Informazione


Noi le "fake news" le chiamiamo "disinformazione strategica"

1) Una commissione sulle Fake News? Cominciamo da quelle che hanno provocato guerre (SibiaLiria)
2) Intervista a Michel Collon: Guerra e disinformazione, “così i governi hanno manipolato gli attentati”


Una sintesi sull'impiego delle "fake news" come arma di guerra nel caso jugoslavo è l'articolo
GUERRA E DISINFORMAZIONE STRATEGICA di Andrea Martocchia
(Intervento al convegno TARGET, Vicenza 21/3/2009)


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Una commissione sulle Fake News? Cominciamo da quelle che hanno provocato guerre


Sulla scia di quanto accade negli USA, impazza anche in Italia la paranoia su fake news, diffuse da orde di “trolls di Putin” per avvelenare la Democrazia e inquinare le campagne elettorali ed è di questi giorni la proposta di Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd, di istituire una Commissione parlamentare dedicata allo studio di questa presunta “minaccia”. Continua invece la negligenza nei confronti delle fake news che causano guerre:

Alla proposta di Fiano ha risposto Vito Petrocelli, (Movimento Cinque Stelle) presidente della Commissione Affari Esteri del Senato:

Il Pd vuole una commissione d’inchiesta sulle fake news? Bene. Anzi benissimo, ma partiamo da tutte quelle informazioni false che hanno permesso, avallato e giustificato le tante guerre neo-coloniali degli ultimi anni. Mi viene da sorridere a pensare che a chiedere quest'inchiesta siano gli stessi partiti che hanno preso per vere le bufale storiche come le armi di distruzione di massa in Iraq o il viagra che Gheddafi avrebbe dato alle sue truppe per violentare le bambine. Queste fake news, tra le centinaia che si potrebbero citare e per decine di paesi, sono state usate per giustificare invasioni criminali e distruzione di interi popoli che hanno causato milioni tra morti e profughi. Ben venga l’introduzione della commissione d'inchiesta parlamentare se questa inizierà i suoi lavori indagando sul nefasto ruolo giocato dai media nelle ultime guerre. È un dovere storico, etico e politico nei confronti di popoli amici e fraterni con cui abbiamo un debito morale da ripagare.”

Sibialiria, nata proprio per contrastare la montagna di menzogne guerrafondaie  cercando un po’ di verità si augura che alle parole seguano fatti. E poiché ha studiato approfonditamente molti casi, è a disposizione dei parlamentari della futura Commissione.

 

La Redazione di Sibialiria


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Guerra e disinformazione, “così i governi hanno manipolato gli attentati”


di Stefano Mauro, 2 giugno 2018

Intervista a Michel Collon. “Una guerra di aggressione non può che fondarsi sulle menzogne (Iraq, Siria, ndr) di conseguenza il principale obiettivo dei governi è creare disinformazione per ottenere quel consenso che altrimenti non ci sarebbe tra l’opinione pubblica” così afferma a il manifesto  Michel Collon, attivista, scrittore e giornalista belga, autore del libro Je suis ou je ne suis pas Charlie? tradotto in italiano con il titolo Effetto boomerang, Zambon editoreFondatore del collettivo Investig Action, Collon è specializzato nell’analisi della “disinformazione mediatica” su argomenti quali il fenomeno jihadista in Francia e Belgio o sull’analisi dei conflitti di questi anni dal Medio Oriente all’Africa.

Cosa pensa della libertà di informazione in Europa o in Francia oggi, c’è stato un cambiamento dopo l’attacco a Charlie Hebdo nel 2015?

Per quello che conosco bene, la Francia ed il Belgio, penso che gli attentati di gennaio (Charlie) e novembre 2015 (Bataclan) siano stati manipolati dai governi. Avrebbero dovuto promuovere un dibattito per comprendere meglio le cause, analizzare le responsabilità degli USA, della Francia e dei loro alleati come  ho fatto nel libro Je suis ou je ne suis pas Charlie?. Al contrario governo e stampa mainstream hanno preferito nascondere le loro responsabilità, terrorizzando la popolazione, disinformando sul loro sostegno per le guerre in Libia e Siria, vietando dibattiti in televisione, richiedendo ai musulmani di “rinnegare” gli attentati come se fossero stati loro i responsabili, e non Washington e Parigi.

Cosa intende nel suo libro per due pesi e due misure nella lotta contro lo jihadismo visto che da una parte lo si combatte e dall’altra l’Europa fa accordi con Arabia Saudita e Qatar, principali sponsor dei gruppi jihadisti?

Questo meriterebbe, in effetti, il premio Nobel dell’ipocrisia. Non solo perché Arabia Saudita e Qatar sono i finanziatori locali, ma perché tutta l’operazione sull’“eurojihadismo“ è stata voluta da Obama ed Hillary Clinton. Il governo americano aveva paura, dopo i disastri di Bush in Iraq e Afganistan, di impegnare altre truppe USA in Libia o in Siria con ulteriori perdite. Washington così  ha siglato un’alleanza con un ramo di Al Qaida in Libia ed in Siria, affermazioni validate grazie  alle fonti citate nel libro (Ammiraglio Stavridis comandante NATO in Libia e agenti dei servizi segreti francesi, ndr). La stessa CIA ha addestrato e fornito armi a questi “ribelli” nei campi di addestramento in Giordania. In Siria, come fece Zbigniew Brzezinski (CIA, ndr)  in Afganistan nel 1979, Washington ha reclutato e addestrato una milizia con persone provenienti da 40 differenti paesi con l’obiettivo di rovesciare il governo di Assad. Una simile modalità è stata utilizzata in Bosnia, Kosovo ed altre aree per evitare un intervento diretto. Questo terrorismo non mi sembra “made in Islam”, ma soprattutto “made in USA”.

Qual è la sua idea riguardo agli attentati in Europa, perché un gran numero di attentati  in Francia e Belgio? 

La crisi economica europea ha provocato un “eccesso” di manodopera: i giovani dei quartieri popolari, a Parigi come Bruxelles, ricevono ormai da anni un’educazione di bassa qualità, sono discriminati sul lavoro, nella vita quotidiana e dalla polizia. Il messaggio dell’economia capitalista nei loro confronti è chiaro: non ci interessa la vostra opinione su Israele o sul conflitto in Iraq, non abbiamo bisogno di voi, non siete dei veri cittadini, ma solo manodopera precaria. Questo “no future” ha creato nelle giovani generazioni una disperazione che si esprime bruciando auto, raggiungendo organizzazioni fasciste o lo stesso Daesh.

Cosa si può fare per combattere il fenomeno del jihadismo in Europa, Francia e Belgio in particolare?

Fare esattamente l’inverso della  politica governativa che ho descritto. Diminuire radicalmente il tempo di lavoro per creare maggiori opportunità occupazionali, eliminare le discriminazioni razziste ad ogni livello, mettere fine alla censura nei media  e promuovere un reale dibattito su temi sensibili: Israele, petrolio, guerre in Medio Oriente ed in  Africa. Combattere la militarizzazione e l’utilizzo di denaro per la produzione e l’acquisto di armi. Non si combatte la disperazione con i missili, ma con la  giustizia sociale.  È  tempo di smettere di sostenere in Medio Oriente  le monarchie retrograde e violente ed è ora di rispettare la sovranità dei diversi paesi per permettere loro di utilizzare le ricchezze nazionali per i loro popoli come hanno fatto Chavez, Morales e Correa in passato. È tempo di mettere fine al colonialismo d’Israele con la sua apartheid e la sua pulizia etnica, come è tempo di rispettare il diritto internazionale per scongiurare nuovi conflitti. Evidentemente le elites economiche non faranno niente di tutto ciò perché va contro i loro interessi economici e solo una mobilitazione popolare, partendo da una corretta informazione, potrebbe cambiare questo.

Dopo diversi mesi si parla poco di Daesh, le politiche di Macron sono efficaci per contrastare il fenomeno jihadista in Francia?

Daesh  è stato sconfitto non da Washington e Parigi, ma dall’alleanza Siria – Hezbollah – Russia anche se la sua minaccia è diminuita, ma è tuttora presente soprattutto in Francia.   È  stato Putin che ha contrastato  le ingerenze occidentali e cambiato radicalmente il rapporto di forze sul terreno. Questa inversione negli ultimi anni è stato un cambiamento di portata storica, l’ascesa dell’asse Pechino-Mosca  ha fatto in modo che il periodo in cui un’unica superpotenza si poteva permettere di provocare tutte le guerre che voleva è, forse, finito. La crisi economica, politica e morale, la diminuzione del dominio militare, la perdita dell’egemonia sull’informazione e tutto il sistema capitalista e globale sono in difficoltà. Le stesse forze alternative sono in crisi visto che molte formazioni  di sinistra mantengono una visione colonialista, arrogante nei confronti dei popoli del Sud e sostengono le campagne militari e l’informazione mediatica falsa.

Qual è il livello di censura nella stampa europea riguardo alla situazione attuale in Medio Oriente?

Viviamo in un periodo di «propaganda di guerra» dove l’informazione è monopolizzata dalle multinazionali e dai loro governi, qualsiasi forma di informazione differente passa sotto silenzio o viene ridicolizzata. I media indipendenti su Internet vengono spesso denigrati e censurati. Macron e l’UE preparano una legge contro le fake news, google e facebook collaborano con l’informazione mainstream e paradossalmente quelli che producono le fake news si mettono a combatterle. In Francia come in Belgio è inquietante il clima di terrore intellettuale dove si calunniano e ridicolizzano quelli che cercano la verità dei fatti e che ascoltano tutte le parti in conflitto.

Senza una mobilitazione popolare per esigere la libertà di dibattito, per proteggere e sostenere i giornalisti indipendenti andiamo verso un nuovo maccartismo: una massiccia azione di intimidazione e indottrinamento sociale e culturale. La guerra militare è sostenuta dalla guerra psicologica che le è fondamentale per supportarla e per creare consenso nell’opinione pubblica. Quando le persone conoscono le vere cause delle guerre ne chiedono anche la loro fine come è avvenuto in passato in Vietnam. Una guerra di aggressione non può che fondarsi sulle menzogne (Iraq, Siria, ndr) di conseguenza il principale obiettivo dei governi e delle multinazionali è creare disinformazione tra la popolazione,  attraverso i media mainstream, per ottenere quel consenso che altrimenti non ci sarebbe, da qui l’esigenza di creare una controinformazione indipendente e internazionalmente coordinata in Francia come in Italia. (l’intervista è stata pubblicata anche su Il manifesto di mercoledi 30 maggio)




(english / srpskohrvatski / italiano)
 
Anche Israele festeggia l'anniversario della pulizia etnica delle Krajine
 
1) Serbia angered as Israeli fighter jets fly in Croatian victory parade
[Caccia israeliani partecipano, al fianco di quelli croati, alla parata per il 23 anni della pulizia etnica delle Krajne]
2) "Srbija razočarana učešćem izraelskih aviona u Kninu"
3) Operazione Tempesta: dopo 23 anni ancora battaglia (N. Corritore / OBC – stralcio)
 
D'altronde, "a Zagabria, già nel settembre 1992 la comunità ebraica festeggiava, con la partecipazione formale ed i fondi elargiti dal regime fascista di Tudjman, la riapertura del Centro Ebraico…" – si veda: Israele e Jugoslavia (di A. Martocchia) nella rassegna JUGOINFO "Sionismo e Fascismo" del 29 luglio 2014
 
 
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Serbia angered as Israeli fighter jets fly in Croatian victory parade
Israel said to be first foreign nation to celebrate 1995 Operation Storm; Belgrade 'deeply disappointed' at Jewish state for feting 'pogrom'

By RAPHAEL AHREN
5 August 2018
 
[PHOTO: An Israeli and a Croatian pilot pose together in a video released by the Croatian Ministry of Defense on August 4, 2018 (YouTube screenshot)] 
 

Israel’s military stirred up a storm by participating in a military parade Sunday to celebrate the Croatian victory in a battle against Serbia, The Times of Israel has learned.

The fact that Israeli fighter jets and their pilots actively took part in a parade to celebrate the 1995 “Operation Storm,” which killed hundreds and displaced hundreds of thousands, triggered harsh criticism from Belgrade.

“Serbia is deeply disappointed about the participation of Israeli pilots and fighter jets today, because for us Operation Storm in 1995 was a kind of pogrom,” the country’s ambassador to Israel, Milutin Stanojevic, told The Times of Israel on Sunday morning.

Almost the entire Serb population of the area was removed from their homes by military force during the operation.
 

“It was the biggest exodus of a nation since the Second World War,” Stanojevic said, adding that Israel’s participation in Croatia’s victory celebration “is not a friendly gesture toward Serbia.”

On Sunday, Croatian media showed photos of at least two Israeli F-16s flying over the city of Knin, between Zagreb and Split, together with Croatian MiG-21s.

According to a Croatian website, Brigadier General (Ret.) Mishel Ben Baruch, who heads the defense ministry’s International Defense Cooperation Directorate, said it was “an honor to be able to participate” in the 23rd anniversary of Operation Storm.

Israel is the first foreign country to actively participate in Croatia’s annual parade to celebrate Operation Storm, the ambassador said.

However, Croatian media reported Sunday that US officials also attended this year’s celebration of Victory and Homeland Thanksgiving Day and Veterans Day at Knin.

“For the Croatian side, maybe these are days of triumph, but for the Serbian side these are days of mourning,” Stanojevic added. “We mourn the exodus. More than 2,500 people died. The resting place of many is not known. More than 250,000 people fled Croatia, mostly civilians. This is not the time or the place where another country should be involved.”

The exact number of the dead and displaced is a matter of dispute.

While Croatia hailed the offensive as a flawless military victory that reunited the country’s territory and ended the war, Serbia mourned the victims of the attack. Serbian President Aleksandar Vucic told a gathering late Saturday that “Hitler wanted a world without Jews; Croatia and its policy wanted a Croatia without Serbs.”

The participation of three Israeli F-16 Barak jets is taking place against a backdrop of Israeli-Croatian arms deals worth half a billion dollars. In January, Prime Minister Benjamin Netanyahu and Croatian Prime Minister Andrej Plenkovic announced their plans to move forward with the sale of about 30 Israeli F-16s to Croatia.

The deal is expected to be completed by 2020.

The Foreign Ministry in Jerusalem declined to comment.

The IDF defended its participation in the event, saying in a statement that the jets were deployed in Croatia as part of a military cooperation arrangement, and that participating in the event was part of that “strategic cooperation between both countries.” The statement also noted the impending Israeli-Croatian arms deal.

President Reuven Rivlin visited both Zagreb and Belgrade last week, stressing Israel’s good ties with both nations.

“Croatia and Israel are small countries but full of energy,” he said at a July 24 defense conference in Zagreb, according to the website of Croatia’s defense ministry.

“We wish to continue developing defense industry and this is the right opportunity to see the state-of-the-art technology offered by our country,” he added.

Croatian Defense Minister Damir Krstičević said at the conference that Croatia and Israel “share similar experiences of hard-won independence and are therefore aware of the importance of maintaining the readiness of the national states for new security threats.”

 
The Associated Press contributed to this report.
 
 
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"Srbija razočarana učešćem izraelskih aviona u Kninu"

NEDELJA, 05. AVG 2018
 
Ambasador Srbije u Izraelu Milutin Stanojević kaže da je Srbija duboko razočarana zbog učešća izraelskih pilota i borbenih aviona u obeležavanju operacije "Oluja" u Hrvatskoj. Zurof poručuje da je uznemiren zbog preleta izraelskih F-16 u Kninu. Ambasada Izraela u Beogradu poručuje da učešće izraelskih aviona nema nikakve političke elemente, već da je povezano sa ugovorom o kupoprodaji aviona koji je ta zemlja sklopila sa Hrvatskom.
 
Učešće Izraela u proslavi hrvatske pobede "nije prijateljski gest prema Srbiji", rekao je ambasador Srbije Milutin Stanojević za Tajms of Izrael.

"Srbija je duboko razočarana time zbog toga što je za nas operacija 'Oluja' iz 1995. bila vrsta pogroma. To je bio najveći egzodus jedne nacije od Drugog svetskog rata", rekao je Stanojević.

Dodao je da su ti dani možda za hrvatsku stranu dani trijumfa, ali da su za srpsku stranu to dani žalosti.

"Mi žalimo zbog egzodusa. Više od 2.500 ljudi je izgubilo život. Za mnoge od njih se ne zna gde počivaju. Više od 250.000 ljudi je pobeglo iz Hrvatske, mahom civila. Ovo nije vreme ni mesto gde bi neka druga zemlja trebalo da učestvuje", rekao je ambasador Stanojević.

Izraelsko ministarstvo spoljnih poslova u Jerusalimu odbilo je da komentariše učešće dva izraelska F-16 u preletu borbenih aviona u Kninu.

Kako navodi Tajms of Izrael, izraelske oružane snage su u saopštenju "branile" svoje učešće u događaju, navodeći da su borbeni avioni u Hrvatskoj raspoređeni u okviru sporazuma o vojnoj saradnji i da je njihovo učešće deo "strateške saradnje između dve zemlje".

List navodi i da su izraelska i hrvatska vojska sklopili ugovor o kupovini aviona vredan pola milijarde dolara.

"Avioni u Kninu zbog kupoprodajnog ugovora"

U međuvremenu, izraelska ambasada u Beogradu saopštila je da učešće izraelskih aviona u obeležavanju operacije "Oluja" u Kninu nema nikakve političke elemente i da je u isključivoj vezi sa ugovorom kojim je Hrvatska od Izraela kupila avione F-16.

"Hrvatska je kupila avione F-16 od Izraela, a njihovo učešće je u isključivoj vezi sa ovim kupoprodajnim ugovorom.. Ono nema nikakve političke elemente niti bilo kakve veze sa istorijskim odnosima između Srbije i Hrvatske", ističe se u saopštenju izdatom, kako se navodi, "povodom aktuelnih dešavanja tokom obeležavanja vojne operacije 'Oluja' u Kninu i učešća izraelske delegacije".

Kako se dodaje, Izrael izuzetno ceni prijateljstvo sa Srbijom i nije došlo do promene izraelske politike prema Srbiji, za šta je dokaz zvanična poseta predsednika Rivlina pre dve nedelje.

"Tokom posete, predsednik je bio duboko dirnut, ukazavši na snažne veze i prijateljstvo sa Srbijom. Predsednik je takođe izrazio jasan stav kada je reč o sećanju na prošlost", napominje se u saopštenju.

U tom smislu, čvrsto prijateljstvo koje postoji između Izraela i Srbije nikada i ni na koji način neće biti ugroženo, istakla je izraelska ambasada.

 
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Zurof uznemiren zbog učešća izraelskih aviona

I direktor Centra kancelarije "Simon Vizental" u Jerusalimu i lovac na naciste Efraim Zurof kritikovao je učešće izraelskih borbenih aviona u obeležavanju operacije "Oluja" u Hrvatskoj.

"Vrlo sam uznemiren što će borbeni avioni izraelskih vazduhoplovnih snaga učestvovati u obeležavanju operacije 'Oluja' tokom koje je Hrvatska proterala 250.000 Srba iz njihovih domova u Hrvatskoj. Do danas nijedna strana zemlja nije nikada učestvovala", napisao je Zurof ranije na Tviteru.

 
 
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Operazione Tempesta: dopo 23 anni ancora battaglia

 

di Nicole Corritore, 7 agosto 2018

 

Tra il 4 e il 5 agosto del 1995 iniziava l'azione militare “Oluja” (Tempesta) con cui l'esercito della Croazia riconquistava in due giorni le Krajine. Questo territorio era rimasto per quattro anni sotto controllo delle forze dei ribelli serbi. Un anniversario durante il quale prosegue una guerra con altri mezzi, a partire da celebrazioni e commemorazioni divise.

A distanza di 23 anni questa operazione militare rimane segnata da molte controversie. Da un lato la Croazia celebra l'anniversario come simbolo delle vittoria della "Guerra patriottica" e tace sul fatto che l'esercito croato ha messo in fuga decine di migliaia di serbi, commettendo uccisioni sommarie e crimini di guerra. Dall'altra la Serbia protesta per il mancato riconoscimento dei crimini perpetrati sui civili serbi e non riconosce responsabilità nel conflitto in Croazia.

Così il 4 agosto si sono tenute due commemorazioni delle vittime civili serbe di quell'operazione militare: a Mokro Polje, nella provincia di Knin, su organizzazione del Consiglio serbo di Croazia  e a Bačka Palanka, in Vojvodina, in presenza di autorità della Repubblica di Serbia, tra i quali il presidente Aleksandar Vučić, oltre che della Republika Srpska di Bosnia Erzegovina.

"Non ci sarà mai più un'altra Oluja per il fatto di essere serbi. Hitler voleva un mondo senza ebrei, e la Croazia e la sua politica ha voluto una Croazia senza serbi perché, secondo il suo punto di vista, minacciava l’essenza della nazionalità croata" è stata la frase più dura del discorso pronunciato a  Bačka Palanka dal presidente Vučić, il quale ha inoltre definito l'operazione Oluja "un crimine di guerra di pulizia etnica, che non può essere dimenticato, giustificato né tanto meno celebrato".

Il giorno successivo a Knin, durante la celebrazione del "Dan pobjede i domovinske zahvalnosti  " (Giorno della vittoria e del ringraziamento patriottico) la presidente croata Kolinda Grabar Kitarović alla domanda del giornalista di Vijesti  sulle dichiarazioni di Vučić, ha risposto secca: "Ciò che ha detto Vučić non cambierà la storia e il presente. Non vedo come potremo mai metterci d'accordo sul passato, ciò nonostante dobbiamo lavorare per raggiungere l'obiettivo comune di una vita migliore per tutti".

Stringate anche le dichiarazioni di tre ministri croati  , Lovro Kuščević, Damir Krstičević e Tomo Medved – rispettivamente della Giustizia, della Difesa e dei Veterani. Secondo i tre, "l'operazione Tempesta è stata l'apice di una giusta guerra di difesa e che dovrà affrontare il fatto storico per cui la politica della Grande Serbia, con l'aiuto dell'esercito della JNA, ha commesso un'aggressione alla Croazia".

Intanto, il 5 agosto in altri luoghi delle Krajine si sono svolti vari eventi, tutti dedicati a celebrare la Guerra patriottica, come a Gline dove il cantante Marko Perković Thompson  , noto per le canzoni nazionaliste e l'uso di simboli ustascia, ha aperto il concerto con la famosa canzone di guerra "Bojna Čavoglave" (Il battaglione di Čavoglave) che negli anni '90 era diventato l'inno della destra nazionalista croata. (...)

 

(srpskohrvatski / english / italiano)

Anche la Valle di Preševo nella Grande Albania?

1) Il "Presidente" del Kosovo ha annunciato la sua intenzione di conquistare nuovi territori serbi (Novorosinform.org, 8.8.2018)
2) Велику Албанију спречити враћањем Резолуцији СБ УН 1244 (Д. Видојковић, 4.8.2018.)
3) CONTROTENDENZA: Indipendenza del Kosovo, la Liberia ritira il proprio riconoscimento / Liberia withdraws recognition of Kosovo (giugno 2018)
4) ANALISI: Crisi Balcanica: l’ombra del riarmo kosovaro mentre l’Albania vuole basi Usa (Luca Susic, 7.5.2018)


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ORIG.: «Президент» Косово заявил о намерении захватить новые сербские терр
иторииhttps://novorosinform.org/734190

Il "Presidente" del Kosovo ha annunciato la sua intenzione di conquistare nuovi territori serbi

8 agosto 2018

Il "presidente" della sedicente repubblica del Kosovo, Hashim Thaci, ha dichiarato che intende chiedere l'annessione di aree della Serbia centro-meridionale al territorio sotto controllo albanese, per cui è pronto a cambiare la "Costituzione" del Kosovo. Per la proposta in questione, si prepara a tenere colloqui regolari con la parte serba a Bruxelles, ha riferito RIA Novosti.

Sul territorio dell'estremo sud della Serbia centrale si trovano i comuni di Preševo, Bujanovac e Medvedja, in parte abitati da albanesi, i cui leader periodicamente richiedono l'integrazione della loro valle di Preševo con Pristina.

Si noti che nel 2001 si sono verificati scontri armati tra formazioni albanesi e autorità serbe. L'ex comandante sul campo dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), Thaci, ha detto in una conferenza stampa a Pristina che l'eventuale adesione della valle di Preševo alla repubblica autoproclamata "non implica la spartizione del Kosovo, lo scambio di territori o l'autonomia per i serbi del Kosovo, ma solo l'adeguamento dei confini".

"L'adeguamento del confine presuppone la piena adesione di Preševo, Medvedja e Bujanovac al Kosovo. Questo sarebbe un processo trasparente e responsabile di riconciliazione tra Kosovo e Serbia. Se entrambe le parti sono d'accordo, nessuno potrà opporvisi. Se necessario, il Kosovo cambierà la Costituzione in caso di adesione della Valle di Presevo", ha detto Tachi.

Il leader dello Stato non riconosciuto ha osservato che l'adeguamento delle frontiere dovrebbe essere effettuato con la demarcazione ufficiale (delineazione) tra Pristina e Belgrado.

Il 4 agosto è stato riferito che la NATO aveva trasferito truppe in Kosovo. Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha tenuto una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale della Serbia, che ha discusso la minaccia di aggravamento della situazione nei rapporti con le autorità albanesi della repubblica autoproclamata. Vučić ha sottolineato che Belgrado non permetterà operazioni militari contro i serbi del Kosovo "o nuovi pogrom".

Il 26 luglio, Gazeta Ekspres di Pristina ha riferito con riferimento a fonti diplomatiche che l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dato una "luce verde" all'opzione della divisione del Kosovo.

La pubblicazione afferma che c'è una possibilità che Trump l'abbia concordata con il presidente russo Vladimir Putin al vertice russo-americano di Helsinki.

Il 28 giugno, i serbi del Kosovo e Metochia hanno scritto una lettera aperta a Vladimir Putin . La lettera richiedeva l'uso di tutti i mezzi diplomatici per fermare la legalizzazione del separatismo albanese nella provincia meridionale della Serbia.

[Traduzione basata su Google Translate]


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ВЕЛИКУ АЛБАНИЈУ СПРЕЧИТИ ВРАЋАЊЕМ РЕЗОЛУЦИЈИ СБ УН 1244

субота, 04 август 2018

Др Дарио Видојковић, Немачка           

 

Недавне изјаве Хашима Тачија, али и других албанских политичара ткз. Косова али и Албаније о укидању међусобне границе Албаније и КиМ-а као и о даљем прекрајању граница Републике Србије недвосмислено указују само на једно, а то је потпуни крах Бриселског дијалога! Додајмо уз то и чињеницу да од увелико најављиване фамозне ЗСО до сада нема ни милиметра помака, а није уочљиво да Запад уопште врши притисак на Приштинске власти да се оснивање Заједнице српских општина спроведе у праксу, што је уствари једна од главних тачака договора проистеклог из Бриселског дијалога. Како ствари стоје, Албаници могу све, односно, никакве уступке не морају да учине српској страни, од које се захтева – све! Безобразлук и ароганција власти у Приштини иде чак дотле да Тачи, осведочени ратни злочинац и као такав миљеник и штиченик Запада, може да захтева прекрајање границе Републике Србије како му се прохте, па чак да сада укључује и Прешевску долину у оквире натовске квази-државе Косова!
Истина, такве захтеве смо могли чути и раније, али најавом министра из Албаније Панделија Мајка па и Рамуша Харадинаја, другог ратног злочинца којег је Хаг пустио на слободу упркос доказима о почињеним злочинима, о укидању границе Албаније према територији Косова и Метохије (Србије) је нови и еклатантни корак ка формирању „Велике Албаније“, што може довести до опасних последица по читав регион и по мир и стабилност на Балкану али и шире! Тиме, албански лидери више и не скривају своје праве намере, које су износили и другим начинима у јавност, као што је била застава „Велике Албаније“ прикачена на дрон којег су 2014. пустили на стадион у Београду током утакмице Србија и Албанија.
Овакве албанске намере су крајње опасне по Србе јужно од Ибра, али и за све Србе на Косову и Метохији. Да би се избегло ново етничко чишчење Срба јужно од Ибра и са територије читавог Косова и Метохије, али уједно и да би се спречило најављено стварање „Велике Албаније“, Београду преостаје да одмах прекине Бриселски дијалог и да се питање Косова и Метохије поново врати у окриље УН, поштујући Резолуцију СБ УН 1244! Бриселски дијалог српској страни досада и није донео никакве конкретне користи, осим што је Србија извршавајући договоре, учинила нове једностране уступке Приштини, међу којима је највећи - укидање институција Републике Србије на целој територији Косова и Метохије. Заузврат, српска страна скоро ништа да није ни добила. Једини добитак је управо требало да буде ЗСО, од које, ето, по свој прилици, нема ништа.

Устав Републике Србије више је него јасан, и нормално би било да се сви у Београду, укључујући све институције и преговараче стриктно придржавају свог Устава. Томе у прилог иде и Резолуција СБ УН 1244, која мора поново да се стави на сто, јер је јалови Бриселски дијалог показао, да се албански челници не држе никаквог договора, да договор са фракцијом предвођеном ратним злочинцима уопште и није могућ, поготово када имају подршку одређених кругова на Западу. Стога Србија мора под хитно да се врати Резолуцији УН 1244, да би спречила „Велику Албанију“, како би се уједно сачувао мир у региону.. Јер, при садашњим токовима, односима и преговарачком формату, више је него извесно да би албански екстремисти и сепаратисти ишли даље у својим претензијама, и плановима за стварање „Велике Албаније“. Сада се мора схватити, да таква настојања и замисли, без обзира да ли њихови протагонисти имају у виду једнократну или етапну тактику, не угрожава само виталне интересе Србије, већ и Црне Горе, Македоније и Грчке. То директно угрожава мир и безбедност на Балкану.

Ситуација у Македонији, поготово након доласка на власт Зорана Заева, је озбиљно заоштрена и на ивици кључања, не само због све отворенијег испољавања албанског сепаратизма, него и због спора са Грчком око имена зарад њеног припајања НАТО пакту, што опет Русија не одобрава. Даљи развој би могао лако довести до нових конфликата, па и до преливања истог у суседне државе, као што је Дејтонска БиХ где је Република Српска на удару политичког Сарајева и неких центара моћи на Западу. Захтевом Србије да се решавање питања Косова и Метохије врати у Савет безбедности УН, уз поштовање Резолуције СБ УН 1244, Србија уједно тим потезом на озбиљан начин скренула пажњу на гомилање конфликтног потенцијала на Балкану и деловала превентивно. Она би тиме на потпуно јасан начин и Европској унији и светској заједници скренула пажњу да се ни по коју цену неће одрећи свог суверенитета и територијалног интегритета. То је начин како да се избориза опстанак Срба не само на северу Косова и Метохије, него и јужно од Ибра, где се и налазе највеће српске светиње, попут Пећке Патријаршије, Граћанице, или Дечана, тако и да озбиљно покрене питање повратка 250.000 протераних Срба и других неалбанаца којима је то право загарантовано управо резолуцијом 1244.

Србија треба да се угледа на упорност и истрајност Израела и свих других народа који у одбрани својих легитимних интереса не журе већ се оријентишу на дугрочнe прилазe. На такав прилаз Србију упућују нова ситуација у свету и трендови који су дубоко променили услове у односу на 1999. годину, и настављају да их мењају што нама може само да погодује! Суштина и циљ унутрашњег дијалога треба да буде општи конзенсус у погледу поштовања Устава и Резолуције СБ УН 1244, јасном и недвосмисленом опредељењу за очување суверенитета и територијалног интегритета Републике Србије!



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INDIPENDENZA DEL KOSOVO, LA LIBERIA RITIRA IL PROPRIO RICONOSCIMENTO

Lo Stato africano della Liberia, seguendo l'esempio di Suriname, Sao Tome e Principe, Guinea Bissau e Burundi, ha ritirato il riconoscimento della "Repubblica del Kosovo"La Liberia aveva riconosciuto la "Repubblica del Kosovo" il 30 maggio del 2008, pochi mesi dopo l’auto-proclamazione d’indipendenza da parte di Pristina avvenuta il 17 febbraio dello stesso anno; a fine giugno 2018 il Ministro degli Esteri liberiano, nel corso di una visita a Belgrado, ha notificato il cambio di passo, ricordando la fruttuosa collaborazione instaurata con la Jugoslavia sin dagli anni Sessanta.
Lo Stato-fantoccio del Kosovo è stato messo in piedi dalla NATO, in sfregio alla Risoluzione ONU 1244, attraverso la occupazione militare del territorio seguita ai bombardamenti del 1999 e la consegna del potere alla cricca terrorista e mafiosa dei veterani dell'UCK.  (a cura di Italo Slavo per JUGOINFO)

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Liberia withdraws recognition of Kosovo (Xinhua 2018-06-21)
... Findley gave Dacic an official note of Liberia, notifying him that the country no longer recognizes the unilaterally declared independence of Serbian southern province of Kosovo and Metohija that seceded in 2008...

Liberian Foreign Minister for Radio Television Serbia on withdrawing Kosovo recognition (RTS 22 June 2018)
... As Liberia's chief diplomat told RTS, Liberia withdrew the recognition of Kosovo so that a solution could be reached through a peace process...
Minister Gbehzohngar Milton Findley's statement for RTS / Шеф дипломатије Либерије за РТС о повлачењу признања Косова:

What is actually behind Liberia's decision to withdraw the recognition on Kosovo Independence? (Telegraf.rs, June 22, 2018)
... Liberia and the former Yugoslavia have had long-standing cooperation since the 1960s and we would like to get those relations back - Gbehzohngar Milton Findley said. He added that during his visit, six bilateral agreements were signed with Serbia - in the fields of agricultural and diplomatic cooperation, tourism, education...


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Crisi Balcanica: l’ombra del riarmo kosovaro mentre l’Albania vuole basi Usa

• 7 maggio 2018
• di Luca Susic

Il periodo attuale è particolarmente complesso per l’intera area balcanica, poiché la regione sembra risentire delle accresciute tensioni internazionali e gli attori chiave paiono interessati a modificare ulteriormente lo status quo.

La prima conferma di ciò, arriva da Tirana, che sta facendo pressioni sugli Stati Uniti per convincerli ad aumentare la propria presenza in loco e rendere l’Albania il paese cardine del sistema d’influenza americana. Come riporta Balkaninsight, infatti, a metà aprile, nel corso di un incontro bilaterale a Washington, il ministro della difesa Olta Khacka si è rivolta all’omologo James Mattis invitandolo a considerare l’ipotesi di stabilire una base, statunitense o della NATO, all’interno del suo paese al fine di rafforzare la presenza occidentale.

Secondo la Khacka, tale richiesta è giustificata dal fatto che “oltre all’intenzione russa di espandere la propria influenza con azioni di destabilizzazione attraverso i servizi segreti, gli investimenti, altri strumenti ibridi o la propaganda dei media e l’istruzione, abbiamo anche visto un incremento dell’azione e dell’interesse di altre nazioni, come Cina e Iran.”

Il segretario alla Difesa, comunque, non ha risposto all’invito, limitandosi a ringraziare Tirana per il proprio impegno all’interno dell’Alleanza Atlantica, e ha concluso dicendo che “pochi paesi della regione sono consci dell’influenza maligna della Russia come l’Albania”.

Alla luce di quanto evidenziato, è possibile fare alcune considerazioni immediate. La prima è che gli USA sono già largamente presenti nei Balcani grazie alla base di Camp Bondsteel, vicino Uroševac (Kosovo), nella quale attualmente vi sono circa 7.000 effettivi (militari e civili). L’attuale comandante è il colonnello Dick Ducich della Guardia Nazionale della California che, come si può intuire dal cognome, è di origine serba.

La sua nomina, infatti, potrebbe essere stata decisa proprio per giustificare la permanenza della KFOR nell’area nonostante questa venga spesso accusata di non fare abbastanza per proteggere i non-albanesi residenti nell’ex provincia serba. Una nuova installazione statunitense o dell’Alleanza Atlantica in Albania, quindi, rappresenterebbe una significativa escalation nella corsa al predominio sui Balcani e rischierebbe di provocare una reazione da parte di Mosca, che può però contare solamente su quella che ufficialmente è una struttura della Protezione civile russa nei pressi di Niš (Serbia meridionale).

Tale eventualità, comunque, dovrebbe quantomeno spingere anche la UE a riflettere circa gli obiettivi statunitensi nella regione, in quanto Bruxelles si troverebbe in forte inferiorità rispetto a Washington per quanto riguarda la presenza militare, nonostante l’ambito sicurezza e difesa costituisca uno degli elementi chiave dell’espansione dell’Unione verso sud-est.

Parafrasando quanto scritto da Slobodan Lekic su Stars and Stripes, comunque, l’elemento chiave su cui si gioca questa partita è quello della percezione esagerata delle reali capacità russe di influire sulla stabilità dell’area.

Per invitare Mattis a prendere in considerazione l’idea di investire su una nuova base, il ministro Khacka non ha fatto leva su minacce tradizionali (terrorismo, separatismo, corsa al riarmo, etc) o provate, ma sfruttato l’allarme generalizzato sull’hybrid warfare di Mosca, tirando a tal proposito in ballo anche paesi poco o non coinvolti, ma che sono rivali conclamati dell’Occidente, come la Cina (che al momento nei Balcani è concentrata prevalentemente sull’ambito investimenti) e l’Iran, che non ha più un ruolo attivo rilevante nell’area dalla guerra in Bosnia.

Questo atteggiamento, largamente condiviso dai membri NATO e supportato dalla stampa, sta contribuendo ad affermare un’idea distorta e “ideologica” della situazione reale. È difficile dire se il riarmo e l’ossessione per la Russia siano preoccupazioni “genuine” oppure sapientemente utilizzate per giustificare un’inversione di rotta, ma il risultato finale rischia di essere foriero di nuova instabilità.

L’individuazione dei competitors non in base al loro ruolo effettivo, ma secondo il loro schieramento in ambito internazionale, ad esempio, sta portando alcuni stati europei a condividere l’idea di un ruolo attivo dell’Iran nei Balcani, quando in realtà sono proprio Turchia, Arabia Saudita e Qatar a perseguire un’agenda ostile all’Occidente grazie ad un sapiente uso di investimenti ed influenza religiosa.

Nonostante ciò possa essere considerato ben più allarmante delle fake news di Sputnik, nulla viene fatto per mettere un freno a queste attività, forse perché si tratta di nazioni formalmente alleate che investono miliardi nelle nostre economie. Infine, non è chiaro perché, nonostante il costante allargamento della NATO e dell’Europa nei Balcani, la minaccia russa sia considerata sempre più grande, tanto da richiedere un ulteriore investimento. Facendo un breve riassunto, infatti, la situazione attuale è la seguente:

  • Slovenia e Croazia: membri UE e Alleanza Atlantica
  • Albania e Montenegro: candidati membri UE, membri Alleanza Atlantica
  • Macedonia: candidata a UE e NATO, con politica filo-Occidentale
  • Kosovo: protettorato internazionale, ospita la base americana di Camp Bondsteel (nella foto sotto). Candidato alla UE.
  • Bosnia Erzegovina: protettorato internazionale, candidato UE, divisa sull’adesione alla NATO.

Il secondo elemento che pare confermare un mutato atteggiamento Occidentale verso i Balcani è rappresentato dalla notizia, confermata anche dal sito ufficiale del Consiglio di Sicurezza (CdS), secondo cui USA, Regno Unito e Francia sarebbero pronti a sostenere non solo la riduzione o l’eliminazione delle riunioni periodiche sul Kosovo, ma addirittura la revoca della missione delle Nazioni Unite UNMIK in quanto Prishtina è ritenuta in grado di cavarsela da sola.

Come è facile immaginare, tale eventualità ha trovato la forte ostilità della Serbia (che sarà probabilmente rappresentata da Russia e, forse, Cina in seno al Consiglio), in quanto Belgrado teme che una scelta di questo tipo la metterebbe nella condizione di non poter più barattare il riconoscimento del Kosovo con concessioni politiche o territoriali.

Coerentemente, va sottolineata anche l’importante notizia uscita nelle settimane scorse sui giornali kosovari (e poi scomparsa) secondo cui il paese sarebbe pronto ad iniziare l’iter per costituire “vere” proprie forze armate e permettere così il ritiro del contingente internazionale.

Sempre secondo queste fonti, sapendo che allo stato attuale delle cose i rappresentanti serbi non voterebbero un’eventuale legge in materia, l’Esecutivo avrebbe deciso di farsi dare un’apposita delega dal parlamento, in modo tale da non dover modificare la Costituzione, cosa per cui servirebbe appunto l’accordo delle minoranze.

L’iniziativa appena descritta potrebbe essere stata condivisa con Washington, visto che questa per bocca di Wess Mitchell, assistente del Segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, già a marzo aveva dichiarato che “nessuno può mettere un veto sul diritto del Kosovo a sviluppare le proprie Forze Armate”.

Secondo il quotidiano serbo Politika, inoltre, Prishtina sarebbe pronta a spendere circa 40milioni di dollari per acquistare materiale d’armamento da assegnare alle Forze di Sicurezza del Kosovo (nella foto sotto), tra cui artiglieria anti-aerea, lanciarazzi e armi leggere, oltre che elicotteri e carri armati direttamente dagli USA. Il finanziamento per queste operazioni avrebbe dovuto essere approvato dal parlamento lo scorso 30 aprile, ma non è stato erogato in quanto il provvedimento non è stato ancora presentato.

La questione appena evidenziata solleva quindi alcuni punti interrogativi. Il primo è certamente quale sia la posizione reale di Washington nella vicenda.

Non è da escludere infatti che i collaboratori di Trump vogliano giocare su due tavoli, da un lato spingendo il Kosovo a conquistare “sul campo” la propria sovranità, dall’altro continuando a rassicurare Belgrado, con cui vorrebbero mantenere buoni rapporti, che nulla sarà deciso senza il consenso della Serbia.

In questi ultimi mesi sembra esserci stato un effettivo corteggiamento del presidente Vučić, ma l’uccisione di Oliver Ivanović e l’arresto del ministro Djurić a Kosovska Mitrovica da parte della polizia kosovara hanno rallentato il riavvicinamento tra le parti.

Tuttavia, non è chiaro perché gli USA, pur dichiarandosi pronti a raggiungere una soluzione mediata, stiano sostenendo Londra nel tentativo di eliminare il tema “Kosovo” dall’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di mettere fine al protettorato delle Nazioni Unite che va ormai avanti dal 1999.

Oltre a questo, da oltreoceano non è arrivata alcuna smentita ufficiale dopo la comparsa della notizia del possibile acquisto di armi da parte di Prishtina, né le dichiarazioni del premier kosovaro, Ramush Haradinaj, secondo cui un semplice voto parlamentare permetterebbe di dare vita alle Forze Armate nonostante la risoluzione 1244 del CdS ONU sancisca il contrario.

Ecco perché non è da escludere che l’obiettivo di Washington sia proprio quello di mettere la Serbia davanti al fatto compiuto: accettare un Kosovo indipendente e con proprie forze armate (magari con posti riservati ai serbi) in cambio di qualche minima concessione oppure schierarsi apertamente contro questa soluzione e diventare uno stato paria d’Europa. Nel caso in cui ciò dovesse avvenire, non è da escludere che la risposta euroatlantica possa constare nel ricorso degli strumenti già utilizzati in passato e cioè supporto al dissenso interno, campagne mediatiche internazionali ostili o incoraggiamento dei separatismi interni già presenti nel Sangiaccato e Valle di Preševo a forte presenza musulmana, o nella Vojvodina dove è presente una forte componente ungherese.





(deutsch / italiano / français)

Il travagliato parto della Grande Albania

1) La NATO ha trasferito truppe in Kosovo - Belgrado sta preparando una risposta (Novorosinform)
2) Abolizione della frontiera tra il Kosovo e l'Albania / Укидање граница између Косова и Албаније (Politika.rs)
3) Ein schwarzes Loch in Südosteuropa (GFP 17.05.2018)


Vedi anche:

BIENTÔT LA FIN DU ROAMING ET DES CONTRÔLES DOUANIERS ENTRE LE KOSOVO ET L’ALBANIE ? (A. Zejneli Loxha – CdB / Radio Slobodna Evropa, 5 juin 2018)
Les députés du Kosovo ont adopté deux résolution « en faveur des citoyens albanais et kosovars ». L’une concerne la fin des frais d’itinérance téléphonique entre les deux pays voisins, l’autre la fin des contrôles aux frontières. La Serbie s’indigne d’un premier pas vers la création de la « grande Albanie »...

TENSIONI TRA SERBIA E KOSOVO. SEGNALI DI ALLARME PERFINO DALLA NATO (di Alberto Tarozzi, 04/08/2018)
... La7 parla di una possibile azione delle forze speciali di Pristina per mettere sotto controllo una diga a nord di Mitrovica (quella di Golovica?), in territorio abitato dai serbi e sui quali dovrebbe valere la protezione esercitata dalla Nato...


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ORIG.: НАТО перебросила войска в Косово – Белград готовит ответные меры (4 августа 2018)

La NATO ha trasferito truppe in Kosovo - Belgrado sta preparando una risposta

4 agosto 2018

Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha tenuto una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale della Serbia, in cui è stata discussa la minaccia di aggravamento della situazione nei rapporti con le autorità albanesi della repubblica autoproclamata del Kosovo. Questo sabato 4 agosto, scrive l'edizione serba di Novosti.rs.

Secondo l'agenzia di stampa RIA Novosti, dopo la riunione del consiglio di sicurezza nazionale, il presidente serbo ha tenuto un incontro con il patriarca Ireney a porte chiuse, quindi ha rilasciato una dichiarazione per i media all'ingresso del patriarcato.

"La Serbia adotterà alcune misure, o meglio, risponderà al fatto che Pristina non rispetta l'accordo di Bruxelles", ha detto Vučić.

Interrogato dai giornalisti sui passi che Belgrado intendeva intraprendere, ha risposto: "Vedrete quali".

Vučić ha sottolineato che Belgrado non permetterà operazioni militari contro i serbi del Kosovo "o nuovi pogrom".

Secondo le informazioni ricevute dai servizi speciali serbi di Mosca, le forze di sicurezza del Kosovo, con il sostegno degli Stati Uniti, pianificano un'invasione segreta del nord del Kosovo. Il nome dell'operazione è "The Golden Saber". Lo scopo dell'operazione è di affermare la "sovranità" del Kosovo in tutto il territorio della repubblica autoproclamata.

Alla vigilia, Vučić ha inviato una lettera aperta agli abitanti del Kosovo e Metohija. "Mentre sono al mio posto, la Serbia non permetterà la violenza contro i serbi e i loro santuari, così come la loro persecuzione. "Non ci sarà una nuova" tempesta "in Kosovo e Metohija", ha promesso.

Nel frattempo, un contingente di forze di pace della KFOR ha condotto "esercizi regolari" nel nord del Kosovo. Secondo il quotidiano, i membri della KFOR nella mattinata del 4 agosto sono stati dispiegati sulle strade di accesso al lago e alla centrale idroelettrica di Gazovod. La pubblicazione rileva che le manovre militari sono solo una copertura per il trasferimento di unità a nord della provincia.

La pubblicazione afferma che nelle prossime 48 ore nel nord del Kosovo la situazione potrebbe deteriorarsi bruscamente, quindi la missione della NATO ha trasferito parte dei suoi quattromila effettivi a nord, nel villaggio di Madjunsko, nel comune di Vucitrn (tra Pristina e Kosovska Mitrovica).

È stato anche riferito che numerose attrezzature militari hanno bloccato per qualche tempo l'autostrada Pristina - Kosovska Mitrovica, le attrezzature sono state trasferite anche da elicotteri.

Oggi è terminata la scadenza fissata per l'inizio della formazione delle cosiddette Associazioni dei comuni serbi in Kosovo. Tuttavia, tale processo non è ancora iniziato.

Il 26 luglio, Gazeta Ekspres di Pristina ha riferito con riferimento a fonti diplomatiche che l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dato una "luce verde" all'opzione della divisione del Kosovo.

La pubblicazione afferma che c'è una possibilità che Trump la abbia concordata con il presidente russo Vladimir Putin al vertice russo-americano di Helsinki.

Il 28 giugno, i serbi del Kosovo e Metohija hanno scritto una lettera aperta a Vladimir Putin . La lettera chiedeva l'uso di tutti i mezzi diplomatici per fermare la legalizzazione del separatismo albanese nella provincia meridionale della Serbia.

Ricordiamo che alla fine di maggio, tre serbi furono feriti dagli Albanesi mentre provavano a visitare le rovine della chiesa della Santa Trinità nel villaggio di Petric vicino alla città di Pec in Kosovo. Gli attacchi ai serbi continuarono nei giorni seguenti.

In precedenza, il ministro serbo per l'innovazione e la tecnologia, Nenad Popovic, a sua volta ha esortato la Russia a impegnarsi in un dialogo sul Kosovo.

A marzo, aerei militari serbi sono stati avvistati ai "confini" del Kosovo.  Secondo il dottore in scienze politiche e ricercatore presso l'Institute for European Studies (Belgrado), l' aggravamento in Kosovo è la prossima fase della guerra dell'Occidente contro Serbia e Russia.


[Traduzione basata su Google Translate]


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Tirana e Priština preparano la "Grande Albania"

Tutti gli Stati dei Balcani dovrebbero essere preoccupati: l'annuncio dell'abolizione della frontiera tra il Kosovo e l'Albania è una chiara dimostrazione della pretesa dell'Albania verso una parte del territorio serbo, dichiara il ministro serbo Aleksandar Vulin. 
Priština - Il ministro albanese della diaspora, Pandeli Majko, annuncia l'apertura del confine tra l'Albania e il Kosovo, riporta il blog Lajmi.net kosovaro. 
"Vogliamo aprire la frontiera tra l'Albania e il Kosovo. Il premier mi ha riferito che la decisione è stata presa. Dal 1. gennaio inizia il libero passaggio tra l'Albania e il Kosovo", ha dichiarato Majko.
La dichiarazione è stata rilasciata a Srbica in occasione della Giornata della Diaspora.  All'evento erano presenti i rappresentanti delle istituzioni provvisorie di Priština, tra cui Hasim Thaci e Ramuš Haradinaj.
Majko è stato Premier e ministro della Difesa albanese e membro della dirigenza del Partito socialista di Albania. 

ORIG.:

Тирана и Приштина праве „велику Албанију”

Све земље на Балкану имају разлога да брину, најава укидања границе говори о територијалним претензијама Албаније према делу српске територије, каже министар Александар Вулин

ПРИШТИНА – Министар дијаспоре Албаније, Пандели Мајко, најављује отварање „границе” између Албаније и Косова, преноси косовски портал Лајми.нет.

„Желимо да отворимо границу између Албаније и Косова. Премијер ми је рекао да је донета одлука. Од 1. јануара почиње слободно кретање између Албаније и Косова”, рекао је Мајко, преноси портал.

Он је то изјавио на догађају поводом Дана дијаспоре, одржаном у Србици.

Том догађају су присуствовали и челници привремених институција у Приштини, између осталих Хашим Тачи и Рамуш Харадинај.

Мајко је, иначе, бивши премијер и министар одбране Албаније и члан најужег руководства владајуће Социјалистичке партије Албаније. (Танјуг)


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Ein schwarzes Loch in Südosteuropa

17.05.2018

BERLIN/SOFIA(Eigener Bericht) - Streit um die Teilnahme des kosovarischen Präsidenten Hashim Thaçi geht dem heutigen "Westbalkan"-Gipfel der EU in der bulgarischen Hauptstadt Sofia voraus. Der Gipfel ist anberaumt worden, um den Ausbau der Verkehrsinfrastruktur in der Region voranzubringen und die Vorbereitungen der "Westbalkan"-Länder auf den EU-Beitritt zu fördern. Berlin und Brüssel hatten sich nach einer ersten Welle wirtschaftlicher Expansion nach dem Zerfall Jugoslawiens nicht mehr für die Region interessiert, sehen sich nun jedoch zum Handeln veranlasst - denn Russland und vor allem China weiten ihren Einfluss in Südosteuropa aus. Der kosovarische Präsident Thaçi hat in der vergangenen Woche in Berlin vor einem "anti-westlichen schwarzen Loch" in der Region gewarnt. Thaçi selbst ist von einem Sonderermittler des Europarats schwerster Kriegsverbrechen und des Organhandels beschuldigt worden. Wegen seiner Anwesenheit nimmt Spaniens Ministerpräsident Mariano Rajoy nicht am "Westbalkan"-Gipfel teil: Madrid erkennt die völkerrechtswidrige Abspaltung des Kosovo nicht an.

Berlin bekommt Konkurrenz

Hintergrund der aktuellen "Westbalkan"-Aktivitäten der EU ist die Tatsache, dass in der jüngeren Vergangenheit andere Mächte in der Region an Einfluss gewonnen haben. Nach einer ersten Welle von Firmenübernahmen und steigenden Exporten in die Region, die der territorialen Zerschlagung Jugoslawiens folgten, hatten Berlin und die deutsche Wirtschaft ihr vormaliges Interesse an den "Westbalkan"-Staaten [1] verloren; deren einst in Aussicht gestellter Beitritt zur EU schien auf unbestimmte Zeit verschoben. Während Deutschland und die Europäische Union die verarmte Region weitgehend ignorierten, begannen allerdings zunächst Russland und dann China, ihrerseits Aktivitäten in Südosteuropa zu entfalten. Moskau hat zum Beispiel die Beziehungen zu Serbien intensiviert und im Jahr 2013 zuerst eine "Strategische Partnerschaft", dann ein zunächst auf 15 Jahre angelegtes Militärabkommen mit Belgrad geschlossen.[2] China hat seinerseits im Rahmen seiner Kooperation mit insgesamt 16 Staaten Ost- und Südosteuropas ("16+1", german-foreign-policy.com berichtete [3]) seine Zusammenarbeit auch mit den "Westbalkan"-Staaten ausgeweitet; es ist insbesondere beim Ausbau der Infrastruktur in der Region aktiv.

Gegen Russland und China

Weil der russische und vor allem der chinesische Einfluss über die Jahre immer weiter gewachsen ist, hat Berlin Schritte unternommen, seine eigene Vorherrschaft über Südosteuropa abzusichern. Erste Ergebnisse dieser Bemühungen sind die Teilnahme von Bundeskanzlerin Angela Merkel am "Westbalkan"-Gipfel am 15. Juli 2014 im kroatischen Dubrovnik und sodann die Durchführung einer "Westbalkan"-Konferenz am 28. August 2014 in Berlin gewesen. Ziel war es dabei, mit den üblichen Kooperationsmaßnahmen - Wirtschaftsförderung, politisch einbindende Verhandlungen - den Einfluss Deutschlands und der EU zu sichern und Russland sowie vor allem China wieder zurückzudrängen. Dies ist insbesondere im chinesischen Fall nicht gelungen; Beijing bemüht sich weiterhin unter anderem um den Ausbau der Infrastruktur und konsolidiert seinen ökonomischen und inzwischen auch seinen politischen Einfluss weiter. Um dem entgegenzuwirken, haben Berlin und Brüssel ihre Absicht, die EU vorläufig nicht zu erweitern, aufgegeben und den "Westbalkan"-Ländern einen baldigen Beitritt in Aussicht gestellt.

"Neuer Schwung"

Auch das Programm des heutigen "Westbalkan"-Gipfels in Sofia zielt klar darauf ab, Chinas Einfluss zurückzudrängen. Letzterer beruht nicht zuletzt darauf, dass Beijing den systematischen Ausbau der Infrastruktur in Südosteuropa fördert, den die EU ihrerseits lange vernachlässigt hat (german-foreign-policy.com berichtete [4]). Auf dem heutigen Gipfel soll nun, wie es offiziell bei der EU-Kommission heißt, "Schwung in die Beziehungen zwischen der EU und dem Westbalkan" gebracht werden.[5] Dazu werde die "Konnektivität" auf dem Treffen im Mittelpunkt stehen. Bereits im Februar hat EU-Kommissionspräsident Donald Tusk angekündigt: "Wir wollen die Verbindungen zu und innerhalb dieser Region verstärken." Das reiche "von mehr Investitionen in die Verkehrsinfrastruktur über einen vermehrten Bildungs- und Kulturaustausch bis hin zu einer einfacheren und schnelleren Kommunikation zwischen unseren Bürgerinnen und Bürgern." Allerdings haben sich die EU-Versprechungen bislang noch nicht konkretisiert.

Nicht anerkannt

Heftige Konflikte hat bereits vorab die Teilnahme des kosovarischen Präsidenten Hashim Thaçi hervorgerufen. Nach wie vor wird das Kosovo, das nach dem NATO-Überfall von 1999 und der darauf folgenden NATO-Besatzung schließlich im Jahr 2008 völkerrechtswidrig von Serbien abgespalten wurde, trotz massivsten westlichen Drucks von weniger als zwei Dritteln aller UN-Mitglieder anerkannt. Nicht einmal die EU tritt in dieser Frage geschlossen auf: Griechenland, Rumänien, die Slowakei, Spanien und Zypern stufen den Anspruch des Kosovo auf Eigenstaatlichkeit bis heute als unrechtmäßig ein. Bereits vor dem heutigen Gipfeltreffen ist es deshalb zu einem Eklat gekommen: Der spanische Ministerpräsident Mariano Rajoy bleibt der Zusammenkunft, auf der das Kosovo von seinem Präsidenten Thaçi vertreten wird, demonstrativ fern. Spanien ist selbst von starkem Separatismus betroffen und nicht bereit, separatistischen Strömungen durch die Anerkennung kosovarischer Repräsentanten auch nur den Anschein von Legitimität zu verleihen.

Organisierte Kriminalität an der Macht

Thaçis Teilnahme an dem von der EU anberaumten Treffen wird darüber hinaus wegen seiner mutmaßlich kriminellen Vergangenheit kritisiert. Thaçi, einstmals Anführer der Untergrundmiliz UÇK, die der NATO bei ihrem Überfall auf Jugoslawien im Frühjahr 1999 als Bodentruppe diente, ist seitdem - mit Ausnahme der Jahre von 2004 bis 2007 - im Kosovo faktisch an der Macht, die er in unterschiedlichen Funktionen ausübt: zunächst als Außen- und Premierminister, inzwischen als Präsident. Thaçi ist bereits im Jahr 2005 vom BND als "eine der drei Schlüsselfiguren" eingestuft worden, die im Kosovo die Verbindungen der Organisierten Kriminalität in die Politik herstellten; demnach habe er "direkte Kontakte zur organisierten Kriminalität in Tschechien und Albanien" gehalten und sei persönlich "in umfangreiche Drogen- und Waffengeschäfte" verwickelt gewesen.[6] Im Jahr 2010 ist ein Sonderermittler des Europarats, der Schweizer Liberale Dick Marty, nach zweijährigen aufwendigen Ermittlungen zu dem Ergebnis gekommen, Thaçi und weitere einstige UÇK-Anführer seien in Organhandel und diverse Kriegsverbrechen verwickelt gewesen (german-foreign-policy.com berichtete [7]). Obwohl ein Sondergericht in Den Haag Martys Erkenntnisse untersuchen soll, ist bis heute keine Anklage erhoben worden. Thaçi sitzt fest im Sattel.

Die Folgen der Abspaltung

Und er erfüllt weiterhin seine politische Funktion für Berlin. Am Mittwoch vergangener Woche hat er nach Gesprächen mit Kanzlerin Merkel in der deutschen Hauptstadt für eine baldige Aufnahme des Kosovo in die EU plädiert. "Bei der EU-Erweiterung auf dem Westbalkan geht es darum, den Einfluss gefährlicher Ideologien und den Einfluss anderer anti-europäischer und anti-westlicher Mächte zu verhindern", erklärte der ehemalige UÇK-Anführer: "Die EU kann sich kein schwarzes Loch auf dem Balkan leisten."[8] Mit dem "schwarzen Loch" war nicht das Kosovo gemeint, dessen angebliche "Fortschritte" Kanzlerin Merkel nach ihrem Gespräch mit dem kosovarischen Präsidenten ausdrücklich würdigte. Den Begriff "Fortschritt" machen sich Korrespondenten aus der Region bei der Beschreibung der Verhältnisse im Kosovo im allgemeinen nicht zu eigen. Zusätzlich zu einem Hinweis, die Aufklärung der Vorwürfe gegen Thaçi sei doch wirklich wünschenswert, hieß es vergangene Woche in der regierungsfinanzierten Deutschen Welle, in der kosovarischen Bevölkerung wachse mittlerweile die Unzufriedenheit: Unter Thaçis Führung sei "das Kosovo zum ärmsten Land Europas geworden, mit einer Arbeitslosenquote von über 30 Prozent". "In der aktuellen Regierung stehen mindestens fünf Minister unter Korruptionsverdacht", hieß es weiter, "gleichzeitig plagt die organisierte Kriminalität das kleine Balkan-Land." Thaçis Kritiker gingen davon aus, für die Mafia im Kosovo sei der Präsident persönlich der "Pate".[9]

 

[1] Als "Westbalkan"-Länder werden im gegebenen Zusammenhang diejenigen Staaten Südosteuropas bezeichnet, die - noch - nicht zur EU gehören: Albanien, Bosnien-Herzegowina, Mazedonien, Montenegro und Serbien. Hinzu kommt das Kosovo.

[2] S. dazu Die Hegemonie über Südosteuropa.

[3] S. dazu Berlin fordert "Ein-Europa-Politik".

[4] S. dazu Die Neue Seidenstraße (II).

[5] Treffen EU-Westbalkan in Sofia, 17.05.2018. consilium.europa.eu.

[6] Thaçi in Berlin: Ein umstrittener Gast. dw.com 08.05.2018.

[7] S. dazu Teil des Westens geworden und Ein privilegierter Partner.

[8] Hans-Peter Siebenhaar: "Die EU kann sich kein schwarzes Loch auf dem Balkan leisten". handelsblatt.com 08.05.2018.

[9] Thaçi in Berlin: Ein umstrittener Gast. dw.com 08.05.2018.







Crimini italiani

0) SEGNALAZIONE: mostra fotografica “TESTA PER DENTE” a Castel Del Monte (AQ)
1) Recensione a "I massacri di luglio", di Giacomo Scotti (F. Angoscini)
2) Recensione a "Gli uomini di Mussolini", di Davide Conti, e un’intervista all’autore (S. Leotta e V. Strinati)


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Castel Del Monte (AQ) dal 4 al 20 agosto 2018

“TESTA PER DENTE”

Mostra fotografica presso il Punto Informativo del Comune di Castel del Monte: progetto “ Testa per Dente”, raccolta di foto sui crimini fascisti e la resistenza in Jugoslavia

Presentazione il 4 Agosto alle 17:00 presso il teatro comunale Francesco Giuliani con Riccardo Lolli e Mauro Alessandri. 

Orari della mostra 10:00-13:00 15:00-18:00.

Nell'ambito del Festival del Gran Sasso
Organizzatore: Comune di Castel del Monte
Info: +39 340 7299369

Sulla mostra "Testa per dente" si veda anche: 


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Giacomo Scotti
I MASSACRI DI LUGLIO
La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia
Introduzione di Giuseppe Ranieri
Red Star Press, Roma, giugno 2017
pag. 256, € 18,00



Il Generale, il Prefetto, il Serpente e la pulizia etnica della Jugoslavia

di Fiorenzo Angoscini, 13 novembre 2017  

L’invasione militare e l’occupazione amministrativo-politica di alcuni territori della Jugoslavia del nord, da parte dell’Italia monarco-fascista, con velleità imperialiste e mire espansionistiche, tramite la cosiddetta ‘guerra d’aprile’ dell’anno 1941, ha provocato numerose vittime, distruzione di villaggi e città, decimazioni di nuclei famigliari, sofferenze, povertà e miseria per le popolazioni slave (s’ciavi, schiavi) che da sempre abitavano quelle terre. Accompagnate da manovre di snazionalizzazione, prevaricazioni, tentativi di cancellazione dell’identità culturale e linguistica. Un vero e proprio piano di sostituzione etnica. 

Già dai tempi dell’occupazione, attraversando il dopo guerra post resistenziale, gli anni cinquanta: quelli delle parole d’ordine nazional-fasciste-scioviniste di ‘Trento, Trieste, Istria italiane’,1 mescolando un irredentismo casereccio a rivendicazioni annessionistiche, nonché la ‘proprietà’ geografia della mitteleuropea città alabardata, l’onda lunga della menzogna è giunta sino ai giorni nostri con l’istituzione (2004), per decreto, del 10 febbraio come ‘Giorno del ricordo’ dedicato alla “memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. 

In quella data, ogni anno, vengono consegnate ‘medagliette’ dorate (non sono d’oro, bensì in acciaio brunito e smaltato e recano la scritta “la Repubblica Italiana ricorda”) ai parenti degli ‘infoibati’ ma, tra i riconosciuti come vittime delle doline carsiche, ci sono anche caduti in combattimento (quindi non ‘infoibati’), ex-repubblichini2 e criminali di guerra3 . Un vero e proprio medaglificio fascista.4

Si parla, spesso gonfiandoli e falsificandoli, degli effetti, dimenticando e rimuovendo completamente quali sono state le cause: un’occupazione violenta e sanguinaria, crimini e misfatti, odiose forme di razzismo e repressione. Mescolando foibe e ‘profughi’ (come venivano chiamati dagli ‘italiani’ residenti i rientrati in Italia dalle zone jugoslave), bugie storiche e primati di insediamenti e radici mai avuti. Ribaltando la realtà dei fatti, applicando quello che molti storici definiscono ‘rovescismo’. Cercando di accreditare, cioè, l’esatto contrario di ciò che è avvenuto.

Per comprendere come le mire di annessione, l’odio ‘anti-slavo’ e le violenze fasciste abbiano radici lontane ma costanti, ricordiamo due avvenimenti tragici e criminali, collegati tra loro, nonostante la distanza temporale, dallo stesso e solito ‘filo nero’ squadrista. Il primo è l’attacco al Narodni Dom (Casa del popolo o Casa nazionale) di Trieste, sede delle organizzazioni degli sloveni triestini, un edificio polifunzionale nel centro di Trieste, nel quale si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un caffè e un albergo (Hotel Balkan).5 Incendiato dai fascisti il 13 luglio 1920, nel corso di quello che, persino Renzo De Felice definisce “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”. L’altro, relativamente recente, significativamente avvenuto il 4 ottobre 1969 (due mesi prima della strage di Piazza Fontana alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano e riconducibile agli stessi ambienti responsabili, con identiche modalità, della strage) è il fallito attentato (per cause meteorologiche, non per volontà dei potenziali assassini) compiuto presso la Scuola elementare di lingua slovena a Trieste. 

Quel lunedì mattina, il custode, trova sul davanzale di una finestra una cassetta portamunizioni militare con scritte in inglese avvolta da filo zincato. Quando i Carabinieri intervenuti sollevano il coperchio, trovano sei candelotti (kg 5,7 di esplosivo) di gelignite spezzati a metà, avvolti in carta paraffinata rossa, e un congegno ad orologeria formato da una pila, due detonatori e un orologio da polso con una vite inserita nel quadrante e collegata ai fili elettrici a loro volta collegati ai detonatori. Ai piedi dell’edificio vengono inoltre rinvenuti otto foglietti di carta con scritte in stampatello di carattere xenofobo quali “No al viaggio di Saragat in Jugoslavia”, “No alle foibe”, firmati FRONTE ANTI SLAVO.

Contro queste tendenze e demagogiche, deboli culturalmente ma forti mediaticamente, scuole di pensiero, in una difficile, logorante e solitaria, ‘battaglia per la verità’ si sono da molto tempo distinti alcuni storici, ricercatori, scrittori, giornalisti e militanti politici, in una sorta di ‘Resistenza storica’ per l’affermazione della realtà. Tra questi Giacomo Scotti, napoletano di origini e italiano di nascita che ha deciso di trasferirsi a vivere, in una sorta di controesodo, in Jugoslavia già nel 1947, autore di numerose inchieste e pubblicazioni,6Claudia Cernigoi,7 Alessandra Kersevan,8 Alessandro Sandi Volk9 e, recentemente, affiancati anche dal collettivo di ricerca storica, filiazione della Fondazione Wu Ming, denominato ‘Nicoletta Bourbaky’10 che ha smascherato la montatura storico-politica della cosiddetta ‘foiba volante’ (appariva qui e là) che già dall’attribuzione finale si può intuire che era una cosa inesistente, non c’era materialmente.

L’invenzione mediatica ha visto come attori protagonisti reazionari veri, ‘democratici’ camuffati (un senatore Pd) e militanti ‘piddini’ dialoganti con Casa Pound.11 Anche Claudia Cernigoi, su questa strana foiba (foibe?), ha offerto un interessante contributo.12 Una bella compagnia di giro-armata Brancaleone, puntualmente sbugiardata13 . Mentre Scotti, Cernigoi, Volk, Kersevan, ‘Nicoletta Bourbaky’ ed altri, spesso accusati di negazionismo, combattono culturalmente il revisionismo storico vero, supporto e battistrada del revisionismo costituzionale.

Con questo nuovo contributo, Giacomo Scotti, utilizzando fonti articolate e diverse, dati e documenti alla mano, delinea le efferatezze, gli assassini e crudeltà perpretrate nel nord della Jugoslavia dagli occupanti italo-fascisti nella primavera-estate del 1942.
La ricostruzione storica parte dalla devastazione (12 luglio 1942) di un villaggio, Podhum, distante circa dieci chilometri da Fiume. Secondo il Prefetto Testa,14 ricordato dalla “popolazione come il boia del Fiumano e dei territori della Kupa”, il motivo-pretesto dell’eccidio è stato offerto, e compiuto, per vendicare “16 soldati uccisi dai ribelli”, mentre il ‘Federale’ fascista di Fiume, Genunzio Servitori, fa risalire le ragioni della rappresaglia alla morte di due maestri elementari, i coniugi Giovanni e Francesca Renzi, emissari del “regime fascista nelle terre occupate e annesse per italianizzare i ‘barbari slavi’”. Ma Scotti puntualizza: “Il ‘caso’ di Podhum si inserisce, in verità, in un disegno generale di sterminio delle popolazioni slave sui Territori annessi della Slovenia e della Croazia nel quadro, cioè, di un’operazione preparata accuratamente.
Il risultato sarà la totale o parziale distruzione col fuoco di circa cinquanta villaggi…con fucilazioni di centinaia di ostaggi e la deportazione di alcune migliaia di persone”.

Descrive come la popolazione veniva vessata e perseguitata perché aveva parenti che erano ‘andati nel bosco’ , cioè con i Partigiani, oppure di arrestati che venivano condannati a morte da un tribunale di guerra ma solo dopo essere già stati fucilati mentre i lori cadaveri marcivano in una fossa sconosciuta.
Puntualizza come la famigerata circolare 3-C emanata, il 1° marzo 1942, dal comandante della II Armata operante in quei territori, Mario Roatta,15 fosse “un documento-programma (riassunto in un opuscolo di circa 200 pagine e distribuito a tutti gli ufficiali dell’esercito) grazie al quale nel solo mese di luglio 1942 furono deportati 10mila civili dai territori coinvolti in una cosiddetta ‘Operazione Primavera’” . Il cui obiettivo era “lo spopolamento tramite la deportazione dei civili e il massacro dei ‘ribelli’…contenente tra l’altro la formula ‘non dente per dente ma testa per dente’…che rappresentò una normativa repressiva di tipo coloniale nei confronti delle popolazioni dei Territori annessi destinati alla bonifica etnica…facendo terra bruciata, in vista di una imminente colonizzazione italiana”.

Prima delle distruzione di luglio, anche la primavera era stata insanguinata, con decine di villaggi rasi al suolo, comunità distrutte e disperse, giovani e giovanissimi ammazzati perché appartenenti ad una ‘razza’ inferiore. Questa repressione, senza pietà, aveva come principale protagonista il Prefetto Temistocle Testa che, spesso, firmava di proprio pugno gli ordini che sancivano vere e proprie stragi di civili.

Scotti elenca, con precisione certosina, il numero e, a volte, anche i nomi dei fucilati, dei deportati, degli internati nei campi di concentramento, e spesso anche il nome dei fucilatori. Racconta delle lusinghe, dei premi, vere e proprie taglie poste sulla testa dei ‘ricercati’. Della costituzione di squadroni della morte (Milizia Volontaria Anticomunista) e per la caccia (Bela Garda, Camicie Bianche) alle ‘bande Comuniste’, ma che andavano sempre più ingrossandosi con l’aumentare della repressione.
L’autore documenta come non ci sia alcuna differenza tra fascisti della prima ora, neo-fascisti o post-fascisti: gli squadristi del manganello, della somministrazione dell’olio di ricino, degli agguati, dello sfoggio di camicie nere, e delle stragi (da Marzabotto a Piazza Fontana) sono sempre gli stessi, identici storicamente e ‘culturalmente’, siano essi ‘manovali’ oppure ‘intellettuali’.

Uno degli esempi è rappresentato dalla falsificazione relativa alla volontà, e ‘contentezza’, degli abitanti alcune frazioni di Castua, nell’essere internati nei ‘campi’ fascisti. In una comunicazione riservata (giugno 1942) al questore di Fiume, gli artefici della rappresaglia si esprimono così: “Gran parte della popolazione del Castuano che assisteva all’operazione stessa ha manifestato il desiderio di essere internata nel Regno […] Il numero degli internati è di N. 500”.
Sfrontataggine fascista. Contrabbandando per desiderio una deportazione che conduce gli abitanti a sopportare nuove sofferenze e perfino la morte nei ‘campi del Duce’. “Parecchi di loro infatti, finirono nel campo di sterminio di Kampor sull’isola di Arbe dove tra il giugno 1942 e l’inizio di settembre 1943, su 12mila deportati ne morirono di stenti, di fame e di malattia circa 3mila, per la gran parte bambini e vecchi”.

In loro soccorso, a distanza di quasi 70 anni, si prodiga un quotidiano ‘indipendente’, “Il Secolo d’Italia”, già organo ufficiale del ricostituito partito fascista Movimento Sociale Italiano.
Il 23 novembre 2011, a proposito di quel ‘campo di lavoro’, il giornale scrive: “Non era né un campo di concentramento, né un campo di sterminio, e le vittime furono ‘in maggioranza’ comunisti croati e sloveni”. Bolscevichi di pochi anni, oppure ultrasettantenni e donne di ogni età. Con buona pace di quegli ‘ambigui’ che parlano di pacificazione e di equiparare i Partigiani agli assassini (fascisti e Repubblichini).

Un altro esempio di manipolazione della verità e falsificazione degli avvenimenti, riguarda l’epilogo della meschina vita di Vincenzo Cuiuli,16 comandante del ‘campo della morte’17 di Kampor, sull’isola di Arbe, in Dalmazia settentrionale, allestito all’ inizio dell’estate del 1942, il cui padre fondatore (come si autodefinì) è stato il Prefetto Temistocle Testa.
“Il tenente colonello Cuiuli portava sempre con sé un frustino per incutere terrore ai deportati da lui disprezzati come fossero bestie”. Anche per questo motivo era stato soprannominato Zmija, ‘il Serpente’. 

Già dal gennaio ’43, nel ‘campo’ si era costituita una cellula clandestina del Fronte di Liberazione e, in luglio, una virtuale Brigata Partigiana (Rabska Brigada) che “si assunse il compito di creare migliori condizioni di vita nel campo e preparare gli internati alla lotta armata”. L’ 8 settembre 1943 la ‘brigata di campo’ prese il controllo della struttura senza compiere alcuna violenza sugli ex ‘controllori’, che non opposero resistenza. Solo “il Cuiuli minacciò i ribelli di farli fucilare, ma venne prontamente immobilizzato dagli internati, senza che gli altri ufficiali e soldati reagissero. Il ‘Serpente’ poté tornare negli uffici del Comando dove trascorse la notte”.
Successivamente tutto il personale militare venne ‘liberato’, furono trattenuti in stato di arresto solo il comandante, carabiniere Cuiuli, e una spia di nome Mohar, successivamente processati e condannati a morte per crimini di guerra.

E qui inizia la girandola di menzogne e ricostruzioni non veritiere.
Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski, nel volume “Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1942)” collocano la morte del ‘regio’ carabiniere, ad Arbe, il 13 settembre 1943 (oltre la data della loro ricostruzione) “ucciso durante la rivolta degli internati”.
Non è vero, documenta Scotti, che Cuiuli fu ucciso ad Arbe il 13 settembre.
“Le cose andarono diversamente”.
L’ex comandante viene trasferito sulla terraferma nella notte tra il16 e 17 settembre e rinchiuso, sotto sorveglianza, in una cella del carcere di Crikvenica. Il mattino dopo viene rinvenuto moribondo nella sua cella: si era suicidato tagliandosi il collo.18

Ma questa soluzione non può essere accettata da parte di chi vuole screditare comunisti, partiginai, slavi ed internati in campi fascisti. Così, in un libro19 pubblicato a Trieste, l’autore, Luigi Papo20 sostiene che Cuiuli è stato una vittima dei Partigiani di Tito: “Gli slavi lo hanno impiccato ad Arbe tra il 10 e il 12 settembre davanti al campo di internamento, in cui era rinchiuso, e lo hanno seppellito in mezzo alla strada assieme al suo cane”.

Ma Scotti, precisa e demistifica: “In tre righe una montagna di falsità”.
Riprendendo le testimonianze raccolte da Anton Vratusa “che smentiscono sia l’impiccagione, l’esistenza del cane dell’ ‘impiccato’ e tutto il resto”, così come confermato anche dallo storico Ivo Baric’ nella voluminosa storia della sua isola, “Rapska bastina” (Il patrimonio di Arbe).
“Il comandante del più malfamato lager per civili creato dalle truppe italiane nella seconda guerra mondiale-suicidatosi forse per rimorso-venne sepolto accanto alle sue vittime”.

L’italiano di Croazia per scelta, Giacomo Scotti, ribadisce: “Bisognerebbe farla finita con il silenzio sui crimini del fascismo italiano, soprattutto le stragi compiute non soltanto dai battaglioni speciali fascisti ma dalle truppe italiane che aggredirono e occuparono la Jugoslavia, annettendosi intere regioni della Slovenia, del retroterra della Provincia di Fiume, della Dalmazia e l’intero Montenegro”.

Rendendo omaggio a tutti i fucilati di quelle terre: oltre 400mila civili, di cui più di 100mila rinchiusi nei campi di concentramento di Molat, Arbe, Gonars e molti altri.
Ciò, in risposta ad un comunicato del 25 aprile 2017, a firma di Donatella Schurzel, vice presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, contro le persecuzioni subite dagli ebrei per opera nazista e dalla “comunità giuliano-dalmata vittima di persecuzioni, deportazioni, stragi e violenze nel corso della seconda guerra mondiale a opera dei nazionalcomunisti di Tito”.
Oplà! Con una giravolta la realtà è capovolta.


  1. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2015/07/1953-GLI-SCONTRI-PER-TRIESTE-ITALIANA..pdf  

  2. http://www.corriere.it/cronache/15_marzo_19/foibe-criminali-guerra-fascisti-300-combattenti-rsi-medaglie-ricevute-il-giorno-ricordo-49b164a6-ce59-11e4-b573-56a67cdde4d3.shtml  

  3. http://www.diecifebbraio.info/2012/03/i-riconoscimenti-per-gli-infoibati-ai-criminali-di-guerra-italiani/  

  4. https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/04/il-giornodelricordo-dieci-anni-di-medaglificio-fascista-un-bilancio-agghiacciante/  

  5. http://www.anpi.it/media/uploads/patria/2011/29-34_PAHOR.pdf  

  6. con Luciano Giuricin, Rossa una stella. Storia del battaglione italiano Pino Budicin e degli Italiani dell’Istria e di Fiume nell’esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume, Rovigno, 1975; Ustascia tra il fascio e la svastica, storia e crimini del movimento ustascia, Incontri Editore, Udine, 1976; Bono Taliano. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), La Pietra, Milano, 1977, ristampato per Odradek Edizioni nel 2012;  Juris, juris! All’attacco! La guerriglia partigiana ai confini orientali d’Italia 1943-1945, Mursia, Milano, 1984; con Luciano Viazzi, Le aquile delle Montagne nere: storia dell’occupazione e della guerra italiana in Montenegro (1941-1943), Mursia, Milano, 1987; Dossier foibe, Manni, San Cesario di Lecce, 2005; Il bosco dopo il mare. Partigiani italiani in Jugoslavia, 1943-1945, Infinito Edizioni, Formigine (Mo), 2009; ed altri lavori  

  7. direttrice di “La Nuova Alabarda e la coda del diavolo”, notiziario di informazione culturale, politica e sociale; autrice di interessanti ‘dossier’ monografici: tra cui “L’ombra di Gladio. Le foibe tra mito ed eversione”; “La ‘foiba’ di Basovizza”; “Il caso Norma Cossetto”; “Operazione Foibe: tra storia e mito, Kappa Vu edizioni, Udine, 2005”; La «banda Collotti». Storia di un corpo di repressione al confine orientale d’Italia, Kappa Vu, Udine, 2013  

  8. animatrice della casa editrice Kappa Vu ed autrice di: “Un campo di concentramento fascista. Gonars (1942-1943)”, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2010; “Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943”, Nutrimenti Editore, Roma, 2008  

  9. Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2010; Truffe, fuffe e fascisti… I “premiati” del Giorno del Ricordo. Un bilancio provvisoriowww.diecifebbraio.info, 17 gennaio 2017  

  10. Nome usato da un gruppo di inchiesta sul revisionismo storiografico e le false notizie storiche in rete, con particolare riferimento alle manipolazioni su Wikipedia, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo ha voluto rendere omaggio a Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983  

  11. http://www.casapoundlombardia.org/index.php/en/112-archivio-brescia/164-cpi-brescia-linea-rossa-su-sfondo-nero  

  12. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2016/05/intrigo-nazionale-a-roccabernarda-1-1.pdf e http://www.diecifebbraio.info/2016/03/udine-2332016-la-verita-documentale-sulla-foiba-mobile-di-rosazzo/  

  13. https://www.wumingfoundation.com/giap/2016/12/la-foiba-volante-non-esiste/  

  14. Temistocle Testa, criminale di guerra, Prefetto di Fiume e del Carnaro dal 1938 fino al gennaio 1943. “…tipico Prefetto fascista interprete della guerra di conquista contro la Jugoslavia(…)e della peggiore tradizione sciovinista e anti-slava del fascismo giuliano”, Marco Coslovich, storico triestino.  

  15. Mario Roatta, due volte capo di stato maggiore, generale dell’esercito (monarchico-fascista-repubblichino) regista dell’assassinio dei fratelli Rosselli, autore della famigerata circolare 3-C, che pianificava l’estirpazione degli ‘slavi’ dalle loro terre per insediare gli occupanti italo-fascisti.  

  16. Vincenzo Cuiuli, colonnello dei Carabinieri, kapò del campo di concentramento fascista di Kampor ad Arbe/Rab, soprannominato dalle popolazioni internate, per la sua ferocia, bestialità e viscidità, il Serpente.  

  17. E’ stato calcolato che la percentuale di morti di Kampor è stata proporzionalmente maggiore di quella di Buckenwald  

  18. Testimonianza di Dusan Prasnikar, raccolta da Anton Vratusa in “Dalle catene alla libertà. La «Rabska brigada», una brigata partigiana nata in un campo di concentramento fascista”, Kappa Vu Edizioni, Udine, 2011  

  19. Luigi Papo de Montona, Albo d’oro: la Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale, Unione degli Istriani, Trieste, 1989  

  20. Nell’ ottobre 1943, passato al servizio dei nazisti, fonda il Partito fascista repubblicano e prende il comando di un battaglione della Milizia Difesa Territoriale e della Guardia repubblicana fascista, nata sulle orme della LX Legione Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale di stanza a Pola e operante in Istria, con i tedeschi, fino alla fine di aprile del 1945  



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Davide Conti
GLI UOMINI DI MUSSOLINI
Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana”
Einaudi, 2017
271 pagine
Sul libro si veda anche:



Gli impuniti

di Sebastiano Leotta e Valerio Strinati, 3 ottobre 2017

La pubblicazione del volume di Davide Conti, “Gli uomini di Mussolini”, è un’occasione per approfondire il tema nella persistenza della presenza di personalità gravemente compromesse nell’epoca fascista durante il tempo della repubblica. Ed anche per misurare le difficoltà della piena affermazione delle idee della Resistenza nel dopoguerra, e di conseguenza dell’attuazione coerente della Costituzione. In questa riflessione si interpretano più agevolmente le vicende più drammatiche della storia italiana più recente: da Portella della Ginestra a Piazza Fontana ai ripetuti (ed abortiti) tentativi di golpe. Il tutto, nello scenario imprescindibile della Guerra fredda e dei condizionamenti delle alleanze politiche e militari del nostro Paese. I testi che seguono sono una recensione ed un’intervista: la recensione del volume è di Sebastiano Leotta; l’intervista all’autore Davide Conti è di Valerio Strinati.
G.P. 

La defascistizzazione incompiuta 

Sebastiano Leotta
Esistono eventi storici in grado di distinguere in modo perentorio e drammatico un prima e un dopo, come una specie di irreversibile discrimine: la Controriforma in Germania o le Rivoluzioni francese e russa.
Nella storia italiana, anche precedente all’Unità, è difficile invece rinvenire simili rotture, si pensi al passaggio “fondativo” dal regime fascista alla repubblica, che è stato da un lato ricco di novità assolute come la costituzione repubblicana, ma dall’altro contraddittorio e ambiguo visti i limiti dell’epurazione fascista e la cosiddetta “continuità dello Stato” puntualizzata a suo tempo da Claudio Pavone. E tuttavia la defascistizzazione, per una serie di ragioni che l’autore delinea nell’introduzione, si rivelerà un processo a metà che renderà più difficile l’attuazione della Costituzione, rallentando il transito verso la compiuta democratizzazione della società italiana. Si pensi al mantenimento del codice Rocco e del Testo unico di Pubblica Sicurezza di marca fascista, alla conservazione di pulsioni autoritarie nelle pratiche istituzionali; si potrebbe dire – riprendendo da altro contesto una frase di Saint Just – che la Costituzione fu parzialmente congelata, almeno fino agli anni Sessanta.
Settori della Magistratura e della Polizia, dell’esercito, della burocrazia e dell’università rimangono al loro posto, si sottraggono alle misure di bonifica democratica, gli stessi uomini che furono di Mussolini saranno gli stessi a gestire pezzi del potere istituzionale del nuovo Stato.
Davide Conti nel suo libro Gli uomini di Mussolini analizza la carriera di alcuni funzionari fascisti che ebbero ruoli importanti nell’amministrazione del nuovo Stato, in particolare nei servizi di sicurezza e della gestione dell’ordine pubblico, nomi che diranno poco a molti di noi: gli ispettori di polizia Ettore Messana e Ciro Verdiani, il capo della mobile Rosario Barranco, i generali Giuseppe Pièche e Giovanni Messe, prefetti come Temistocle Testa. Alcuni di questi furono anche imputati, e mai processati, per crimini di guerra compiuti durante l’occupazione italiana della Jugoslavia e della Grecia. Tutti costoro, sopravvissuti al 25 luglio 1943, si ritroveranno al loro posto negli anni del centrismo, della guerra fredda, di Mario Scelba, che, scrive Conti, fu uno dei fautori della rottura del nesso Stato e Resistenza.
Scelba, ministro degli Interni dal 1947 al 1953 e poi dal 1960 al 1962, ricollocò un buon numero di funzionari fascisti in posti chiave per l’ordine pubblico e per la repressione di ciò che si era individuato come nemico dello Stato: comunisti, partigiani, sindacati. La caduta del governo Parri, nonostante tutto il suo epos resistenziale, sembra inevitabile di fronte a una normalizzazione fatta dalla dialettica dei partiti, dalla presenza degli Alleati e di fronte a un nuovo schema geopolitico; scrisse Carlo Levi ne L’orologio, un libro ancora importante per comprendere quel nodo storico, che la grande guerra di Liberazione non era riuscita a bucare le acque stagnanti e fascistizzate dell’amministrazione statale.
Le biografie di fascisti transitate alla Repubblica sono da intendersi come il precipitato individuale di uno sviluppo storico, come scrive Conti, storico e archivista del Senato; si tratta di fare la storia di «un segmento del complesso processo di continuità dello Stato caratterizzato dalla reimmissione e dal reimpiego di un personale politico e militare non soltanto organico al ventennio fascista ma il cui nome, nella maggior parte dei casi, era stato inserito nelle War Crimes delle Nazioni Unite».
È proprio la mancanza di una rottura irreversibile, fatta a tempo debito, che – a mio modo di vedere – consente ancora in Italia che amministrazioni comunali erigano monumenti a Graziani o qualcuno tenti una riabilitazione di un golpista come Junio Valerio Borghese (anche da parte di uno storico come De Felice); la necessità di arrivare a una pacificazione purchessia, di cui l’amnistia Togliatti fu una tappa, portò già nel 1946 a considerare l’epurazione un capitolo chiuso. A livello burocratico, per stare ai numeri, dei 394mila impiegati pubblici solo 1580 furono licenziati e comunque molti rientrarono in seguito.
Il negativo delle carriere esemplari, cominciate nel regime e proseguite nella Repubblica, è quello delle sorti diametralmente opposte dei partigiani epurati e condannati dalle amministrazioni civili e dai tribunali dello Stato (si ricordi la rimozione dei prefetti insediati dal CLN all’indomani della Liberazione).
Giovanni Ravalli, accusato in veste di militare di crimini durante l’occupazione italiana della Grecia diventa prefetto nel 1960 di Catanzaro e poi di Palermo; scrive Conti che egli fu protagonista di una crociata anticomunista le cui vittime furono poveri braccianti e le organizzazioni sindacali della sinistra. Ravalli è morto indisturbato e mai processato nel 1998. L’inquietante Ettore Messana (classe 1888), questore di Lubiana e poi di Trieste tra il 1941 e il 1943, ricercato per crimini di guerra commessi sugli sloveni nel tentativo forzoso di italianizzarli; nel 1945 diviene ispettore di Pubblica sicurezza sotto Bonomi e De Gasperi; viene arruolato in Sicilia nelle attività anticomuniste del dopoguerra e nella repressione delle lotte dei contadini siciliani, e coinvolto nella strage politica di Portella della Ginestra; proteggerà di latifondisti e criminali come Salvatore Ferreri (il noto fra’ Diavolo, fascista e assassino al soldo della Repubblica di Salò). Nel 1953 Messana è collocato a riposo e, su proposta del ministro Scelba, riceverà l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Sull’incompiutezza della defascistizzazione, ha scritto Silvio Lanaro: «gli autentici vincitori dello scontro sull’epurazione, alla fin fine, saranno gli irreprensibili e scrupolosi funzionari della Polizia di Mussolini, simili al protagonista di Notti e nebbie di Carlo Castellaneta che attende placidamente la sconfitta perché sa che i “nuovi padroni” avranno presto bisogno di gente come lui, secondo quanto è sempre accaduto e sempre accadrà fino a che l’uomo sarà fatto della stessa merda».

 


Il “miracolo” della Repubblica e della Costituzione 

intervista di Valerio Strinati a Davide Conti

La rottura tra lo Stato e la Resistenza su cui ti soffermi all’esordio del tuo lavoro, è segnata dalla precoce crisi e dal successivo fallimento dell’epurazione. Quali sono i passaggi cruciali di questa frattura, tra la caduta del primo governo Bonomi e il dopoguerra?
 Il primo fattore di continuità, che precede la stessa formazione organica del movimento di Resistenza, si determina all’interno delle modalità con cui la monarchia, lo stato maggiore del regio esercito e le strutture di vertice dello Stato sabaudo prima depongono Mussolini il 25 luglio 1943 e poi giungono alla firma dell’armistizio dell’8 settembre (ovvero della resa incondizionata).
In quei passaggi si manifestano le basi di un processo di ricostruzione dello Stato che nella logica del re e di Badoglio, nonché degli anglo-americani (soprattutto degli inglesi), è incentrato sulla totale assenza di una soluzione di continuità col passato. La Resistenza e il movimento partigiano riusciranno in parte a modificare questi assetti, e se da un lato i risultati più evidenti saranno la vittoria della Repubblica nel referendum del 2 giugno e la stesura della Costituzione, dall’altro all’interno dei gangli della macchina statale (magistratura, esercito, carabinieri, forze di polizia, pubblica amministrazione, strutture economiche) permangono personale, mentalità, gruppi di potere in grado di opporsi alle istanze di rinnovamento di cui la lotta partigiana si fece portatrice. La f

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(srpskohrvatski / italiano)

Il complotto fascista per smembrare la prima Jugoslavia

0) VIDEO: Ante Pavelić e gli ustascia a Borgotaro + ALTRI LINK
1) Vojislav Jovanović Marambo o atentatu na kralja Aleksandra
[In base a recenti novità storiografiche, derivanti dalla riscoperta di un colloquio del 1951 con il noto intellettuale e diplomatico serbo Vojislav Jovanović Marambo, Mussolini in persona volle accelerare il piano sfociato con l'attentato alla vita del re di Jugoslavia Alessandro (Marsiglia 1934), e Puniša Račić – autore della strage anti-croata all'interno del Parlamento jugoslavo il 20 giugno 1928 – era un agente dei servizi segreti italiani.]


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Ante Pavelić e gli ustascia a Borgotaro (Parma) (caricato da Storia Festival, 2 agosto 2016)
Il campo di addestramento paramilitare degli ustascia che si preparano all'attentato al re Alessandro I di Jugoslavia (Marsiglia, 1934) nel ricordo degli abitanti di Borgo Val di Taro.. Tratto da: Documenti di Storia e di cronaca, di Leandro Castellani (RAI 1969)
VIDEO: http://youtu.be/0hIcjcgjPc4

Sullo stesso argomento:

Poglavnik of Croatia, Dr. Ante Pavelic visits Rome, May 1941

Italia e Stato Indipendente Croato (1941-1943)
di Alberto Becherelli – Nuova Cultura, 2012

Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall'Italia fascista
di Erik Gobetti – L'Ancora del Mediterraneo, 2001

Il Fascismo e gli ustascia - 1929-1941. Il separatismo croato in Italia
di Pasquale Juso – Gangemi Editore, 1998

Indici, recensione ed altri link alla nostra pagina:


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[In base a recenti novità storiografiche, derivanti dalla riscoperta di un colloquio del 1951 con il noto intellettuale e diplomatico serbo Vojislav Jovanović Marambo, Mussolini in persona volle accelerare il piano sfociato con l'attentato alla vita del re di Jugoslavia Alessandro (Marsiglia 1934), e Puniša Račić – autore della strage anti-croata all'interno del Parlamento jugoslavo il 20 giugno 1928 – era un agente dei servizi segreti italiani.]


Vojislav Jovanović Marambo o atentatu na kralja Aleksandra

Nedelja, 28. Jan 2018
IZVOR: RTS
AUTOR: DRAGAN KOLAREVIĆ

U dokumentu o razgovoru sa Vojislavom Jovanovićem koji je obavio istoričar tajanstvenog Instituta 16. juna 1951, zapisan je njegov osvrt na inspiratore atentata na jugoslovenskog kralja Aleksandra Karađorđevića. Prema njegovom mišljenju, Musolini je „ubrzaoˮ ubistvo jugoslovenskog suverena.

Istoričar Instituta je zabeležio u dokumentu koji se čuva u Arhivu Jugoslavije, u Fondu 100:

„... ja sam se bavio proučavanjem atentata na kralja Aleksandra. To je interesantna stvar. To zna i Milan Antić. Nije tačno da su Nemci u tome imali udela kako Rusi kažu. To je bila čisto talijanska stvar. (...) Ovako je bilo sa Aleksandrom: Musolini je bio glavni vinovnik stvari, a jedan detalj je pospešio ubistvo, ubrzao ga. U Zadru je jedan talijanski list doneo članak u kojem je napadao Srbe i prikazivao ih kao kukavice koji su bežali na Kosovu, pred Bugarima itd. Ovaj članak je došao do Aleksandra koji je bio jako uvređen i naredio Stanislavu Krakovu da u ʼVremenuʼ napiše članak protiv Italijana. Tako je u ʼVremenuʼ izašao članak ʼJunaci sa Kapoleta" u kojem se Italijanima na isti način odvraćalo. Musolini kad je pročitao ovaj članak toliko se je bio uvredio da je to pospešilo njegovu odluku da ustaše i VMRO-ovci mogu sprovesti svoj plan. Ja sam tada bio u Londonu i sećam se da je Forenj ofis tražio od nas taj broj ʼVremenaʼ zbog toga članka i to neposredno posle ubistva Aleksandra. Kad sam se vratio u Beograd pitao sam Krakova kako je napisan taj članak, pa mi je on potvrdio da je to bila želja Aleksandra i da je sam Aleksandar pregledao članak pre štampanja. Jedino da je bio izbacio rečenicu u kojoj se prikazivalo kako su Italijani posle poraza kod Adue došli na obalu punih gaća."
Možda je Musolinijevo angažovanje bila neka vrsta osvete zbog velikog dela jadranske obale koji je posle Prvog svetskog rata pripao Kraljevini SHS pre svega zbog delovanja srpskih masona u Francuskoj (u vreme rata), o čemu je pisao Nikoli Pašiću, u dva pisma, dr Vasilije I. Jovanović, advokat, osnivač Srpske revolucionarne akcije, ministar saobraćaja u posleratnoj vladi, predstavnik nove kraljevine u Društvu naroda...

Postoji još jedno izazovno svedočenje o navodnom angažovanju italijanskih „tajnih" službi između dva svetska rata na podrivanju Kraljevine. Ostavio ga je Milan Trešnjić, visoki oficir Ozne i Udbe. Video-zapis tog svedočenja je u posedu autora. Obaveštajac Trešnjić je rekao da je atentat u Skupštini 20. juna 1928, kada je Puniša Račić ubio hrvatskog političkog vođu Stjepana Radića, njegovog brata Pavla i Đuru Basaričeka, isprovocirala „tajna služba" susedne države kako bi političku situaciju učinila nesnošljivom pred istorijski sporazum Radića i kralja o srpsko-hrvatskim sporovima.. Po Trešnjiću, Račić je bio agent italijanske službe. Za vreme rata imao je njihovu zaštitu sve do kapitulacije Italije.

Nezahvalno je proveravati činjenice koje se odnose na delovanje takozvanih tajnih i zavereničkih organizacija. Činjenice ipak ne bi trebalo zaboravljati. Nikada se ne zna kada i gde će se pojaviti „krunski" dokaz. Kada je prošlost u pitanju, ne bi trebalo zaboravljati pretenzije na jadransku obalu, Albaniju, Kosmet, Solun kao kapiju Balkana... Naravno, ne bi trebalo ni preterivati.

Marambo je u razgovoru izrazio nezadovoljstvo zbog toga što mladi kadrovi u tadašnjoj diplomatskoj službi nedovoljno poznaju istoriju:

„Poznavanje naše istorije kod mlađih ljudi je škandalozno. Niko ne zna dobro svoju istoriju, pa kako može vani raditi i davati podatke drugome o svojoj zemlji. Ja sam predlagao još u početku u Diplomatskoj školi da se više uči nacionalna istorija, pa se onda nije uzimalo u obzir, ali se sada tamo posvećuje više pažnje jer je praksa pokazala štetnost toga. Jeste li čitali onaj članak Đilasa o potrebi izučavanja nacionalne istorije, tako stvari valja postaviti. I u tu našu Diplomatsku školu se u početku primalo svakoga, sigurno i danas polovina iz prve grupe i ne radi više u diplomatiji. Jednom je bilo došlo pitanje ʼUzroci Prvog svetskog rataʼ. A on ko vergl ʼzbog držanja srpske soldateske i pripremanja sarajevskog atentataʼ itd. Gluposti i šablon koje jedan komunista ne sme govoriti."

Na kraju ovog teksta o inspirativnim sećanjima Vojislava Jovanovića korisno je istaći da se i tada smatralo da je istorija „nepotrebna". Na sreću, brzo se odustalo od toga pod pritiskom savremenih događaja.




Partigiani italiani e sloveni

1) A Lubiana con i partigiani sloveni (ANPI / ZZB NOB Slovenije, luglio 2018)
2) Italia e Slovenia: un’intesa partigiana. Sottoscritto ad Aquileia un protocollo di collaborazione delle attività dell’ANPI-VZPI e della ZZB NOB della Slovenia (3 marzo 2018)
3) La stella rossa e la “Garibaldi Natisone” (L. Marcolini Provenza, 6 luglio 2017)


Segnaliamo anche, di argomento affine, un articolo sul campo di internamento di Casoli pubblicato dalla rivista "Svobodna beseda" (La parola libera), organo delle associazioni slovene degli ex combattenti della Lotta Popolare di Liberazione, degli internati e dei deportati sloveni e dei loro famigliari e discendenti:
»Koncentracijsko taborišče Casoli - Prepoznavanje internirancev, iskanje svojcev « (Svoboda Beseda, julij 2018.)
Sul campo di Casoli si veda anche: 


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A Lubiana con i partigiani sloveni

Redazione, 18 luglio 2018

Un’importante celebrazione in occasione del 70° anniversario della costituzione dell’Unione dei Combattenti sloveni (ZZB NOB Slovenije). L’intervento a nome dell’Anpi nazionale di Gianfranco Pagliarulo

Il 4 luglio si è svolta a Lubiana una solenne celebrazione del 70° anniversario della costituzione dell’Unione dei Combattenti sloveni (ZZB NOB Slovenije), presso la Sala Vitez del Museo di Storia Contemporanea della Slovenia. All’iniziativa ha partecipato il vicepresidente nazionale dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo, direttore di questo periodico. In un clima di intesa e di solidarietà internazionale, dopo una presentazione del presidente della ZZB NOB Tit Turnšek, è intervenuta con una breve relazione la dottoressa Maca Jogan e successivamente Gianfranco Pagliarulo a nome dell’Anpi nazionale. All’iniziativa ha partecipato una delegazione di dirigenti dell’Anpi giuliana, fra cui il coordinatore regionale del Friuli Venezia Giulia, Dino Spanghero.

All’inizio di marzo di quest’anno era stato sottoscritto ad Aquileia un protocollo di collaborazione delle attività dell’Anpi-Vzpi e della ZZB NOB della Slovenia nell’area confinaria italo–slovena ed era intervenuta la Presidente nazionale Anpi Carla Nespolo, oltre che lo stesso Dino Spanghero. Si concludeva così un lungo percorso di avvicinamento fra le due associazioni come “esempio internazionale di cooperazione e collaborazione tra tre culture, slava, latina e germanica, che hanno gettato le basi per una prassi di buona democrazia e convivenza”.

Va ricordato che la Slovenia nel 1941 fu invasa dalla Wermacht da nord e dalle truppe italiane da ovest. L’esito portò prima all’occupazione tedesca per una parte del territorio e a quella italiana per la zona confinante e la stessa città di Lubiana che fu addirittura annessa al territorio nazionale come provincia, e poi, dopo l’8 settembre 1943, alla formazione della “Zona d’operazioni del Litorale adriatico” comprendente le province italiane di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, sottoposta alla diretta amministrazione militare tedesca. Da ciò, fin dai tempi dell’occupazione fascista, l’organizzazione della Resistenza slovena che si coniugò via via con la Resistenza italiana.

Successivamente sorsero le complesse questioni di confine che si conclusero soltanto il 10 novembre 1975, col Trattato di Osimo, rendendo definitive le frontiere fra l’Italia e l’allora Jugoslavia.

Le complesse e drammatiche vicende del 900, quindi, hanno reso oggi essenziali i rapporti di amicizia fra Italia e Slovenia e fra le due organizzazioni combattentistiche che, proprio nel corso dell’iniziativa di Lubiana, hanno confermato profonde convergenze sui temi di maggiore attualità, come il contrasto verso ogni nazionalismo e razzismo.

“Per queste ragioni – ha affermato Gianfranco Pagliarulo durante il suo intervento – ci sembra urgente avviare la costruzione di una grande unità antifascista su scala europea; vogliamo riprendere così la lezione della Resistenza che, pur formata da persone e gruppi di orientamenti politici ed ideali diversi, vinse perché contrastò unita il nazismo e il fascismo.

A questo fine verso la fine del 2018 daremo vita a Roma ad un incontro europeo fra le più autorevoli forze dell’antico e del nuovo antifascismo, a cui proporremo una comune piattaforma politica, come ha detto Maca Jogan; vogliamo costruire una rete permanente ed un programma di iniziative per difendere e rilanciare nell’intero continente i principi condivisi a cui ci ispiriamo, a cominciare dalla democrazia politica e sociale. Abbiamo con voi, care compagne e compagni sloveni, un rapporto speciale per i vincoli di amicizia e per la prossimità che ci legano. Per questo voi siete i primi a conoscere questa nostra proposta politica ed i primi ad essere invitati all’incontro di Roma”.

Ed ha aggiunto: “Voi, care compagne e cari compagni della ZZB NOB Slovenjie, siete i combattenti e gli eredi dei combattenti della più grande resistenza europea contro il nazifascismo. Con i nostri martiri, i martiri della Resistenza italiana, noi onoriamo i vostri martiri, i martiri della Resistenza slovena; ci sentiamo accomunati da un sentimento che pensiamo stia alla base di qualsiasi resistenza popolare; questo sentimento è in particolare oggi l’unica chiave per aprire il futuro di un mondo di pace e di benessere: la fratellanza. Per questo pensiamo che dobbiamo contrastare in ogni modo vecchi e nuovi nazionalismi che dividono i popoli, creano paure, rancori e odi, trasformano i fratelli in nemici, alimentano discriminazioni”.

Dunque un bell’incontro in una bella città. Lubiana è adagiata fra le sponde del fiume Ljubljanica, ove confluisce con la Sava, ed è caratterizzata da un rilevantissimo numero di ponti dai nomi suggestivi – ponte dei Calzolai, ponte dei Draghi, ponte dei Macellai – e da un ancor più rilevante numero di lapidi che ricordano il sacrificio di tanti suoi cittadini per la libertà e per l’indipendenza. L’iniziativa del 4 luglio presso Museo di Storia Contemporanea della Slovenia è stata, per qualche aspetto, la giornata dei ponti: i ponti per la cooperazione e la collaborazione fra etnie, storie e culture che si intrecciano e si arricchiscono l’una con l’altra.


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Italia e Slovenia: un’intesa partigiana

Patrik Zulian

Sottoscritto ad Aquileia un protocollo di collaborazione delle attività dell’ANPI-VZPI e della ZZB NOB della Slovenia nell’area confinaria italo–slovena. L’intervento della Presidente nazionale Anpi Carla Nespolo e del coordinatore regionale Dino Spanghero

Aquileia, 3 marzo 2018 – Aquileia, città di incontro tra culture e mondi distinti ma in alcun modo distanti, volenterosi di reciproca conoscenza, scambio economico, interazione intellettuale. Non a caso l’incontro tra le massime delegazione antifasciste slovene e italiane ha avuto sabato 3 marzo come cornice e teatro la città di Aquileia: peraltro non era frutto del caso il precedente incontro con l’oggi Presidente Emerito dell’Anpi Carlo Smuraglia ed il Presidente dell’Unione delle Associazione dei Combattenti per i Valori della Lotta di Liberazione Nazionale della Slovenia Tit Turnšek il 28 febbraio 2015 sempre ad Aquileia.

Come ha infatti ricordato e sottolineato il Coordinatore regionale dell’Anpi Friuli Venezia Giulia  Dino Spanghero nel suo intervento-relazione sui contenuti della firmanda Intesa, “Aquileia è un esempio internazionale di cooperazione e collaborazione tra tre culture, slava, latina e germanica, che hanno gettato le basi per una prassi di buona democrazia e convivenza. Questo luogo non conosce razzismi e nazionalismi ma è abituato ad una cooperazione trasversale non confinata in soffocanti logiche di appartenenza nazionale”.

L’Italia liberale prima e fascista dopo, nonché l’annessione violenta al Terzo Reich attraverso la fondazione dell’Adriatisches Kunstenland da parte della Germania nazista dopo l’8 settembre 1943, hanno voluto a tutti i costi cancellare questo lascito di prassi democratica e cooperazione interculturale per affermare una artificiale e faziosa supremazia dell’italianità e della razza superiore. Ma la forte ed unitaria rivolta antifascista condotta dai combattenti sloveni ed italiani ha saputo, riuscendovi, riportare le forme di rappresentazione storica ad un’unica realtà verificabile ed intrinsecamente adeguata: la fratellanza e l’unità tra i popoli nel comune sentire antifascista, nella condivisione quindi di un sistema di valori universalmente riconosciuti e slegati dalle logiche di nazione, nazionalità o cultura.

Ciò è stato anche ampiamente confermato nella giornata di sabato 3 marzo, in cui nella sala del consiglio comunale di Aquileia sedevano compagni rappresentanti delle associazioni combattentistiche slovene e italiane che, seppur in larga misura non conoscendo reciprocamente la lingua dell’altro, si sono uniti ancora una volta in forza di quegli ideali antifascisti che hanno giocato un ruolo dirompente e decisivo nella comune vittoria sulla bestia fascista e nazista.

Le traduzioni degli interventi sono dunque sfociate nel pleonasmo, in quanto l’uditorio sentiva e sapeva benissimo qual è lo spirito che muoveva la firma dell’Intesa di coordinamento delle attività delle associazioni resistenziali slovene ed italiane a ridosso del confine nazionale. Questo spirito smentiva come false e astoriche le affermazioni di certa parte politica e associativa, che vogliono dipingere il confine italo-sloveno come luogo di scontri e pulizie etniche di ogni sorta e calibro, e che si presentano con sempre maggior veemenza dopo l’approvazione di quella discutibile legge del 2004; nella legge si mescolano fatti e avvenimenti storicamente slegati l’uno dall’altro e frutto di decennali cause e concause, ma rappresentati come avvenimenti di per sé esaustivi: foibe, esodo, e, sempre più rilegata nel dimenticatoio “la più complessa vicenda del confine orientale”. La più eclatante e misconosciuta delle quali è lo spostamento dello stesso confine per almeno sei volte nell’arco di nemmeno due generazioni, destabilizzando così territori interi con le loro popolazioni, ritrovatesi entro Stati diversi, con diversi ordinamenti giuridici e differenti posizioni governative ed ufficiali verso le maggioranze o minoranze venutesi artificialmente a creare.

La giornata del 3 marzo si presenta quindi come giornata di festa, con l’avvallo delle massime rappresentanze resistenziali italiane, la Presidente Carla Nespolo, e slovene, il Presidente Tit Turnšek, richiamando sempre la fratellanza tra italiani e sloveni, così come oramai prassi negli incontri internazionali come quello citato del 28 febbraio 2015 tra Smuraglia e Turnšek sempre ad Aquileia e come quello di Gorizia del 2013, a cui aderirono anche il Presidente dell’Unione dei Partigiani Combattenti ed Antifascisti della Repubblica di Croazia (SABA RH) Ratko Marićić e la Presidente dell’Unione dei Partigiani della Carinzia Austriaca Katja Šturm-Schnabl. L’intesa infatti riprende e ingloba i contenuti di entrambe le precedenti Risoluzioni e Dichiarazioni congiunte, a riprova che questi incontri ai massimi livelli non si verificano in maniera isolata e non coordinata, ma sono il frutto di un percorso da costruirsi comunemente e tuttora in fieri.

Il passo avanti dell’intesa di quest’anno è difatti, come esaustivamente riportato da Dino Spanghero, il coordinamento delle attività dell’ANPI – VZPI [1] e della ZZB-NOB della Slovenia nell’area confinaria italo-slovena. In questa direzione si stanno già muovendo il Coordinamento regionale del Friuli Venezia Giulia e il Distretto dell’Unione dei Combattenti di Nova Gorica, avendo già assunto l’impegno di dare concreta attuazione all’intesa con la promozione di un tavolo italo-sloveno composto da dieci rappresentanti per ogni parte con la previsione di una prima seduta d’insediamento del nuovo organismo paritetico già per il mese di maggio. La collaborazione italo-slovena ha sempre prodotto buoni frutti e dalle premesse si deduce che così sarà anche nel futuro prossimo venturo.

Tornando alla giornata di festa antifascista, va ricordato il saluto da parte dell’organismo ospitante nella persona del sindaco di Aquileia Gabriele Spanghero, che si è detto fiero di ospitare già per la seconda volta un incontro internazionale di enorme portata ideale e di valori. Il sindaco ha inoltre sottolineato che l’incontro si svolge nella sala consiliare, ovvero nel luogo concreto di svolgimento di quella democrazia per cui le forze unite partigiane hanno combattuto ed l’hanno infine ottenuta al prezzo di enormi sacrifici e perdite di giovani vite. Ha ricordato anche la manifestazione nazionale antifascista del 24 febbraio a Roma, ribadendo che mai il fascismo e l’antifascismo possono essere concepiti solamente come due varianti di opinione. L’antifascismo è pace, libertà, cooperazione, il fascismo è un crimine.

Il Presidente della sezione Anpi di Aquileia, Lodovico Nevio Puntin, ha ricordato come la lotta per la Liberazione ha avuto avvio prima in Jugoslavia che in Italia ed e proprio per questo che nel Triestino, nel Goriziano e nell’Udinese si è potuto assistere ad un’insurrezione precoce già nel biennio 1942 e 1943 grazie allo sprone ed all’assistenza data dalle formazione del IX Corpus di Tito agli partigiani italiani, ed anche grazie all’internazionalismo operaio delle grandi realtà produttive dell’Isontino, esempio fra tutti l’Italcantieri di Monfalcone, che hanno dato i natali alla prima formazione partigiana d’Italia, la Brigata Proletaria, che si è distinta subito dopo l’otto settembre 1943 nella Battaglia di Gorizia.

La Presidente Nespolo e l’omologo sloveno Turnšek nei loro interventi hanno trovato profondo accordo nel constatare l’inefficacia (e la mancata volontà) delle istituzioni europee a far fronte alla sempre più marcata diseguaglianza sociale frutto della crisi finanziaria mondiale. In questo modo la rabbia e la volontà di riscatto si sfogano attraverso l’adesione crescente ad organizzazioni antidemocratiche, xenofobe e infine funzionali alle classi finanziarie dominanti, che trovano nella guerra tra ultimi e penultimi della società terreno fertile per fagocitare quel poco che rimane dello stato sociale, del diritto del lavoro, del diritto alla dignità del singolo. L’Europa sta così sprofondando nella melma separatista ed ultranazionalista, così simile al brodo di coltura dei fascismi europei della prima metà del secolo scorso. L’auspicio è quindi che tutte le associazioni europee consorelle possano fare proprie le istanze minime di democrazia e dignità dell’uomo ribadite nell’Intesa italo-slovena, nella consapevolezza che solamente attraverso il sistema di valori posto dalla Lotta di Liberazione, che trascende nazionalità e appartenenza a gruppi ristretti di interessi particolari, si possa approdare ad un Europa a misura d’uomo, migrante o meno, e non a sponda sicura per speculazioni finanziarie e operazioni bancarie a totale disprezzo della dignità umana.

La Presidente Carla Nespolo ha inoltre sottolineato la lotta alla galassia nera operante in Italia, affermando che il Ministero dell’Interno ha il compito, in base alla XII Disposizione transitoria e finale ed in forza delle leggi Scelba e Mancino, di sciogliere le organizzazioni neofasciste: questo deve essere un punto fermo, che non può essere messo in discussione dalla diatriba tra amministrazione e potere giudiziario in merito all’interpretazione della legge.

La collaborazione italo-slovena è pertanto insediata su un binario forte e storicamente e fattualmente fondato: la prossima tappa sarà l’incontro tra la Presidente Nespolo e Tit Turnšek a Lubiana a luglio 2018 in occasione delle celebrazioni per il 70° anniversario della costituzione della ZZB za vrednote NOB Slovenije (L’Unione delle Associazioni dei Combattenti per i Valori della Lotta di Liberazione Nazionale della Slovenia).

Patrik Zulian, del Comitato Nazionale dell’Anpi

[1] VZPI è l’acronimo sloveno che sta per ANPI, e corrisponde a VSEDRŽAVNO ZDRUŽENJE PARTIZANOV ITALIJE. Il F-VG ha infatti adottato, con ordine del giorno presentato al Consiglio nazionale di Chianciano Terme e successivamente approvato dal Comitato Nazionale, la denominazione bilingue, peraltro prassi già lungamente consolidata nei Comitati Provinciali di Trieste e Gorizia.


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La stella rossa e la “Garibaldi Natisone”

Luciano Marcolini Provenza, 6 luglio 2017

La Divisione partigiana d’Assalto italiana che operava in Slovenia. Il monumento ai Caduti a Bukovo. La commemorazione del 4 giugno

Da qualche anno è scomparso il compagno Gino Lizzero “Ettore”, Capo di Stato Maggiore della Divisione d’Assalto “Garibaldi Natisone”. Tra le mani ho un suo appunto:

“Gennaio 1945. La Brigata Picelli, una delle tre Brigate della Divisione Natisone, è formata dai tre Battaglioni Manin, Verrucchi e Pisacane; dopo il tentativo di passare il fiume Bacia che le costò una quarantina di perdite umane e di molte armi e materiali vari, era valorosamente riuscita, percorrendo un percorso molto più lungo e insidioso, a raggiungere stremata la zona operativa del IX Corpus, nei dintorni di Circhina, sistemando i suoi tre battaglioni sull’altipiano di S. Vito, in cui esistono i piccoli abitati di Bukovo, Pecine e Panique. Il nome di Bukovo, in particolare, risuona tragicamente per i garibaldini che vi conobbero gravissime vicissitudini ed esperienze.

16 gennaio 1945. Una pattuglia del Manin in perlustrazione cade in un’imboscata tesa dal nemico che ha goduto dell’appoggio della popolazione civile e subisce la perdita di 6 garibaldini, 5 uccisi in combattimento e uno catturato e fucilato.

21 gennaio 1945. Sempre a Bukovo, nel centro dell’abitato, una pattuglia del Battaglione Mameli della Gramsci cade in un’imboscata tesa dai bersaglieri fascisti, con l’appoggio della popolazione si spara dalle finestre delle case. 17 garibaldini cadono subito, altri 7 dati per dispersi sono certamente morti. In totale 24 caduti.

In tutta la zona dell’altipiano di S. Vito (Jessenice, Bukovo, Paniqua, Zakoica e Pecine*) i combattimenti sono continui e numerose le perdite dei garibaldini e del nemico”.

La “Garibaldi-Natisone”, presente in zona proveniente dalle zone del Friuli orientale da una ventina di giorni, aveva già perso diversi compagni nell’imboscata sulla passerella del fiume Bača nella notte del 1° gennaio del 1945, pochi giorni dopo le imboscate di Bukovo: nell’arco di soli 20 giorni sono circa 70 i Caduti!

Bukovo è una frazione del Comune di Cerkno distante una quarantina di chilometri da Kobarid/Caporetto, italianizzato nel 1923 con regio decreto a firma Mussolini, in Pieve Buccova. In realtà il toponimo deriva dalla parola slovena Bukov = faggio e sta evidentemente a indicare una caratteristica del territorio boscoso. La strada per raggiungere Bukovo s’inerpica infatti lungo pendici ricche di faggi, querce e pini: l’intera scoscesa valle prende il nome di Bukovska Grapa. Porta testimonianza, questo insensato nome italiano, della violenta repressione, oltre che economica e sociale, anche linguistica subita in epoca fascista (e non solo!) dal popolo sloveno.*

Il monumento che ricorda il sacrificio di questi partigiani, è stato eretto nel 1982 da Z.B. NOV di Bukovo e da ANPI Rizzi di Udine, si trova in una posizione panoramica, consiste in sei stele di pietra, opera dell’architetto Nande Rupnik di Idria e dello scultore udinese Reno Coiz (partigiano della “Garibaldi-Natisone” ora novantunenne), su cinque di queste in rilievo e sovrapposte l’una all’altra, si riconoscono tre grandi stelle e sulla sesta la scritta in italiano e sloveno: “24 garibaldini caduti nel gennaio 1945”.

Grazie all’interessamento dei compagni Jože Jeram (Presidente della ZZB-NOB di Cerkno/Circhina) e di Vojko Hobič (Presidente della ZZB-NOB di Kobarid/Caporetto) è stato ritrovo, il 4 giugno 2017, della commemorazione dei Caduti della “Garibaldi-Natisone”.

La domanda spontanea che sorge a un lettore che non conosce la storia delle nostre zone è: cosa ci facevano dei partigiani italiani in queste valli della Slovenia?

A complicare le domande e a disorientare ulteriormente un visitatore poco informato, a poche centinaia di metri un monumento, sormontato da una stella rossa, ricorda i primi quattro caduti partigiani sloveni della zona trucidati dall’Italia monarchica e fascista alla vigilia di Natale del 1942!** Per risolvere l’arcano è necessario armarsi di buona volontà e leggere e informarsi sulle complesse vicende che hanno caratterizzato il confine orientale italiano non lasciandosi fuorviare dalla vulgata attuale che vede terrore comunista dove invece fu solo terrore fascista!

Alla cerimonia, di respiro internazionale, sono intervenute le rappresentanze partigiane della Carinzia (Marija Koletnik), i Presidenti delle Associazioni partigiane slovene della zona, il sindaco di Cerkno, l’ex console della Jugoslavia a Trieste Stefan Cigoj, il rappresentante dell’Ambasciata della Federazione russa in Slovenia Anatoly Kopilov (nel 1945 in zona operava una missione sovietica in contatto con il Comando del IX Korpus sloveno e con il Comando della “Garibaldi-Natisone”), le rappresentanze dell’ANPI regionale del FVG, di Udine e di Cividale del Friuli e anche lo scultore-partigiano Reno Coiz. A onorare i caduti un picchetto dell’Esercito sloveno.

Nel suo discorso il compagno Milan Gorjanc, membro della Presidenza nazionale della ZBB-NOB, ha ricordato il grande contributo dato dagli italiani alla Lotta di Liberazione del popolo jugoslavo, in Montenegro come in Serbia, in Croazia come in Slovenia. Segno che i nostri partigiani seppero riscattare le vergognose guerre di aggressione fasciste e la durissima repressione contro le popolazioni locali. Anche il Presidente del Comitato regionale del Friuli Venezia Giulia, Dino Spanghero, ha incentrato il suo intervento sulla collaborazione tra i nostri popoli, rimarcando che il più nobile degli insegnamenti è senz’altro quello di aver dimostrato che vivere insieme si può, che lottare insieme si vince, che ragionare insieme si progredisce. Ora è più che mai necessaria – sostiene Spanghero – una rete di scambio di esperienze, l’unione in un comune fronte antifascista, atto a combattere i rinascenti rigurgiti di xenofobia, razzismo e populismo che attraversano l’Europa.

L’attrice slovena Milena Zupančič ha recitato poi la testimonianza della signora Stefanija Raspet, all’epoca dei fatti ragazzina quindicenne, che lucidamente ricorda ancora quegli avvenimenti. Da tale testimonianza risulta chiaramente che la popolazione di Bukovo non appoggiò l’azione nazi-fascista ma fu invece segregata nelle proprie abitazioni e costretta al silenzio mentre i nazisti e i fascisti italiani ordivano l’imboscata contro i partigiani.

Il coro di Bukovo e il Coro della Resistenza di Udine hanno intonato assieme l’inno partigiano “Na Juriš” e singolarmente altre canzoni della Resistenza italiana e slovena. I ragazzi della scuola hanno recitato delle poesie accompagnate dal suono della fisarmonica.

La commemorazione, alla quale hanno partecipato oltre 200 persone, è finita in un incontro conviviale nei pressi della locale stazione dei Vigili del Fuoco con la promessa e la speranza di ritrovarci il prossimo anno.

In mattinata circa 40 soci dell’ANPI, grazie alla grande disponibilità della Direzione del Museo di Idria, sono state ospiti dell’Ospedale Partigiano “Franja” dove è stato ricordato il partigiano cividalese Rino Blasig “Franco” Medaglia d’Argento al Valor Militare e gli altri caduti a “Franja” e il medico Partigiano Antonio Ciccarelli “Dr. Anton” che prestò la propria assistenza medica fino alla fine della seconda guerra mondiale in Slovenia prima con i partigiani sloveni e poi con la Divisione d’Assalto “Garibaldi-Natisone”.

Luciano Marcolini Provenza, dell’ANPI Cividale del Friuli

* l’esatta denominazione dei luoghi tutti rientranti nel comune di Cerkno è: Jesenica, Bukovo, Ponikve, Zakojca e Pečine;

** I loro nomi sono: Jeram Bogdan, Čelik Peter, Erzen Valentin e Pajntar Gabrijel



[Sulla autogestione]

O samoupravljanju

1) Povodom Dana Samoupravljača: Od teorije pokreta do prakse (SRP Split, 26. 06. 2018.)

2) P. Vukčević: Oblici ostvarivanja samoupravljanja u organizacijama udruženog rada (iz Doktorske disertacije „Ostvarivanje samoupravljanja u privrednim organizacijama Splitske regije” – empirijska istraživanja u vremenu od 1984. do 1989. godine)

3) P. Vukčević: O nekim aspektima, idejama i problemima samoupravljanja ("Naša Jugoslavija", 2013. godine)


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POVODOM DANA SAMOUPRAVLJAČA – O SAMOUPRAVLJANJU, OD TEORIJE POKRETA DO PRAKSE



SRP: SAMOUPRAVLJANJE – RADNIČKA PERSPEKTIVA

 

Radničko samoupravljanje, engleski „worker self-management“ ili francuski „autogestion“, oblik je radničkog odlučivanja u poduzećima po svim važnim pitanjima rada i upravljanja. Javlja se u povijesti na više strana svijeta: u španjolskom građanskom ratu, u Jugoslaviji, u Argentini, Francuskoj, SAD i drugdje – nastao najčešće kao pokret radnika u spašavanju  tvornica nakon stečaja ili likvidacije. Prvu teoretsku podlogu radničkog samoupravljanja kao mogućnost izradio je francuski filozof-anarhist Pierre Joseph Proudhon u prvoj polovini 19. stoljeća, a prihvatile su je revolucionarne sindikalne organizacije.

Socijalistička inačica radničkog samoupravljanja, kojeg poznajemo na jugoslavenskom geografskom prostoru kao društveni i privredni  model, je socijalističko radničko samoupravljanje u Jugoslaviji, uspostavljeno intencijom KPJ, a odlučeno u Narodnoj Skupštini FNRJ dana 27. 6. 1950. kao „Osnovni zakon o upravljanju u državnim privrednim poduzećima i višim privrednim udruženjima od strane radnih kolektiva“, popularno nazvan „Zakon o radničkom samoupravljanju“, čemu je prethodilo formiranje prvog Radničkog savjeta 29. 12. 1949. u tvornici cementa „Prvoborac“ u Solinu, kao početak procesa predaje poduzeća na upravljanje radnicima i odvajanje države od privrede, u skladu s idejnim  smjernicama Tita te teoretskim i praktičkim razradama Edvarda Kardelja i drugih – kasnije i uz veliki doprinos teoriji i praksi znanstvenika Branka Horvata.

Tih dana Tito je izjavio: „Formiranje prvog Radničkog savjeta u tvornici ‘Prvoborac’ u Splinu označio je početak nove etape u razvoju našeg društva i borbe za ostvarenje neposredne vlasti radničke klase.“

Ideja o samostalnom putu u slobodni socijalizam stvaranjem Radničkih savjeta, poticano parolom „Tvornice radnicima – zemlja seljacima“, stvarani su uvjeti za oslobađanje od iznimnog sovjetskog utjecaja i otklona od etatističko-administrativnog modela socijalizma. Naročito je sazrela u vrijeme IB-a, vođena od strane nekih utjecajnih komunističkih lidera koji su smatrali da je samoupravna ideja provedena još u ratnom vremenu osnivanjem Narodnooslobodilačkih odbora (NOO). Radničkim savjetima je provedeno uvođenje radnika u neposredno upravljanje industrijom, čime su se stvorile pretpostavke za provedbu Marxove ideje o odumiranju države dolaskom proletarijata na vlast. Samoupravljanjem i decentralizacijom, Radnički savjeti su imali široke ovlasti u upravljanju donoseći najvažnije odluke u radu poduzeća, zaključke o poslovanju, postavljanju i smjenjivanju Upravnih odbora i druge. Međutim, Radničkim savjetima se često negirala uloga u rukovođenju privredom pa su samoupravljanje i decentralizacija imale funkciju razgraditi i omekšati okoštali administrativni sustav socijalizma. Uvođenje samoupravljanja nije naišlo na jednodušnu podršku lokalnih partijskih organa koji su Radničkim savjetima davali samo savjetodavnu ulogu u poduzećima, problematizirali ulogu sindikata te strahovali od gubitka dijela vlastite moći pa namjera odvajanja države od privrede, uvođenjem samoupravljanja, nikada nije provedena u potpunosti.

Nakon privrede, provedene su reforme i u lokalnoj samoupravi u duhu samoupravljanja pa su, zakonom iz 1952. godine, Narodni odbori dobili ovlasti koje su u neposrednom interesu lokalne zajednice, na tragu Marxovog teoretskog stava o komunama – dakle komunalni, socijalni i kulturni razvitak komunalne zajednice.

Veliku prekretnicu i značaj u razvoju samoupravljanja imao je VI. kongres KPJ, održan od 2. 9. do 7. 9. 1952., po pitanju uloge partije u uvjetima samoupravljanja, koji je okarakteriziran kao prijelomni događaj u razvitku socijalističkih društvenih odnosa, te je odbačena uloga Partije kao neposrednog operativnog rukovoditelja i naredbodavca u državnom i društvenom životu, već da postane avangarda radničke klase i da svojim utjecajem izbori svoje stavove.

Vladajuća struktura KPJ bila je opsjednuta razbijanjem birokracije pa je u izmjenama Ustavnog zakona, donesenog 13. januara 1953., uvela „tri D“ – debirokratizacija, demokratizacija, decentralizacija – te dvodomnu Narodnu skupštinu sa Saveznim izvršnim vijećem (SIV) i Vijećem proizvođača, kojeg su činili predstavnici Radničkih savjeta, a čime je institucionalizirana Marxova diktatura proletarijata.

Uvođenje samoupravljanja i privrednih promjena mijenjalo je i samu Komunističku partiju koja postaje masovnija i prelazi u Savez komunista Jugoslavije (SKJ), a Narodni  front u Socijalistički savez radnog naroda Jugoslavije (SSRNJ).

Historičari samoupavnog socijalizma dijele ga na tri, zapravo četiri, razdoblja:

0. Nulto razdoblje od 1945. – 1950. – predsamoupravno razdoblje (samoupravljanje prije samoupravljanja) naziva se administrativni socijalizam

1. Prvo razdoblje od 1951. – 1965. – nazivamo administrativno-samoupravni socijalizam; donošenjem „Osnovnog zakona o upravljanju privrednim poduzećima“ 1950. te podignut na ustavnu razinu 1953., što je bio pokušaj vodstva Jugoslavije nakon sukoba sa Staljinom da ima svoju originalnu viziju društva

2. Drugo razdoblje od 1965. – 1971. – slijedi nakon privredne reforme 1965., kojeg nazivamo tržišno-samoupravni socijalizam, a Ustavom iz 1963. raširio se na saveznoj i republičkim razinama; ostvaruje koncept samoupravljanja izvan privrede i na sve društvene djelatnosti

3. Treće razdoblje od 1971. – 1990.-ih – vrhunac samoupravnog koncepta društva bile su promjene Ustava SFRJ iz 1974. i Zakonom o udruženom radu 1976.; od tada samoupravljanje postaje model upravljanja cijelim društvom – sve dotadašnje radne organizacije preoblikovane su u „Organizacije udruženog rada“ (OUR) koje se udružuju u „Složene organizacije udruženog rada“ (SOUR), a ostale postaju samoupravne kao Udružene samoupravne interesne zajednice (USIZ).

Kako je takav model društva kompleksan, brzo se širio, ali i počeo urušavati prema 90-ima te s toga nema točnu definiciju, možda „pravci razvoja u demokratizaciju i pluralizam“ po knjizi E. Kardelja (Komunist iz 1978.) „Pravci razvoja političkog sistema socijalističkog samoupravljanja“.

U ovom periodu, jugoslavenski ekonomski sistem imao je jedinstvenu specifičnost:samoupravni sporazum (kao pravno obvezujući ugovor između samoupravnih organizacija u društvenom sektoru) i društveni dogovor (kojim su regulirani međusobni odnosi između OUR-a, SIZ-ova, saveznih i republičkih sekretarijata, sindikata i privrednih komora).

Ta tri razdoblja personificiraju tri ličnosti koje su im dale teoretsku podlogu, iako se ne mogu svesti samo na njih: Boris Kidrič, kao tvorac administrativno-samoupravnog modela, Vladimir Bakarić, kao nositelj tržišnog socijalizma, i Edvard Kardelj, koji je pokušao tržišni zamijeniti normativnim, a turbulentne osamdesete obilježile su beskonačne rasprave između „dohodaša“ i „profitaša“.

Ostatke samoupravljanja, nakon raspada Jugoslavije, vidimo još neko vrijeme u Sloveniji, a nekima su trebala desetljeća da uklone sve tragove tog sistema.

Zašto se danas, nakon toliko godina, bavimo iskustvima jugoslavenskog socijalističkog samoupravljanja?

Prije svega, jer je to jedinstveni primjer u svijetu, prvi put u povijesti da se radnika i radničku klasu Ustavom i zakonom podiglo na pijedestal vlasti i vlasnika, čime im je bilo garantirano pravo na vlasništvo, upravljanje nad sredstvima za proizvodnju i rezultatima rada! Time je u potpunosti bespredmetna bilo kakva usporedba položaja radnika-samoupravljača i najamne radničke klase u ostatku svijeta.

Nadalje, jer je ostvarena potpuna emancipacija čovjeka-radnika i radničke klase od tutorstva, terora i okova države, kapitala i vlasnika. Ujedno, to je i borba protiv revizije svega postojećeg koja mora biti ne samo antifašistička, nego i antikolonijalna i antiimperijalistička, jer je sve to već sadržano upravo u borbi za samoupravni socijalizam.

Polazeći od programskih načela SRP-a, koji svoja utemeljenja nalazi u izvornom marksizmu te dugoročno, programski zagovara upravo socijalizam samoupravnog tipa, smatramo da samoupravljanje nije otpisano, a još manje da je sahranjeno, već upravo obratno: što je veći pritisak kapitala za revizijom radnička prava, to će biti i sve snažniji otpor radničke klase. Želimo također naglasiti da je SRP obavezan uporno ukazivati na činjenicu da se radnici u današnjoj kapitalističkoj Hrvatskoj, usprkos potpunoj društvenoj degradaciji, nerado pozivaju na prošlost koja je bila daleko humanija i u kojoj su bili značajna društvena grupacija, ali su im sjećanja blokirana agresivnim ispiranjem mozga, kako od strane ideologije nacionalizma i neoliberalizma, tako i uz jaku dozu antikomunizma koja dolazi iz vjerskih krugova, koji kao da su došli na svoje: „Raj se ipak nalazi s onu stranu života i svaki dobar antikomunista dobit će od Crkve ulaznicu za Raj nakon smrti.“

Konkretnije rečeno, radnička klasa je deklasirana zbog klero-nacionalizma, nezaposlenosti, ekonomskog, socijalnog i političkog kaosa i oštre restrikcije radničkih prava. Izgubila je tradiciju borbe i vlastiti politički i klasni identitet, klasnu svijest i radničku solidarnost . Uskrsla im je prošlost, ustali su mrtvi bogovi, uplovili su u divlji, primitivni i retrogradni kapitalizam, nesvjesni da su kao najbrojnija društvena grupacija, jedinstvom  i radničkom solidarnošću, koja im daje neslućenu snagu i moć, sposobni mijenjati  ove nehumane, nepodnošljive i diskriminirajuće društvene odnose.

Zato i tražimo sve ono što bi nam moglo poslužiti u suočavanju i prevladavanju problema kapitalizma 21. stoljeća, a ti su rezultati daleko u korist samoupravljanja, što priznaju i oni koji rješenja ne vide u nekakvom socijalizmu 21. stoljeća. Dakle, ovime ne dovodimo u pitanje aktualnost socijalističkog samoupravljanja koje je postojalo jučer, a postojat će i ubuduće, jer je sve aktualnija društvena alternativa „socijalizam ili barbarstvo“, zapravo alternativa „socijalizam ili fašizam“ ili čak „civilizacija ili barbarizam“, pa je poznata krilatica danas jednako aktualna kao u vremenu kad ju je izrekla slavna revolucionarka Rosa Luxemburg.

Upravo krize koje stalno generira kapitalizam, nesposoban da razriješi osnovne proturječnosti društva, iniciraju proces obratno proporcionalan radničkih pravi i stanja društva: što je kriza kapitalizma izrazitija – to su i radnička prava manja!

Dakle, sve se lomi preko leđa radnika – smanjivanjem radničkih prava, pogoršavanjem općih uvjeta rada, produljenjem radnog vremena, neplaćanje prekovremenih sati, zapošljavanje na određeno vrijeme, nesigurnost rada, plaća i drugog – što je u Hrvatskoj naročito izraženo. Ako se uzme u obzir da su prava samoupravljača u svoje vrijeme daleko nadilazila prosjek prava njihovih evropskih kolega, ovih dana, po zadnjem izvještaju EU, stanje prava radnika u Hrvatskoj je krajnje poražavajuće, jer je na samom začelju, pa je gotovo nevjerojatno da u nas nitko apsolutno ne reagira: ni radnici, ni sindikati, ni poslodavci, ni država – opijeni već spomenutim opijatima.

Zato je poruka radnicima: samoupravljanje je jedina radnička perspektiva, okupljajte se oko tog barjaka, jer kapitalisti ne mogu bez radnika, radnici mogu bez kapitalista – dokazali samoupravljanjem!

 

Split, 26. 06. 2018.

SRP Gradska organizacija Split


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OBLICI OSTVARIVANJA SAMOUPRAVLJANJA U ORGANIZACIJAMA UDRUŽENOG RADA


iz Doktorske disertacije „Ostvarivanje samoupravljanja u privrednim organizacijama Splitske regije” (empirijska istraživanja u vremenu od 1984. do 1989. godine)

 
Samoupravljanje radnika osobnim izjašnjavanjem
 

Samoupravljanje je specifičan oblik socijalističke demokracije (koja je po svom biću masovna i neposredna), a kao bitnu komponentu sadrži individualno i neposredno učešće ljudi u donošenju odluka o društvenim poslovima. Nužno se izražava i kao samoupravljanje osobnim izjašnjavanjem kao oblikom odlučivanja i vršenja samoupravnih prava, obaveza i odgovornosti, u kojem radnik individualno izražava svoju volju i poduzima druge radnje samoupravljanja. Neposrednost upravljanja, prema tome, nije samo političko-pravna, već također i pravno načelo. Ono ima ustavnu prirodu, budući da ga Ustav SFRJ (i ustavi socijalističkih republika i autonomnih pokrajina) definiraju i izričito i posredno.

Radnje samoupravljanja osobnim izjašnjavanjem se mogu poduzimati u različitim oblicima i na različite načine, ali se uvijek vrše povezano s radnjama drugih radnika i ravnopravno s njima. Oblici osobnog izjašnjavanja u organizaciji udruženog rada predstavljaju najvažniji segment neposrednog demokratskog procesa socijalističkog samoupravljanja zato što organizacija udruženog rada mora biti organizirana tako „da radni ljudi u svakom djelu procesa rada i u svakom djelu organizacije odlučuje o pitanjima svoga rada“, (ustav SFRJ, član 89). Radnik u organizaciji udruženog rada odlučuje o svim svojim društveno –ekonomskim pitanjima, svom statusnom položaju, poslovanju i upravljanju organizacijom udruženog rada i u tome je ravnopravan s drugim radnicima, bez obzira na posao koji obavlja i funkciju koju vrši u međusobnoj podjeli rada. U organizacijama udruženog rada, radnici su obavezni odlučivanje organizirati tako da svaki radnik može ravnopravno učestvovati u povezivanju i usklađivanju različitih interesa, kontrolirati provođenje odluka i zaštitu svojih prava.

 
Samoupravno odlučivanje radnika u OUR-a zborom radnika
 

Sa socio-ekonomskog i političkog stanovišta, zbor radnika je skup (za)interesiranih radnika organiziranih u cilju usklađivanja interesa kroz diskusiju, temeljem ustava, ZUR-u i drugim zakonima, reguliran statutom i samoupravnim opštim aktom.

Zbor radnika je oblik organizacije kroz koji radnici neposredno odlučuju, iniciraju, raspravljaju, a u cilju donošenja odluka u OUR-a. Svojom pozicijom zbor radnika sadržajno određuje dio modela totalnog samoupravnog odlučivanja.

Zbor radnika odlučuje, inicira, raspravlja, predlaže, daje mišljenje o procesima i ciljevima posebnog i zajedničkog interesa radnika OUR-a. Polazeći od zakonskih regulativa, radnici na zborovima „razmatraju opća pitanja rada i razvoja organizacije, raspravljaju o izvještajima organa upravljanja i obavljaju druge poslove upravljanja…“,(Zakon o referendumu i drugim oblicima odlučivanja osobnim izjašnjavanjem SR Hrvatske, „Narodne novine“ SRH 21, 1977.). Drugu grupu poslova predstavlja odlučivanje o pojedinim pitanjima u skladu s pravnim aktima, a treću kontrola „nad radom delegacija i delegata izabranih delegatska tijela društveno-političkih zajednica“, (isti navedeni dokument).

Obavezna nadležnost zbora radnika određuje se zakonom i samoupravnim općim aktom, shodno pravu na samoupravljanje, gdje se polazi od toga da zbor radnika definitivno odlučuje o pitanjima iz nadležnosti radničkog savjeta, zatim kada se zbog malog broja radnika radnički savjet u OUR-a ne osniva. Djelokrug rada zbora se tada povećava. Ako radnički savjet postoji, zbor konačno odlučuje o pitanjima koja su mu zakonom i samoupravnim općim aktom određena kao isključiva nadležnost.

Ukoliko je to moguće, odnosno ako to dozvoljavaju dislokacija kapaciteta, poslovi i tehnologija, zbor se organizira (predsjednik, predsjedništvo) jedinstveno za cjelinu OUR-a, u suprotnom se održava po dijelovima radnog procesa – radnim cjelinama unutar organizacije rada, smjenama, odvojenim većim grupama radnika.

Radnici na zboru određene jedinice ili djela organizacije mogu „donositi odluke o raspodjeli sredstava za lične dohotke i o korištenju sredstava zajedničke potrošnje koje ostvare zajedničkim radom“, (ZUR-a član 471, od 1976. godine).

Odlučivanje na zboru bez kvoruma, odnosno odlučivanje bez većine svih radnika, (stav 2. član 464. ZUR-a i član 439), a ne prisutnih može se poništiti.

Da bi radnici na zboru radnika ostvarili koncept samoupravnog organiziranja moraju biti ispunjene osnovne pretpostavke:

- da radnici imaju stvarnu mogućnost učestvovanja u procesu odlučivanja;

- da su motivirani za učestvovanje u tom procesu;

- da su osposobljeni za ravnopravno učestvovanje u procesu odlučivanja.

Zbor radnika se često može pretvoriti u formalnost posredstvom kojim poslovodni organi, stručne službe i radnički savjet nameću svoje stavove. Također ponekad može postati i mjesto za pritisak jedne grupe radnika protiv većine, što onemogućava donošenje bilo kakve racionalne odluke.

Funkcije zbora radnika se bolje ostvaruju u OUR-a u kojima se pored stručnih službi, organa upravljanja i poslovodnih organa u pripremu rada zbora aktivno uključuju i organizacije i organi saveza sindikata, posebno kroz organiziranje prethodne rasprave o pitanjima o kojima se odluke donose na zboru radnika i na taj način utječu na aktivno uključivanje radnika u kreiranju samoupravnih odluka.

 
Samoupravno odlučivanje radnika u OUR-a referendumom
 

Jedno od bitnih pitanja ostvarivanje samoupravljanja u sferi rada i izgradnje demokratskih društveno-ekonomskih odnosa uopće jeste pitanje oblika odlučivanja u OUR-a i drugim oblicima samoupravnog organiziranja udruženog rada i sredstava. Prijedlog, zahtjev, ocjena, kritika, ispoljeno mišljenje ili stav i drugi manifestacijski oblici i izražavanje mišljenja, uključivši i protestne akte kojima samoupravljači ispoljavaju svoj odnos naprama određenim pitanjima svojega života i rada, dobivaju djelatnu snagu tek oblikovanjem u samoupravnu odluku, kojom se reguliraju ciljevi procesa i ti isti procesi rada i ti isti ciljevi i procesi raspodjele rezultata rada, kao i sama raspodjela.

Samoupravna odluka je, ustvari, sredstvo (mehanizam), instrument buduće samoupravne akcije pa je zbog toga nužan, ali ne i dovoljan uvjet da se željena akcija stvarno i izvede.

(Dr. Zoran Vidaković: „Samostalno odlučivanje o raspodjeli dohotka je koncentriran izraz i osnovni rezultat prethodnog razvoja materijalnih i društvenih snaga socijalizma“; „Uređenje odnosa u poduzećima samoupravnim normama“, Institut društvenih nauka, Beograd, 1961., str. 23;

Dr. Stipe Šuvar: „ukoliko ga, međutim sagledavamo u sferi racionalnog ponašanja, onda se samoupravljanje javlja kao kolektivno autonomno odlučivanje“; „Samoupravljanje i druge alternative“, Centar za aktualni politički studij, Zagreb, 1970., str. 65)

Radnici udruženi u OUR-a kao nosioci funkcije upravljanja vrše je tako što u pravilu samoupravljanje ostvaruju neposredno, to jest ostvaruju svoja samoupravna prava neposrednim izjašnjavanjem vlastite volje u formiranju kolektivne odluke i referendumom.

Referendum u OUR-a je oblik izjašnjavanja radnika o jednom pitanju od zajedničkog interesa putem pismenog tajnog glasanja „za“ ili „protiv“ i predstavlja u praksi najčešće primjenjivan oblik izjašnjavanja radnika koji se koristi kad se odlučuje o najznačajnijim pitanjima vezanim za društveni i materijalni položaj radnika u OUR-a. Dakle, zbog svog dubokog demokratskog karaktera s jedne strane i zbog praktično-proceduralnih razloga s druge strane, referendum je u OUR-a postao oblik odlučivanja o odnosima koji proizlaze iz samoupravnih prava.

Zakonom o udruženom radu je utvrđeno o kojim pitanjima se odluke donose referendumom, ali je ostavljena i mogućnost da radnici utvrde i druga pitanja o kojima će odlučivati –najčešće se radi o samoupravnom aktu o radnim odnosima, organizaciji i sistematizaciji poslova i radnih zadataka. Dakle, referendumom se odlučuje o strategijskim pravcima razvoja i pitanjima egzistencije OUR-a i obezbjeđenju samoupravnih prava radnika.

Način na koji radnici u OUR-a samoupravno odlučuju referendumom uređuju se statutom ili posebnim samoupravnim općim aktom OUR-a, u skladu sa zakonom.

Kad je riječ o nadležnostima referenduma, onda se njihova strukturalnost klasificira u tri osnovne grupe:

-   vršenje prava samoorganiziranja radnika;

-   odlučivanje o uređivanju međusobnih odnosa u organizaciji udruženog rada samoupravnim općim aktom;

-   donošenje odluka o uređivanju određenih ekonomskih odnosa u organizaciji udruženog rada.

Pitanja o kojima se mora odlučivati referendumom određuje se zakonom, samoupravnim sporazumom i statutom i to na dva načina:

-   neposrednim navođenjem pitanja o kojima je nužno organizirati referendum;

-   preciziranjem situacije o kojima je, bez obzira na predmet odlučivanja, nadležni organ obavezan raspisati referendum.

Da bi se osigurala puna neposredna samoupravna demokracija, prema zakonu o referendumu nitko ne smije sprječavati pristupanje glasanju, niti od radnika glasača tražiti da se izjasni o tome kako je glasao, ili, ako nije glasao, zašto je tako postupio. Radnik–glasač ne može biti pozvan na odgovornost zbog toga što nije izašao na referendum.

Ukoliko smatra da je bilo nepravilnosti „materijalne povrede zakona“ u provođenju referenduma od strane biračkih odbora, radnik ima pravo i samoupravnu odgovornost podnijeti prigovor komisiji, ali ako se prigovor tiče rada komisije, prigovor se podnosi organu koji je raspisao referendum. Ukoliko se dokaže opravdanost sadržaja prigovora iz kojega proizlazi da su uočene nepravilnosti utjecale na rezultate referenduma na određenom glasačkom mjestu, organ koji je raspisao referendum dužan je poništiti rezultate glasanja na tom glasačkom mjestu i odrediti vrijeme novog glasanja. Ako se radi o nepravilnostima koje su mogle utjecati na ukupan rezultat referenduma, organ koji je raspisao referendum dužan ga je poništiti u cjelini. Organ koji je raspisao referendum određuje vrijeme održavanja novog.

 
Referendumska samoupravna praksa-poteškoće
 

- u praksi su uočena velika zakašnjenja u donošenju odluka i dug, neracionalan period trajanja javnih rasprava o samoupravnim aktima o kojima se radnici izjašnjavaju na referendumu; zakašnjenja u donošenju odluka znatno usporavaju proces samoupravnog odlučivanja, a istovremeno se često ne postižu željeni efekti ni u poboljšanju ponuđenog rješenja, ni u poboljšanju informiranja;

- u samoupravnim aktima nije podrobnije razrađen postupak provođenja prethodne rasprave;

- nije jasno definirana politička uloga sindikalne organizacije u prethodnom raspravljanju;

- zbog neorganizirane rasprave, javlja se nezainteresiranost i nedisciplina i uzdržanost od glasanja

Najčešće nisu prihvaćani na referendumima:

-   samoupravni opći akti o raspodjeli sredstava za osobne dohotke i zajedničku potrošnju;

- samoupravni sporazumi o stjecanju dohotka i raspodjeli sredstava za osobne dohotke i zajedničku potrošnju;

- pravilnik o organizaciji sistematizacije poslova i radnih zadataka.

- ne prihvaćanje samoupravnih sporazuma o udruživanju u radnu, odnosno složenu organizaciju udruženog rada.

Uzroci neefikasnosti rada referenduma :

- svođenje referenduma na puku formalnost u izjašnjavanju radnih ljudi o pitanjima, odlukama i aktima koji su već doneseni, nametnuti od strane poslovodnih organa i stručnih službi pa i samog radničkog savjeta ili faktora izvan organizacije udruženog rada;

- pojava preglasavanja, nadglasavanja kao i davanja većeg značaja interesima radnika pojedinih organizacionih dijelova;

- neuvažavanje primjedaba, prijedloga i sugestija radnika;

- nedostatak pozitivne društveno-političke klime, odnosno neaktivnosti društveno–političkih organizacija..

 
Samoupravno odlučivanje radnika putem delegata u organizaciji udruženog rada
 

U udruženom radu i društvenom životu uopće postoje konkretne situacije i brojna pitanja o kojima osobno izjašnjavanje nije moguće provesti, to jest nije moguće odlučivanje osobnim izjašnjavanjem, pa su potrebni i drugi demokratski organi, oblici i instrumenti utjecaja i odlučivanja radnika i u okviru i na nivou organizacija udruženog rada, a također i na nivou društveno-političke zajednice. Ostvarivanje takvog oblika odlučivanja se vrši delegatskim sistemom, jer je to najpogodniji oblik spajanja pojedinačnog sa zajedničkim i općedruštvenim interesima. Delegatski sistem je sistem neposrednog odlučivanja radnika, ali u takvim oblicima koji omogućavaju stalno međusobno demokratsko usklađivanje interesa s drugim radnicima i organizacijama i demokratsko donošenje odluka u odgovarajućim delegatskim tijelima. Delegatskim sistemom, odnosno odlučivanjem putem delegata u organima upravljanja u organizacijama udruženog rada, izražavaju se i usklađuju neposredni pojedinačni i zajednički interesi radnika i njihove stvarne radne i životne potrebe, ali i interesi društvene zajednice kao cjeline, to jest društveni interesi.

Odlučivanje putem delegacija i delegata, kao novi vid samoupravnog odlučivanja radnika u sferi rada, javlja se donošenjem Ustava SFRJ 1974. godine. Ustav utvrđuje da, u cilju izgradnje društva kao slobodne zajednice proizvođača, radnička klasa i svi radni ljudi razvijaju socijalističku samoupravnu demokraciju kao poseban oblik diktature proletarijata i to osigurava i odlučivanje radnih ljudi u ostvarivanju vlasti i upravljanju drugim društvenim poslovima u osnovnim samoupravnim organizacijama i zajednicama delegacija i delegata u organima upravljanja samoupravnih organizacija i zajednica, kao i putem delegacija i delegata u skupštinama društveno-političkih zajednica i drugim organima samoupravljanja.

Određujući položaj radnih ljudi u društveno-političkom sistemu, ustav utvrđuje da „radni ljudi ostvaruju vlast i upravljanje drugim društvenim poslovima odlučivanjem na zborovima, referendumima i drugim oblicima ličnog izjašnjavanja u osnovnim organizacijama udruženog rada i mjesnim zajednicama, samoupravnim interesnim zajednicama i drugim samoupravnim organizacijama i zajednicama, putem delegata u organima upravljanja tih organizacija i zajednica, putem delegacije i delegata u skupštinama društveno–političkih zajednica.“, (Ustav SFRJ, član 89, „Prosvjeta“, Beograd,1974., str. 29). Karakterizirajući način ostvarivanja samoupravljanja u organizacijama udruženog rada utvrđuje se „samoupravljanje u osnovnoj i drugim organizacijama udruženog rada radnik ravnopravno i u odnosima uzajamne odgovornosti s drugim radnicima u organizaciji ostvaruje odlučivanjem… putem delegata u radničkim savjetima koje zajedno s drugim radnicima u organizaciji bira i opoziva.“, (Ustav SFRJ, član 98, „Prosvjeta“, Beograd, str. 30).

Samo konkretnim ostvarivanjem svoga prava, to jest ostvarivanjem samoupravljanja od organizacije udruženog rada i mjesne zajednice do društvene zajednice u cjelini, radnici i svi radni ljudi razvijaju socijalističku samoupravnu demokraciju. Nužan i sastavni dio te demokracije također je i odlučivanje radnih ljudi u ostvarivanju vlasti i upravljanju drugim društvenim poslovima u organizacijama udruženog rada i drugim samoupravnim organizacijama i zajednicama osobnim izjašnjavanjem i putem delegacija i delegata. Osnova tog jedinstvenog sistema samoupravljanja i vlasti čini samoupravna demokracija.

Bit delegatskog sistema je u tome da radnici putem svojih delegata u radničkim savjetima, slobodno i ravnopravno odlučuju o svim pitanjima upravljanja radom i društvenom reprodukcijom unutar organizacije udruženog rada, ali isto tako putem delegacija i delegata u skupštinama društveno-političkih zajednica odlučuju o pitanjima koja se odnose na zajedničke interese i potrebe udruženog rada i radnih ljudi. Nužnost delegatskog sistema temelji se na činjenici da u nizu konkretnih situacija nije moguće odlučivanje osobnim izjašnjavanjem, tako da su prijeko potrebni i drugi demokratski organi. Najznačajniji oblik takvog delegatskog odlučivanja jeste radnički savjet, kao i slični samoupravni organi na svim razinama samoupravnog odlučivanja.

 

doc. dr. političkih znanosti Pavle Vukčević



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O nekim aspektima, idejama i problemima samoupravljanja

Piše: doc. dr. sc. Pavle Vukčević - Udruženje "Naša Jugoslavija" 
e-mail: pavlevukcevic @ gmail.com

Kad se govori o historijskom mjestu i svjetsko-povijesnom smislu samoupravljanja i u teoriji i u praksi, potrebno je naglasiti na osnovu naučnih saznanja i društvenih dostignuća da izvan socijalizma samoupravljanje nema historijski smisao i perspektivu. Samoupravljanje u sebi samome realizira svoj temelj i ideju u kojoj ne znači uspostavljanje jednog određenog sistema odnosa, već znači postizanje takvih kvaliteta ljudskog života i njegove društvene organizacije u kome je samoupravljanje samosvjesni, bitan i samo za sebe određujući momenat.
Nema sumnje da se bitne protivrječnosti suvremenog svijeta, latentne i manifestne, ukrštaju prije svega na razini izbora za ovaj ili onaj tip temeljnog društvenog odnosa, za vladajuću ulogu ove ili one klase o pojedinim tipovima društvenog odnosa. Na toj razini, dakle, razini temeljnog društvenog odnosa, socijalističko samoupravljanje kao teorijska vizija i kao konkretna historijska praksa ima svoju specifičnu historijsku težinu i jasnu dinstikciju prema tipu buržoaskog odnosa građanskih društava, kao i tipu etatističko-birokratskog puta socijalizma. Dosadašnja iskustva razvoja socijalističkih društava potvrdila su spoznaju da osnovno pitanje historijskog procesa socijalizma nije isključivo pitanje političke vlasti, već i pitanje karaktera proizvodnje, proizvodnih odnosa, raspodjele, razmjene i potrošnje, znači karaktera ukupnih društvenih odnosa.
Ključno pitanje historijskog procesa socijalizma je: da li konkretni političko-ekonomski sustav, socijalizam, ostvaruje dugoročne interese radničke klase, njenu vodeću ulogu na osnovama oslobađanja rada i društva slobodne asocijacije prizvođača ili se taj političko-ekonomski sistem javlja u funkciji otuđenja od radničke klase u etatističko-birokratskoj funkciji države kao vladavine nad radničkom klasom? Povijesna praksa socijalizma neumitno daje pravo tvrdnji da je, s jedne strane, prisutan deklarativni projekt o socijalizmu kao oslobađajućem društvu (oslobođenje čovjeka), a s druge strane stvarnost, manifestirana u formi monopolizirane vlasti s neodgovornom vladavinom pojedinaca i grupa, manipuliranom teorijom, pokretom i praksom reduciranja čovjeka (a ne njegovog oslobađanja), na manipulativnu jedinku, kontroliranim javnim mnijenjem, nametnutim izborima, „propagandnim terorom", strahom, jačanjem partijsko-državnih monopola i etatizacijom cjelokupne sfere individualnog i društvenog života. Sve navedeno nužno nameće potrebu kritičke eksplikacije ideje i stvarnosti socijalizma XXI. stoljeća.

Pristup različitim teorijama o mogućnosti i sudbini socijalizma 

Ono, što je zajedničko svim suvremenim teorijama, jeste težnja da pokažu, priznajući istovremenu pojavu, pa i nužnost preobražaja i promjena kapitalizma (što se u izvesnom smislu ne može osporiti kada je riječ o promjeni tehnologije, pronalaženja mogućnosti izlaza iz krize, brzina transformacija), da je radnička klasa prevladana ili nesposobna stvarati nove društvene odnose i da je društvo našlo nove, bezbolnije i suvremene oblike društveno-ekonomskog uređenja i civilizacije, koje čine socijalizam izlišnim, prevladanim, ili makar odgođenim.

Zajedničke karakteristike navedenih teorija: 

nehistorijske - jer pripisuju društvu samo jedan "završni oblik", "kraj povijesti" (ukoliko misle na društvo klasnog antagonizma, naučno se može prihvatiti da je kapitalizam “završni oblik“ klasno-eksploatatorskog antagonizma); 
nenaučne - jer socijalizam shvaćaju kao statičnu i jedinstvenu formu; 
• ideološke - jer prikrivaju sve veće socijalno-ekonomske razlike između posredničko – menadžerske klase i stvaralaca materijalnih i duhovnih dobara, zbog otuđenosti sredstava i proizvoda rada od proizvođača i društvene organizacije od čovjeka;
nesuvremene - jer potcjenjuju sve veću opasnost od sebičnosti i usamljenosti čovjeka i dezintegracije društva koje tehnička sredina izaziva svojim nehumanim stranama.
S toga je razumljivo što suvremeni društveni procesi u globalnom smislu stvaraju socijalističku historiju svijeta. Socijalizam nije samo jedan od osnovnih historijskih alternativa društveno- ekonomskoj i idejno-moralnoj stagnaciji koju neminovno proizvodi kapitalizam, već i alternativa koju u osnovi objektivno rađa proces socijalističkog samoupravljanja, podruštvljavanje i oslobađanje rada koji stvara uvjete, novoj, višoj ljudskoj civilizaciji.

Ideja i problemi

Ideja samoupravljanja nastala je u moderno doba, zajedno s idejom socijalizma i ostaje historijski neodvojiva od problematike socijalizma. Ideja o sudjelovanju radnika ili društvenih grupa u upravljanju ili najšire u samoupravljanju, historijski gledano, stara je koliko i radnički pokret. Zato se može tvrditi da je ideja o samoupravljanju bila pratilac (u ovom ili onom obliku) socijalističke misli od njenog nastanka. Samoupravljanje, kao izraz sam po sebi, znači da se oni na koje se odnosi ili oni koji ga primjenjuju, nalaze u položaju da sami sobom upravljaju umjesto da su potčinjeni zapovjestima nekoga drugoga ili pravilima (zakonima) koje taj drugi donosi, a da ih ne pita ili bez njihovog učešća, odnosno suglasnosti. Kaže se za čovjeka da je autonoman (samoupravan), ako je prije svega u moralnom smislu nekorumpiran, sposoban i odlučan da slijedi svoj razum i etiku i da samostalno iznosi svoja mišljenja, zauzima stavove i određuje svoje ponašanje onoliko koliko zavisi od njegove volje, a ne od vanjske prisile. Pretpostavka je, naravno, da je čovjek zreo i razuman, pa da će takva biti i mišljenja, koja će iznositi, odnosno ponašanja koja će ispoljavati. Za ličnost za koju kažemo da je autonomna, pretpostavljamo i da je, ne samo pravno i poslovno sposobna nego i politički, ljudski, pa i ekonomski samostalna, tj. da ne ovisi od nekoga drugoga, da se može smatrati samostalnim čovjekom – da je slobodan.
Samoupravljanje u jednom najopćijem smislu predstavlja sinonim za neposrednu demokraciju, za demokratsko i neposredno učešće u usmjeravanju, odlučivanju o poslovima užih i širih teritorijalnih, radnih, profesionalnih interesnih zajednica - odnosi se na zajednicu življenja ili rada, kao i na druge zajednice, dobrovoljna udruženja i organizacije. Položaj radnika, proizvođača, tehničara i inžinjera svih vrsta u modernoj industriji objektivno je takav da rad na traci ili u birokratskoj mašineriji osakaćuje čovjekovu ličnost. Nije se modernizacijom izmjenio onaj položaj za koji se nekada govorilo da je čovjek obični šrafić - „dodatak mašini“. Zato će se permanentno postavljati problem, da se promjeni takav položaj radnika. Pa će ideja samoupravljanja biti uvijek nanovo pokretana.
Mnoštvo problema s kojima će se samoupravljanje suočavati oduzima privlačnost ovakvim projektima. To su prije svega, nedostatak sistema motivacije koja pokazuje slabosti kao i kod svakog kolektivističkog poduhvata. Druga grupa problema odnosi se na miješanje šire političke zajednice, države, koja to miješanje, odnosno dominaciju lakše postiže pri bezličnom kolektivizmu nego pod uslovima kad se točno znaju subjekti prava svojine i kada su oni nosioci izvjesnih prava i obaveza. Pitanje proširene reprodukcije akumulacije jedno je od slabih strana ovog sistema. Svako odvajanje u te svrhe pogađa neposredne i dnevne interese radnika, a ulaganje u „budućnost“ može pri takvom sistemu, koji je u osnovi politički, biti prilično neizvjesno. Ako se samoupravljanje pruži organizacijama koje imaju prirodnim ili političkim, odnosno pravnim sredstvima uspostavljeni monopol, tada se samoupravna organizacija može javiti kao subjekt koji iskorištava ili, čak ucjenjuje čitavo društvo.
Ako samoupravljanje ostane samo na nivou poduzeća, tada njegovo političko okruženje prije ili kasnije uspostavlja svoju dominaciju. Ako se pokuša ostvariti utjecaj korporacija na političko predstavništvo, tada se umanjuje uloga građanina kao nezaobilaznog elementa demokracije. Uspostavljanje neke vrste ekonomskog, profesionalnog ili socijalnog predstavništva, nije ideja koju treba bez ispitivanja odbaciti u svjetlosti nedostataka sistema političkog predstavljanja. Ali i prenaglašavanje te uloge odvodi nas u korporativizam ili autoritarizam.
Menadžerstvo kao važan element moderne privrede i industrije podcjenjivano je u samoupravnoj teoriji i ustanovama. Nije shvaćeno da uspjesi velikih korporacija zahtjevaju hitna reagiranja veoma upućenih ili talentiranih i školovani menadžera koji moraju preuzimati rizik i biti motivirani ili profitom ili statusnim razlozima. Koliko menadžeri ograničavaju samoupravljače, s jedne strane, toliko, s druge strane, u praksi i jedne i druge mogu ograničavati sindikati. Neki teoretičari samoupravljanja smatraju da sindikat mora stalno igrati ulogu „oporbe u industriji“, u odnosu na menadžment.
Jedan od najačih činilaca motivacije samoupravljača bio bi da se oni učine akcionarima, dioničarima poduzeća u kojima rade. I to, međutim, ima i slabih strana, jer zašto radnik nebi ulagao u neko drugo poduzeće koje, po njegovoj ocjeni, ima više perspektive nego ono u kojem on radi i shvaća da se njime ne upravlja domaćinski. Sistem dioničarske svojine ne trpi takva organizacija koja bi bila nužna da se radnici učine dioničarima poduzeća u kojima rade. Kako bilo, baš u tome je jedna od najjačih motivacije (samoupravljača–akcionara) u eventualnim samoupravnim poduzećima. Time bi se promjenio isto tako neekonomski i nefunkcionalni sustav po kome svaki zaposleni ima potpuno isti glas kao i svaki drugi, mada se zna da čitava poduzeća žive od doprinosa nekolicine svojih članova, dok su ostali samo oni koji se lako mogu zamjeniti drugim, a da to posebno ne ošteti uspjeh poduzeća. Duh uravnilovke može u određenim uvjetima imati čak neko etičko opravdanje, ali on razara motivaciju, efikasnost privredne organizacije i privrede u cjelini.
Možda ni jedna sumnja ili prigovor protiv samoupravljanja nisu bila tako često isticana koliko oni da ako samoupravljači dobiju vlast da odlučuju o raspodjeli, a to znači i o svojim primanjima, oni se neće moći „suzdržati da pojedu i akumulaciju i osnovni kapital“. Ovaj se problem može riješiti određenim pravilima i uravnoteženjem prava i obaveza, mada ona ustvari pojačavaju birokratiju i tehnokratiju, kojih se ni jedno veliko i moderno poduzeće ne može ne samo osloboditi, nego ni lišiti njihovih usluga. Bilo je pokušaja da se samoupravljanje koncipira i eventualno ostvari kao integralni sistem tj. da se sva samoupravna poduzeća integriraju u jedan sistem koji bi se vjerovatno završavao jednim političkim ili ekonomskim parlamentom ili vijećem, nacionalnim radničkim savjetom. Ako bi se ostvarila, ovakva ideja bi neizbježno dovela do uvođenja jednog autoritarnog i potencijalno totalitarnog sistema. Isto tako, svaki samoupravni oblik mora biti poštovan, uvažavan i vrednovan kao jedna mogućnost, alternativa, a ne obaveza koja se ostvaruje kao uniformnost. Drugim riječima, samo u okvirima mješovite privrede i pluralističkog društva mogućno je da neko samoupravno poduzeće djeluje kao oaza ekonomske demokracije. U suprotnom se pretvara u beočug autoritarizma, u instument kojim se u političkim ciljevima čovjek kontrolira na mjestu na kome stiče sredstva za život.

Zaključak 

Sve u svemu, s mnoštvom problema samoupravljanje ostaje jedna velika i podsticajna ideja koja će pokretati ljude i koji će je u nekim oblicima permanentno pokušavati i ostvariti, baš kao što pokušavaju da i u društvu i državi izbore svoj status građanina koji učestvuje u procesu demokratskog odlučivanja. Čovjekova društvena i poduzetnička priroda vući će ga uvjek ka takvim, tj. samoupravnim poduhvatima, a njegova egoistična priroda će otežavati ili onemogućavati da se ti poduhvati ikada ostvare onako idealno kako su zamišljeni. U doglednoj budućnosti realni su izgledi da se pomoću različitih oblika participacije i djelovanjem sindikata prakticira ograničeno, a u izvesnim zadružnim i dioničarskim poduzećima i ustanovama sa tradicionalnom samoupravom i potpunije samoupravljanje.

Split, 05.03.2013. godine






25 luglio ’43: i 45 giorni di Badoglio

di Luciano Casali, da “Patria indipendente” del 24 luglio 1983

Un governo per assicurare la continuità della monarchia. La “circolare Roatta”: «si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche». Le stragi.. I primi comitati unitari antifascisti. Come si giunse all’armistizio


II 5 luglio 1943 il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, registrava nel suo Diario: «Sua Maestà è del parere che, anche arrivando alla sostituzione di Mussolini, il fascismo non si possa abbattere di un colpo. Bisognerebbe in vece modificarlo gradatamente fino a cambiargli fisionomia in quegli aspetti che si sono dimostrati dannosi per il Paese».
Fino all’ultimo casa Savoia, preparando il colpo di Stato del 25 luglio, aveva esitato sulla opportunità di disfarsi dell’opera del «cavalier Benito Mussolini» e gli stessi congiurati che parteciparono alla seduta del Gran consiglio del 24 luglio, completamente inconsapevoli della realtà del Paese (pur se confusamente consci dalla primavera 1943 che la situazione politica e militare stava precipitando), si illudevano di poter scampare al disastro con pochi mutamenti di superficie. Dunque: la volontà di «nulla» cambiare e un’incredibile e paralizzante paura dei tedeschi rappresentarono i caratteri con cui il governo di tecnici e militari guidato da Pietro Badoglio affronta i quarantacinque giorni dell’estate 1943, dall’arresto di Mussolini alla dichiarazione dell’armistizio e al rovesciamento delle alleanze.
Troppo spesso si è giudicata «casuale» e «sconclusionata» la linea politica gestita da Badoglio in quel mese e mezzo, non rivelando coerenza e chiare finalità nelle linee di comportamento e di governo. Certo, in riferimento ai reali interessi nazionali e alle esigenze popolari, palesemente espresse nelle manifestazioni, ciò che appare dei provvedimenti badogliani può sembrare senz’altro estremamente «confuso» e contraddittorio. E si potrebbero avanzare giudizi anche peggiori, in quanto appare ben evidente la mancanza di una precisa volontà nell’affrontare i due nodi centrali del momento (guerra e alleanza con la Germania nazionalsocialista) facendo ricorso all’unico strumento possibile per una soluzione radicale: chiedere e costruire un rapporto di fiducia con le masse popolari. Ma, come ha scritto Ruggero Zangrandi, proprio in ciò, «nella sua essenza negativa, risiede la mostruosa coerenza della politica badogliana», nel temporeggiare, barcamenandosi tra fascisti e antifascisti, nel tenere a bada i tedeschi con la menzogna e le masse popolari con la violenza, nel cercare di imbrogliare gli anglo-americani puntando sull’astuzia (o meglio su un’elementare «furberia») e sull’intrigo. Una linea estremamente coerente nella speranza di riuscire a imbrogliare un po’ tutti e così di salvare il più possibile di quanto il fascismo aveva lasciato «di buono». 

Un governo fantasma

La compagine governativa, designata dal re il 27 luglio, doveva rappresentare per Badoglio un docile strumento per perseguire tale disegno, una semplice facciata che si prestasse a coprire, senza eccessive pretese, le scelte di fondo continuiste del Maresciallo d’Italia e della monarchia.
Nessun «uomo nuovo». Su sedici ministri, oltre un terzo era costituito da rappresentanti delle forze armate (cinque generali e un contrammiraglio, e fra di essi il generale Favagrossa che rimaneva alla direzione del ministero per la produzione bellica da lui gestito, prima come sottosegretario poi come ministro, fin dall’inizio del conflitto mondiale); i direttori generali dei ministeri di Grazia e giustizia, delle Finanze e dei Lavori pubblici venivano «promossi» al rango superiore, mentre il responsabile della Banca d’Italia assumeva la direzione del ministero per gli Scambi e le valute. Senatori e ambasciatori, che avevano raggiunto tali posizioni durante il ventennale regime, completavano il quadro governativo. Un passaggio dei poteri indolore e asettico, una linea evidente di continuità degli apparati dello Stato, una scarsa autonomia politica del Governo, resa evidente non solo dai nomi, scelti per indicare il proseguimento di linee precedenti, ma anche confermata dalla stessa attività del Consiglio dei ministri nel suo complesso. Le scelte di fondo, il dibattito politico, le proposte per la soluzione dei problemi principali non varcarono mai la soglia del Consiglio; nemmeno della questione più grave e più delicata (se e come uscire dalla guerra) si fece mai parola in quella sede. La diarchia dittatoriale Mussolini-Vittorio Emanuele fu sostituita da una nuova «accoppiata» autoritaria, Badoglio-Vittorio Emanuele, che continuò l’accentramento del potere e proseguì, come prima, a voler decidere i destini del Paese.
L’Archivio centrale dello Stato non ha conservato alcuna traccia dei verbali delle riunioni del Consiglio dei ministri del Governo Badoglio. Si potrebbe (malignamente?) supporre una non casuale scomparsa di quei documenti, anche se la situazione caotica determinatasi nella capitale dopo l’8 settembre non esclude la possibilità dell’assenza di qualsiasi volontà nella distruzione. La documentazione comunque sopravvissuta e certamente incompleta lascia tuttavia presumere che le riunioni del Consiglio furono soltanto due: la prima, il 27 luglio e una successiva il 5 agosto. Una terza, prevista per il 9 settembre, non si tenne a causa delle vicende seguite all’armistizio.
A prescindere dal numero delle riunioni collegiali del Consiglio, resta comunque la qualità delle decisioni prese per rendersi conto del reale peso politico lasciato a esso e, d’altra parte, una serie di provvedimenti erano già stati varati prima della costituzione formale del Governo, come la liberazione di una parte dei detenuti politici (esclusi i comunisti e gli anarchici), l’assorbimento della Milizia fascista nell’esercito, la cosiddetta «circolare Roatta», sulla quale torneremo.
Le delibere prese dal Consiglio dei ministri a partire dal 27 luglio disposero lo scioglimento del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo, della Camera dei fasci e delle corporazioni (non si toccò il Senato e si garanti l’elezione di una nuova Assemblea quattro mesi dopo il termine del conflitto); furono sciolti anche l’Istituto di cultura fascista e l’Associazione fascista delle famiglie caduti in guerra. Inoltre fu dichiarato decaduto il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (ma le sue prerogative passarono quasi integralmente ai Tribunali militari…), fu cambiata la denominazione ai ministeri delle Corporazioni e della Cultura popolare, si abolì il saluto romano, si modificarono i biglietti di banca facendovi eliminare i fasci, si abrogarono le leggi contro il celibato (ma non la legislazione razziale introdotta nel 1938: non bisognava «insospettire» i tedeschi). Furono, infine, dichiarate decadute la Carta del Lavoro e la Carta della scuola e il 31 luglio fu annunciato il richiamo alle armi dei quadri fascisti che, per motivi politici, ne erano stati esentati (segretari e vice segretari federali, fiduciari di fabbrica, squadristi funzionari del PNF).
Molte di tali disposizioni restarono sulla carta (non si trova alcuna traccia dei decreti esecutivi per i richiamati alle armi), ma, in complesso, la serie delle delibere, amplificate e propagandate dalla stampa, avevano chiaramente l’unico scopo di dare l’impressione di un rapido e deciso smantellamento di tutto l’edificio costruito in vent’anni di fascismo e dovevano convincere l’opinione pubblica di essere finalmente tutelata, di riacquistare diritti e libertà in un quadro politico che doveva apparire in rapida evoluzione. E, per questa funzione, lo strumento e i mezzi utilizzati furono gli stessi che avevano caratterizzato l’azione del regime per la «conquista del consenso»: propaganda e repressione. II Minculpop mantenne un attento e oculato controllo sulla stampa.
A mezzanotte del 25 luglio i prefetti sono invitati a impedire che i quotidiani escano con notizie «non confacenti alle direttive politiche del governo». Il 27 il ministro Fornaciari ordina il sequestro di quei giornali che «eccitino comunque spirito pubblico». Il 28 il ministro Rocco istituisce un servizio di censura preventiva sulle notizie da pubblicarsi. Carlo Ludovico Ragghianti ricorda le precise «direttive di ordine generale» inviate ai direttori dei quotidiani: bisognava «evitare critiche ad uomini e fatti del passato regime» e non sollecitare la soppressione di quelle istituzioni fasciste che, «secondo le decisioni del Consiglio dei ministri, possono continuate a funzionare»; era proibito «insistere sul tema della liberazione dei detenuti politici», mentre occorreva «usare il massimo riguardo verso gli alleati tedeschi». Ma, soprattutto, si ordinava di … «suscitare un senso di fiducia nell’avvenire», e cioè nell’opera e nelle decisioni della nuova amministrazione dello Stato.
Stampa sera del 26-27 luglio fu così sequestrata perché pubblicava un appello unitario dei partiti antifascisti che chiedevano una «pace immediata». II prefetto di Venezia bloccava la nomina di Armando Gavagnin alla direzione del Gazzettino, trattandosi di un «antifascista irriducibile».
D’altra parte il processo di defascistizzazione restava un fenomeno più legato alle apparenze e alla propaganda degli organi di stampa che una realtà tenacemente perseguita e non solo in relazione ai gangli vitali degli apparati dello Stato. Solo le più macroscopiche incrostazioni del fascismo venivano rimosse e venivano cancellate le più appariscenti (ma certo meno importanti) creazioni del regime, vantando e sbandierando ogni intervento come un fondamentale passo avanti nella via della democratizzazione. In realtà neppure lo scioglimento della Milizia fascista fu attuato. Solo il 26 agosto Badoglio convocò una riunione (di cui non si conoscono comunque i risultati) con la quale si proponeva di affrontare «il problema della riorganizzazione finale» della MVSN. Quanto a fascisti e squadristi che avrebbero dovuto essere richiamati immediatamente alle armi, sappiamo che, al 18 agosto, nessun provvedimento esecutivo era stato emanato. In entrambi i casi va osservato che solo in parte le misure annunciate vennero eseguite, quando si trattò di sottrarre militi e fascisti alle reazioni popolari e di garantirne l’incolumità personale, specialmente nelle zone di Milano, Torino, Bologna e Firenze.

La repressione

La decisione del re di garantire il colpo di Stato attribuendo i pieni poteri alle forze armate (conservate con la struttura e i comandi costituitisi durante il regime) consentì un rafforzamento del potere d’intervento dei militari nella direzione dello Stato, anche indipendentemente dalla presenza di Badoglio alla presidenza del Consiglio dei ministri. Pochi personaggi (Ambrosio, Sorice e Senise) mantennero in pratica le redini del potere dopo l’arresto di Mussolini.
Particolarmente importante (ma raramente messa in evidenza dagli studiosi) fu l’attività, in gran parte non del tutto controllata dal ministero, del capo della polizia Carmine Senise, pronto ad intervenire tempestivamente sulle varie realtà locali e a provvedere con tutti i mezzi al mantenimento dell’ordine pubblico, in ogni caso mostrandosi un attento e preciso «esecutore» delle reali intenzioni (espresse o sottintese) di casa Savoia, ma spesso portatore di iniziative largamente autonome, forse dettate dalla lunga esperienza maturata, sempre come capo della polizia, negli anni precedenti.
Alle 20,30 del 25 luglio Senise telegrafava ai prefetti la «applicazione piani OP» (ordine pubblico: militarizzazione del territorio nazionale) e il 27 precisava: «occorre far rispettare tutti costi ordinanze autorità militari … anche se si debba ricorrere uso armi». E ancora, il 3 agosto: «Si fa presente particolare pericolosità della propaganda comunista che est stata iniziata verso militari perché facciano causa comune con masse popolari et non sparino su folle dimostranti».
D’accordo con il ministero dell’Interno (egemonizzato da Senise), agì quello della Guerra con disposizioni analoghe che trovarono chiara espressione nella cosiddetta «circolare Roatta» del 26 luglio. Roatta, partendo dal presupposto che «poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito», osservava come «qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe delitto». Di fronte alle manifestazioni popolari «i reparti devono assumere et mantenere grinta dura». Basta con «i sistemi antidiluviani, quali i cordoni, gli squilli, le intimazioni et la persuasione», ma «si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche».
Contemporaneamente il Capo di Stato Maggiore, Ambrosio, provvedeva a rafforzare la presenza delle forze dell’ordine nelle zone dove immediatamente apparve più difficile contenere l’entusiasmo popolare e la politicizzazione delle manifestazioni di massa; divisioni di rinforzo furono avviate a Torino, Milano, Genova e Bologna, mentre la repressione armata toccava livelli notevoli sin dal pomeriggio del 26 luglio, raggiungendo l’apice il giorno 28 con le stragi di Bari e di Reggio Emilia (dove si ebbero rispettivamente 17 morti e 36 feriti e 9 morti e 30 feriti). Complessivamente nei primi tre giorni successivi al 25 luglio l’ordine pubblico fu garantito con 65 morti e 269 feriti, mentre oltre 1.200 furono gli arresti. Dal 28, inoltre, i Tribunali militari entrarono in funzione con severe ed «esemplari» condanne. Solo a Torino i processati furono 437; 398 furono condannati a oltre 429 anni di carcere. La centralità del ruolo dell’esercito durante i 45 giorni badogliani appare evidente dall’importanza attribuita alla sua funzione repressiva nei confronti delle manifestazioni popolari e dell’antifascismo (in particolare della classe operaia), assieme ad un progressivo tentativo di controllare ed esautorare il governo, cui si sarebbe voluto riservare solo l’ordinaria amministrazione. Contemporaneamente si avvertiva il tentativo di «recuperare» i fascisti onesti, sollecitato in maniera esplicita dallo stesso re che, ancora il 16 agosto, accusava Badoglio di «eccessi antifascisti».
In realtà, gli «eccessi antifascisti» di Badoglio si limitavano a una serie di espedienti puramente demagogici attraverso i quali tentava di neutralizzare le spinte del comitato romano delle opposizioni guidato da Bonomi (più vicino, e quindi più «pericoloso», anche se più «moderato» di quello milanese) e dei singoli partiti antifascisti, in modo da meglio condurre le proprie scelte generali. D’altra parte la debole influenza che potevano avere i partiti antifascisti in quel regime di semiclandestinità che ne sottoponeva i leaders al continuo pericolo di arresti, aiutava Badoglio a poco concedere, e quel poco con estrema lentezza.
Questo appare in particolare evidenza a proposito della lenta, contrastata ed incompleta liberazione dei detenuti politici, già annunciata il 27 e il 29 luglio (con l’eccezione di anarchici e comunisti e di quanti avessero commesso delitti contro lo Stato, cioè la maggioranza assoluta). La stessa liberazione degli ebrei veniva limitata a coloro che non avessero commesso azioni di «particolare gravità». Nel corso del mese di agosto la minaccia di uno sciopero generale avanzata da Roveda, Buozzi e Grandi sembrò sbloccare la situazione. Badoglio non promise comunque un’amnistia, ma «garantì» la liberazione dietro domanda. A partire dalla seconda meta del mese cominciarono così ad uscire dal carcere i politici «più pericolosi», anche se parecchie migliaia di detenuti (soprattutto quelli delle province orientali, ma non solo) restarono, grazie a tale procedura, incarcerati e non pochi furono catturati e in qualche caso deportati dai nazisti dopo l’8 settembre.

L’antifascismo

Lo stesso ministro dell’Interno nell’aprile 1943 aveva affermato che i partiti antifascisti avevano ripreso «una certa influenza sulla massa della popolazione». D’altra parte proprio gli scioperi del marzo avevano dimostrato una notevole possibilità di mobilitazione popolare su obiettivi economici e anche politici. Nonostante ciò è difficile definire quale effettiva capacità di intervento e di direzione nelle manifestazioni successive al 25 luglio ebbero i partiti antifascisti, la cui struttura organizzativa andò rinsaldandosi ed espandendosi territorialmente dal nord al centro soltanto nel corso della semiclandestinità permessa da Badoglio.
Durante l’agosto 1943 i comunisti (e, in parte, anche i socialisti e gli azionisti) raggiunsero una discreta efficienza organizzativa in gran parte delle province centro-settentrionali del paese, anche se la presenza di gruppi attivi influì direttamente nelle manifestazioni delle principali città della Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia e Toscana fin dallo stesso 26 luglio.
Un aspetto particolare va comunque ricordato: la nascita quasi immediata, sin dall’ultima settimana di luglio di comitati unitari (composti dai cinque principali partiti, oltre che da formazioni politiche senza alcun seguito successivo). Si trattava certamente di una quasi naturale continuazione di quei contatti e di quegli incontri fra antifascisti che si erano moltiplicati negli ultimi mesi del 1942 e soprattutto agli inizi del 1943 e chiaramente tali Comitati, dai nomi più diversi e dalla composizione più varia, tendevano più a riprodurre l’adesione delle individualità antifasciste presenti nelle singole località, che non quella di reali gruppi organizzati con chiare e consapevoli linee politiche. Spesso i Comitati si trovarono, proprio a causa della composizione e della non rappresentatività di gran parte dei loro membri, su posizioni moderate di fronte alle manifestazioni di piazza (fecero eccezione Milano e Bologna) e in numerose occasioni si posero come elemento di mediazione invitando gli scioperanti alla calma per non «provocare» le reazioni dell’esercito e delle forze dell’ordine, a volte, anzi (come nel caso del Comitato modenese) giustificandone l’operato. Ma già all’interno di tali Comitati (soprattutto in quello romano) cominciavano ad apparire quelle diversità di posizioni – diversificando in genere i tre partiti della sinistra dagli altri – che in parte ne avrebbero limitato le possibilità di intervento anche nei mesi successivi. Da un lato le posizioni divergenti impedivano o diminuivano le capacità di intervenire su Badoglio per condizionarlo, dall’altro lato la sopravvivenza dei comitati unitari era necessaria per poter, sia pure minimamente, avere qualche voce che sarebbe stata negata ai singoli partiti.
I veri protagonisti dei 45 giorni furono così le masse che diedero luogo a manifestazioni, in gran parte «spontanee» (ma nate in quelle zone in cui la presenza organizzata della sinistra era sufficientemente avanzata), mentre alcuni partiti politici, specialmente quello comunista, riuscirono a costruire o allargare rapporti positivi con i movimenti popolari e a «politicizzarne» le rivendicazioni, rafforzando un dialogo che mai era venuto meno negli anni più duri del regime e ponendo le basi per quel rapporto di fiducia che avrebbe dato esiti largamente positivi dopo l’8 settembre, quando si trattò di costruire la lotta di liberazione nazionale.
Le prime manifestazioni, avvenute già nel corso della notte del 25 luglio, sono spontanee e di massa, esprimono la gioia popolare per l’arresto di Mussolini e si esprimono con sistematiche invasioni delle sedi fasciste e distruzione dei simboli del regime. Ma già dal 26 le manifestazioni assumono un aspetto diverso per la presenza organizzativa di comunisti, socialisti e azionisti che, con la stampa o con comizi improvvisati, riescono a suggerire parole d’ordine o ad affiancare scioperi operai alle manifestazioni di «generico» entusiasmo. La fine della guerra, l’aumento delle razioni alimentari e la liberazione dei detenuti politici rappresentano le parole d’ordine (politiche ed economiche) più diffuse. La stessa presenza degli antifascisti più noti alla testa dei cortei fa scattare la reazione governativa: le manifestazioni non vengono più giudicate come un appoggio ed un consenso dal basso al colpo di Stato del re e di Badoglio, ma cominciano a rappresentare un chiaro momento di «sovversivismo». Soprattutto la presenza della classe operaia sembra essere giudicata estremamente pericolosa, come elemento più politicizzato e di più difficile controllo.
Non è facile misurare il rapporto effettivo fra le parole d’ordine lanciate dai partiti e il «tono» più politico delle manifestazioni nate a partire dal pomeriggio del 26 luglio, anche se una profonda influenza e innegabile.
Le reazioni del governo, l’intervento della polizia e dell’esercito, lo stato d’assedio, le fucilazioni e gli arresti non fecero che scavare un solco fra manifestanti e autorità dello Stato e, nonostante una prima fase di incertezza dei partiti che ritenevano di poter strappare concessioni a Badoglio senza ulteriori spargimenti di sangue, dal 16 agosto riprendevano gli scioperi e le fabbriche del nord diventavano protagoniste dirette delle pressioni per obiettivi questa volta direttamente ed esplicitamente politici: contro la «guerra fascista». 

II fallimento di Badoglio

Ottenere un’uscita dal conflitto indolore per il potere politico ed economico che aveva sostenuto il fascismo e che ora tentava di perpetuarne i metodi di governo: era questo l’obiettivo di fondo del re e di Badoglio, sia pure perseguito dai due con tattiche diverse: rigidamente conservatore quello, più duttile e disposto a qualche minore compromesso con l’antifascismo, questo. II re (e i militari) intendevano reprimere alla radice ogni sia pur minimo «pericolo comunista». Badoglio era più disposto ad affiancare ai tradizionali interventi repressivi alcune «aperture» mediatrici (tipica a tale proposito la nomina di Commissari alle confederazioni sindacali scelti fra gli esponenti dell’antifascismo, al fine di usare, nei confronti degli scioperanti, la tattica del convincimento e non solo quella dello stato d’assedio). E, sempre per strumentalizzare il «fronte interno», proseguiva l’attività demagogica dei provvedimenti governativi, regolarmente gonfiatidalla stampa quotidiana. Si provvede a cambiare i prefetti (che sostanzialmente restano però gli stessi, mutando solo la sede), a nominare una commissione d’inchiesta contro gli illeciti arricchimenti (che verrà confermata in toto dalla Repubblica sociale italiana), si nominano commissari all’Enpas e alla Siae, si preannunciano (2 settembre) mutamenti all’Eiar.
Fino alla metà di agosto non abbiamo nessuna prova concreta che fosse in animo al re, a Badoglio e all’esercito di rompere l’alleanza con i tedeschi. Le numerose missioni che presero contatto can gli anglo-americani (ma già dal 1942 non erano mancati coloro che «esploravano» le condizioni per un’uscita dell’Italia dal conflitto!) affrontarono l’argomento «resa» solo con cauti sondaggi, senza mai dimostrare un vero impegno né una concreta volontà di trattare le condizioni per una resa o un armistizio. La stessa missione del generale Castellano, che poi giunse effettivamente a firmare la cessazione delle ostilità, partì senza alcuna credenziale, senza documenti ufficiali che autorizzassero alla trattativa o che dimostrassero che si trattava di una iniziativa non personale.
Indubbiamente i grandi scioperi politici di metà agosto valsero a costringere ad affrettare i tempi, a scegliere senza ulteriori indugi e le richieste di pace avanzate da quelle manifestazioni resero palese agli stessi tedeschi che, in ogni caso, l’atmosfera pubblica in Italia non avrebbe comunque permesso un prolungamento all’infinito del conflitto. Dopo il 25 luglio alla proposta di Hitler di procedere manu militari al ristabilimento del fascismo, fu preferita la tattica suggerita dai generali di rafforzare progressivamente la presenza della Wehrmacht in Italia fino a giungere, quasi insensibilmente, all’occupazione del Paese. D’altra parte il progetto di colpo di Stato di Vittorio Emanuele non prevedeva alcuna utilizzazione dell’esercito in funzione difensiva, ma predisponeva per una sua larga utilizzazione esclusivamente per mantenere l’ordine pubblico: il «nemico» era più individuato negli italiani che non nei tedeschi o negli anglo-americani.
Così il 15 agosto la Wehrmacht aveva ormai sotto controllo tutti i settori chiave dell’Italia settentrionale, dopo aver fatto affluire in due settimane sei divisioni e mezzo (all’8 settembre il totale era di otto divisioni, oltre a 120 mila uomini non indivisionati). Secondo Ruggero Zangrandi, solo il 17 agosto il re, Badoglio e Ambrosio decisero di cominciare a trattare veramente con gli anglo-americani. La speranza era che gli Alleati raggiungessero rapidamente Roma, salvando monarchia e governo da qualsiasi rendiconto con i vecchi alleati. Non a caso, neppure a trattative avviate, addirittura neppure dopo la firma dell’armistizio (una settimana prima del suo annuncio ufficiale) ci si preoccupò di elaborare piani militari a sostegno delle operazioni «politiche» in corso..
La dichiarazione dell’armistizio colse alla sprovvista, del tutto impreparati, i comandi periferici. II disastro dell’8 settembre e lo squagliamento dell’esercito non destano quindi alcuna meraviglia, soprattutto dopo tre anni di guerra non sentita e non voluta a livello popolare: le alte gerarchie dell’esercito e l’intera classe dirigente ne furono responsabili fino in fondo.
L’opposizione a Badoglio, largamente diffusa nel Paese dalla metà di agosto, trova anche un primo punto di coagulo nell’accordo fra PCI, PSIUP e PdA del 30 agosto, accordo che aveva come obiettivo una aperta «lotta contro il governo» che non aveva voluto la «radicale eliminazione del fascismo e l’allontanamento delle forze germaniche dall’Italia», ma soprattutto non aveva perseguito «una politica energica e conseguente di pace e libertà». Da parte sua, il partito comunista presentava al governo e al comitato romano delle opposizioni un promemoria che invitava alla lotta armata contro l’occupazione tedesca. Dagli ultimi giorni di agosto i comitati unitari locali avanzavano alle autorità militari formali richieste di armare il popolo, di formare reparti di «guardie nazionali», di apprestare gruppi di civili per la difesa del territorio nazionale.
Le masse popolari stavano ritornando protagoniste delle vicende del Paese. II compito di Badoglio, di garantire una successione tranquilla e indolore al fascismo, era fallito.
II vuoto di potere apertosi con l’8 settembre determinava un confronto dialettico fra le forze più avanzate che sarebbero state protagoniste della lotta di liberazione nazionale e il vecchio potere politico ed economico che tentava di salvare il più possibile della continuità dello Stato e dei tradizionali rapporti di potere.
Luciano Casali, storico


(english / italiano)

Segnalazioni su "spomenici" e architettura jugoslava

0) Links
1) Viaggio dal 16 al 23 agosto 2018 attraverso gli "Spomenici" jugoslavi
2) MOMA (NY), fino a gennaio 2019: mostra sull'architettura jugoslava / Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980 (through January 13, 2019)


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Da alcuni anni gli "Spomenici" – monumenti-sacrari della Lotta Popolare di Liberazione jugoslava – sono al centro dell'interesse degli storici dell'architettura per la qualità artistica e la potenza valoriale che continua a colpire i visitatori nonostante un quarto di secolo di incuria, distruzioni, diffamazioni.

Su questi capolavori dell'architettura contemporanea segnaliamo il bellissimo sito con mappa interattiva e fotografie


ed i libri:

Jan Kempenaers: Spomenik (2010)
https://www.cnj.it/documentazione/biblioletteratura.htm#spomenik2010
https://twistedsifter.com/2011/05/23-fascinating-and-forgotten-monuments-from-yugoslavia/
http://bloggokin.blogspot.com/2011/04/monumenti-abbandonati-in-jugoslavia.html

Revolucionarno Kiparstvo (1977)

Jugoslavia Monumenti alla Rivoluzione (1969)


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Viaggio dal 16 al 23 agosto 2018 attraverso gli "Spomenici" jugoslavi

<< Spomenik è una proposta di viaggio per l’estate 2018. Un tour che parte da Trieste e ritorna a Trieste, dal 16 al 23 agosto. Un anello, il cui filo conduttore sono gli Spomenik. (...) Cinque paesi, dieci Spomenik, ottanta anni di storia: quella che proponiamo è un'avventura nella storia e nella memoria, attraverso alcune delle più importanti località di interesse storico e paesaggistico della ex Jugoslavia. Un tuffo nei Balcani più autentici, nelle contraddizioni sociali e nelle contaminazioni culturali che da sempre caratterizzano questo mondo unico e affascinante. >>

Per altre informazioni/prenotazioni scrivere a: spomenik2018@...


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See also:

New MOMA Exhibition Celebrates The Concrete World Of The Former Yugoslavia (Megan Townsend, 28 January 2018)

Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980 | MoMA LIVE (The Museum of Modern Art, 10 lug 2018)
VIDEO of the presentation event: https://www.youtube.com/watch?v=M2S0bBTHu-8

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Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980

Through January 13, 2019
The Museum of Modern Art

Situated between the capitalist West and the socialist East, Yugoslavia’s architects responded to contradictory demands and influences, developing a postwar architecture both in line with and distinct from the design approaches seen elsewhere in Europe and beyond. The architecture that emerged—from International Style skyscrapers to Brutalist “social condensers”—is a manifestation of the radical diversity, hybridity, and idealism that characterized the Yugoslav state itself. Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980 introduces the exceptional work of socialist Yugoslavia’s leading architects to an international audience for the first time, highlighting a significant yet thus-far understudied body of modernist architecture, whose forward-thinking contributions still resonate today.

Toward a Concrete Utopia explores themes of large-scale urbanization, technology in everyday life, consumerism, monuments and memorialization, and the global reach of Yugoslav architecture. The exhibition includes more than 400 drawings, models, photographs, and film reels from an array of municipal archives, family-held collections, and museums across the region, and features work by important architects including Bogdan Bogdanović, Juraj Neidhardt, Svetlana Kana Radević, Edvard Ravnikar, Vjenceslav Richter, and Milica Šterić. From the sculptural interior of the White Mosque in rural Bosnia, to the post-earthquake reconstruction of the city of Skopje based on Kenzo Tange’s Metabolist design, to the new town of New Belgrade, with its expressive large-scale housing blocks and civic buildings, the exhibition examines the unique range of forms and modes of production in Yugoslav architecture and its distinct yet multifaceted character.

Organized by Martino Stierli, The Philip Johnson Chief Curator of Architecture and Design, The Museum of Modern Art, and Vladimir Kulić, guest curator, with Anna Kats, Curatorial Assistant, Department of Architecture and Design, The Museum of Modern Art.




(english / italiano)

Quarto anniversario della "Ustica" ucraina

in ordine cronologico inverso:

1) Team “investigativo” internazionale accusa la Russia; la Malaysia ne mette subito in discussione le “conclusioni” (maggio 2018)
2) Morto suicida (?) il pilota ucraino accusato dell'abbattimento del volo MH17 (marzo 2018)
3
) Ancora sul Boeing malese abbattuto in Ucraina (F. Poggi, 11 ottobre 2017)
4) Anniversario dell’abbattimento del volo MH-17 (S. Orsi, luglio 2017)
5) Kiev Regime Conducted Special Operation to Destroy Malaysian Airlines Flight MH17 / Kiev ha abbattuto il volo MH17 delle Malaysian Airlines (PravdaReport / Global Research, 29 June 2017)
6) Facts withheld of Malaysian airlines crash (Sara Flounders, August 28, 2014)


Si vedano anche:

17 LUGLIO 2014: DUE CACCIA UCRAINI ABBATTONO AEREO DI LINEA AMSTERDAM - KUALA LUMPUR [DOSSIER 2014]

LA USTICA UCRAINA – UN ANNO DOPO [JUGOINFO 2015]

NOME E COGNOME DELL'AVIERE UCRAINO CHE HA ABBATTUTO IL VOLO MH17 / Malaysian Boeing hit by an Ukrainian pilot [JUGOINFO 2015 / Non-notizie n.9]

VOLO MH17: IL REGIME EUROPEISTA UCRAINO LO HA FATTO ABBATTERE ED HA CERCATO DI ADDOSSARE LA COLPA ALLA RUSSIA PER AGGRAVARE LA CRISI [JUGOINFO 2017]


Il volo MH17, l'Ucraina e la nuova guerra fredda (PTV News 05.09.17)
VIDEO: https://youtu.be/ulwVERDW-Tk?t=4m40s


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Ucraina: russi abbatterono volo Malaysia (ANSA 24 maggio 2018)
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2018/05/24/ucraina-russi-abbatterono-volo-malaysia_2dd2374c-ccd7-4622-b7c7-fb4a7f7a6a13.html
BUNNIK (OLANDA), 24 MAG - Fu lanciato da forze russe il missile antiaereo Buk che nel 2014 nei cieli dell'Ucraina orientale abbattè il volo di linea MH17 della Malaysia Airlines diretto dall'Olanda a Kuala Lumpur con 298 persone a bordo: a questa conclusione è giunto il team di investigatori internazionali che da quasi quattro anni indaga su quel disastro sulla base di un dettagliato esame di immagini video. La Russia ha sempre negato un suo coinvolgimento.

Il Punto di Giulietto Chiesa: "Un'inchiesta invalida" (PandoraTV, 26 mag 2018)

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Boeing MH17: la Malaysia mette in discussione le “conclusioni” del Team “investigativo” internazionale

di Fabrizio Poggi, 01/06/2018
 
Sembra riaprirsi la questione del Boeing 777 della Malaysia Airlines, abbattuto sul Donbass nel luglio 2014 mentre era in volo da Amsterdam a Kuala Lumpur sulla rotta MH17. E, forse non a caso, ciò avviene sullo sfondo di rapporti internazionali, alcuni in continua evoluzione e altri nemmeno tanto “tranquilli”. Solo per citare le ultime mosse: l'incontro a sorpresa tra il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e Kim Jong Un a Pyongyang, in vista del prossimo vertice USA-RPDC del 12 giugno a Singapore, per un verso; la disputa commerciale USA-UE per i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, forse non ancora una guerra, ma con buone probabilità di causare scossoni nel panorama mondiale, dall'altro. E si riapre, la questione del Boeing, guarda caso, immediatamente dopo la messinscena “evangelico-mediatica”di Kiev, che ha obbligato anche i più imperterriti ammiratori degli euronazisti ad ammettere che, forse, come minimo, l'etica giornalistica stia da un'altra parte e tutto quello che dicono a Kiev vada forse letto alla luce delle mosse e della nazipolitica ucraine.
 
Dunque, appena la scorsa settimana aveva campeggiato sui media la sparata australiano-olandese che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto costituire “l'ultima parola” a conclusione delle – ci si passi il termine - “indagini internazionali” sull'abbattimento del Boeing civile e sancire l'ennesimo “ha stato Putin”; ma ecco che ieri la maggior parte delle agenzie riportavano la notizia secondo cui, il 30 maggio, il Ministro dei trasporti malese Anthony Loke aveva dichiarato a Channelnewsasia che “non ci sono prove conclusive per confermare che la Russia sia responsabile per l'abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines”, costato la vita a 298 persone, di dieci diverse nazionalità.
 
Ecco che, nemmeno una settimana dopo l'annuncio delle “conclusioni” della JIT (Joint Investigative Team: Australia, Olanda, Belgio, Malaysia, Ucraina) secondo cui il razzo “Buk” che aveva abbattuto l'aereo malese non sarebbe stato sparato dalle truppe ucraine, bensì da un reparto della 53° brigata missilistica russa che scorrazzava su e giù tra Kursk e la frontiera ucraina. Uno dei se sistemi-razzo “Buk” in dotazione alla brigata, il numero 332, sarebbe stato spostato verso il Donbass e, da lì, avrebbe sparato. Per quanto riguarda le colpe, ha detto Loke, e "chi sia responsabile - non si può semplicemente puntare il dito sulla Russia"; e ha aggiunto che “ogni ulteriore azione sarà basata su prove conclusive”, tenendo conto “delle relazioni diplomatiche". Dopo le “conclusioni” esternate il 24 maggio congiuntamente da Amsterdam e Canberra, Vladimir Putin aveva detto che la Russia non le riconoscerà, finché non saranno ammessi alle indagini anche esperti russi e aveva ribadito che Mosca ha sempre, “sin dall'inizio, proposto un lavoro congiunto per investigare sulla tragedia”. Proposta, peraltro, sempre respinta, non solo da Kiev, ma anche dai suoi tutori d'oltreoceano.
 
Un discorso, quello di Putin, appena appena (si far dire!) un più serio delle accuse (e cosa altro ci sarebbe stato da aspettarsi?) lanciate contro Mosca dal SBU golpista e “appena appena” un po' più logico del cervellotico percorso ipotizzato congiuntamente da Bellingcat, The Insider e McClatchy per addossare la colpa alla Russia, secondo cui il “Buk” responsabile dell'abbattimento sarebbe rientrato in territorio russo passando per Debaltsevo e Lugansk, dovendo quindi percorrere almeno 250 km, per la maggior parte controllati all'epoca dalle forze ucraine, quando invece, dal luogo del presunto lancio (il Boeing era precipitato nell'area del villaggio di Grabovo, poco sopra Torez, una settantina di km a est di Donetsk) fino alla frontiera russa ci sarebbero stati appena un paio di decine di km, per di più da percorrere in territorio controllato dalle milizie.
 

Tra l'altro, oltre a non prendere mai in considerazione le varie ipotesi avanzate da esperti stranieri, dai tecnici russi della società produttrice del sistema missilistico presunto responsabile della tragedia, le testimonianze di aviatori e piloti ucraini, insomma, niente che potesse adombrare il minimo dubbio sulle responsabilità ucraine, Kiev non ha nemmeno mai risposto alla semplice domanda sul perché non avesse provveduto a chiudere ai voli civili il corridoio aereo sopra una zona di guerra.
 
L'impressione insomma è che, dopo la figura meschina consumatasi mercoledì pomeriggio a Kiev, al briefing congiunto SBU-Procura-ATR tataro, la credibilità ucraina faccia fatica a esser sostenuta anche dai più incalliti filogolpisti di mezzo mondo, ai quali ora, nota Vsepodrobnosti.ru, non resta altro che mettersi a insinuare dubbi su “corruzione, finanziamento del terrorismo e amicizia con Putin” del povero Ministro malese, che ha osato avanzare un legittimo e timido dubbio su “conclusioni” così affrettate e di parte.
 
Un dubbio che appare quantomeno problematico accantonare, specialmente ora, dopo il discredito sul SBU di Vasilij Gritsak e la Procura dell'elettrotecnico Jurij Lutsenko, che loro stessi si sono auto-assicurati; senza parlare della credibilità mediatica del “resuscitato” Arkadij Babcenko, su cui è il caso di stendere l'evangelico sudario del novello Lazzaro.
 
Un dubbio così forte che già anche il Ministro degli esteri olandese Stef Blok, fino a due giorni fa convintissimo delle responsabilità russe, ha detto ieri di non escludere la possibilità che Kiev, nonostante al momento non esistano “seri fondamenti giuridici”, venga chiamata a rispondere della tragedia.

Oltre alle reazioni di OSCE, politologi britannici e francesi, Ministro degli esteri belga Didier Reynders, si sprecano i commenti di giornalisti occidentali – The Washington Post, Financial Times, Channel 4, Deutsche Welle– che esprimono “sdegno” per il discredito gettato in tal modo su giornalisti, agenzie di stampa, redattori, commentatori e, in generale, sull'intera categoria giornalistica dalla “manipolazione operata dai Servizi ucraini, con cui”, come ha detto il Segretario generale di Reporters Sans Frontières, Kristof Deluar, “essi hanno dato inizio a una nuova guerra informativa”. 
 
Ma, forse, come si dice, “non tutto il male vien per nuocere”.


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VOLO MH17: MORTO SUICIDA IL PILOTA ACCUSATO DELL'ABBATTIMENTO (19.03.2018)
... Il capitano Vladislav Voloshin, 29 anni - che all'epoca del conflitto in Ucraina colpiva le posizioni dei ribelli filorussi nel Dombass ed è considerato un eroe nazionale - ha sempre negato l'accusa russa... L'uomo di recente era passato dai voli operativi alla direzione dell'aeroporto Mikolaiv, vicino al Mar Nero, da dove, secondo la polizia ucraina, si è sparato un colpo. La polizia di Mikolaiv descrive la sua morte come «suicidio», ma l'indagine, secondo la stessa polizia, viene condotta sotto la fattispecie di «omicidio premeditato».

Chi ha abbattuto il boeing malaysiano MH17 nei cieli di Ucraina? (PTV News 05.04.18)
Suicida il pilota ucraino Voloshin


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Ancora sul Boeing malese abbattuto in Ucraina

di Fabrizio Poggi11 ottobre 2017


Da mesi, molti mesi, è calato un ben comprensibile – da parte di chi ha interesse a tacere – silenzio occidentale sulla tragedia del Boeing malese MH17, abbattuto il 17 luglio 2014 nei cieli del Donbas sopra l’area di Torez e costato la vita a 298 persone. “Inchieste” internazionali; commissioni “indipendenti” (con la partecipazione di funzionari ucraini); ricostruzioni sperimentali dell’accaduto che, escludendo la responsabilità delle milizie, non sono mai state prese in considerazione; testimonianze di avieri ucraini semplicemente ignorate e ignorate pure le circostanze secondo cui ogni satellite statunitense sarebbe stato in grado, in maniera elementare, di verificare le reali circostanze dell’accaduto…

Quante volte si è detto che, se i golpisti e i loro compari avessero avuto la benché minima idea di una responsabilità delle milizie delle Repubbliche popolari, i corifei liberal-occidentali della comunicazione di regime avrebbero battuto la grancassa a ripetizione. Invece nulla. Oblio. Omertà.

Il silenzio è stato rotto, ancora una volta, da un ex-militare ucraino, Roman Labusov, tenente-colonnello transfuga da pochi giorni verso le milizie della DNR. Nel corso di una conferenza stampa, Labusov ha detto di essere in possesso di materiali segreti del Servizio di sicurezza ucraino (SBU), relativi principalmente all’abbattimento del Boeing malese e alle ripetute visite di funzionari e alti esponenti politici USA in Ucraina. Nel corso della conferenza stampa, di cui Russkaja Vesna mostra alcuni momenti, Labusov, che era a capo del settore cifra del SBU, alla precisa domanda di un giornalista sulle responsabilità per la tragedia del volo MH17, non indica soggetti concreti, ma in modo eloquente afferma che le indicazioni dei vertici politici golpisti e dei Servizi segreti erano quelle di “non indagare sul crimine, ma mettere insieme dettagli secondo cui l’aereo fosse stato abbattuto dalle milizie della DNR. Perciò, tutti i fatti erano semplicemente messi da parte”. Labusov ha affermato non esserci dubbi sul fatto che l’attacco all’aereo civile fosse un’operazione accuratamente pianificata e ben indirizzata.

Da parte sua, Rossijskaja Gazeta scrive di un altro ex-ufficiale ucraino, il maggiore Jurij Baturin, il quale avrebbe dichiarato in tv che il Boeing fu abbattuto da un razzo contraereo “Buk” lanciato dalle forze ucraine e, precisamente, da una batteria in servizio al 156° battaglione “Città di Zolotonoša”, proprio in quei giorni dislocato nell’area da cui, secondo ogni ipotesi, sarebbe stato lanciato il missile. Sul fatto che quel settore, nelle vicinanze del villaggio di Zaroščinskoe, al momento dell’abbattimento fosse controllato dalle truppe di Kiev, secondo il Procuratore generale della DNR, Roman Belous, è ora dimostrato da nuove prove. 

Accanto alle stragi di civili nel Donbass, accanto agli assassinii di militanti comunisti e di sinistra, accanto alle sfilate SS e alla “desovietizzazione”, sono queste le “gesta” dei golpisti ucraini, ai cui vertici anche l’italica “sinistra” di governo non disdegna di stringere la mano.


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Anniversario dell’abbattimento del volo MH-17

di Stefano Orsi, luglio 2017

Noto che nessuno ha ricordato l’abbattimento del volo MH17 avvenuto ormai tre anni fa.
Ancora si dibatte sulle responsabilità, cercando di addossarle di volta in volta alla Russia o agli indipendentisti novorussi del Donbass. Restano a nostra disposizione pochi dati certi.

Il primo di questi è che fino ad allora, nessuna batteria antiaerea complessa e sofisticata come il BUK era mai stata utilizzata e neppure data per catturata dai combattenti del Donbass, anzi pochissimi giorni prima, il ministro ucraino aveva confermato che nessuna batteria Ucraina fosse stata catturata dai “ribelli”.

Secondo fatto: fino a quel momento nessun aereo ed elicottero ucraino era mai stato abbattuto se non con mezzi spalleggiabili, di portata limitata, o armi convenzionali come le mitragliatrici antiaeree.

Terzo fatto: per utilizzare una simile batteria antimissile, occorre personale altamente specializzato, in genere vi sono alcuni ingegneri elettronici, che utilizzano la batteria radar di puntamento e trasmettono le informazioni al sistema di lancio che poi provvede all’abbattimento, non è certo cosa che possa fare un minatore incazzato.

Quarto fatto:data la penuria di mezzi a disposizione, l’esercito ucraino, non poteva più schierare sul fronte caccia bombardieri, per cui una batteria antiaerea di quella portata sarebbe stata assolutamente inutile alle forze ribelli.

Quinto fatto: gli unici ad aver schierato in zona batterie antiaeree, erano le forze ucraine, le avevano dislocate nelle retrovie del fronte per difendere le truppe in avanzata verso le principali città ribelli, temendo un attacco aereo da parte russa, non smisero mai di giustificare i loro insuccessi mentendo sulla presenza al fronte di truppe russe regolari, notizia smentita più e più volte dagli stessi ispettori OSCE che controllavano i varchi di frontiera.

Sesto fatto: tutte le “prove” mostrate dagli ucraini a sostegno delle loro accuse contro i russi, registrazioni telefoniche, fotografie ed altre, si rivelarono dei clamorosi falsi.

Settimo fatto: le autorità russe misero immediatamente a disposizioni delle autorità inquirenti, tutte le registrazioni ed i tracciati radar in loro possesso.

Ottavo fatto: Le autorità ucraine si rifiutarono da subito di fornire i tracciati radar ed ogni registrazione di dialoghi con l’aereo abbattuto.

Nono fatto: i patrioti del Donbass, sospesero ogni attività bellica nella zona dove precipitarono i resti dell’aereo, zona molto vicina al fronte dei combattimenti, per permettere agli inquirenti ed investigatori internazionali di presenziare subito all’esame dei resti dell’aereo, e li scortarono per difenderli da eventuali agguati delle forze ucraine.

Decimo fatto: Le forze di invasione ucraine, non sospesero gli attacchi anche e soprattutto nelle zone dove caddero i resti dell’aereo, e come testimoniato dalle autorità internazionali inviate sul posto, dovettero sospendere i lavori a causa dei vicinissimi colpi di artiglieria sparati dagli ucraini.

Undicesimo fatto: volendo riassumere la vicenda, la sola presenza provata e certa di batterie di BUK era degli ucraini nelle retrovie del fronte, presenza certificata da loro stessi in funzione antirussa. Nessun missile BUK era mai stato lanciato dai patrioti del Donbass in precedenza, ne mai ne venne lanciato alcuno successivamente. Nessuna batteria di missili è mai stata data per catturata dai ribelli in precedenza, solo successivamente ai fatti le autorità ucraine dissero che ne avevano persa una catturata dai ribelli e lo fecero tardivamente. Nessuna infiltrazione di batteria AA russa è stata osservata o provata nel settore del Donbass e ogni traiettoria era incompatibile con un missile lanciato dal suolo russo o dal territorio ancora libero del Donbass. Le autorità russe o del Donbass, collaborarono immediatamente con gli inquirenti internazionali, mentre le autorità ucraine ostacolarono platealmente ogni indagine. Ogni movente per il lancio di un missile contro un aereo civile, si risolve in un tentativo da parte ucraina di far ricadere la colpa sui “ribelli” del Donbass o direttamente sui russi, tentativo fallito in quanto i resti dell’aereo caddero in un settore vicinissimo al fronte ma ancora libero e presidiato da truppe novorusse, che permisero agli inquirenti di recarsi immediatamente sul posto, aggiungo che le scatole nere, trovate, vennero immediatamente consegnate ed integre, è da notare come mai ci vennero fatte ascoltare le registrazioni dei dialoghi dei piloti, ne tanto meno alcuna trascrizione dei medesimi, mentre in ogni altra occasione queste vennero rese subito disponibili.

Pertanto , in conclusione, direi che se gli unici missili nel settore erano ucraini, e gli unici ad avere un movente chiaro per causare questo tipo di incidente fossero gli ucraini, direi che vi siano pochi dubbi su chi sia stato a commettere il fatto, il resto è tutta fuffa politica per giustificare le concessioni e l’integrazione di un paese criminale nell’Unione Europea.

Resta certo che i morti, 295, attendono che si dia loro almeno la giustizia della verità sulla loro fine, invece di specularci sopra per i soliti giochi di guerra fredda che vediamo troppo spesso.


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ORIG.: Kiev Regime Conducted Special Operation to Destroy Malaysian Airlines Flight MH17 (PravdaReport 29 June 2017 / Global Research, June 30, 2017)



Kiev ha abbattuto il volo MH17 delle Malaysian Airlines

4 luglio 2017

Pravda, 29 giugno 2017 – Global Research

Il quotidiano Sovershenno Sekretno prosegue l’indagine sull’abbattimento del Boeingmalese sul Donbas, pubblicando un’altra serie di documenti che attribuisce a Kiev la colpa della tragedia. I giornalisti hanno ottenuto una mappa, un piano di volo segreto, steso e firmato personalmente, il giorno prima del volo, 16 luglio 2014, dal pilota della 299.ma Brigata aerea tattica capitano Vladislav Voloshin. Il piano fu approvato dal comandante dell’unità militare A4104, colonnello Gennadij Dubovik. L’Ucraina ancora afferma che alcun aereo militare volò nella zona il giorno in cui si verificò la tragedia. Tuttavia, i documenti appena pubblicati dimostrano che gli ufficiali ucraini mentono. Pravda ha avuto una breve intervista con Sergej Sokolov, caporedattore di Sovershenno Sekretno.

“Questa volta il materiale è ampio, ci sono copie scansionate di documenti e trascrizioni delle conversazioni coi piloti dell’aviazione ucraina. È noto che l’Ucraina usò i suoi aerei da guerra quel tragico giorno. Cosa dicono le informazioni appena scoperte?”
“Questi documenti dimostrano che ci furono ordini per l’impiego degli aerei da combattimento. Le conversazioni coi militari della divisione aerea di Chuguev testimoniano che ci furono delle sortite. Cerchiamo di essere oggettivi, ma sappiamo che la versione promossa dalla commissione internazionale nei Paesi Bassi prevale, secondo cui fu un sistema missilistico russo Buk che abbatté l’aereo. Crediamo che tale versione sia faziosa e non credibile perché i documenti che pubblichiamo testimoniano che ci furono altri fatti da considerare e analizzare attentamente da parte della commissione internazionale nei Paesi Bassi”.

“Come avete avuto queste informazioni?”
“In modo rigoroso, quando abbiamo ricevuto registrazioni audio delle conversazioni coi militari dell’unità aerea di Chuguev, fu chiaro che una persona sconosciuta gli parlò e fece queste registrazioni. In generale, fu un’operazione speciale per documentare i reati commessi dalle forze armate ucraine”.

“Pensi che la distruzione del Boeing della Malaysia Airlines fu un’operazione ben pianificata?”
“Secondo i documenti che abbiamo pubblicato, l’SBU ucraino parla della distruzione come dovuta a un’operazione speciale. Tale conclusione è possibile”.

“Cosa puoi dirci di chi ordinò la distruzione dell’aereo di linea?”
“Se fu un’operazione speciale statale, è chiaro che riguarda l’amministrazione ucraina. Nel nostro articolo notiamo una strana coincidenza. Alla vigilia della tragedia, due alti funzionari dell’amministrazione ucraina visitarono l’unità aerea di Chuguev: Jatsenjuk, poi primo ministro dell’Ucraina, e Parubij. Visitarono anche la brigata aerea tattica di Nikolaev. Parlando in senso stretto, fu una coincidenza, ma abbiamo pubblicato una foto in cui Jatsenjuk appare accanto al velivolo SU-25 08, l’aviogetto che il capitano Voloshin avrebbe pilotato, secondo il piano di volo”.

“C’è qualche speranza che il tuo materiale influenzi l’inchiesta nei Paesi Bassi?”
“Mi piacerebbe molto crederlo, perché mi fa davvero male vedere persone plaudire il dilettantismo di Bellingcat con articoli dalle foto manipolate”.



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Facts withheld of Malaysian airlines crash

[Excerpt from: Russian trucks deliver food and aid — and leave

By Sara Flounders on August 28, 2014

http://www.workers.org/articles/2014/08/28/russian-trucks-deliver-food-aid-leave/ ]


(...) Notable for its absence in the corporate media is any mention of the July 17 downing of Malaysian Airlines Flight MH17 over Ukrainian territory, killing all 298 people on board.

At that time, and without any evidence, all U.S. and NATO officials immediately blamed Russia and the Ukrainian rebels in eastern Ukraine for shooting down the Boeing 777. They used this charge to whip the European Union into imposing sanctions on the Russian economy.

On Aug. 11, the Dutch Safety Board announced that a preliminary report would be published in a week with the first factual finding of the ongoing investigation into the flight that departed from Amsterdam and crashed in Ukraine. The Netherlands was given custody of the flight data recorder, or black box recordings, from the crash.

As of Aug. 25, the Dutch government has refused to release the recordings. (RIA Novosti, Aug. 25) This, of course, immediately raises suspicions that the Kiev junta forces were responsible for the crash.

Questions had already been raised of why the Kiev forces would have placed numerous BUK anti-aircraft batteries in the area when the rebels have no planes, why the Malaysian flight was diverted hundreds of miles by Kiev ground control over the battle zone, and why Kiev air traffic control data and radar data of the flight have still not been made ­public.

Did the Ukrainian military shoot down the passenger plane simply to create a provocation that could be turned against the rebels in east Ukraine and Russia?

Demands for an independent inquiry into the crash are growing. One petition raises the danger of the U.S. expansion of NATO and military encirclement of Russia and posed the possibility that Flight MH17’s crash resulted from an attempt to assassinate Russian President Vladimir Putin, whose aircraft was returning from South America the same day.

The media’s silence now and the absence of U.S. officials providing any concrete evidence in over a month from their own spy satellites or radar add fuel to the growing questions and deep suspicions of the Kiev coup regime’s role in the crash and the growing danger of U.S./NATO military expansion.