Informazione


Piombino (LI), sabato 12 settembre 2015

alle ore 21 in Piazza della Costituzione


nell'ambito delle iniziative per il 72° anniversario della Battaglia di Piombino


PIETRO BENEDETTI

in

DRUG GOJKO

Storia di un partigiano


REGIA DI

ELENA MOZZETTA


TRATTO DAI RACCONTI 
DEL PARTIGIANO NELLO MARIGNOLI
IDEATO DA GIULIANO CALLISTI E SILVIO ANTONINI
TESTI TEATRALI - PIETRO BENEDETTI
CONSULENZA LETTERARIA - ANTONELLO RICCI
MUSICHE - BEVANO QUARTET E FIORE BENIGNI
FOTO - DANIELE VITA
UN RINGRAZIAMENTO PARTICOLARE A NELLO MARIGNOLI


Organizzano: Città di Piombino, ARCI, ANPI, Teatro dell'Aglio

a seguire: Esibizione del coro "I Resistenti", direzione a cura di Viviana Tacchella

Scarica l'intero programma delle iniziative per il 72° anniversario della Battaglia di Piombino: http://www.anpi.it/media/uploads/events/2015/09/Dp_Battaglia15_internet2.pdf



---- SCHEDA DELLO SPETTACOLO:

Drug Gojko (Compagno Gojko) narra, sottoforma di monologo, le vicende di Nello Marignoli, classe 1923, gommista viterbese, radiotelegrafista della Marina militare italiana sul fronte greco - albanese e, a seguito dell’8 settembre 1943, Combattente partigiano nell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo. Lo spettacolo, che si avvale della testimonianza diretta di Marignoli, riguarda la storia locale, nazionale ed europea assieme, nel dramma individuale e collettivo della Seconda guerra mondiale. Una storia militare, civile e sociale, riassunta nei trascorsi di un artigiano, vulcanizzatore, del Novecento, rievocati con un innato stile narrativo, emozionante quanto privo di retorica.


«QUELLO CHE DICO, DICO POCO»
Note di Antonello Ricci sullo spettacolo Drug Gojko di Pietro Benedetti

L’inizio è sul dragamine Rovigno: una croce uncinata issata al posto del tricolore. Il finale è l’abbraccio tra madre e figlio, finalmente ritrovati, nella città in macerie.
Così vuole l’epos popolare. Così dispiega la sua odissea di guerra un bravo narratore: secondo il più convenzionale degli schemi, in ordine cronologico.
Ma mulinelli si aprono, di continuo, nel flusso del racconto. Rompono la superficie dello schema complessivo, lo increspano, lo fanno singhiozzare magari fino a contraddirlo: parentesi, divagazioni, digressioni, precisazioni, correzioni, rettifiche, commenti, esempi, sentenze, morali.
Così, proprio così Nello racconta il suo racconto di guerra. Nello Marignoli da Viterbo: gommista in tempo di pace; in guerra, invece, prima soldato della Regia Marina italica e poi radiotelegrafista nella resistenza jugoslava.
Nello è narratore di straordinaria intensità. Tesse trame per dettagli e per figure, una dopo l’altra, una più bella dell’altra: la ricezione in cuffia, l’8 settembre, dell’armistizio; il disprezzo tedesco di fronte al tricolore ammainato; l’idea di segare nottetempo le catene al dragamine e tentare la fuga in mare aperto; il barbiere nel campo di prigionia: «un ometto insignificante» che si rivela ufficiale della Decima Brigata Herzegovaska; le piastrine degli italiani trucidati dai nazisti: poveri figli col cranio sfondato e quelle misere giacchette a -20°; il cadavere del soldato tedesco con la foto di sua moglie stretta nel pugno; lo zoccolo pietoso del cavallo che risparmia i corpi senza vita sul sentiero; il lasciapassare partigiano e la picara«locomotiva umana», tutta muscoli e nervi e barba lunga, che percorre a piedi l’Italia, da Trieste a Viterbo; la stella rossa sul berretto che indispettisce i camion anglo-americani e non li fa fermare; la visione infine, terribile, assoluta, della città in macerie.
Ma soprattutto un’idea ferma: la certezza che le parole non ce la faranno a tener dietro, ad accogliere e contenere, a garantire forma compiuta e un senso permanente all’immane sciagura scampata dal superstite (e testimone). «Quello che dico, dico poco».
Da qui riparte Pietro Benedetti col suo spettacolo Drug Gojko. Da questa soglia affacciata su ciò che non si potrà ridire. Da un atto di fedeltà incondizionata al raffinato artigianato del ricordo ad alta voce di Nello Marignoli. Il racconto di Nello è ripreso da Pietro pressoché alla lettera, con tutti gli stigmi e i protocolli peculiari di una oralità “genuina” e filologica, formulaica e improvvisata al tempo stesso. Pausa per pausa, tono per tono, espressione per espressione. Pietro stila il proprio copione con puntiglio notarile, stillandolo dalla viva voce di Nello.
Questa la scommessa (che è anche ipotesi critica) di Benedetti: ricondurre i modi di un canovaccio popolare entro il canone del copione recitato, serbando però, al massimo grado, fisicità verace del narrare e verità delle sue forme.
Anche per questo la scena è scarna. Così da rendere presente e tangibile il doppio piano temporale su cui racconto e spettacolo si fondano (quello dei fatti e quello dei ricordi): sul fondo un manifesto antipartigiano firmato Casa Pound, che accoglie al suo ingresso Nello-Pietro in tuta da lavoro; sulla sinistra un pneumatico da TIR in riparazione; al centro il bussolotto della ricetrasmittente.
Andiamo a cominciare.

Sulla testimonianza di Nello Marignoli, partigiano italiano in Jugoslavia, si vedano anche:
* il libro "Diario di guerra" (Com. prov. ANPI, Viterbo 2004)
* il documentario-intervista "Mio fratello Gojko" (di Giuliano Calisti e Francesco Giuliani - DVD_60’_italia_2007) 

Lo spettacolo è ora anche un libro per i tipi di Davide Ghaleb Editore



Ci associamo al giornale online Contropiano – http://contropiano.org/documenti/item/32720-giu-le-mani-dalla-siria-no-alla-guerra-contro-la-siria-e-contro-il-popolo-siriano – riproponendo il testo del documento cui abbiamo dato a suo tempo, e riconfermiamo oggi, la nostra adesione. 
Scrive Contropiano: Ripubblichiamo, a tre anni di distanza, un documento unitario (era il luglio del 2012) su "Il movimento contro la guerra e la situazione in Siria". Ci sembra, alla luce degli eventi in corso, un contributo di grande utilità e lungimiranza che può aiutare a capire e a mobilitarsi contro la guerra nelle prossime settimane. E' soprattutto un documento collettivo, ampiamente discusso e concordato dalle forze politiche e sociali che lo hanno sottoscritto.
Il documento è anche sul nostro sito: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/DISARMIAMOLI.htm#siria2012
(CNJ onlus)
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Giù le mani dalla Siria!

Il movimento contro la guerra e la situazione in Siria. Un documento collettivo mette i piedi nel piatto sulla funzione di una coerente opposizione alla guerra, anche quella “umanitaria”.

La grave situazione in Siria, pone i movimenti che in questi anni si sono battuti contro la guerra di fronte a nuovi e vecchi problemi che producono lacerazioni, immobilismo e un vuoto di iniziativa.

Siamo attivi in reti, realtà politiche e movimenti che in questi anni – ed anche in questi mesi – non hanno esitato a schierarsi contro l’escalation della guerra umanitaria con cui l’alleanza tra potenze della Nato e petromonarchie del Golfo, sta cercando di ridisegnare la mappa del Medio Oriente.

a) Interessi convergenti e prospettive divergenti al momento convivono dentro questa alleanza tra le maggiori potenze della Nato e le potenze che governano “l’islam politico”. E’ difficile non vedere il nesso tra l’invasione/disgregazione della Libia, l’escalation in Siria, la repressione saudita in Barhein e Yemen e i tentativi di normalizzazione delle rivolte arabe lì dove sono state più impetuose (Tunisia, Egitto). La dottrina del Dipartimento di Stato Usa “Evolution but not Revolution” aveva decretato quello che abbiamo sotto gli occhi come l'unico sbocco consentito della Primavera Araba. Da queste gravi responsabilità è impossibile tenere fuori le potenze dell'Unione Europea, in particolare Francia, Gran Bretagna e Italia, che hanno prima condiviso l’aggressione alla Libia, hanno mantenuto intatto il loro sostegno politico e militare ad Israele ed oggi condividono la stessa politica di destabilizzazione per la Siria.

b) I movimenti che si oppongono alla guerra, in questi ultimi anni hanno dovuto fare i conti con diverse difficoltà. La prima è stata la rimozione della guerra dall’agenda politica dei movimenti e delle forze della sinistra o, peggio ancora, una complice inerzia verso le aggressioni militari come quella in Libia. Dalla “operazione di polizia internazionale in Iraq” del 1991 alla “guerra umanitaria in Jugoslavia” nel 1999 per finire con le “guerre per la democrazia” del XXI Secolo, le guerre asimmetriche scatenate dai primi anni Novanta in poi dalle coalizioni di grandi potenze contro paesi più deboli (Iraq, Somalia, Afghanistan, Jugoslavia, Costa d'Avorio, Libia), hanno sempre cercato una legittimazione morale che poco a poco sembra essere penetrata anche nella elaborazione e nel posizionamento di settori dei movimenti pacifisti e contro la guerra. I sostenitori della “guerra umanitaria” statunitensi ma non solo, stanno cercando di definire una cornice legale agli interventi militari attraverso la dottrina del “Rights to Protect” (R2P). Gli obiettivi di queste guerre sono stati sempre presentati come la inevitabile rimozione di capi di stato o di governi relativamente isolati o addirittura resi invisi alla cosiddetta “comunità internazionale” sia per loro responsabilità che per le martellanti campagne di demonizzazione mediatiche e diplomatiche.

c) Saddam Hussein, Aydid, Milosevic, il mullah Omar, Gbagbo, Gheddafi e adesso Assad, sono stati al centro di una vasta operazione di cambiamento di regime che è passata attraverso gli embarghi, i bombardamenti e le invasioni militari da parte delle maggiori potenze della Nato e i loro alleati regionali, operazioni su vasta scala che hanno disgregato paesi immensamente più deboli perseguendo la “stabilità” degli interessi occidentali attraverso la destabilizzazione violenta di governi o regimi dissonanti. A prescindere dalle maggiori o minori responsabilità di questi leader verso il benessere e la democrazia dei loro popoli, le maggiori potenze hanno agito sistematicamente per la loro rimozione violenta attraverso aggressioni militari e imposizione al potere di nuovi gruppi dirigenti subordinati agli interessi occidentali.

d) Seppure negli anni precedenti la consapevolezza che la divisione tra “buoni e cattivi” non sia mai stata una categoria limpida e definita – anzi è servita a occultare le vere motivazioni delle guerre - nel nostro paese ci sono stati movimenti di protesta che si sono opposti alla guerra prescindendo dai soggetti in campo e che si sono posizionati sulla base di una priorità: quel no alla guerra senza se e senza ma che in alcuni momenti ha saputo essere elemento di identità e mobilitazione straordinario. Sembra però che la coerenza con questa impostazione si stia sempre più affievolendo e in alcuni casi ribaltando. La macchina del consenso alle guerre ha visto infatti crescere gli elementi di trasversalità. Prima erano solo personalità della destra a sostenere gli interventi militari, adesso vi si arruolano anche uomini e donne della sinistra. Questa difficoltà era già emersa nel caso dell'aggressione militare alla Libia ed oggi si rivela ancora più lacerante rispetto alla possibile escalation in Siria.

e) Le iniziative contro la guerra che ci sono state in questi mesi, seppur minoritarie, sono riuscite a ostacolare l’arruolamento attivo di alcuni settori pacifisti nella logica della guerra umanitaria, hanno creato una polarizzazione che in qualche modo ha esercitato un punto di tenuta di fronte alla capito lazione politica, culturale del pacifismo e dell'internazionalismo. Ma la realtà sta incalzando tutte e tutti, ragione per cui è necessario affrontare una discussione nel merito dei problemi che la crisi in Siria ci porrà davanti nei prossimi mesi.

Nel merito della situazione in Siria

1. In tutte le guerre asimmetriche – che di fatto sono aggressioni unilaterali - le potenze occidentali hanno sempre lavorato per acutizzare le contraddizioni e i contrasti esistenti nei paesi aggrediti. La questione semmai è che l'ingerenza esterna da parte delle potenze della Nato e dei loro alleati ha agito sistematicamente per una deflagrazione violenta dei contrasti interni che consentisse poi l'intervento militare e servisse a legittimare la “guerra umanitaria”. La guerra mediatica ha bisogno sempre di sangue, orrori, cadaveri, stragi da gettare nella mischia e negli occhi dell'opinione pubblica. Di solito le notizie su questo vengono martellate nei primi venti giorni. Smentirle o dimostrarne la falsità o la maggiore o minore manipolazione, diventa poi difficile se non impossibile. Ciò significa che tutto viene inventato o manipolato? No. Ma un conflitto interno senza ingerenze esterne può trovare una soluzione negoziata, se le ingerenze esterne lavorano sistematicamente per impedirla si arriva sempre ai massacri e poi all'intervento militare “stabilizzatore”. Chiediamoci perchè tutti i piani e gli accordi di pace in questi venti anni sono stati fallire (ultimo in ordine di tempo quello di Kofi Annan sulla Siria). Il loro fallimento è funzionale al fatto che l'unico negoziato accettabile per le potenze occidentali è solo quello che prevede la resa o l'uscita di scena – anche violenta – della componente dissonante. Questo è quanto accaduto ed è facilmente verificabile da tutti.

2. Le soluzioni avanzate dalle sedi della concertazione internazionale (Consiglio di Sicurezza dell’Onu, organizzazioni regionali come Unione Africana, Lega Araba e Alba), non state capaci di opporsi alle politiche di “cambiamento di regimi” decise dagli Usa o dalla Ue. I leader dei regimi o dei governi rimossi, hanno cercato in più occasioni di arrivare a compromessi con gli Usa o la Nato. Per un verso è stata la loro perdizione, per un altro era una strada sbarrata già dall'inizio. Più cercavano un compromesso e maggiori diventavano le sanzioni adottate negli embarghi. Più si concretizzavano le condizioni per una ricomposizione dei contrasti interni e più esplodevano autobombe o omicidi mirati che riaprivano il conflitto. Se l'unica soluzione proposta diventa il suicidio politico o materiale di un leader o lo sgretolamento degli Stati, qualsiasi negoziato diventa irrilevante.

3. Dalla storia della Siria non sono rimovibili le modalità autoritarie con cui in varie tappe è stata affrontata la domanda di cambiamento di una parte della popolazione siriana. Non è possibile ritenere che la leadership siriana sia l’unica a aver gestito in modo autoritario le contraddizioni e le aspettative nel mondo arabo. Questa caratteristica è comune a tutti i paesi del Medio Oriente ed è una conseguenza dell'imposizione dello Stato di Israele nella regione e un retaggio del colonialismo. Ciò non giustifica la leadership siriana ma ci indica anche chiaramente come la sua sostituzione non corrisponderebbe affatto ad un avanzamento democratico o rivoluzionario per il popolo siriano. E’ sufficiente guardare quale tipo di leadership si è impossessata del potere una volta cacciati Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia, Gheddafi in Libia o chi sta imponendo il tallone di ferro su Barhein, Yemen, Oman. Sono paesi in cui c’è gente che ha lottato seriamente per maggiore democrazia e diritti sociali più avanzati, ma chi ne sta gestendo le aspettative sono le potenze della Nato, le petromonarchie del Golfo e le componenti più reazionarie dell’islam politico. Le componenti progressiste della Primavera Araba sono state – al momento – isolate e sconfitte da questa alleanza tra potenze occidentali e le varie correnti dell’islam politico.

4. Dentro la crisi in corso in Siria, la leadership di Bashar El Assad ha conosciuto due fasi: una prima in cui ha prevalso la consuetudine autoritaria, una seconda in cui è cresciuto il peso politico delle forze che spingono verso la democratizzazione. I risultati delle ultime elezioni legislative non sono irrilevanti: ha votato il 59% della popolazione nonostante la guerra civile in corso in diverse parti del paese (in Francia, in condizioni completamente diverse, alle ultime elezioni ha votato il 53%, in Grecia nelle elezioni più importanti degli ultimi decenni ha votato il 62%); per la prima volta si è rotto il monopolio politico del partito di governo, il Baath, e nuove forze sono entrate in Parlamento indicando questa rottura come obiettivo pubblico e dichiarato, si è creato cioè l'embrione di uno spazio politico reale per un processo di democratizzazione del paese; le forze che si oppongono alla leadership di Assad vedono prevalere le componenti armate e settarie, un dato che si evidenzia nei massacri e attentati che vengono acriticamente e sistematicamente addossati alle truppe siriane mentre più fonti rivelano che così non è. Le forze di opposizione con una visione progressista sono ridotte a ben poca cosa e non potranno che essere stritolate dall’escalation in corso; infine, ma non per importanza, l’ingerenza esterna è quella che sta facendo la differenza. Non è più un mistero per nessuno che le forze principali dell’opposizione ad Assad siano sostenute, armate e finanziate dall’alleanza tra le potenze della Nato (Turchia inclusa) e i petromonarchi di Arabia Saudita e Qatar. E’ un’alleanza già sperimentata in passato sia in Afghanistan che nei Balcani e nel Caucaso, un’alleanza che si è rotta alla fine degli anni Novanta e poi ricomposta dopo il discorso di Obama al Cairo che annunciava e auspicava gli sconvolgimenti nel mondo arabo. Queste forze e l’alleanza internazionale che li sostiene puntano apertamente ad una guerra civile permanente e diffusa per destabilizzare la Siria. I corridoi umanitari a ridosso del confine con Turchia e Libano e la No fly zone, saranno il primo passo per dotare di retrovie sicure i miliziani dell’Esercito Libero Siriano, spezzare i collegamenti tra la Siria e i suoi alleati in Libano (Hezbollah soprattutto), destabilizzare nuovamente il Libano e rompere il Fronte della Resistenza anti-israeliana. Se il logoramento e la destabilizzazione tramite la guerra civile permanente non dovesse dare i risultati desiderati, è prevedibile un aumento delle pressioni sulla Russia per arrivare ad un intervento militare diretto delle potenze riunite nella coalizione ad hoc dei “Friends of Syria” guidata dagli Usa ma con molti volonterosi partecipanti come la Francia di Hollande o l’Italia di Monti e del ministro Terzi.

5. In questi anni, nelle mobilitazioni in Italia contro la guerra o per la Palestina, abbiamo registrato ripetuti tentativi di gruppi e personaggi della vecchia e nuova destra di aderire e partecipare alle nostre manifestazioni. Un tentativo agevolato dall’abbassamento di molte difese immunitarie nella sinistra e nei movimenti sul piano dell’antifascismo ma anche dalla voragine politica lasciata aperta dall’arruolamento di molta parte della sinistra dentro la logica eurocentrista, dalla subalternità all’atlantismo e dalla complicità – o al massimo dall’equidistanza – tra diritti dei palestinesi e la politica di Israele. Se la sinistra e una parte dei movimenti hanno liberato le piazze dalla mobilitazione contro la guerra, dal sostegno alla resistenza palestinese e araba ed hanno smarrito per strada la loro identità, è diventato molto più facile l’affermazione di alcuni gruppi marginali della destra e della loro chiave di lettura esclusivamente geopolitica ed eurasiatica della crisi, dei conflitti e delle relazioni sociali intesi come lotta tra potenze. I gruppi della destra veicolano un antiamericanismo erede della sconfitta subita dal nazifascismo nella seconda guerra mondiale e completamente avulso da ogni capacità di lettura dell’egemonia imperialista sia nel suo versante statunitense che in quello europeo. Una chiave di lettura sciovinista e reazionaria che nulla a che vedere con una identità coerentemente anticapitalista ed internazionalista. Non solo. La paura di gran parte della sinistra di declinare la solidarietà con i palestinesi come antisionista e anticolonialista, ha regalato a questa destra e alla sua declinazione razzista e antiebraica uno spazio di iniziativa, cultura e solidarietà che storicamente ha sempre appartenuto alle forze progressiste. Se si cede su un punto decisivo si rischia di capitolare poi su tutto lo scenario mediorientale. Se questo è già visibile anche negli altri ambiti dell’agenda politica e sociale nel nostro paese, è difficile immaginare che non avvenga anche sul piano della mobilitazione contro la guerra e sui problemi internazionali. Sulla Palestina e nella mobilitazione contro la guerra abbiamo sempre respinto ogni tentativo di connivenza con i gruppi della destra. Intendiamo continuare a farlo ma vogliamo anche segnalare che – come sul piano sociale o giovanile – è l’assenza di iniziative e la debole identità della sinistra a facilitare il compito ai fascisti, non viceversa. E’ necessario dunque che alla coerenza con le posizioni e il ruolo svolto dalle nostre reti, associazioni, organizzazioni in questi venti anni e che ha visto schierarci sempre contro la guerra senza se e senza ma, si affianchi un recupero di identità e di contenuti.

f) La seconda difficoltà che abbiamo dovuto registrare è stata quella di una lettura superficiale del nesso tra la crisi che attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo (Stati Uniti ed Unione Europea soprattutto) e il ricorso alla guerra come strumento naturale della concertazione e della competizione tra le varie potenze e i loro interessi strategici. Una concertazione evidente quando si tratta di attaccare e disgregare gli stati deboli (Libia, Jugoslavia, Afghanistan) , una competizione quando si tratta di capitalizzare a proprio favore i risultati delle aggressioni militari (Georgia, Iraq. Libia). Se il colonialismo classico è andato all’assalto del Sud del mondo per accaparrarsi le risorse, il neocolonialismo è andato a caccia di forza lavoro a basso costo. Ma dentro la crisi di sistema che attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo, queste due dimensioni oggi si sono ricomposte nella loro sintesi più alta e aggressiva. Alcuni di noi la definiscono come imperialismo, altri come mondializzazione, comunque la si chiami oggi si è riaperta una competizione a tutto campo per accaparrarsi il controllo di risorse, forza lavoro, mercati e flussi finanziari. Questa conquista ha come obiettivo soprattutto l'economia dei paesi emergenti e quelli in via di sviluppo che molti ritengono poter essere l’unica via d’uscita e valvola di sfogo per la crisi di civilizzazione capitalistica che sta indebolendo Stati Uniti ed Unione Europea. In tale contesto, la guerra come strumento della politica e dell’economia è all’ordine del giorno. Se pensiamo di aver visto il massimo degli orrori in questi anni, rischiamo di doverci abituare a spettacoli ben peggiori. L’alleanza – non certo inedita – tra potenze occidentali, petromonarchie e movimenti islamici ha rimesso in discussione molti schemi, a conferma che il processo storico è in continua mutazione e che limitarsi a fotografare la realtà senza coglierne le tendenze è un errore che rischia di paralizzare l’analisi e l’azione politica.

I firmatari di questo documento declinano in modo diverso categorie come imperialismo, mondializzazione, militarismo, disarmo, antisionismo, anticapitalismo, pacifismo, solidarietà internazionale e internazionalismo, ma convergono su un denominatore comune sufficientemente chiaro nella lotta contro la guerra e le aggressioni militari.

Per queste ragioni condividiamo l'idea di promuovere:

•   Il percorso comune di riflessione che ha portato a questo documento

•   La costituzione di un patto di emergenza per essere pronti a scendere in piazza se e quando ci sarà una escalation della Nato e dei suoi alleati contro la Siria al quale chiediamo a tutti di partecipare

•   l’impegno ad un lavoro di informazione e controinformazione coordinato che contrasti colpo su colpo e con ogni mezzo a disposizione la manipolazione mediatica che spiana la strada a nuove “guerre umanitarie”, anche in Siria


Adesioni:

Rete Romana No War
Rete Disarmiamoli
Militant
Rete dei Comunisti
Partito dei Comunisti Italiani
Forum contro le guerre
Comitato Palestina, Bologna
Comitato Palestina nel Cuore, Roma
Gruppo d'Azione per la Palestina, Parma
Collettivo Autorganizzato Universitario, Napoli
Csa Vittoria, Milano
Alternativa
Federazione Giovani Comunisti
Forum Palestina
Associazione Oltre Confine
Associazione amici dei prigionieri palestinesi, Italia
Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella 
Brigate di Solidarietà e per la Pace-Brisop- Toscana
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia – onlus
Collettivo G. Tanas Tifiamo Rivolta
"Gruppo Siria: No ad un'altra Libia"
Federazione Napoletana del Partito della Rifondazione Comunista
Redazione ALBAinFormazione
SLAI COBAS per il sindacato di classe coordinamento nazionale
Federazione Giovani Comunisti Italiani Torino
Circolo culturale " Il minatore rosso "
Brindisi per Gaza
Coordinamento II Policlinico Napoli
'Ass.ne "La Casa Rossa" Milano
Associazione Ita-Nica circolo C.Fonseca Livorno
Rete Antifascista di Brescia
Comunisti Uniti
UDAP Unione Democratica Arabo palestinese
Partito dei CARC
Redazione di Marx21.it
Lotta e Unità 
Laboratorio Politico Iskra
Partito Comunista del Canton Ticino (Partito Svizzero del Lavoro)
Gioventù Comunista (GC) del Cantone Ticino (Svizzera)
Sezione PdCI "Domenico Di Paolo" di Campomarino (Cb)







http://www.diecifebbraio.info/2015/09/le-violenze-per-trieste-italiana/


LE VIOLENZE PER TRIESTE ITALIANA


Le violenze per Trieste italiana, ovvero la strategia della tensione a Trieste sotto il Governo militare alleato (1945-1954): i finanziamenti dell’Ufficio Zone di Confine alle organizzazioni paramilitari fasciste e xenofobe, le squadre di teppisti organizzate dagli ex dirigenti del CLN giuliano e futuri gladiatori, il ruolo della Osoppo, l’invio dall’Italia di armi per preparare la destabilizzazione della Zona A, il ruolo dei neofascisti negli scontri del 1953 prima del ritorno dell’amministrazione italiana in città...

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Prepararsi a un futuro di guerra

1) Esercitazione NATO "Swift Response" (17/8–13/9/2015):
* Quei parà sulle nostre teste – di Manlio Dinucci
2) Esercitazione NATO "Trident Juncture" (21/10 – 6/11/2015):
* Botschaft an die Weltöffentlichkeit / Message to the World – GFP
* Costruiamo l’opposizione all’esercitazione Nato Trident Juncture: Assemblea a Napoli il 2/9 u.s.
3) Intervista al generale Fabio Mini
"Cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali... Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più."



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Quei parà sulle nostre teste

L'arte della guerra. In arrivo la Swift Response, «la più grande esercitazione Nato di forze aviotrasportate dalla fine della guerra fredda»

di Manlio Dinucci
ilmanifesto.info 25 agosto 2015 / Global Research, August 28, 2015


Coperti dal blac­kout politico/mediatico, stanno scen­dendo in Europa nugoli di para­ca­du­ti­sti in pieno assetto di guerra. È la «Swift Response» (Rispo­sta rapida), «la più grande eser­ci­ta­zione Nato di forze avio­tra­spor­tate, circa 5mila uomini, dalla fine della guerra fredda». Si svolge dal 17 ago­sto al 13 set­tem­bre in Ita­lia, Ger­ma­nia, Bul­ga­ria e Roma­nia, con la par­te­ci­pa­zione anche di truppe sta­tu­ni­tensi, bri­tan­ni­che, fran­cesi, gre­che, olan­desi, polac­che, spa­gnole e por­to­ghesi. Natu­ral­mente, con­ferma un comu­ni­cato uffi­ciale, sotto «la dire­zione dello U.S. Army».

Per la «Rispo­sta rapida» lo U.S. Army impiega, per la prima volta in Europa dopo la guerra con­tro la Jugo­sla­via nel 1999, la 82a Divi­sione avio­tra­spor­tata, com­presa la 173a Bri­gata di stanza a Vicenza. Quella che adde­stra da aprile, in Ucraina, i bat­ta­glioni della Guar­dia nazio­nale di chiara com­po­si­zione neo­na­zi­sta, dipen­denti dal Mini­stero degli interni, e che ora, dopo una eser­ci­ta­zone a fuoco effet­tuata sem­pre in Ucraina il 6 ago­sto, ini­zia ad adde­strare anche le forze armate «rego­lari» di Kiev.

La «Swift Response» è stata pre­ce­duta in ago­sto dall’esercitazione bila­te­rale Usa/Lituania «Uhlan Fury», accom­pa­gnata da una ana­loga in Polo­nia, e dalla «Allied Spi­rit» svol­tasi in Ger­ma­nia, sem­pre sotto comando Usa, con la par­te­ci­pa­zione di truppe ita­liane, geor­giane e per­fino serbe. E, poco dopo la «Swift Response», si svol­gerà dal 3 otto­bre al 6 novem­bre una delle più grandi eser­ci­ta­zioni Nato, la «Tri­dent Junc­ture 2015», che vedrà impe­gnate soprat­tutto in Ita­lia, Spa­gna e Por­to­gallo forze armate di oltre 30 paesi alleati e part­ner, con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 140 aerei.

Quale sia lo scopo di que­ste eser­ci­ta­zioni Nato sotto comando Usa, che si svol­gono ormai senza inter­ru­zione in Europa, lo spiega il nuovo capo di stato mag­giore dello U.S. Army, il gene­rale Mark Mil­ley. Dopo aver defi­nito la Rus­sia «una minac­cia esi­sten­ziale poi­ché è l’unico paese al mondo con una capa­cità nucleare in grado di distrug­gere gli Stati uniti» (audi­zione al Senato, 21 luglio), nel suo discorso di inse­dia­mento (14 ago­sto) dichiara: «La guerra, l’atto di poli­tica con cui una parte tenta di imporre la sua volontà all’altra, si decide sul ter­reno dove vive la gente. Ed è sul ter­reno che l’esercito degli Stati uniti, il meglio armato e adde­strato del mondo, non deve mai fal­lire». Il «ter­reno» da cui ven­gono lan­ciate le ope­ra­zioni Usa/Nato verso Est e verso Sud, ancora una volta, è quello euro­peo. In senso non solo mili­tare, ma politico.

Emble­ma­tico il fatto che alla «Tri­dent Junc­ture 2015» par­te­cipa (nel silen­zio poli­tico gene­rale) l’Unione euro­pea in quanto tale. Non c’è da stu­pir­sene, dato che 22 dei 28 paesi della Ue sono mem­bri della Nato e l’art. 42 del Trat­tato sull’Unione euro­pea rico­no­sce il loro diritto a rea­liz­zare «la difesa comune tra­mite l’Organizzazione del Trat­tato del Nord Atlan­tico», che (sot­to­li­nea il pro­to­collo n. 10) «resta il fon­da­mento della difesa col­let­tiva della Ue».

La Nato — in cui il Coman­dante supremo alleato in Europa è sem­pre nomi­nato dal pre­si­dente degli Stati uniti e sono in mano agli Usa gli altri comandi chiave — serve a man­te­nere la Ue nella sfera d’influenza sta­tu­ni­tense. Se ne avvan­tag­giano le oli­gar­chie euro­pee, che in cam­bio della «fedeltà atlan­tica» dei loro paesi par­te­ci­pano alla spar­ti­zione di pro­fitti e aree di influenza con quelle sta­tu­ni­tensi. Men­tre i popoli euro­pei sono tra­sci­nati in una peri­co­losa e costosa nuova guerra fredda con­tro la Rus­sia e in situa­zioni cri­ti­che, come quella del dram­ma­tico esodo di pro­fu­ghi pro­vo­cato dalle guerre Usa/Nato in Libia e Siria.

Manlio Dinucci


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AUF DEUTSCH:
Botschaft an die Weltöffentlichkeit (Bundeswehr führt größtes NATO-Manöver seit mehr als zehn Jahren – GFP 03.09.2015)
Die Bundeswehr übernimmt eine Führungsrolle bei dem für Ende September anberaumten NATO-Großmanöver "Trident Juncture". Die Leitung der Kriegsübung, an der sich mehr als 36.000 Soldaten beteiligen werden, liegt bei dem deutschen NATO-General Hans-Lothar Domröse; für die Koordination ist das im baden-württembergischen Ulm stationierte "Multinationale Kommando Operative Führung" der deutschen Streitkräfte maßgeblich verantwortlich. Geprobt wird eine Militärintervention in einem fiktiven Staat am Horn von Afrika unter Einsatz der vorrangig aus Bundeswehrangehörigen bestehenden "Speerspitze" der NATO-Eingreiftruppe. Dem Manöverszenario zufolge sehen sich die westlichen Einheiten dabei sowohl mit regulären Truppen als auch mit einer Guerillaarmee konfrontiert und haben außerdem mit "mangelnder Ernährungssicherheit", "Massenvertreibungen", "Cyberattacken", "chemischer Kriegsführung" und "Informationskrieg" zu kämpfen. Wie der Befehlshaber des "Multinationalen Kommandos Operative Führung", Generalleutnant Richard Roßmanith, erklärt, geht von "Trident Juncture" eine nicht zuletzt an Russland gerichtete "Botschaft" aus: "Jeder sollte sich gut überlegen, wie er mit uns umgeht" - schließlich sei die NATO das "stärkste Militärbündnis der Welt" und verfüge über einen Aktionsradius von "360 Grad"...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59189



Message to the World
 
2015/09/03
BERLIN/ULM/BRUNSSUM
 
(Own report) - The German Bundeswehr will play a leading role in "Operation Trident Juncture," a large scale NATO exercise, set for late September. German NATO-General Hans-Lothar Domröse will command the exercise involving more than 36,000 soldiers. The German Armed Forces' "Multinational Joint Headquarters" based in Ulm (Baden-Württemberg) will be the main coordinator. "Trident Juncture" will exercise a military intervention in a fictitious country at the Horn of Africa with NATO's "Spearhead" response force, comprised mainly of Bundeswehr soldiers. According to the training scenario, not only will western troops be confronting a regular army and guerilla fighters, but will also encounter "food insecurity," "massive population displacements," "cyber-attacks," "chemical warfare," and "information warfare." According to Lt. Gen. Richard Rossmanith, commander of the "Multinational Joint Headquarters Ulm," "Operation Trident Juncture" will not only send a "message" to Russia: "Everyone should consider carefully about how they deal with us" - because NATO is "the strongest military alliance in the world" with a "360 degree" orientation.
Flagship
The Bundeswehr announced its participation in NATO's "Trident Juncture" (TRJE 15) exercise, with around 3,000 soldiers, warships, fighter jets, and amphibious armored assault vehicles. Scheduled for September 28 to November 6, TRJE 15 will be the western alliance's largest military exercise in more than a decade, involving 36,000 personnel from NATO member countries and officially neutral "partner countries," such as Austria and Sweden. They will train an invasion of a fictitious country at the Horn of Africa. The maneuver will be commanded by German NATO-General Hans-Lothar Domröse, commander of the "Allied Joint Force Command" in Brunssum (Netherlands) and will take place in Portugal, Spain, Italy, in the Mediterranean and the Atlantic. This exercise seeks to demonstrate NATO's Response Force/NRF and its "Spearhead," the Very High Readiness Joint Task Force/VJTF, comprised mainly of Bundeswehr soldiers, as the Alliance's global "flagship" - also through a "deliberate broad exposure in the media."[1]
Threat
The fact that the TRJE 15 is not only aimed at preparing NATO forces for future wars of aggression, but to create also a credible threat, was confirmed by Lt. Gen. Richard Rossmanith. Rossmanith commands the German Armed Forces' Multinational Joint Headquarters Ulm, which was conceived to serve as the headquarters for both NATO and EU military missions, (german-foreign-policy.com reported [2]) and also coordinates the facility serving as the TRJE 15 headquarters in San Gregorio, near Saragossa Spain. As Rossmanith explained it, TRJE 15 "will demonstrate the broad spectrum of contingencies and NATO's effective capabilities." These include, according to the general, "high-intensity combat situations" which are "conceivable in many contexts," which is why "Russia is closely observing the preparations for Trident Juncture." According to Rossmanith, the West's military ambitions are not "only" about Russia. "NATO is also looking to the South with its exercise - to the Mediterranean, Africa and to the Middle East. The alliance has a 360 degree orientation." The most important TRJE 15 message is, therefore, "NATO is the strongest military alliance in the world…everybody should consider carefully about how they deal with us."[3]
Hybrid Scenario
The scenario for the exercise TRJE 15 complies with NATO's claim to that global power, formulated by Lt. Gen. Rossmanith. The scenario goes under the name "SOROTAN" and enacts a western military intervention in the fictitious "Cerasia" region at the Horn of Africa. According to NATO's "Joint Warfare Center's" script, developed in Norway's Stavanger, an armed conflict has erupted between the countries "Kamon" and "Lakuta." "In the Cerasia region, the quest for drinking water is enflaming the conflict. With desertification, dry aquifers, and riparian disputes, Kamon - the aggressor of the region - rejecting international mediation, invades southwards to seize key dams in Lakuta, which was caught ill-prepared to counter the invasion."[4] According to the Bundeswehr, NATO, therefore, "is called upon to help restore peace and order,"[5] however, western troops will find themselves confronted with a "highly complex threat environment," with methods of "hybrid warfare." "The SOROTAN scenario sees a standoff in East Cerasia causing a legion of problems, including growing regional instability, violation of territorial integrity and a deteriorating humanitarian situation. Additionally, enemy ships and aircraft, threatening freedom of navigation, pose a constant risk of an escalation of the conflict in the Red Sea." Therefore NATO units find themselves confronting a regular army and guerilla fighters, as well as "food insecurity, massive population displacements, cyber-attacks, chemical, and information warfare," according to the scenario.[6] According to NATO, these are "lessons" that should have been learned from military operations in Afghanistan and "contemporary conflicts" for example in Ukraine. (german-foreign-policy.com reported.[7])
Comprehensive Approach
The "fielding of merely military means" to counter these "hybrid threats, is not very promising," according to the Bundeswehr. "Therefore, already at the central TRJE 15 planning conference, organized by the Multinational Joint Headquarters Ulm, a "consolidation of civilian, humanitarian, judicial, administrative, political and economic approaches for resolving conflicts" was called for.[8] This so-called "comprehensive approach" has become an integral element of NATO's military doctrine. Accordingly, both confederations such as the EU or the African Union (AU) will be participating alongside emergency service organizations, such as the Red Cross. Arms manufacturers from fifteen NATO countries will also be on hand seeking inspiration from the maneuver, for developing new products. Referring to the "Joint Warfare Center," the Bundeswehr gives an idea of what this means, in the battle "against a sophisticated, hybrid threat" it ultimately boils down to the "coherency between lethal and non-lethal weapons."[9]
Permanent Warfare
NATO is obviously seeking to use the "Trident Juncture" exercise to prepare itself for a permanent state of global war. As one of its spokespersons recently declared, the challenge is to assure that, as an alliance, it is clear that "we're never fighting the last war, whether the last war was ten years ago or ten minutes ago." In this context, the German NATO General Hans-Lothar Domröse, who will command the "Trident Juncture" exercise, said "speed matters- you will see it in the air, at sea, and on land."[10]
[1] Vorgestellt: Trident Juncture 2015. www.bundeswehr.de 29.07.2015.
[2] See Alleinstellungsmerkmal and Der deutsche Weg zur EU-Armee (IV).
[3] Interview: Trident Juncture sendet klare Signale. www.bundeswehr.de 17.08.2015.
[4] Übungsszenario: Hybrider Krieg als Herausforderung. www.bundeswehr.de 21.07.2015.
[5] Interview: Trident Juncture sendet klare Signale. www.bundeswehr.de 17.08.2015.
[6] Übungsszenario: Hybrider Krieg als Herausforderung. www.bundeswehr.de 21.07.2015.
[7] See 21st Century Warfare.
[8] Konferenz in Ulm bereitet größte NATO-Übung seit Jahren vor. www.kommando.streitkraeftebasis.de 14.04.2015.
[9] Übungsszenario: Hybrider Krieg als Herausforderung. www.bundeswehr.de 21.07.2015.
[10] NATO Prepares to Throw Its Trident. natocouncil.ca 20.07.2015.


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Vedi anche:

Costruire l’opposizione all’esercitazione Nato Trident Juncture 2015. Indetta riunione a Napoli il 2/9 (Contropiano, 29 Agosto 2015)
... si svolgerà in Italia, Spagna e Portogallo la «Trident Juncture 2015» (TJ15), definita dallo U.S. Army Europe «la più grande esercitazione Nato dalla caduta del Muro di Berlino». Con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 200 aerei da guerra di 33 paesi (28 Nato più 5 alleati), questa esercitazione servirà a testare la forza di rapido intervento  - Nato Response Force (NRF) - (circa 40mila effettivi) e soprattutto il suo corpo d’élite (5mila effettivi), la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), enfaticamente soprannominata Spearhead (punta di lancia), in grado di essere schierata in meno di 48 ore per rispondere “alle sfide alla sicurezza sui nostri fianchi meridionale e orientale”...



Napoli. Costruiamo l’opposizione all’esercitazione Nato Trident Juncture

5 settembre 2015

La riunione indetta dal Comitato napoletano “Pace e disarmo” e dalla Rete Napoli No War, ha visto la partecipazione di molte realtà, napoletane e non, impegnate contro la guerra e la militarizzazione del territorio. A partire  dagli interventi introduttivi, tutti hanno evidenziato il significato aggressivo di questa esercitazione che non solo è la più

grande esercitazione militare del dopoguerra ma esplicita i tre fronti verso cui la NATO ritiene legittimo un suo dispiegamento “preventivo”.  Meglio e più di quelle che si stanno susseguendo ininterrottamente ai confini russi,  questa esercitazione, quindi, si presenta come la prova generale della terza guerra mondiale. Da qui la condivisa necessità di costruire una opposizione nazionale a questa esercitazione con iniziative diffuse ed una grande manifestazione a Napoli. Per consentire la massima partecipazione e l’adesione di realtà di base, comitati o singoli - a partire dai No Muos, No F35 o i comitati sardi contro l'occupazione e le attività militari – è stata condivisa la proposta fatta  dal Comitato napoletano “Pace e disarmo” e dalla Rete Napoli No War di lanciare un appello nazionale con cui chiamare ad una RIUNIONE  nazionale IN DATA DA DEFINIRSI ed alla manifestazione  da tenersi il 24 ottobre (la fase “dal vivo” dell’esercitazione partirà dal 21/10 per finire il 6/11) entrambe a Napoli.

Su questa scelta si è voluto precisare che alcune preoccupazioni di altri comitati riportate nella riunione, non trovano ragione d’essere. La scelta di Napoli come sede della riunione nazionale e della manifestazione è legata esclusivamente al fatto che il Jfc Naples è al comando della Trident Juncture 2015 e, insieme a Brunssum (Olanda), comanderà la forza di rapido intervento (Nato Response Force) della Nato.

Quasi tutti nei loro  interventi hanno sottolineato la necessità di legare il tema dell’esercitazione Nato e della guerra alla questione degli immigrati. Questo non solo perché la cosiddetta lotta contro i trafficanti di esseri umani viene ormai puntualmente usata come pretesto  per legittimare la militarizzazione del Mediterraneo e le nuove aggressioni  ai paesi da cui gli immigrati partono, come la Libia;  ma anche per denunciare l’ignobile trattamento riservato dai paesi europei, nessuno escluso, a chi scappa da guerre e fame di cui i governi occidentali sono i primi responsabili. Più di un intervento ha chiesto di esplicitare  la condanna  a quanti (v. la Lega) alimentano campagne razziste e xenofobe e rivendicare la libera circolazione per i migranti. Questo anche nella direzione di segnalare uno spartiacque con una destra che, come già è capitato, prova ad insinuarsi in queste battaglie esprimendo un antimperialismo nazionalista e razzista.

Quasi tutti gli intervenuti hanno sottolineato le difficoltà che si frappongono alla riuscita della mobilitazione. La questione della guerra è un tema poco sentito così come non è scontata l’avversione della gente comune alla presenza di apparati militari sul proprio territorio. Significativa è l’assenza di qualsiasi opposizione alla base Nato di Lago Patria percepita localmente da molti come un volano di occupazione e di crescita del territorio. Un’assenza che segnala, però, anche la disattenzione se non l’indifferenza per queste questioni anche da parte degli attivisti, il cosiddetto movimento, che non vedono nelle aggressioni ad altri paesi, nelle spese militari, nella militarizzazione dei territori, l’altra faccia della medaglia delle politiche di austerity portate avanti dal nostro governo contro cui, invece, sono impegnanti.

Per questo da più parti si è auspicato di evidenziare i costi di questa esercitazione per l’Italia e delle spese militari in generale che rappresentano risorse sottratte alle spese sociali. Esattamente come si è fatto per gli F35, questo elemento deve entrare nella campagna mediatica che va costruita contro l’esercitazione e sulle nostre ragioni.

Insieme alla  campagna, che deve sfruttare tutti i canali possibili, la manifestazione nazionale deve essere preparata da iniziative territoriali, a Napoli come altrove. Nei diversi interventi sono emerse alcune proposte:

-          Una iniziativa da fare a Lago Patria a ridosso della festa di S. Francesco  provando a coinvolgere l’aria di Giugliano

-          Un’assemblea cittadina che potrebbe vedere la presentazione del libro di Dinucci (saranno presi i contatti con l’autore per verificarne la disponibilità)

-          Una mobilitazione a favore degli immigrati e contro il razzismo

-          Presidi e volantinaggi. Il primo potrebbe essere davanti al Duomo di Napoli in occasione del concerto della banda della Nato

-          Un presidio sotto la RAI a ridosso della manifestazione

 

Poiché qualcuno, ricordando la dichiarazione di disponibilità del Sindaco de Magistris a deliberare per vietare l’ingresso nel porto di Napoli di navi e sommergibili a propulsione nucleare, ha  proposto di  risottoporre la questione al Sindaco,  più di un intervento ha sottolineato quanto fosse vecchia tale promessa  evidenziando che la sua riproposizione potrebbe legarsi alla già iniziata campagna elettorale. Si è concordato sul fatto che la sollecitazione al Sindaco a mantenere il suo impegno deve essere fatta pubblicamente (con modalità ancora da decidere) sfidandolo a prendere parola anche come Sindaco della città metropolitana in cui rientra la base di Lago Patria.

 

Dal momento che altre realtà in maniera del tutto autonoma hanno già messo in cantiere iniziative contro l’esercitazione Nato e la guerra (si veda, ad es., il campeggio antimilitarista del 9 – 10 – 11 Ottobre della “rete no basi né qui né altrove”  in Sardegna) si è concordato sull’assunzione di tutte le iniziative che si daranno sul piano nazionale nell’ambito di un percorso quanto più coordinato possibile che rafforzi l’opposizione alla Nato ed alla guerra.  Dai primi contatti sia i comitati sardi che quelli siciliani sembrano interessati. L’obiettivo espresso da tutti gli interventi è quello di creare un coordinamento di forze che, ben oltre l’appuntamento in occasione dell’esercitazione Nato,  prosegua nel lavoro di sensibilizzazione e nella mobilitazione contro le aggressioni militari ed al fianco dei popoli  colpiti. In questa direzione si proverà a contattare anche comitati di altri paesi a partire da quelli coinvolti nella Trident e che hanno già messo in cantiere iniziative contro la Nato (si vedano, ad es., gli antimilitaristi spagnoli di Zaragoza).

Uno degli interventi ha ribadito che sul tema della guerra è importante puntare alla crescita della mobilitazione dal basso e non contare o legittimare finte opposizioni sponsorizzate da pezzi istituzionali o antimilitaristi da campagna elettorale.

Proprio per l’enorme lavoro da fare per la riuscita della manifestazione e per preparare le iniziative proposte, si è convenuto di rivedersi giovedì 10. Nel frattempo oltre al report si farà girare una bozza di appello che sarà varato definitivamente nella prossima riunione.




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Guerra, politica, verità. La visione di Fabio Mini

Redazione Contropiano, 5 Settembre 2015

Rimossa dall'orizzonte della quotidiana discussione teorica e politica – soltanto a sinistra, bisogna dire – la guerra è sempre al centro della riflessione, anche critica, dell'establishment di ogni paese. 

Ma, appunto, è diventata una discussione fuori dalla comunicazione mainstream, condotta soprattutto tra addetti ai lavori o tra studiosi di varia competenza, che non si accontentano di pensare all'interno del parco giochi infantile allestito sui giornali.

A sinistra, dicevamo, il bertinottismo ha compiuto uno dei suoi molti crimini, facendo passare la scelta del pacifismo come una scelta valoriale assoluta e quindi condannando a prescindere, in via preventiva, persino qualsiasi ragionamento mirante a fare laicamente i conti con ciò che nel cerchietto magico della “pace perpetua” proprio non riesce ad entrare.

La conseguenza? Trattare la guerra come un oggetto “irrazionale”, un'incomprensibile deviazione dall'ordinato scorrere del mondo, uno strappo da condannare senza rifletterci sopra. Il che, anche per chi come noi odia la guerra, rende imbecilli, più che pacifisti.

Proponiamo perciò questa intervista assai poco letta con il generale Fabio Mini, uno dei pochi militari pensanti di questo paese – almeno a livello divulgativo – che fa i conti con l'attualizzazione di vecchie formulazioni che si pensava immutabili. A cominciare dalla “guerra, continuazione della politica con altri mezzi”, che appartiene all'era della modernità politica, dunque al confine logico-politico-ideale-sociale dello “stato nazione”.

Perché nello spazio imperialista attuale, quantomeno nella dimensione minima dell'Unione Europea, il centro decisionale è irrimediabilmente spostato dalla sfera della politica a quello dell'amministrazione contabile-finanziaria (come ampiamente dimostrato dalla disgraziata esperienza greca). Ma se non c'è possibilità di alternativa “politica”, perché non c'è politica rinnovata che possa mettere in discussione trattati e/o assetti istituzionali, quale senso assume la guerra guerreggiata che in ogni angolo della Terra è tornata ad essere pratica quotidiana?

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Generale di Corpo d’Armata, capo di Stato Maggiore della NATO, capo del Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo. 

Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari, su CS parla delle crisi attuali ma non solo. 

  1. Gen. Mini, nel suo libro “La guerra spiegata a…” afferma che non esistono guerre limitate, o meglio che una potenza che si impegna in una guerra limitata ne prepara in realtà una totale. Nell’attuale situazione di conflittualità diffusa, che sembra seguire una specie di linea di faglia che va dall’Ucraina allo Yemen passando per Siria e Irak, dobbiamo quindi aspettarci lo scoppio di un conflitto totale?

R1. La categoria delle guerre limitate, trattata dallo stesso Clausewitz, intendeva comprendere i conflitti dagli scopi limitati e quindi dalla limitazione degli strumenti e delle risorse da impiegare. Doveva essere il minimo per conseguire con la guerra degli scopi politici. E la guerra era una prosecuzione della politica. Erano comunque evidenti i rischi che il conflitto potesse degenerare ed ampliarsi sia in relazione alle reazioni dell’avversario sia in relazione agli appetiti bellici, che vengono sempre mangiando. Con un’accorta gestione delle alleanze e delle neutralità, un conflitto poteva essere limitato nella parte operativa e comunque avere un significato politico più ampio. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla e chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali. Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità” tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il Pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla seconda guerra mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”. Dobbiamo quindi essere felici di questa “pace annunciata”. O no?

 Un’altra sua interessante considerazione riguarda il fatto che la guerra porti sempre ad una politica diversa da quella che l’ha preceduta e preparata, dobbiamo dunque prepararci ad un mondo diverso da quello che sta generando i conflitti attuali? E se sì, ha idea della direzione in cui ci stiamo muovendo?

R2. Direi di si, ma non credo che ci si possano fare molte illusioni sui risultati. Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante: il sistema globale voluto dai vincitori della seconda guerra mondiale sta scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle potenze coloniali sono in crisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla stabilità sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile. Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli “eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari. Un filosofo cinese diceva del suo popolo:“ ci sono stati secoli in cui il desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no.”

 Venendo alla situazione italiana, se è vero che una comunità che ospiti anche una sola base militare straniera è da considerarsi “sotto occupazione”, la presenza di basi USA sul territorio nazionale ci rende una nazione sotto occupazione o comunque non libera?

R3. I regolamenti dell’Aja del 1907, stabiliscono i criteri dell’occupazione militare non tanto sulla presenza militare in un paese ma nella sua funzione. Se una presenza militare anche minuscola si assume la responsabilità della sicurezza del territorio (non importa di quale estensione) in cui è stanziata, si ha l’occupazione “de facto”. Le basi degli Usa non garantiscono la nostra sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare. Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.

  1. Nel suo libro ha mostrato come la guerra si sia evoluta nel corso dei secoli, adesso siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di essere nel corso di una guerra di questo tipo?

R4. Senza dubbio. Ma anche questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta: la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe) pensare al bene pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro lo stato. Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente: “è una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa”. Anche lui aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti: esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e verticale e il modello comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.

  1. Dal suo libro emerge anche il concetto di guerra come “strumento d’imposizione”, cioè uno strumento per obbligare una determinata parte a compiere azioni contro la propria volontà, nel recente caso della Grecia in cui la volontà popolare ha dovuto cedere alle richieste di segno opposto dell’Europa, possiamo parlare di un atto di guerra?

 R5. Anche in questo caso dobbiamo riferirci alla guerra senza limiti e, purtroppo, a quella per bande. La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario. La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione europea, né Banca Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più realistico pensare che al momento del passaggio all’Euro gli interessi politici della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a tutti i paesi membri più fragili. Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia siano stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.

 La “narrativa”, la fiction, gli spin doctors, giocano un ruolo fondamentale nella guerra di nuova generazione, può indicarci qualche caso concreto in cui ultimamente ha visto questi elementi in azione?

R6. In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e accompagnata dalla guerra dell’informazione e da quella psicologica. Dal 2000 in poi in Afghanistan e Iraq furono disseminate dall’alto migliaia di manifestini e radioline con le quali la coalizione tentava di dare la propria versione del conflitto. L’aereo C-130 destinato alla guerra d’informazione, chiamato “Commando Solo”, continua a sorvolare paesi come Iran, Iraq, Afghanistan, Yemen e Siria trasmettendo giornali radio e telegiornali dando la propria versione dei fatti. L’efficacia di tali mezzi tecnologici è minata dal dilettantismo. I primi volantini in Afghanistan e Iraq erano incomprensibili sia nella forma sia nella lingua. Le radioline furono acquistate in fretta dopo aver notato che gli afghani erano immuni alle trasmissioni radio visto che non avevano radio. E quando furono disseminate le radio gli americani si accorsero che oltre il 90% degli afghani non capiva la lingua usata. In Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali, ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della VOA (Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro asiatici. La Russia è entrata nel mondo della moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, internet, radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in varie lingue. Il programma Confucio, col quale s’insegna la lingua cinese all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctors del Pentagono avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar Assad piacendo). Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa (la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario pur non avvalendosi di mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale è molto più efficace anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali: “stiamo perdendo la guerra della narrativa”. Fuori dal contesto militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di debito pubblico e internazionale di uno stato non è di per sé un fattore fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con un’azione forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese. La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro; anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione, investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici, i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo per una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere restituito (e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del risparmio privato da parte dello stato non penalizzasse la disponibilità di denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la comunicazione. In Grecia, come altrove, queste bande hanno sperato e tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già successo, anche in maniera violenta.

  1. Pochi anni fa il fisico Emilio dei Giudice e il giornalista Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di battaglia in Irak e in medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Crede che esistano elementi per ritenere fondata questa affermazione?

 R7 Non mi risultano casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare che lo abbiano fatto gli americani: almeno tra trent’anni i segreti di stato saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che diventasse un segreto di Pulcinella.

 CS è un sito che si occupa molto delle problematiche dell’informazione ed è noto che la prima vittima della guerra è la verità, può dare ai nostri lettori un consiglio per difendersi e cercare di distinguere tra realtà e manipolazione?

R8. Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più.