a global struggle with the demonic jihadists who supposedly hate us because we are rich, successful, and secular, while they are impoverished failures? That certainly is the scenario the U.S. public has been fed for over a decade.

The United States claims it provides military assistance only to "vetted" rebel groups, "free ones" that are friendly toward America and are not Islamic fanatics. (Although, as Senator Croker, Republican from Tennessee, admitted: we sometimes make "mistakes" and give weapons to the wrong rebels.) On September 17, President Obama waived a provision in the federal law that prohibits supplying arms to terrorist groups. To many of us this was an unspoken admission that Washington was giving aid to extremist Islamic groups, of which al Qaeda was only the best advertised.


Remember the Casus Belli

It is difficult for me to accept the charge that on August 21 the Syrian government waged a chemical onslaught in Ghouta against its own people in a situation that was bound to backfire in the worst possible way---by handing over to the U.S. war hawks a casus belli, a perfect  excuse to wreak retaliatory "humanitarian" death and destruction upon Syria. This is the last thing the Assad government wants.

Remember how the Spaniards asked the Americans not to send the USS Maine to Havana Harbor in 1898. They feared that something might happen to the ship and the U.S. would use that mishap as a casus belli, putting the blame on Spain. Sure enough, the Maine blew up while sitting in the harbor, sending U.S. public opinion into a jingoistic fury against the Spaniards. But why would Spaniards perpetrate the very act that would give the Americans an excuse and an inducement to wage a war that Spain most certainly did not want and could not win?

And let us not forget the hundreds of imaginary Kuwaiti babies torn from incubators and dashed upon hospital floors by snarling, maniacal Iraqi soldiers. And remember the never-to-be-found weapons of mass destruction (WMDs) that Saddam supposedly was preparing to use but never got around to doing so. And then there's that Serbian general---never identified or located---who purportedly told his troops (also never identified) to "go forth and rape." And Qaddafi who reportedly handed out Viagra to his Libyan troops so they could go forth and rape with a drug-driven vigor, a story so obviously fabricated that it was dropped after two days.

 

Choice: Satellite or Enemy

Why do (some) U.S. leaders seek war against Syria? Like Yugoslavia, Iraq, Libya and dozens of other countries that have felt America's terrible swift sword---Syria has been committing economic nationalism, trying to chart its own course rather than putting itself in service to the western plutocracy. Like Iran, China, Russia and some other nations, Syria has currency controls and other restrictions on foreign investments. Like those other nations, Syria lacks the proper submissiveness. It is not a satellite to the U.S. imperium. And any nation that is not under the politico-economic sway of the U.S. global plutocracy is considered an enemy or a potential enemy.

The Assad government had social programs for its people, far from perfect services but still better than what might be found in many U.S. satellite countries. When Iraqi refugees fled to Syria to escape U.S. military destruction, the Assad government gave them full benefits. So with the Libyan refugees who crossed over a few years later. Generally Damascus presided over a multi-ethnic society, relatively free of sectarian intolerance and violence.

Syria has been ruled by the Ba'ath Party which has dominated the country's parliament and military for half a century. The party's slogan is "Unity, Freedom, Socialism." Socialism?  Now that gets us closer to why the trigger-happy boys in Washington will continue to pursue a "humanitarian war" of attrition and a prolonged campaign of demonization against Assad and his  "regime."


Weapons of Mass Destruction Redux

On September 10, the Syrian governmentwelcomed a Russian proposal calling for Syria to place all of its chemical weapons under international control and for the weapons to be destroyed.  Here was a chance to avoid false charges of mass murder by sarin. If Assad no longer had such an arsenal, no one could accuse him of using it. (In any case, the Syrian government's campaign against the rebels was going well enough using just conventional weapons.)

Instead of winning approval from the humanitarian warriors of the West, Syria's eager agreement to surrender its chemical arsenal set off a newly framed barrage of threats from U.S. and French leaders, with the irrepressible Secretary Kerry leading the charge.

Was this a ploy on Syria's part or a genuine offer? Kerry asked in a scoffing tone. How can we be certain that Assad would not sequester its enormous stock of chemical weapons? Kerry issued a whole barrage of tough-guy threats. Syria will be treated most harshly if it pursued a path of deception. French President François Hollande called for a United Nations Security resolution that would authorize the use of force if Syria failed to hand over its chemical weapons. One would think that Syria had refused to do so.

 The August charge had been that Syria had used chemical weapons , a claim that might be refuted. Now the new charge was that Syria possessed such weapons---which was true. And possession itself was suddenly being treated as a crime deserving of swift and severe retaliation.

Now Assad would have to demonstrate the indemonstrable. He would have to convince the western aggressors that he has handed over his entire stockpile of chemical weapons. At the same time, he asserts that a thorough inspection must not come at the expense of disclosing Syrian military sites or causing a threatto its national security.

Recall how the Saddam government in Iraq, hoping to avoid war, cooperated fully with U.N. inspectors hunting for WMDs. Every facility in the country was opened to investigation. Even after all of Iraq was occupied, the hunt continued. We were told that the WMDs could be anywhere, maybe out in some remote part of the desert. It was impossible to be sure.

I fear that the Syrian population is facing more years of painful attrition. The one faintly positive development is that the FSA and the ISIS and all the murderous, Allah-is-great grouplets continue to attack not only the government forces but each other. Dozens of rebels have been killed in clashes with each other within the last few months.

Meanwhile young Syrian children, now living in refugee camps in Lebanon, go every morning to work long days in the fields, earning the few dollars a day upon which their families depend for survival. Some are as young as 5. When asked what they miss most about Syria, the children say, "school."   

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Michael Parenti is the author of The Face of Imperialism and Waiting for Yesterday. See his website for more information: www.michaelparenti.org


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I macedoni e l’impero USA

RETE VOLTAIRE | 11 OTTOBRE 2013

La televisione macedone ha trasmesso, il 27 settembre, alle 2:30 una puntata con Thierry Meyssan, del Milenko Nedelkovski Late Night Show. Il presidente della Rete Voltaire ha spiegato gli avvenimenti in Medio Oriente degli ultimi due anni e mezzo, distinguendo tra le operazioni militari previste dal Pentagono fin dal 2001 (Libia e Siria) e le rivoluzioni colorate istigate e scarsamente controllate dal dipartimento di Stato (Tunisia ed Egitto).

Ha spiegato gli inganni del sistema di propaganda televisiva della NATO, con esempi come la falsa morte di Neda durante la Rivoluzione Verde in Iran (fotocomposizione), dei falsi ribelli giunti sulla Piazza Verde di Tripoli (immagini girate in anticipo e in studio), e il tentativo di sostituire con falsi canali le TV siriane sui canali satellitari Arabsat e Nilesat.

Ritornando anche sul colpo di Stato dell’11 settembre 2001, evidenziando il sequestro illegale del potere negli Stati Uniti da parte dello Stato profondo, in nome della continuità del governo, avvenuto quel giorno tra le 10:00 e le 16:30. Infine, ha concluso sul declino dell’"impero americano" e la sua imminente scomparsa, secondo un processo paragonabile a quello della fine dell’Unione Sovietica.

Thierry Meyssan ha affrontato tre esperti di politica internazionale tornando sui parallelismi tra le guerre in Jugoslavia e in Siria: l’intervento dell’internazionale jihadista, al fianco di Stati Uniti e ’Unione europea, il ruolo d’Israele e l’addestramento militare dei combattenti dell’Esercito libero siriano da parte dell’UCK in Kosovo, ecc.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

MILENKO NEDELKOVSKI SHOW 27.09.2013



CAPITALISMO REALE (CONTINUA...)


www.resistenze.org - popoli resistenti - romania - 21-10-13 - n. 471

Il 70% dei romeni non va dal medico perché non ha soldi per pagarlo

Jose Luis Forneo | imbratisare.blogspot.com.es
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

08/10/2013

Afferma il canale informativo Antena 3: solo il 30% dei rumeni va dal medico quando si sente male, e il 70% non lo fa perché non ha i soldi per pagarlo. In ogni caso, attendono fino a quando la malattia diventa grave e possono essere trattati gratuitamente presso i pronto soccorso.

Si tratta di un'altra conseguenza della barbarie capitalista, che ha convertito la sanità rumena, come il resto dei servizi pubblici e dei diritti umani, in un affare per pochi e una catastrofe per la maggioranza.

In Romania, la sanità è teoricamente gratuita se si lavora, anche se al di là di quanto è scritto sulla carta, i romeni in realtà devono pagare tre volte per la loro sanità. In primo luogo, con le tasse prelevate sul loro lavoro, che tuttavia non servono a molto. Anche se dovrebbero essere sufficienti, la verità è che il più delle volte non lo sono. I romeni devono pagare una seconda volta attraverso il nuovo COPAGO approvato di recente dal governo socialdemocratico, come disprezzo delle autorità politiche verso i cittadini, giacché i fondi di bilancio della sanità pubblica nella maggior parte dei casi non sono sufficienti a coprire i costi. Cioè, la maggior parte delle volte, il romeno ammalato, dopo aver pagato con il suo lavoro l'assicurazione sanitaria pubblica, deve pagare per il costo di bende, aghi, maschere e anestesia dopo la sua operazione o cura, con l'argomentazione che gli ospedali o centri sanitari sono a corto di soldi.

La cosa non si ferma qui. La corruzione generalizzata del sistema medico romeno fa si che i lavoratori, che ricordiamo guadagnano in media circa 300 euro al mese, ma che per una grande parte di loro è inferiore ai 190, devono pagare in nero un salario extra a medici, infermieri, assistenti e anche custodi ospedalieri, se vogliono essere operati, e tutto questo, naturalmente, con la conoscenza dei direttori ospedalieri e, naturalmente, dei ministri della sanità di turno, che siamo convinti (perché non può essere altrimenti) intascano anche loro la loro parte, formando una rete mafiosa tipica delle dittature del capitale, dove la teoria della porta girevole, che definisce la simbiosi tra classe politica e mafia imprenditoriale, è onnipresente.

In ultima analisi, dei circa 20 milioni di romeni che formano la popolazione attuale del paese, 14 milioni non accede alla "assistenza sanitaria gratuita" perché non gli bastano i soldi. E tutto questo, naturalmente, con l'interessata riluttanza delle autorità politiche e il continuo sfregamento di mani dei loro sodali delle grandi imprese sanitarie. In realtà, il capitalismo, oltre alla povertà, la sottomissione e l'infelicità, ha portato ai lavoratori romeni l'obbligo di subire la malattia fino a quando la sua gravità diventa insopportabile.

Dopo, immaginiamo, penseranno a cosa viene insegnato nelle scuole per farci rassegnare a vivere in "questa valle di lacrime": è la volontà di dio. Nel frattempo, alcuni grandi criminali economici, che credono solo in un dio, il denaro, continuano a vivere nel paradiso terrestre a scapito della ricchezza di coloro che sono stati condannati all'inferno due decenni fa.




Vera e falsa critica del negazionismo

0) Link consigliati
1) "Dall'Olocausto alle Foibe il negazionismo sara' reato"
Tripudio della lobby neo-irredentista per il nuovo progetto di legge che mira a colpire la libertà di ricerca, di insegnamento, di espressione e di pensiero
2) Al negazionismo si risponde con le armi della cultura non con quelle del diritto penale
Durissima, opportuna presa di posizione della Giunta delle Camere Penali contro il nuovo progetto di legge 
3) Martino Cervo su Libero: “Il reato di negazionismo è follia” 
Più lucidi a destra che a sinistra? La battaglia contro l'introduzione del nuovo reato è una battaglia per i diritti elementari
4) FLASHBACKS:  
* CONTRO IL NEGAZIONISMO PER LA LIBERTÀ DI RICERCA (2007)
L'appello degli storici, completamente obliato. Dopo 6 anni, si precipita all'indietro...
* Condanna dell'ebreicidio e condanna delle infamie coloniali del Terzo Reich
di Domenico Losurdo - da l'Ernesto rivista comunista, n. 1-2 2007


=== 0: LINK CONSIGLIATI ===

L'iniziativa parlamentare recentemente rilanciata (dopo l'opportuno "blocco" della Legge Mancino nel 2007), con la quale si vorrebbe introdurre uno specifico reato di "negazionismo", ci trova in totale e completo disaccordo. E' una iniziativa molto pericolosa e suscettibile di prestare il fianco ad ogni abuso nella strumentalizzazione della Storia... Alle menzogne in campo storico si deve ribattere con gli argomenti, cioè con i fatti; la credibilità di chi "fa storia" si valuta con gli stessi strumenti di valutazione usati in altri campi scientifici ("peer review"), altrimenti abbiamo solo una "storiografia ufficiale" o "di regime" ovvero una "storiografia del più forte"... Altri sono i reati che dovrebbero essere considerati, ed in base ai quali si dovrebbe molto più spesso condannare e punire: è curioso invece che in Italia reati come quello di "incitamento all'odio razziale" o l'altro di "ricostituzione del partito fascista" siano applicati rarissimamente... 

La proposta di legge (che è poi un emendamento alla legge Mancino), primo firmatario Felice Casson:
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/703064/index.html

Il problema, come al solito, non è solo italiano ma dipende da imposizioni incombenti a livello europeo. Sono iniziative liberticide che "lor signori" cercano di attuare da anni, con il preciso scopo di tappare la bocca alle interpretazioni non-ortodosse dei fatti attuali, più ancora che sui fatti del passato: una minaccia concretissima è che ad es. siano vietati i libri che abbiamo prodotto su Srebrenica, caso sul quale esistono già "pezze d'appoggio" giuridiche come le sentenze del "Tribunale" dell'Aia o le deliberazioni del Parlamento Europeo...

Il testo dello statuto della Corte penale internazionale di cui si parla nella proposta di legge:
http://files.studiperlapace.it/spp_zfiles/docs/romastat.pdf

EU proposes to send to jail those denying genocide in Africa or Balkans
February 2, 2007

Il problema, come al solito, non è solo italiano! La polemica sta infuriando ad esempio anche in Belgio, ed in Spagna:

La libertad de expresión del fascista
Ana Valero - 17 octubre, 2013

In Italia la questione sembrava essere stata chiusa, ragionevolmente, nel 2007. Da rileggere in proposito:

Negazionismo e Stato. La verità storica non s’impone per legge
Angelo d'Orsi (Storico, docente dell'Università di Torino), 24 gennaio 2007

La ricerca storica è ricerca scientifica
di A. Martocchia - su "La Voce" del Gruppo Atei Materialisti Dialettici di aprile 2007
http://www.resistenze.org/sito/te/cu/sc/cusc7c08-001203.htm

CHI FABBRICA I NAZISTI?
Violenza nera, fascino del male e fallimento della Legge Mancino
di Wu Ming 1 - 3 dicembre 2006
http://www.carmillaonline.com/2006/12/03/chi-fabbrica-i-nazisti/

(a cura di AM per CNJ-onlus)


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DALL'OLOCAUSTO ALLE FOIBE IL NEGAZIONISMO SARA' REATO - 17ott13

Chi negherà il dramma delle Foibe, così come la Shoah, rischierà oltre 7 anni di carcere. Lo prevede la   nuova norma anti negazionismo approvata dalla Commissione Giustizia del Senato, che ora dovrà essere esaminata dall’aula. Chi istiga o fa apologia relativa a «delitti di terrorismo, crimini di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, la pena è aumentata della metà. La stessa pena si applica a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità».

Poche righe che vengono associate comunemente alla Shoah ma che vanno a coinvolgere anche altre realtà. Foibe comprese. «Il testo della legge parla chiaro» conferma il senatore del Pdl, Carlo Giovanardi che, al pari del socialista Enrico Buemi, si è astenuto dopo che è stata bocciata la sua proposta di limitare la norma all’Olocausto, lasciando fuori altre questioni ancora aperte, tra cui quelle relative al confine orientale.

L’emendamento approvato dalla Commissione Giustizia del Senato va a modificare il codice penale e comporta una pena massima di sette anni e mezzo. La norma, presentata da tutti i gruppi e votata a larghissima maggioranza, va a modifica l’articolo 414 del codice penale, che riguarda l’istigazione a delinquere. Se qualcuno istiga a commettere reato la pena può variare da 1 a 5 anni, con l’articolo approvato in Commissione Giustizia si aggiunge un aggravio del 50% di pena da scontare nel caso l’istigazione riguardi atti terroristici o crimini contro l’umanità e nel caso si negazione di genocidi o crimini di guerra.

Il provvedimento è al centro anche di un caso politico-istituzionale: il presidente del Senato, Pietro Grasso, aveva avanzato la richiesta di approvare in sede deliberante il ddl, facendolo appunto diventare legge direttamente in Commissione senza il passaggio in aula. Ma il Movimento 5 Stelle ha detto no insieme a Buemi; quest’ultimo avrebbe prima minacciato le dimissioni («non si può fare carta straccia delle regole», ha dichiarato) salvo poi cambiare idea a favore della richiesta di Grasso. Troppo tardi, però, perché il provvedimento è tornato alla presidenza che ora dovrà convocare i capigruppo per calendarizzare l’esame del disegno di legge.

I grillini, tramite il senatore Maurizio Buccarella, hanno accusato Grasso di volere attuare un colpo di mano. «Noi vogliamo che decida il parlamento, l’Aula del Senato in un dibattito pubblico su una materia delicatissima e piena di rischi anche alla luce del testo oggi redatto» ha aggiunto l’esponente pentastellato. Grasso ha parlato di «occasione mancata» e ha spiegato che la sua richiesta era soltanto «il tentativo che un’iniziativa parlamentare fosse finalmente accelerata in un momento simbolicamente importante. Non ci siamo riusciti per la democrazia, adesso ne discuteremo in Aula».

Forti le critiche nei confronti del Movimento 5 Stelle, da Anna Finocchiaro (Pd), secondo cui i grillini «dicono no a tutto» a Renato Schifani (Pdl) che si rammarica di come « anche un disegno di legge di così grande civiltà, diventi strumento di un’incomprensibile lotta politica». «Sono convinto che sarà presto completato l’iter parlamentare» sostiene il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui siamo di fronte a «una affermazione importante di attaccamento a principi di libertà e tolleranza». Secondo il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, la norma «rappresenta un importante strumento innovativo per tentare di arginare alcuni fenomeni di antisemitismo e di negazione di gravi fatti storici. Esistono infatti episodi del nostro passato storico la cui valutazione negativa è pacifica e non può essere messa in discussione, costituendo la base culturale, l’origine fondante della nostra democrazia. Ai fini dell’individuazione dei crimini, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, dovrà comunque sussistere - spiega Ferri - per la sussistenza del reato, una attività di apologia concretamente idonea a provocare la commissione di delitti da parte di altri».

Renato Schifani, presidente dei senatori del Pdl, l’approvazione del testo di legge in Commissione Giustizia «è un risultato di grande valore per il nostro Paese. Tanto più importante perché arriva alla vigilia di una giornata di enorme significato per le vittime della ferocia nazista. Da oggi in poi sarà impossibile negare l’evidenza di una tragedia che ha segnato drammaticamente il secolo scorso». Giuseppe Lumia, capogruppo del Pd in Commissione, sottolinea come «finalmente si recepisce quanto previsto dalla Convenzione internazionale di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e si contrasta il risorgere di una subcultura dell’intolleranza che ha generato violenza e morte».

La nuova legge che punisce il reato di negazionismo è, secondo il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, «una medicina contro gli spacciatori di odio. L’Italia si allinea ad altri 14 Paesi che hanno già normative simili - ha aggiunto davanti alla sinagoga della Capitale prima della cerimonia per i 70 anni dal rastrellamento nazista del Ghetto -. La nuova legge darà serenità agli ultimi sopravvissuti alla Shoah, che ieri alla notizia dell’approvazione hanno pianto».

Roberto Urizio
www.ilpiccolo.it 17 ottobre 2013


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http://www.camerepenali.it/news/5502/Al-negazionismo-si-risponde-con-le-armi-della-cultura-non-con-quelle-del-diritto-penale.html

16/10/2013

L'Unione critica aspramente l'introduzione in Italia del reato di "negazionismo", ennesimo, pessimo esempio di legislazione reattiva e simbolica.

Al negazionismo si risponde con le armi della cultura non con quelle del diritto penale.

Dopo il femminicidio la Shoah, continua la deriva simbolica del diritto penale che fa del male, prima di tutto, proprio ai simboli che usa.
L'introduzione anche in Italia del reato di "negazionismo" era stata annunciata da più di un Ministro negli ultimi anni ma si era sempre arenata anche a seguito del diffuso dissenso da parte di storici e giuristi.
Ora l'ipotesi viene frettolosamente e pressoché unanimemente riesumata dalla Commissione Giustizia del Senato, con un emendamento che, oltre ad ampliare ed aggravare le ipotesi di apologia di reato, porterebbe ad introdurre nell'art. 414 del codice penale una sanzione per chi "nega crimini di genocidio o contro l'umanità".
Già vivificare una categoria di reati come quelli di apologia, che in una legislazione avanzata dovrebbero essere espunti, è operazione di retroguardia, ma inserire un reato di opinione, come quello che è la risultante della indicata modifica, è ancora più sbagliato.
La tragedia della Shoah è così fortemente scolpita nella storia e nella coscienza collettiva del nostro Paese, da non temere alcuno svilimento se una sparuta minoranza di persone la pone in dubbio o ne ridimensiona la portata. Anzi, proprio il rispetto che si deve al dramma della Shoah, e alle milioni di vittime innocenti che ha travolto, dovrebbe consigliare ai legislatori di evitare di trasformare il codice penale senza tener conto dei principi fondamentali del diritto moderno, abbandonando la via della risposta reattiva rispetto ai fatti di cronaca ed imboccando quella di un diritto penale minimo e costituzionalmente orientato.
Per contro, l'idea di arginare un'opinione - anche la più inaccettabile o infondata - con la sanzione penale è in contrasto con uno dei capisaldi della nostra Carta Costituzionale, la quale all'art. 21 comma 1 non pone limiti di sorta alla libertà di manifestazione del pensiero.
Ed il giudizio su un accadimento storico - per quanto contrastante con ogni generale e documentata evidenza o moralmente inaccettabile - in altro modo non può definirsi se non come un'opinione, che dunque non può mai essere impedita e repressa dalla giustizia penale: spetterà alla comunità scientifica rintuzzarla, ove sia il caso, e alla maturità dell'opinione pubblica democratica lasciare nell'isolamento chi la formula. A coloro che negano la Shoah bisogna rispondere con le armi della cultura, e, se si vuole, con la censura morale, ma non con il codice penale.
Del resto, anche un solo argine - benché eticamente condivisibile - all'esercizio delle libertà politiche (e tale è, prima fra tutte, la libertà di espressione) introduce un vulnus al principio che l'elenco di esse deve restare assolutamente incomprimibile: quell'elenco infatti, come diceva Calamandrei "non si può scorciare senza regredire verso la tirannide".

Roma, 16 ottobre 2013
La Giunta


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http://www.blitzquotidiano.it/rassegna-stampa/mario-cervo-libero-reato-negazionismo-e-follia-1694610/

Martino Cervo su Libero: “Il reato di negazionismo è follia”

Pubblicato il 17 ottobre 2013 09.52


ROMA – “Il reato di negazionismo è follia” scriveMartino Cervo su Libero.  In questi giorni, al Senato, è stato depositato in Commissione l’emendamento che introduce nel codice penale il reato di negazionismo. “Un pasticcio” secondo Cervo.
Tocca dire grazie anche a Beppe Grillo e ai 5 Stelle, se il disegno di legge numero 54, composto da un solo articolo, che di fatto introdurrebbe il reato di negazionismo, avrà un iter  parlamentare «normale». Ci sono probabilmente rimasti male Giorgio Napolitano e Pietro Grasso, prima e seconda carica dello Stato. Il primo, celebrando il 70esimo del rastrellamento degli ebrei romani sotto il regime nazifascista, ieri mattina aveva lodato l’«esempio» del Parlamento italiano dopo il sì in commissione Giustizia del Senato, auspicando un rapido completamento dell’iter.
Quando 5 senatori (i grillini Maurizio Buccarella, Mario Giarrusso, Paola Taverna, Enrico Cappelletti e il Psi Enrico Buemi) hanno chiesto di far decidere tutta l’Aula, cambiando la natura dei lavori della commissione da deliberante a referente, Grasso ha parlato di «occasione perduta», avendo lui stesso impresso l’accelerazione dei lavori. Forse, invece, è un’occasione guadagnata per riflettere sull’opportunità di introdurre di fretta una cosa che assomiglia molto a un pasticcio. Non per una questione ideologica, ma pratica. La corale testimonianza di memoria celebrata ieri mostra che, grazie a Dio, l’Italia ha forti anticorpi contro il negazionismo, e che non può essere ridotta all’immagine di quattro signori a braccio teso a presidio della bara di un ex nazista.
Le leggi attuali (Mancino su tutte) permettono di perseguire chi «propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio : razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Il punto è: negare il genocidio, la shoah, i crimini contro l’umanità, può diventare reato passibile di arresto? Non c’è il pericolo di istituire una «verità di Stato» che, oltre a complicare il lavoro degli storici, rischia con dei processi di trasformare in martiri sporadici dei cialtroni che diffondono idee impresentabili? Non solo sullo sterminio degli ebrei, ma sui gulag, sugli armeni, il libero dibattito non uscirebbe limitato? L’emendamento approvato in commissione prevede che l’articolo 414 del codice penale (che punisce l’istigazione a delinquere) sia esteso a «chiunque nega l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio o contro l’umanità».
La pena prevista al primo comma è la reclusione da uno a cinque anni. La dizione non è casuale: come si legge nel comunicato dei senatori proponenti, i tre tipi di crimini sono «definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale ». Il testo elenca tra i crimini di guerra: «cagionare volontariamente grandi sofferenze o gravi lesioni all’integrità fisica o alla salute; distruzione ed appropriazione di beni, non giustificate da necessità militari e compiute su larga scala illegalmente ed arbitrariamente; privare volontariamente un prigioniero di guerra o altra persona protetta del suo diritto ad un equo e regolare processo; deportazione, trasferimento o detenzione illegale».
Come dovrebbe valutare un pm che si trovasse approvata questa legge l’affermazione secondo cui l’intervento sovietico a Budapest nel 1956 ha contribuito a «salvare la pace nel mondo»? Dovrebbe procedere contro chi dicesse che Solzenicyn ha «finito per assumere un atteggiamento di “sfida” allo Stato sovietico e alle sue leggi », e che in forza di questo «la sua espulsione può essere considerata » un fatto «più o meno “positivo”, che «qualcuno può giudicare la “soluzione migliore”»? Sono due scritti di Giorgio Napolitano, rispettivamente del 1956 e del 1974, poi dolorosamente corrette. Sempre ieri, Piergiorgio Odifreddi, il matematico e firma di Repubblica protagonista di un recente scambio epistolare con Ratzinger, ha avuto un «incidente». Un anno fa il paragone tra l’esercito israeliano e le SS delle Ardeatine gli costò il blog sul sito del quotidiano. Commentando il caso Priebke, ieri ha scritto: «Sulle camere a gas “so”soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato». Polemiche. In un contesto libero, che gli ha fatto piovere in testa critiche anche pesanti. Ma senza reati, perché dargli del cretino in campo aperto è molto meglio che vederlo dentro.


=== 4: FLASHBACKS ===

[ Pubblicato anche su "l'Unità" del 23 gennaio 2007. Su questo appello si veda anche:
Il dejà-vu del cosiddetto «DDL sul negazionismo»
di Wu Ming
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=14457#more-14457 ]

http://www.sissco.it/index.php?id=28

CONTRO IL NEGAZIONISMO PER LA LIBERTÀ DI RICERCA

Il Ministro della Giustizia Mastella, secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l'esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe presentare questo progetto di legge il giorno della memoria. Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. Proprio negli ultimi tempi, il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell'attenzione dei media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente l’eco. Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com’è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d'espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente.
2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall'autorità statale (l'”antifascismo” nella DDR, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l'inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.
3) si accentua l'idea, assai discussa anche tra gli storici, della "unicità della Shoah", non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altri evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.
L'Italia, che ha ancora tanti silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale, dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva, attraverso le più diverse iniziative e campagne educative. 
La strada della verità storica di Stato non ci sembra utile per contrastare fenomeni, molto spesso collegati a dichiarazioni negazioniste (e certamente pericolosi e gravi), di incitazione alla violenza, all'odio razziale, all'apologia di reati ripugnanti e offensivi per l'umanità; per i quali esistono già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo terreno.
E' la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.

Marcello Flores, Università di Siena
Simon Levis Sullam, Università di California, Berkeley
Enzo Traverso, Università de Picardie Jules Verne
David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Bruno Bongiovanni, Università di Torino
Simona Colarizi, Università di Roma La Sapienza
Gustavo Corni, Università di Trento
Alberto De Bernardi, Università di Bologna
Tommaso Detti, Università di Siena
Anna Rossi Doria, Università di Roma Tor Vergata
Maria Ferretti, Università della Tuscia
Umberto Gentiloni, Università di Teramo
Paul Ginsborg, Università di Firenze
Carlo Ginzburg, Scuola Normale Superiore, Pisa
Giovanni Gozzini, Università di Siena
Andrea Graziosi, Università di Napoli Federico II
Mario Isnenghi, Università di Venezia
Fabio Levi, Università di Torino
Giovanni Levi, Università di Venezia
Sergio Luzzatto, Università di Torino
Paolo Macry, Università di Napoli Federico II
Giovanni Miccoli, Università di Trieste
Claudio Pavone, storico
Paolo Pezzino, Università di Pisa
Alessandro Portelli, Università di Roma La Sapienza
Gabriele Ranzato, Università di Pisa
Raffaele Romanelli, Università di Roma La Sapienza
Mariuccia Salvati, Università di Bologna
Stuart Woolf, Istituto Universitario Europeo, Firenze

Aderiscono anche:
Cristina Accornero, Università di Torino 
Ersilia Alessandrone Perona 
Franco Andreucci, Università di Pisa 
Franco Angiolini, Università di Pisa 
Barbara Armani, Università di Pisa 
Angiolina Arru, Università di Napoli L'Orientale 
Marino Badiale, Universita' di Torino 
Elena Baldassari, Università di Roma La Sapienza 
Luca Baldissara, Università di Pisa 

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Priebke, preti, suore, frati

1) Quando Priebke si nascose a Bolzano e lì attese i documenti falsi
di Davide Pasquali, su "Alto Adige" del 12 ottobre 2013
"... fu appoggiato in particolare da alcuni preti altoatesini come Johann Corradini di Vipiteno e Franz Pobitzer di Bolzano ma anche dal vicario separazionista Alois Pompanin, che gli concesse il battesimo cattolico..."

2) Nazisti, la chiesa di Francesco faccia luce
di Alessandro Cassinis, su "Il Secolo XIX" del 15 settembre 2013 
"... sacerdoti come il croato Draganovic, il francescano Dömöter e l’ex cappellano militare Petranovic accoglievano a Genova i nazisti in fuga e li spedivano in America con documenti falsi..."

3) Sul libro di Uki Goñi "OPERAZIONE ODESSA":

* Argentina: dopo l'apertura degli archivi sui nazisti. Quei 47 dossier mancanti
di  Alvaro Ranzoni, su "Panorama" del 29/8/2003  
"... A Buenos Aires agivano i cardinali Antonio Caggiano e Santiago Copello... Mai erano emerse tanto chiare le accuse al regime peronista e alla Santa sede (più volte ricorre il nome di Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI)..."

* Mi manda il Cupolone
di Giovanni De Luna, su "La Stampa" del 3/11/2003
"... la Chiesa cattolica non fu solo un complice dell'«operazione Odessa» ma la sua protagonista indiscussa: oltre a monsignor Montini i suoi vertici furono i cardinali Eugène Tisserant e Antonio Caggiano..."

* Priebke e l'"Operazione Odessa"
su "Liberazione" del 14-15/3/2004
"... Il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di ritirare dal commercio il volume di Uki Goni "Operazione Odessa" (Garzanti). A chiedere il ritiro del libro era stato Erich Priebke..:"

4) DOSSIER DRAGANOVIC
fonti: GenovaNotizie, Wikipedia
"... tacita complicità, circa la copertura di criminali di guerra, fra i quali, oltre ad Ante Pavelic, figurano Stjepan Hefer, che raccoglie l’eredità di Pavelic alla guida del Movimento per la Liberazione della Croazia, e altri come Ljotic, Nedic, Save Radonic (ministro della Giustizia e uno capi separatisti del Montenegro). A tutti questi personaggi venivano forniti falsi documenti d’identità, denaro e collegamento con la Spagna... Dal collegio di San Girolamo passano Steve Vujovic ministro separatista del Montenegro; Lazar Soskic capo della polizia del Montenegro; Stevan Ivanic direttore dell’Istituto di Igiene di Belgrado; il ministro del commercio Valiljevic; Marisav Petrovic, colonnello delle SS bosniache; i fratelli Vrioni, membri del governo filonazista albanese; Jusuf Kosovac, sicario per conto della polizia politica del governo collaborazionista montenegrino e albanese, già condannato a 20 anni per omicidio prima della guerra; Isa Noljetinac, capo della polizia nel governo collaborazionista albanese e responsabile di oltre 200 omicidi fra la popolazione serba di Pristina; tale dottor Hefer, ministro del governo Pavelic; i generali Vilko Pecnikar e Eugen Kvarternik, e altri ancora compresi nelle liste dei servizi segreti alleati come ricercati per crimini contro l’umanità e complicità con il Terzo Reich... Tutto questo dal proprio ufficio del collegio di San Girolamo, in collegamento con la commissione Pontificia per i Rifugiati diretta da padre Elias Ivica, con sede in via Piave a Roma, organismo ben visto dal movimento Ustascia..."

5) Reputazioni in calo 
di Felice Accame (Radio Popolare, 2008)
"... D’accordo che, Anatole France alla mano, la reputazione dei francescani, già alla fine dell’Ottocento, non era poi un granché... ma da qui a spiegare certe nefandezze ce ne corre..."


--- ALTRI LINK:

Sulle "Ratlines" e sulla organizzazione, frutto della collaborazione tra Vaticano e ustascia, per la fuga dei criminali nazisti, si veda la documentazione raccolta alla nostra pagina:
ed in particolare:
nonché
Le ratlines patrocinate da mons. Alois Hudal e da padre Krunoslav S. Draganovic per l’espatrio clandestino degli ex gerarchi nazisti e ustascia
di Giovanni Preziosi (2011)


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Quando Priebke si nascose a Bolzano e lì attese i documenti falsi


Durante la guerra la moglie e i figli del capitano SS vivevano a Vipiteno. Nella fuga lo aiutarono un parroco e il padre francescano Franz Pobitzer

di Davide Pasquali
12 ottobre 2013

BOLZANO. Erich Priebke ha almeno due legami con Bolzano. Il primo è un nome che si trasformò in tragedia. Il battaglione nazista decimato dai partigiani in via Rasella, in seguito al quale ebbe luogo la rappresaglia che portò all’eccidio delle Fosse Ardeatine, si chiamava proprio così: Bozen. Ma questa è poco più di una coincidenza.
La polpa sta altrove: Priebke per salvarsi alla fine della guerra passò, come tantissimi altri, almeno 150 grandi criminali di guerra, proprio dalla nostra provincia. Venne nascosto per mesi in una casa del centro storico del capoluogo e a Bolzano riuscì a farsi procurare i documenti falsi per poi potersi imbarcare per l’Argentina.
Dopo la sconfitta della Germania, infatti, il capitano fuggì da un campo di prigionia presso Rimini e si rifugiò in Argentina, a San Carlos de Bariloche, ai piedi delle Ande argentine, dopo essere passato per Bolzano grazie all’assistenza dell’organizzazione filonazista Odessa.
Priebke fu appoggiato in particolare da alcuni preti altoatesini come Johann Corradini di Vipiteno e Franz Pobitzer di Bolzano ma anche dal vicario separazionista Alois Pompanin, che gli concesse il battesimo cattolico, e fu aiutato nella sua fuga dalla rete di contatti gestita dal sacerdote croato Krunoslav Draganovic.
Questo era il poco che si sapeva fino a qualche anno fa. Prima che aprissero certi archivi, specie quelli della Croce Rossa. E prima che lo storico nord tirolese Gerald Steinacher andasse a ficcarci il naso come un cane da tartufo. Per sei lunghi anni. «Dal 1943 al 1948 - racconta Steinacher - la base di Priebke fu Vipiteno, dove fu aiutato dal parroco Corradini ma anche da padre Franz Pobitzer di Bolzano. Dal 1943 vissero a Vipiteno la moglie e i due figli di Priebke, che si trovava prigioniero a Rimini; quando nel 1946 fuggì dal carcere, Priebke raggiunse la sua famiglia a Vipiteno. Qui tra le altre cose si battezzò».
Un do ut des, per riuscire ad ottenere, grazie all’aiuto del clero compiacente, i documenti falsi per l’espatrio. Una storia che lascia stupiti, quella che riguarda Erich Priebke. Dopo aver ricevuto un documento di identità - secondo il quale era un direttore di albergo lettone, apolide, di nome Otto Pape - se ne stette bel bello a Bolzano per dei mesi, in attesa che gli venisse spedito il passaporto della Croce rossa internazionale. Il suo indirizzo? Via Leonardo Da Vinci numero 24. Si trattava di un piccolo edificio parte del vecchio ospedale.
Se ne sapeva niente, fino a pochi anni fa. Di lui, come di altri 30-40 mila fra collaborazionisti e personaggi minori del nazismo. Priebke non fu il solo pezzo grosso a transitare da qui, fra i silenzi e le connivenze. Per fare giusto due esempi, se ne scapparono indisturbati, grazie all’aiuto dei sudtirolesi, anche Josef Mengele e Adolf Eichmann. La Svizzera e l’Austria non possedevano porti. La Germania era occupata e controllata dagli Alleati; passare per la Francia non si riusciva; la Jugoslavia di Tito era impenetrabile, la Spagna troppo lontana. L’Italia era la via più semplice. Ma per raggiungere i porti, le vie possibili in pratica erano solo tre: passo Resia, passo del Brennero e gli alti passi pedonali della valle Aurina.


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Il Secolo XIX, 15 settembre 2013 

Nazisti, la Chiesa di Francesco faccia luce


di Alessandro Cassinis


Genova - Sono passati dieci anni da quando Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, tuonò dal pulpito della cattedrale di San Lorenzo contro l’inchiesta che questo giornale stava pubblicando sulla fuga dei nazisti da Genova in Argentina. A ferire il cardinale erano state le rivelazioni su alcuni sacerdoti che a Genova si erano comportati da angeli custodi di sterminatori come Mengele, Eichmann, Barbie, Priebke e il feroce capo degli ustascia Ante Pavelic. Tutti ospitati a Genova sotto falso nome e imbarcati sulle navi per Buenos Aires fra il 1947 e il 1951 lungo quella “via dei topi” che aveva nell’Argentina di Peron il capolinea dell’impunità.

«La Chiesa genovese acquisirà tutti i documenti necessari per stabilire la verità dopo che il maggiore quotidiano genovese ha riportato notizie che non ci risultano vere», disse allora Bertone. La pietra dello scandalo fu la domanda che l’inchiesta del Secolo XIX aveva reso ineludibile : sapeva l’allora arcivescovo Giuseppe Siri che sacerdoti come il croato Draganovic, il francescano Dömöter e l’ex cappellano militare Petranovic accoglievano a Genova i nazisti in fuga e li spedivano in America con documenti falsi?

Bertone nominò una commissione di saggi e promise un rapporto pubblico in tempi brevi. Dieci anni dopo Andrea Casazza, l’autore di quell’inchiesta, ha sondato alcuni membri della commissione. La verità è che non è stato fatto quasi nulla. Nessuna indagine. Nessun dossier.

Forse qualcuno sperava che il tempo avrebbe fatto calare la polvere su una pagina così oscura e inquietante del nostro passato. Ma la storia non si insabbia. Dieci anni dopo Il Secolo XIX torna a chiedere la verità sulla rotta della vergogna: quale fu il ruolo della curia genovese nella fuga dei gerarchi nazisti? Quali i patti con l’Argentina peronista e i servizi segreti americani? I sacerdoti coinvolti ricevevano ordini dall’alto? E da chi? chi forniva i documenti falsificati, le coperture, il denaro per la permanenza dei fuggiaschi a Genova? Sono domande che troverebbero una risposta soltanto se la curia genovese acconsentisse a rendere davvero pubblici i documenti di quegli anni, a cominciare dalle carte conservate nell’archivio personale di Siri.

Dieci anni dopo c’è un fatto nuovo, che riaccende la speranza di fare finalmente luce. Un papa argentino ha scelto il nome del poverello di Assisi e il suo linguaggio semplice e diretto. Ha ribaltato il vertice Ior e ha rinnovato la gerarchia vaticana mettendo fine, fra l’altro, al lungo regno di Bertone. Ha bollato l’ipocrisia come «il linguaggio della corruzione» e ha invitato i cattolici a essere «trasparenti come bambini». Ha ammesso, nella lettera a Eugenio Scalfari, «tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che [la Chiesa] può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono». Nella sua missione di testimoniare il Vangelo, il Papa può riaprire quel capitolo tragico, che offende un intero popolo perseguitato nei campi di sterminio, getta un’ombra incancellabile sulla sua Argentina, infanga Genova, città martire della guerra e avanguardia della Resistenza, e lascia un sospetto inaccettabile sul suo cardinale più illustre.

Francesco ci ha ricordato che bisogna parlare come insegna il Vangelo: «Sia il tuo dire sì sì, no no». Il resto sarebbe omertà.



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Uki Goñi
Operazione Odessa

Garzanti, 2003
ISBN 88-1169-405-1

in english: 

Uki Goni
The Real Odessa: How Peron Brought the Nazi War Criminals to Argentina

Publisher: Granta Books (23 Jan 2003)
448 pages - ISBN-10: 1862075522 / ISBN-13: 978-1862075528
http://www.amazon.co.uk/Real-Odessa-Brought-criminals-Argentina/dp/1862075522

excerpts online:
The Real Odessa: Smuggling the Nazis to Argentina
http://greyfalcon.us/The%20Real%20Odessa.htm

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Quei 47 dossier mancanti

di  Alvaro Ranzoni
su Panorama, 29/8/2003  

Molte delle carte sui gerarchi di Hitler accolti e protetti da Peron non si trovano più. Lo rivela il centro Wiesenthal, mentre un libro accusa apertamente la Santa sede.

Aspetteranno ancora per un po', poi quelli del centro Simon Wiesenthal, specializzato nella caccia ai criminali nazisti (2.500 nomi rivelati in 17 anni), torneranno alla carica con il presidente argentino Néstor Kirchner. Non è possibile infatti che dai meandri del vecchio Hotel de Inmigrantes, che custodisce gli archivi dell'autorità argentina per l'immigrazione, siano saltati fuori solo due dei 49 fascicoli richiesti, con la storia di soli 17 criminali di guerra sui 68 segnalati. Troppo poco, se si considera che di questi 17 ben 16, tutti ùstascia croati, sono contenuti in un unico faldone, mentre l'altro dossier venuto alla luce è quello di un criminale belga, Jan-Jules Lecomte, il borgomastro-boia di Chimay.

I primi torturarono e uccisero migliaia di serbi ed ebrei, il secondo si divertiva a scovare i bambini ebrei rifugiati nei monasteri per avviarli ai campi di sterminio. Non stelle di prima grandezza nella classifica dell'orrore, insomma. Non sono stati trovati finora i dossier che spiegherebbero come fecero ad arrivare in Argentina e da chi furono aiutati criminali del calibro di Josef Mengele, il medico che sperimentò le sue folli teorie su migliaia di vittime; Adolf Eichmann, il pianificatore dello sterminio degli ebrei, poi giustiziato in Israele; Klaus Barbie, il «boia di Lione»; Erich Priebke, responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, l'unico ancora vivo (novantenne, sconta l'ergastolo agli arresti domiciliari a Roma).

«Il nuovo presidente argentino ha promesso piena trasparenza» spiega a Panorama Sergio Widder, direttore della sezione di Buenos Aires del Centro Wiesenthal, «e noi non abbiamo motivo di dubitarne. Ma certo non ci accontenteremo di spiegazioni a mezza bocca su dossier smarriti o bruciati non si sa perché e non si sa da chi» aggiunge.
Quello che è emerso è comunque abbastanza sconcertante.

Subito dopo la guerra il dittatore Juan Domingo Peron, che vagheggiava una sorta di «Quarto Reich», aveva creato una rete perfetta per portare in Argentina i criminali nazisti ricercati dalle forze alleate.
Dal 1947 ai primi anni Cinquanta il terminale europeo di questa «rotta dei topi» fu Genova dove c'era uno speciale ufficio retto da un ex capitano delle Ss, Carlos Fuldner, amico di Peron.

Il terminale italiano era gestito in gran parte da religiosi. «A Genova operava, tra gli altri, un monsignore croato, Karlo Petranovic, dipendente dalla locale Curia e protetto dall'arcivescovo Giuseppe Siri (ma la Curia genovese smentisce, ndr).
A Roma un altro prete, Stefan Draganovic, fondatore della Confraternita di San Gerolamo, avviava i criminali nazisti verso il capoluogo ligure con l'attiva collaborazione del vescovo Aloys Hudal, rettore del collegio tedesco di S. Maria dell'Anima, e sotto la protezione del Vaticano.

A Buenos Aires agivano i cardinali Antonio Caggiano e Santiago Copello. Tutto giustificato con la lotta al comunismo» spiega lo scrittore argentino Uki Goñi, autore del libro L'autentica Odessa, frutto di sei anni di ricerche, di cui Garzanti pubblicherà a febbraio l'edizione italiana.
Mai erano emerse tanto chiare le accuse al regime peronista e alla Santa sede (più volte ricorre il nome di Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI). È di Goñi la prima bozza dell'elenco che il centro Wiesenthal ha presentato al governo argentino.

Lo scrittore ha trascorso un anno negli archivi dell'Hotel de Inmigrantes, l'edificio che ospitò per i primi giorni molti dei 5 milioni di emigranti in Argentina e che oggi l'Associazione Italia-Argentina vorrebbe restaurare come sede delle aziende italiane a Buenos Aires. Ha rovistato tra centinaia di migliaia di cartoline di sbarco e su quelle dei personaggi più significativi ha trovato i numeri dei relativi dossier. Che però nessuno sa dove siano finiti.
http://www.panorama.it/mondo/americhe/articolo/ix1-A020001020528

Argentina: dopo l'apertura degli archivi sui nazisti



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LA STAMPA, 3/11/2003
Sezione: Cultura Pag. 16

LA FUGA DEI CRIMINALI NAZISTI VERSO L'ARGENTINA DI PERÓN:
UNA METIcOLOSA E DOcUMENTATA RIcOSTRUZIONE DELLO STORIcO UKI GOÑI 

OPERAZIONE ODESSA

Mi manda il Cupolone


Giovanni De Luna

Lo chiamavano il «Mengele danese», Carl Vaernet era un medico delle SS che sosteneva di aver scoperto una «cura» per l'omosessualità; nel 1944 Himmler mise a disposizione delle sue folli ricerche la popolazione del «triangolo rosa», gli omosessuali internati a Buchenwald. I malcapitati furono castrati e gli fu impiantato un «glande sessuale artificiale», un tubo metallico che rilasciava testosterone nell'inguine. Secondo i racconti dei sopravvissuti, i medici delle SS a Buchenwald raccontavano barzellette raccapriccianti su quel tipo di esperimenti. Vaernet era un pazzo sadico; inserito nella lista dei criminali di guerra, alla fine del conflitto riuscì a scappare sano e salvo in Argentina. E come lui migliaia di aguzzini nazisti tedeschi, fascisti italiani, ustascia croati, rexisti belgi, collaborazionisti francesi ecc.; tutti se la cavarono grazie a una rete di complicità mostruosamente efficiente e all'aperta connivenza del governo di Juan Domingo Perón. Un romanzo (Dossier Odessa) di Frederick Forsyth, raccontava di un gruppo di membri delle SS che dopo la sconfitta si erano raccolti in un'organizzazione segreta (Odessa, acronimo di Organisation der Ehemaligen SS-Angehorigen) che aveva il duplice scopo di salvare i commilitoni dalle forche degli Alleati e creare un Quarto Reich che completasse l'opera di Hitler. Per quanto romanzesca fosse la trama «inventata» da Forsyth, il suo racconto si avvicinava in modo inquietante alla realtà. Odessa esisteva davvero. Solo era difficilissimo ricostruirne la storia: i fascicoli del suo archivio erano stati distrutti in gran parte nel 1955, nel marasma degli ultimi giorni del governo di Perón; quelli che rimasero furono definitivamente buttati via nel 1996. Ma le tracce della sua attività erano troppo evidenti per essere cancellate del tutto. così ora, finalmente, grazie alla pazienza e all'abilità dello storico e giornalista argentino Uki Goñi (Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l'Argentina di Perón, Garzanti, pp. 480, e.24) e lunghe ricerche in Belgio, Svizzera, Londra, Stati Uniti, Argentina, disponiamo di una storia completa della più incredibile operazione di salvataggio di migliaia di criminali mai progettata e mai realizzata in tutto il Novecento.
Diciamolo subito. Se l'Argentina di Perón era la «terra promessa», l'asilo già generosamente predisposto ancor prima che la guerra finisse, il cuore e il cervello dell'intera operazione Odessa era a Roma (dove Perón soggiornò dal 1939 al 1941), nel cuore del Vaticano. In quel turbinoso dopoguerra italiano era veramente difficile distinguere tra vincitori e vinti. Nazisti e fascisti avevano perso la guerra; eppure mai ai vinti mancò il soccorso dei vincitori, il sostegno di quelle istituzioni che sarebbero dovute nascere all'insegna dell'antifascismo e della democrazia e che invece erano ricostruite nel segno della più rigorosa continuità con i vecchi apparati del regime fascista. Fu l'anticomunismo, furono le prime avvisaglie della «guerra fredda» a spingere i vincitori a salvare i vinti.
Il Vaticano fu il motore di questa scelta. Ma veramente monsignor Montini fu il protagonista di questo intervento che garantì l'incolumità a criminali come Erich Priebke, Josef Mengele, Adolf Eichmann ecc.? E veramente il Vaticano fu il crocevia di tutta una serie di iniziative che puntavano a rimettere in piedi il movimento ustascia di Ante Pavelic per organizzare una guerriglia anticomunista contro la Jugoslavia di Tito? Sì, veramente. Già nel 1947 i servizi segreti americani avevano stabilito che «una disamina dei registri di Ginevra inerenti tutti i passaporti concessi dalla Croce Rossa internazionale rivelerebbe fatti sorprendenti e incredibili». Oggi la disamina di quei registri è possibile e Goñi l'ha fatta. E le sue conclusioni sono nette: la Chiesa cattolica non fu solo un complice dell'«operazione Odessa» ma la sua protagonista indiscussa: oltre a monsignor Montini i suoi vertici furono i cardinali Eugène Tisserant e Antonio Caggiano (quest'ultimo, argentino, nel 1960 espresse pubblicamente - «bisogna perdonarlo» -, il suo rincrescimento per la cattura di Eichmann da parte degli israeliani), mentre la dimensione operativa fu curata da una pattuglia di alti prelati, il futuro cardinale genovese Siri, il vescovo austriaco Alois Hudal, parroco della chiesa di Santa Maria dell'Anima in via della Pace a Roma e guida spirituale della comunità tedesca in Italia, il sacerdote croato Krunoslav Draganovic, il vescovo argentino Augustín Barrère. 
I documenti citati da Goñi sono molti e molto convincenti, da una lettera del 31 agosto 1946 del vescovo Hudal a Perón che chiedeva di consentire l'ingresso in Argentina a «5 mila combattenti anticomunisti» (la richiesta numericamente più imponente emersa dagli archivi) all'intervento di Montini per esprimere all'ambasciatore argentino presso la Santa Sede l'interesse di Pio XII all'emigrazione «non solo di italiani» (giugno 1946). Non si tratta di iniziative estemporanee e certamente la loro rilevanza storiografica non può esaurirsi in una lettura puramente «spionistica».
Un versante della seconda guerra mondiale trascurato dagli storici è quello che vede gli Stati latini, cattolici e neutrali, europei e sudamericani, protagonisti di vicende diplomatiche segnate però da un particolare contesto culturale e ideologico: nella cattolicissima Argentina (la Vergine Maria fu nominata generale dell'esercito nel 1943, dopo il golpe dei militari) ci si cullò nell'illusione di poter formare insieme con la Spagna e il Vaticano una sorta di «triangolo della pace», per preservare «i valori spirituali della civiltà» fino a quando la guerra in Europa continuava. Un progetto più ambizioso puntava a unire, con la leadership del Vaticano, i paesi dell'Europa cattolica, Ungheria, Romania, Slovenia, Italia, Spagna, Portogallo e Francia di Vichy per integrarli nel «nuovo ordine europeo» voluto dai nazisti; in quel periodo (1942-1943), in Sud America governi filonazisti esistevano già in Argentina, Cile, Bolivia e Paraguay: il disegno era di conquistare a un'alleanza in chiave antiamericana anche il piccolo e democratico Uruguay e il grande e cattolico Brasile. Questi disegni naufragarono tutti sotto il peso delle rovinose sconfitte militari dell'Asse ma furono l'humus ideologica da cui nacque nel dopoguerra la rete di «Odessa».
La centrale italiana operò soprattutto per il salvataggio degli ustascia di Ante Pavelic. Alla fine della guerra ce n'erano migliaia, sparsi nei vari campi a Jesi, Fermo, Eboli, Salerno, Trani, Barletta, Riccione, Rimini ecc. Una poderosa ricerca ora avviata dal giovane storico Costantino Di Sante sta facendo luce su una delle pagine più oscure di quel periodo. Si trattava di criminali macchiatisi di delitti che avevano suscitato orrore perfino nei loro alleati nazisti (che biasimarono «gli istinti animaleschi» dei croati): fucilazioni di massa, bastonature a morte, decapitazioni, per conseguire il risultato di uno Stato (la Croazia) razzialmente puro e cattolico al 100%. Alla fine della guerra circa 700 mila persone erano morte nei campi di sterminio ustascia a Jasenovac e altrove: le vittime appartenevano soprattutto alla popolazione serba ortodossa ma nell'elenco figuravano anche moltissimi ebrei e zingari. Il principale teorico del regime croato, Ivo Gubernina, era un sacerdote cattolico romano che coniugava le nozioni di «purificazione» religiosa e «igiene razziale» con un appello affinché la Croazia «fosse ripulita da elementi estranei».
Gran parte di questi criminali si salvò passando da Roma verso l'Argentina: la via di fuga portava a San Girolamo, un monastero croato sito in via Tomacelli 132. Parlando del loro capo, Ante Pavelic, un rapporto dei servizi segreti americani concludeva: «Oggi, agli occhi del Vaticano, Pavelic è un cattolico militante, un uomo che ha sbagliato, ma che ha sbagliato lottando per il cattolicesimo. È per questo motivo che il Soggetto gode ora della protezione del Vaticano». Alla fine, tra il 1947 e il 1951, secondo i dati raccolti da Di Sante, furono 13 mila gli ustascia che riuscirono a salvarsi usando il canale italoargentino.

copyright © La Stampa

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Priebke e l'"Operazione Odessa"

(fonte: Liberazione, 14-15/3/2004)

Il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta di ritirare dal commercio il volume di Uki Goni "Operazione Odessa" (Garzanti). A chiedere il ritiro del libro era stato Erich Priebke, nel quadro di una ampia offensiva giudiziaria che ha visto di recente l'ex ufficiale nazista proporre numerose istanze contro editori di quotidiani, riviste e libri presso diversi tribunali italiani. Nella sua motivazione, il giudice De Sapia ha rivelato che il capitolo del libro dedicato a Priebke «si caratterizza per una prevalente connotazione critica, fondata sulla condanna del predetto in relazione ai fatti delle Fosse Ardeatine. La valutazione certamente negativa che traspare dal testo è sostanzialmente fondata su tale evento, che da solo giustifica le conclusioni adottate nello scritto, con particolare riferimento alla fuga in Argentina per sottrarsi alla giustizia, che rappresenta il motivo di fondo del volume».


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4 dicembre 2010

Il Dossier Draganovic

E’ storia nota dell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale in Italia, nonché del periodo immediatamente seguente alla fine delle ostilità: fra i principali organizzatori delle vie di fuga per criminali nazisti, fascisti e appartenenti al tristemente famoso corpo degli Ustascia


E’ storia nota dell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale in Italia, nonché del periodo immediatamente seguente alla fine delle ostilità: fra i principali organizzatori delle vie di fuga per criminali nazisti, fascisti e appartenenti al tristemente famoso corpo degli Ustascia di Ante Pavelic (il quale aveva, fra gli altri, il singolare hobby di collezionare occhi umani…!), oltre ad agenti dei servizi segreti nazisti come Walter Rauff, Franz Rostel, Dieter Kersten, vi erano diversi religiosi: monsignor Alois Hudal, guida della comunità dei cattolici tedeschi, che non nasconde le simpatie per il nazionalsocialismo; padre Glavas, fanatico ammiratore di Hitler e confessore dello stesso Pavelic, e Krunoslav Draganovic, sacerdote e fervente fautore dell’unificazione religiosa (e politica) in Bosnia e Croazia.
Krunoslav Stepan Draganovic nasce il 30 ottobre 1903 a Brcko, in Croazia, da Pietro Draganovic e Maria Franci. Frequenta le scuole elementari e medie a Travnik quindi studia teologia a Sarajevo (dove entra nelle grazie del vescovo di Sarajevo Ivan Saric) e Vienna, diventa professore all’università di Zagabria e trascorre diversi periodi a Roma, all’Istituto Pontificio di Studi Orientali. Dopo aver lavorato anche agli archivi vaticani, diventa segretario privato di monsignor Saric, fervente simpatizzante del movimento Ustascia, di idee antisemite, il quale, dopo la dichiarazione di indipendenza della Croazia, ha una parte di primo piano nella campagna di conversione religiosa forzata ed è costretto a lasciare il paese nella primavera del 1945, con lo stesso Pavelic, Andrija Artukovic e altri leader del movimento.
Padre Draganovic, in ragione della profonda amicizia che lo lega ai più importanti capi Ustascia, diventa egli stesso ufficiale del corpo scelto di Pavelic nonostante vestisse l’abito talare, e prende parte a diverse operazioni di pulizia etnica contro i serbi della regione di Kozara. Per l’impegno e lo zelo con cui presta servizio, diventa ufficiale superiore del ministero per la colonizzazione Interna e responsabile di aver ordinato molti omicidi ed espulsioni forzate di profughi serbi, ebrei, rom, per affidare poi i territori liberati alla popolazione croata, oltre a favorire l’espansione del Terzo Reich.
Nel 1943 è inviato a Roma come rappresentante della Croce Rossa croata, in realtà per allacciare contatti in Vaticano da parte dell’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac nella cerchia di papa Pio XII. Nel 1945 è segretario dell’Istituto croato presso il collegio di San Girolamo degli Illirici, al numero 7 di via Carlo Alberto, sotto la protezione di monsignor Jurai Magjerec, dove organizza i rifugi per i capi Ustascia in fuga, primo fra tutti Ante Pavelic.
Il documento del Dipartimento di Stato americano redatto in base al rapporto del 12 febbraio 1947, a firma dell’agente Robert Clayton Mudd, elenca diversi criminali Ustascia, collaborazionisti albanesi, montenegrini e croati, nascosti in San Girolamo. E’ lo stesso Draganovic ad accogliere Pavelic a Roma e a nasconderlo per circa due anni, fino alla partenza per l’Argentina.
Nell’estate 1947 il sacerdote è avvicinato da agenti del controspionaggio austriaco, i quali gli propongono di mettere la sua esperienza al servizio degli americani, come era successo per il tristemente famoso Klaus Barbie, capo della Gestapo a Lione. Pare che, per “conto terzi”, Draganovic abbia avuto parte di primo piano nell’organizzazione del movimento Krizari (crociati), ideale continuazione degli Ustascia, coinvolti in atti di terrorismo in Jugoslavia nel 1947, e nella sparizione dell’oro accumulato da Pavelic.
La fonte è un comunicato del governo jugoslavo ripreso dalla agenzia Tanjug e quindi dalla Associated Press il 12 luglio 1948, nel quale si parla di cinquanta uomini processati a Zagabria per spionaggio e terrorismo, indicati anche come “agenti del Vaticano”. Durante le udienze viene fatto ripetutamente il nome di Draganovic fra i principali organizzatori della missione Krizari.
Molto attivo il capitano Krilic, corriere segreto per conto di Pavelic e segretario personale di Draganovic a San Girolamo, tramite il quale sono organizzate spedizioni di gruppi di tre persone, detti "trojke", per organizzare sabotaggi in Jugoslavia, via Austria, i cui confini sono tenuti sotto controllo da Urban Drago, altro ex Ustascia, e da un certo dottor Stambuk, stretto collaboratore di Draganovic.
Sarebbero stati oltre novanta gli agenti sabotatori inviati in Jugoslavia, membri di un non identificato “comitato per lo Stato croato”, ma fonti vaticane smentiscono che Draganovic fosse coinvolto in un complotto, tanto meno collegato ad ambienti pontifici.
Costretto a lasciare San Girolamo nell’ottobre del 1958, è nuovamente contattato dalla CIA con una vera e propria offerta di impiego. Secondo documenti ufficiali, Draganovic è regolarmente registrato sul libro paga dell’esercito USA fino al 1962, e pare sia stato impiegato anche dall’Intelligence Service britannico, dal KGB e dal servizio informazioni jugoslavo.
Riappare in pubblico a Belgrado il 15 novembre 1967, in occasione di una conferenza stampa nella quale sorprende tutti e denuncia gli atti criminali degli Ustascia, elogiando senza mezzi termini Tito.
Fonti vicine al movimento Ustascia dicono poi che sia stato rapito, ma lo stesso Draganovic afferma di essere rientrato in Jugoslavia volontariamente. Nei fatti, Krunoslav Draganovic vive tranquillo senza essere perseguito, fino alla morte, avvenuta nel 1983 in un monastero vicino a Sarajevo.
Alcuni quindi sostengono l’esistenza di contatti in Vaticano nella protezione o, se non altro, nella tacita complicità, circa la copertura di criminali di guerra, fra i quali, oltre ad Ante Pavelic, figurano Stjepan Hefer, che raccoglie l’eredità di Pavelic alla guida del Movimento per la Liberazione della Croazia, e altri come Ljotic, Nedic, Save Radonic (ministro della Giustizia e uno capi separatisti del Montenegro). A tutti questi personaggi venivano forniti falsi documenti d’identità, denaro e collegamento con la Spagna. Pare che il fondo monetario a disposizione dell’organizzazione ammontasse a oltre 50 milioni di lire dell’epoca.
Dal collegio di San Girolamo passano Steve Vujovic ministro separatista del Montenegro; Lazar Soskic capo della polizia del Montenegro; Stevan Ivanic direttore dell’Istituto di Igiene di Belgrado; il ministro del commercio Valiljevic; Marisav Petrovic, colonnello delle SS bosniache; i fratelli Vrioni, membri del governo filonazista albanese; Jusuf Kosovac, sicario per conto della polizia politica del governo collaborazionista montenegrino e albanese, già condannato a 20 anni per omicidio prima della guerra; Isa Noljetinac, capo della polizia nel governo collaborazionista albanese e responsabile di oltre 200 omicidi fra la popolazione serba di Pristina; tale dottor Hefer, ministro del governo Pavelic; i generali Vilko Pecnikar e Eugen Kvarternik, e altri ancora compresi nelle liste dei servizi segreti alleati come ricercati per crimini contro l’umanità e complicità con il Terzo Reich.
Oltre che coordinare l’attività di accoglienza dei responsabili Ustascia in Italia, Draganovic prende contatti con diversi rappresentanti d’ambasciata di paesi sudamericani, e anche con la Croce Rossa Internazionale per ottenere falsi passaporti. Tutto questo dal proprio ufficio del collegio di San Girolamo, in collegamento con la commissione Pontificia per i Rifugiati diretta da padre Elias Ivica, con sede in via Piave a Roma, organismo ben visto dal movimento Ustascia.
Stringe contatti anche con circoli politici austriaci, specialmente con il clero cattolico e alcuni stretti collaboratori dell’ex canceliere Schusschnig, nel frattempo rifugiatosi con la famiglia, aiutato dello stesso Draganovic, nel monastero di Borgo Santo Spirito, territorio protetto dalla extraterritorialità. Schusschnig mantiene poi contatti con l’arcivescovo croato Saric grazie all’azione di padre Draganovic e alla protezione di un ex ufficiale Ustascia, tale Ivankovic. E’ in rapporti anche con il vescovo di Salisburgo, Steinbach, e con il delegato britannico Haman, dai quali riceve informazioni, viaggiando fra Austria e Italia come corriere, nonchè direttive per coordinare l’attività e riferire al capo, Ante Pavelic e all’ex ministro Farkovic. 
L’agente dei servizi americani William Gowen, membro dell’Unità 430, è assegnato al caso fra il 1949 e il 1955, e ha condotto una capillare opera di sorveglianza di Ante Pavelic, predisponendone l’arresto a Roma, ma viene poi bloccato per un intervento diretto dei propri superiori, i quali avevano contattato Draganovic in Austria per esaminare la possibilità di organizzare, con il suo aiuto la fuga di Klaus Barbie e dello stesso Pavelic, che dopo un periodo di clandestinità a Roma, viene fatto fuggire a Buenos Aires. Le prove dell’attività di Draganovic esposte dall’agente Gowen, parlano di almeno cinque organizzazioni religiose finanziate dagli Ustascia a Roma, specialmente sull’Aventino, con attività di copertura come negozi di alimentari, posteggi e garages pubblici, appartamenti privati. Le cinque organizzazioni sono: il monastero di Santa Sabina dell’ordine domenicano, la scuola di Sant’Alessio per gli studi romani, la locale sezione romana dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, l’ordine benedettino di Sant’Anselmo, e un convitto di monache. Alcune strutture, vicine le une alle altre, erano collegate da tunnel sotterranei.
Nei documenti, un certo colonnello W.R.Philips fa menzione anche di due operazioni segrete, denominate Rusty e Odeum, compiute fra il 1946 e il ’49 dai servizi americani, più precisamente dall’Unità 7821 dipendente dall’ECIC (European Command Intelligence Center) in collegamento con il DAD (Department of Army Detachment) e con l’EUCOM (European US-Army Command). 
Nel testo si parla della Commissione Superiore per la Germania, ma riguardo a questa e all’EUCOM mancano molti dossier, come alcune determinanti prove per ricostruire lo scopo delle due operazioni. La partecipazione dei servizi segreti tedeschi pare comunque certa, come afferma nelle proprie memorie Kurt Merck, che agisce nel campo del mercato nero in Francia per conto della Gestapo durante la seconda guerra mondiale e che, dopo la resa tedesca, entra in contatto con lo spionaggio americano, svolgendo missioni in Austria e Germania, specialmente intorno all’ottobre 1949. Merck, che muore il 5 settembre 1951, parla di Klaus Barbie come di un “buon amico” grazie al quale sono conclusi molti vantaggiosi affari.
Tornando all’attività di Draganovic in Italia, nel rapporto B-4240 dell’ottobre 1946 redatto dagli agenti speciali del CIC (Counter Intelligence Corp) Anthony Ragonetti e Louis Caniglia, Draganovic è indicato come il personaggio chiave degli affari segreti della chiesa croata a Roma, più influente anche del suo superiore nominale, padre Dominic Mandjc, e che una delle sue guardie del corpo sarebbe stato Ljubo Milos, ex ufficiale del campo di concentramento di Jasenovac, poi arrestato e in seguito diventato uno dei personaggi di primo piano nell’opposizione al maresciallo Tito, ovvero i già citati Crociati (Krizari) fino all’arresto effettuato dalle autorità jugoslave, che lo condannano a morte.
Un altro rapporto del giugno 1948 collegato all’affare Barbie, redatto da Paul Lyon e Charles Crawford, agenti dalla Sezione 430 del controspionaggio americano in Austria, fa riferimento alla “Rat-Line” nella quale sono coinvolti gli stessi servizi d’informazione dell’esercito americano e, naturalmente, padre Draganovic, in una mutua assistenza nel quadro della politica di denazificazione dell’Europa voluta dagli alleati nell’estate 1947. Nel rapporto si parla di come Klaus Barbie sia stato affidato alle attenzioni di Draganovic e favorito nel trasferimento in Sud America.
Sempre l’agente Paul Lyon firma un altro rapporto che prende spunto dalla richiesta del governo francese nel 1950 per ottenere l’estradizione del capo della Gestapo di Lione, il quale pareva fosse nascosto nella zona americana di Berlino e protetto dal 66°Dipartimento di Sicurezza e controspionaggio dell’esercito USA, al quale faceva capo la già citata sezione austriaca 430. Paul Lyon ricostruisce l’allestimento della “Rat-Line”in Italia e Austria dall’estate 1947, quando anche il governo sovietico fa ufficiale richiesta per la restituzione di criminali ricercati in URSS. Parte dei documenti forniti per il transito attraverso l’Austria e altri ancora per l’entrata in paesi sudamericani, erano forniti proprio dall’agente americano Crawford, per avere via libera verso i porti di Napoli e Genova.


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Krunoslav Draganovic

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Padre Krunoslav Stjepan Draganovic (

(english / italiano.

Sulle assoluzioni "politiche" del "tribunale ad hoc", sulla lettera di denuncia del giudice Harhoff e sul suo successivo "impeachment" si vedano anche:

Sul carattere para-legale, fazioso e illegittimo del "tribunale ad hoc" si veda anche la documentazione raccolta alle pagine:



In che direzione sta andando il Tribunale dell’Aja?


Scritto da Sense Agency

 L’Aja 11/07/2013

La Corte per il processo Gotovina


“Presunzione di infallibilità”,questa è la definizione che descrive i giudici in assenza di un’ulteriore istanza di appello alle loro sentenze, ma che non li dovrebbe proteggere dall’opinione pubblica preoccupata e critica nei loro confronti, che protesta contro il “nuovo corso” che stanno intraprendendo negli ultimi mesi presso il Tribunale dell’Aja e ad Arusha negli ultimi mesi.

Ha fatto scalpore la lettera del giudice Harhoff, che però fa passare in secondo piano lo sconcerto e le proteste contro la piega che sta assumendo il Tribunale dell’Aja, che sono state sollevate prima del 13 luglio 2013, data della pubblicazione della lettera, e che han avuto molta eco sui media danesi e poi nel resto del mondo.

Nelle battute di apertura della lettera che ha mandato a 56 fra amici e colleghi il 6 giugno, Harhoff fa riferimento a due recenti articoli, che “mettono a fuoco eventi che han causato molta preoccupazione sia per me che per i miei colleghi del tribunale”. Tenendo presente le date, possiamo presumere che si riferisse all’articolo intitolato “Cosa accade al tribunale dell’Aja” di Eric Gordy, pubblicato sul New York Times il 2 giugno e un post intitolato “Due sentenze sconcertanti all’Aja”, firmato da T.J. e pubblicato il 1° giugno sul sito dell’Economist.

Se avesse aspettato un altro giorno a mandare la lettera, avrebbe potuto citare un’altra fonte, cioè quella scritta dall’ex assistente al Segretario di Stato USA John Shattuck, un provato e fedele amico del Tribunale, che prese parte alla sua creazione. Nel suo articolo “Crimini di guerra insabbiati”, pubblicato il 7 giugno sul Boston Globe, Shattuck afferma che “se la maggioranza dei giudici dell’ ICTY fosse stata al processo di Norimberga, pochi, anzi pochissimi, capi nazisti sarebbero stati incriminati”.

Contrariamente a chi dice che il problema è stato ingigantito dal giudice “talpa”, piuttosto che dal presunto cambiamento di corso che lo stesso poneva all’attenzione, non è stato il giudice Harnoff a introdurre al pubblico dibattito i recenti sviluppi del tribunale. Negli ultimi mesi, centinaia, se non migliaia di articoli e analisi sono stati pubblicati sulla direzione intrapresa dal Tribunale. Sono stati più severi della lettera di Harnoff.  Sono state firmate petizioni, richieste inchieste, chieste dimissioni senza che ciò abbia portato a dei risultati. Nemmeno uno dei pezzi grossi del Tribunale ha prestato attenzione a tutto ciò. “Sarà dimenticato”, hanno detto. Tuttavia non lo è.

Il dibattito su quanto accaduto fu lanciato lo scorso novembre, dopo la prima controversa sentenza che assolse i generali croati Gotovina e Markac grazie ad una maggioranza risicata di voti (3 contro 2). Le prime “salve” del dibattito furono sparate dai giudici Pocar e Angius, che non han tenuto toni moderati nell’esprimere la loro opinione contraria. Hanno definito la ricerca della maggioranza (giudici Meron, Robinson, Guney) come “semplicemente grottesca” e “in contraddizione con ogni senso di giustizia”, hanno poi affermato con schiettezza che la maggioranza è stata guidata da motivi differenti da quelli che concernono la tutela della legalità.

Il dibattito è proseguito ininterrotto, per divenire sempre più acceso dopo l’assoluzione del generale dell’esercito jugoslavo Perisic, fino ad infiammarsi dopo l’assoluzione dei capi dei servizi segreti serbi Stanisic e Simatovic. Si sono visti simili sviluppi al Tribunale del Rwanda che ha in comune le camere d’appello, e che è stato oggetto di polemiche e proteste sul nuovo corso assunto dopo le recenti sentenze.

Sta agli esperti di diritto internazionale, che si stanno occupando del caso dallo scorso novembre, analizzare e capire se il Tribunale sta veramente prendendo un nuovo indirizzo, chi ne trarrà beneficio e che impatto vi sarà per la giurisprudenza. In questa sede vogliamo solamente porre in rilievo alcuni casi lampanti, circa il volta faccia della giurisprudenza del tribunale dell’Aja e di Arusha. I fatti indicano che vi sono cose che non vanno.

Nel giro di un ristretto lasso di tempo pari a tre mesi e mezzo, dalla metà di novembre 2012 alla fine di febbraio del 2013, la camera di appello del Tribunale dell’Aja e di Arusha, guidato dal giudice Meron, ha cassato a colpi di maggioranza tre sentenze di condanna di cinque alti ufficiali militari e civili che erano stati condotti in giudizio per gravi violazioni dei diritto internazionale umanitario della Ex Jugoslavia e in Rwanda.

I tre processi sono durati complessivamente nove anni, con 900 sedute di tribunale. La corte ha dato udienza a 453 testimoni e ha esaminato migliaia di prove. La sentenza che ha stabilito che le responsabilità riportate dall’accusa erano state provate al di la di ogni ragionevole dubbio, così come indicato nelle motivazioni della sentenza lunghe 2608 pagine: 1377 pagine per Gotovina e Markac, 595 pagine per Mugenizi e Muginareza e 636 pagine per Perisic. I cinque accusati sono stati condannati a 24 anni (Gotovina), 18 anni (Markac), 30 anni (Mugenizi), 30 anni (Muginareza) e 27 anni (Perisic): totale 129 anni.

Successivamente, nel procedimento di appello, fu trovato che tutto ciò fu sbagliato e gli accusati sono stati prosciolti da tutte le accuse. Le sentenze di appello hanno rispettivamente 56, 55 e 49 pagine, e sono tra le sentenze più corte della storia. Alcuni giudici le hanno beffardamente commentate come “sentenze da rotocalco”.

Può esser vero che, come per le altre cose della vita, “non è la lunghezza ciò che conta”. Però a tutto c’è un limite. Per esempio, la sentenza d’appello del caso contro Florence Hartmann è lunga quanto quella di Gotovina e Markac. Nel caso di lei il procedimento di appello durò 22 mesi, tre mesi in più del caso contro i generali croati. Forse la camera d’appello ci mise più tempo data la natura peculiare del caso, dove la camera d’appello giocava tre ruoli: quella della presunta parte lesa, di procuratore e di giudicante. Forse è questo il motivo per cui ebbero bisogno di più tempo per scrivere e motivare la sentenza rispetto al caso dei due generali croati accusati di crimini di guerra contro civili Serbi durante l’operazione Storm nell’estate del 1995. Vogliamo semplicemente ricordare che il crimine della Hartmann fu quello di pubblicare il fatto che la Corte d’Appello di un tribunale che è sotto l’egida delle Nazioni Unite classificava come riservati una serie di documenti prodotti dal Consiglio Supremo di Difesa della Repubblica di Jugoslavia, rendendo per quest’ultimi impossibile l’utilizzo dinanzi ad un’altra corte delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, nel caso portato avanti dalla Bosnia Erzegovina contro la Serbia.

Torniamo ora alle sentenze cassate dai tribunali dell’Aja e di Arusha. Una domanda sorge spontanea: com’è possibile per nove giudici di tre collegi (per la precisione otto, perché un giudice voleva assolvere Perisic già in primo grado), com’è possibile per otto giudici di rango internazionale, commettere un così grave errore e condannare cinque innocenti per un totale di 129 anni? Come è possibile dopo che han speso ben 900 giorni di udienze ascoltando centinaia di testimoni e studiando migliaia di prove? Com’è possibile dopo che han speso milioni di dollari di tasse di contribuenti di tutto il mondo? Solo per la camera d’appello si può sommariamente concludere che gli sforzi e le conclusioni dei giudici di primo grado non valgono nemmeno la carta su cui sono stati scritti?

E’ possibile che i giudici di primo grado dei tribunali dell’Aja e di Arusha, siano così privi di integrità e professionalità, così da poter scartare così alla leggera le lo ricostruzioni e le loro conclusioni? Chi ha dato loro l’incarico di giudici di livello internazionale, se davvero sono così inetti? Chi ha stabilito che loro avessero i requisiti previsti all’Articolo 13 dello Statuto, che stipula che “i giudici devono essere persone di alto valore morale, imparziali e integerrimi e devono avere i requisiti previsti nei loro paesi per poter esercitare il ruolo di giudice”? Chi di loro può ricoprire alti ruoli nella magistratura del proprio paese se poi le sue sentenze vengono fatte a pezzi in appello? Chi assegnerà loro nuovi casi, nuovi processi a giudici di così bassa reputazione? E per quale motivo? Per vederli umiliati un’altra volta in appello?

E’ possibile che vi sia una così alta differenza in termini di qualità, professionalità, integrità e temperamento tra i giudici di primo grado e di appello? Dopo tutto, fatta eccezione per una sentenza di condanna che fu revisionata dopo la sentenza d’appello, le sentenze della camera d’appello non vengono né revisionate né cassate. Se questo è dovuto all’infallibilità dei giudici d’appello o alla mancanza di un’istanza superiore, questo è ancora da chiarire. In assenza di ulteriore grado, i loro rilievi e le loro conclusioni sono protetti dalla “presunzione di infallibilità”.

Tuttavia, la “presunzione di infallibilità”, non deve essere per loro uno scudo che li metta al riparo da critiche e proteste contro “il nuovo indirizzo” che hanno progettato per il Tribunale dell’Aja e di Arusha.

 

Fonte: Sense Agency

Traduzione di Pacifico S. per Forum Belgrado Italia

 

 
 

THE HAGUE | 11.07.2013.

WHERE IS THE TRIBUNAL HEADING FOR?

Appellate judges at the Gotovina trial

 

“Presumption of infallibility”, enjoyed by the appellate judges in the absence of a higher instance for the review of their judgments, should not shield them against public expressions of concern, criticism and protests against the ‘new course’ that they have plotted for the Tribunals in The Hague and in Arusha over the past few months

In a major upheaval following Judge Harhoff’s letter one tends to overlook the fact that public expressions of concern, criticism and protests against the Tribunal’s‘new course’ had been voiced long before 13 June 2013, when the letter was published, first in the Danish media and then worldwide.

In the opening lines of the letter that he sent to 56 of his friends and colleagues on 6 June, Harhoff refers to two recent articles, which ‘focus on events that cause deep concern both for me and for my colleagues here in the corridors of the the Tribunal'. Bearing in mind the dates, we can assume that he means the article entitled ‘What Happened to the Hague Tribunal’, an op-ed piece by Eric Gordy, published in the New York Times on 2 June and the blog post, ‘Two Puzzling Judgments in The Hague’, signed by T.J. and published on 1 June on the Economist’s website.

Had he waited for just one more day to send his letter, Judge Harhoff could have included another reference, the one to the piece written by former US Assistant Secretary of the State John Shattuck, a tried and tested friend of the Tribunal, who had taken part in its establishment. In his article ‘War Crimes Whitewash’, published on 7 June in the Boston Globe, Shattuck says that ‘if the ICTY majority had been sitting at Nuremberg, few, if any, Nazi leaders would have been convicted’.

Contrary to the claims made by those who believe that the problem lies with the first whistleblower judge rather than the change of the course he points to,it was not Judge Harhoff who launched the public debate about the recent developments at the Tribunal. Over the past few months, hundreds, if not thousands of critical articles and analyses on the Tribunal’s new course have been published. They were much harsher than Harhoff’s letter. Petitions have been signed, investigations called for, resignations demanded… yet to no avail. None of the top brass at the Tribunal has paid any attention to all that. ‘It will blow over’, they were saying. However, it has not.

The debate on what happens with the Tribunal was launched last November, after the first controversial judgment that acquitted Croatian generals Gotovina and Markač by a tight majority of votes (3:2). The initial salvoes in the debate were fired by judges Pocar and Agius, who did not mince their words in their dissenting opinions. They labeled the findings of the majority (judges Meron, Robinson and Güney) ‘simply grotesque’ and ‘contradict[ing] any sense of justice’, bluntly suggesting that the majority could have been guided by motives other than legal.

The debate has continued unabated, only to get more agitated after the acquittal of the former Chief of the VJ General Staff, Perišić, and to reach its boiling point with the acquittal of the former heads of the Serbian Secret Service, Stanišić and Simatović. There have been similar developments at the Rwanda Tribunal that shares both the Appeals Chamber as well as the concern and protests over the new course assumed following recent judgments.

It is up to the international law experts, who have been dealing with the issue since last November, to provide critical analysis in order to see whether the Tribunal indeed took a new course, who will benefit from it and what will be the impact of this new course on the Tribunal’s legal legacy. Here, we will merely highlight some glaring, easy to see facts, about the ‘volte-face’ in the jurisprudence of the Tribunals in The Hague and in Arusha. These facts indicate that there is something wrong with this picture.

In a short span of only three and a half months from mid-November 2012 to late February 2013, the Appeals Chambers of the Tribunals in The Hague and Arusha, led by Judge Meron, quashed by a majority vote three judgments convicting five high military and civilian officials who had been on trial for serious violations of international humanitarian law in the former Yugoslavia and Rwanda.

The three trials lasted for a combined total of nine years, or 900 trial days. The trial chambers heard a total of 453 witnesses and admitted into evidence thousands of exhibits. The trial judgments that found that the guilt of the accused had been proven beyond reasonable doubt, extended to a total of 2608 pages: 1377 pages for Gotovina and Markač, 595 pages for Mugenizi and Muginareza and 636 for pages Perišić. The five accused were convicted and sentenced to 24 years (Gotovina), 18 years (Markač), 30 years (Mugenizi), 30 years (Muginareza) and 27 years (Perišić): a total of 129 years.

And then, in the appellate proceedings, it was found that all this was erroneous and the accused were acquitted of all charges. The appellate judgments have 56, 55, and 49 pages respectively, and are among the thinnest judgments in the history of both tribunals (not only in volume). Some judges sneeringly describe them as ‘magazine judgments’.

It might well be true, just as for some other things in life, that it is not the ‘size that matters’ for appelate judgements. However, there should be a limit. For instance, the appellate judgment in the case against Florence Hartmann is as long as the Gotovina and Markač appellate judgment. In her case, the appellate proceedings took 22 months, three months longer than in the case against the Croatian generals. Perhaps the Appeals Chamber took more time to deal with it because of the peculiar nature of the case, where the Appeals Chamber played the triple role: that of an alleged injured party, the prosecutor and the trier. Perhaps that is why they needed more time to deliberate and produced a longer statement of reasons than in the case of the two generals charged with the war crimes against Serb civilians during and after Operation Storm in the summer of 1995. Let us justremind here that Hartmann’s ‘crime’ was to publish the fact that the Appeals Chamber of a UN court granted confidentiality to a set of documents produced by the Supreme Defense Council of the Federal Republic of Yugoslavia, thus making it impossible for them to be used before another UN court, the ICJ, in the case brought by Bosnia and Herzegovina against Serbia.

Let us go back to the quashed judgments of the Tribunals in The Hague and in Arusha. They beg the question: how is it possible for nine judges in three trial chambers (or, in fact eight, since one of the judges wanted to acquit Perišić at trial), so, how is it possible for eight professional international judges, to make such a grave mistake and put away five innocent generals and ministers for a total of 129 years? How is all of that possible after they had spent a total of 900 trial days hearing hundreds of witnesses and studying thousands of exhibits? How is it possible after they had spent untold millions of dollars of taxpayers’ money from all over the world? Only for the majority in the Appeals Chamber to summarily conclude that the efforts and the conclusions of the trial judges were worthless, not worth the paper they were printed on?

Is it possible that the members of the trial chambers of the two Tribunals, in The Hague and in Arusha, are so lacking in professionalism and integrity, that their findings and conclusions can be set aside so lightly? Who has appointed them as international judges, if they are really so inept? Were they appointed after they had pulled some strings ? Who looked at them and made a decision that they met the criteria set in Article 13 of the Statute, stipulating that ‘[t]he judges shall be persons of high moral character, impartiality and integrity who possess the qualifications required in their respective countries for appointment to the highest judicial offices’? What highest judicial office could be held by the judges whose judgments were so drastically torn to pieces on appeal? Who kept assigning new cases and new trials to the same judges who brought their profession into disrepute? Why? So that they could be humiliated on appeal again?

Is it possible that there is such a world of difference in terms of quality, professionalism, integrity and judicial temperament between the judges in the trial and appeals chambers? After all, with the exception of a single prison sentence that was revised following the appellate judgment, the appellate judgments still stand, unrevised and unquashed. Whether this is due to the infallibility of the appellate judges or to the lack of a higher instance for the review of their findings and conclusions… is an open question. In the absence of this higher instance, their findings and conclusions are protected by the “presumption of infallibility”.

However, the “presumtion of infallibility” should not shield them from public expressions of concern, criticism and protests against the ‘new course’ that they have plotted for the Tribunals in The Hague and Arusha.

 

Da Sense Agency