Informazione

(francais / italiano)

I profughi siriani scappano da noi

1) Siria: l'Occidente ha fatto uccidere l'archeologo (M. Correggia)
2) Le guerre imperialiste distruggono il patrimonio culturale mondiale (G. Raccichini)
3) François Hollande continue d’ouvrir la route de Damas aux coupeurs de têtes (S. Cattori)


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Palmyra. L'Occidente ha armato la mano degli assassini. Ipocrisia del Pd e di tutti gli altri sostenitori di guerre

Dopo l’ennesimo indicibile orrore, l’esecuzione a Palmyra dell’82enne archeologo siriano Khaled al Asaad, per mano dei terroristi del sedicente Stato islamico, in Occidente è una corsa da parte di tutti – governi, giornalisti, politici - a fregiarsi della sua memoria.  Strumentalizzando la sua morte. Ad esempio il martire sarà commemorato alle feste del Pd, ha comunicato il premier Renzi.
Peccato che molte delle organizzazioni e persone che ora si dichiarano commosse e indignate, in testa a tutti il Pd, da anni sostengano in vario modo la guerra in Siria e nel 2011 abbiano appoggiato la guerra Nato in Libia. A questi smemorati va ricordato quanto segue:
-          Il sedicente Stato islamico (nato in Iraq dopo il 2003 grazie alla guerra di Bush) è cresciuto perché in Libia la Nato (Italia compresa) è stata la forza aerea delle milizie terroriste e razziste che hanno distrutto il paese e poi sono dilagate in Africa subsahariana e in Siria;
-          In Siria lo Stato islamico è cresciuto (espandendosi dal 2014 anche in Iraq) con l’arrivo di combattenti stranieri grazie al flusso di aiuti materiali e all’appoggio politico dei paesi della Nato e delle petro-monarchie del Golfo, uniti nel cosiddetto gruppo di “Amici della Siria” (ora “Gruppo di Londra”), a vantaggio dei vari gruppi armati di opposizione. Questo ha alimentato – anche a colpi di propaganda e menzogne - una guerra che ha ucciso la Siria. E ha boicottato la pace. 
-          Eppure già dal 2012, come dimostrano documenti Usa desecretati e come tutti sapevano, l’opposizione armata era dominata da gruppi che miravano alla formazione di un califfato in Siria.
-          Gli aiuti Nato/Golfo all’opposizione armata sono aiuti a gruppi estremisti, perché sono evidenti le porte girevoli fra le diverse formazioni, che sul campo o si alleano o cedono armi e uomini ai più forti. Il cosiddetto Esercito siriano libero è un guscio vuoto. 
-          L’appoggio a estremisti presenti o futuri continua: Usa e Turchia sono impegnati nel programma di addestramento e fornitura militare alla “Nuova forza siriana” (i cui adepti poi rifiutano di combattere contro l’Isis o si arrendono ad Al Nusra); Arabia saudita e Qatar continuano nell’appoggio finanziario perché la guerra vada avanti. 
-          L’Italia sta zitta. Pochi giorni fa il ministro  Gentiloni ha accolto l’omologo saudita, impegnato anche a distruggere lo Yemen con la connivenza internazionale.

Marinella Correggia, Torri in Sabina


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Le guerre imperialiste distruggono il patrimonio culturale mondiale

25 Agosto 2015 – di Giorgio Raccichini, PCdI Fermo
da pdcifermano.wordpress.com

La recente brutale esecuzione di Khaled al Assad, anziano ed eroico archeologo siriano, ha generato un’indignazione in Occidente e in Italia a dir poco ipocrita. Da una parte si compiange lo scienziato morto per difendere la cultura, in quanto ha celato alla furia devastatrice dello Stato islamico i tesori dell’antica Palmira, dall’altra ci si è resi responsabili nel determinare una situazione che sta mettendo a rischio sia le vite umane e l’esistenza e l’indipendenza della Siria, sia un patrimonio storico-artistico e culturale di ineguagliabile importanza. Infatti, dal momento in cui i l’Occidente – insieme ad Israele, alla Turchia, all’Arabia Saudita e alle monarchie del Golfo – ha posto nel suo mirino l’obiettivo di cancellare la sovranità di un Paese troppo indipendente, non ha fatto altro che armare e finanziare organizzazioni antigovernative, costituite in gran parte da guerriglieri islamici provenienti spesso dall’estero, i quali hanno finito per alimentare il fenomeno dell’Isis.
Così questa organizzazione ha avuto la possibilità di agire e conquistare vasti territori distruggendo molte testimonianze storiche del passato dell’umanità, comportandosi come il califfo Omar, quando nel VII secolo d.C. venne conquistata Alessandria d’Egitto; dovendo decidere il destino della famosa biblioteca, come ricorda Luciano Canfora nel suo libro “La biblioteca scomparsa” (Sellerio, 2009), il califfo si pronunciò nel seguente modo: “Se il loro contenuto si accorda con il libro di Allah, noi possiamo farne a meno, dal momento che, in tal caso, il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme rispetto al libro di Allah, non c’è alcun bisogno di conservarli. Procedi e distruggili”. Nel caso dell’approccio dell’ISIS alle testimonianze della storia e della cultura, sospetto tuttavia che entri in gioco, oltre ad un funesto e arcaico bigottismo, una più moderna volontà di guadagnare attraverso la vendita sul mercato nero dei reperti. E non mi meraviglierei che gli acquirenti si trovassero proprio in Occidente!

Il ministro Franceschini urla impotente: “Questo orribile atto non può rimanere senza risposta”. Renzi annuncia che Khaled al Assad verrà ricordato in tutte le feste dell’Unità, perché “non bisogna rassegnarsi alla barbarie”. Eppure il Partito Democratico fin dagli inizi del conflitto siriano ha diffuso la favola secondo la quale la guerra siriana sarebbe stata una rivolta degli oppressi dal regime sanguinario di Bashar al Assad, non denunciando, quindi, ma appoggiando le manovre internazionali che destabilizzavano la Siria e facevano emergere l’ISIS. Le stesse posizioni del PD sono in realtà condivise dalla maggior parte delle testate giornalistiche e delle forze politiche italiane, tanto che SEL, invece di prendere apertamente posizione o contro o a favore dell’imperialismo, nel pieno della recrudescenza del conflitto faceva appello ad un presunto movimento non violento e nella sostanza equiparava aggressori ed aggrediti.

Se poi spostiamo il nostro sguardo alla Libia, dove era chiaro fin dall’inizio che il rovesciamento violento del regime di Gheddafi avrebbe provocato solo un tremendo caos, possiamo constatare che altri siti archeologici di importanza mondiale sono a rischio distruzione, come quello dell’antica Leptis Magna, città natale di Settimio Severo. Pure in questo caso gran parte della politica italiana, anche di sinistra, esultava più o meno esplicitamente per la fine del “dittatore”, dimostrando di essere o serva cosciente delle logiche imperiali o incapace di abbozzare una riflessione storica riguardo alle caratteristiche di un dato Paese.

Le guerre imperialiste, anche quelle per procura come è quella in Siria, hanno tra le loro conseguenze il saccheggio dei beni culturali. Chi si ricorda della guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003? Sì, proprio quella che, come nei casi più vicini a noi della Libia e della Siria, è stata giustificata con una serie di vili e assurde menzogne. In particolare, ci si ricorda, in aggiunta alle distruzioni causate dalle bombe occidentali, del saccheggio dell’Iraq Museum di Baghdad, avvenuto senza che le truppe degli invasori facessero nulla per evitare che i beni lì esposti fossero depredati. È risaputo che, quando si vuole cancellare una nazione, è necessario distruggerne anche la memoria storica e le testimonianze culturali. È ciò che è avvenuto nel Kosovo, dove i guerriglieri albanesi dell’UCK, alleati della NATO nella guerra scatenata da quest’ultima nel 1999 in seguito alla messa in scena del finto massacro di Racak, cominciarono una massiccia distruzione delle chiese e dei monasteri serbo-ortodossi, alcuni patrimonio dell’UNESCO, in un territorio che vide svolgersi nel 1389 la battaglia della Piana dei Merli, un evento molto importante per la storia serba e, in generale, per il cristianesimo europeo.

I pochi esempi addotti dimostrano quanto le aggressioni imperialiste della NATO siano all’origine delle distruzioni e dei saccheggi del patrimonio culturale dei popoli aggrediti e della morte di coloro che, come Khaled al Assad, si sono battuti per preservarlo.

L’imperialismo, però, non produce solo la distruzione o il saccheggio del patrimonio culturale attraverso la guerra; in quanto risorse sempre più lucrative i beni culturali diventano appetibili per il grande capitale, come sta accadendo in Grecia, dove il ricatto finanziario viene agitato per costringere a privatizzare, in primis a favore del capitale tedesco, tutto il patrimonio pubblico, tra cui i beni culturali. Se ciò non è saccheggiare, poco ci manca. Graecia capta ferum victorem cepit: il capitale moderno è molto più brutale dei Romani e il patrimonio culturale della Grecia moderna gli interessa solo ed esclusivamente per i profitti che può trarne.

Piuttosto che piangere lacrime di coccodrillo di fronte alla morte di Khaled al Assad, magari mettendo inutilmente le bandiere a mezz’asta, bisognerebbe denunciare le guerre per le risorse e i mercati scatenate dall’Occidente a guida statunitense e far uscire l’Italia da quell’Alleanza atlantica che è un’organizzazione chiaramente contraria al rispetto dei tanto decantati diritti umani, tra i quali rientra anche la salvaguardia della cultura mondiale.


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François Hollande continue d’ouvrir la route de Damas aux coupeurs de têtes 

Par Silvia Cattori le 26 août 2015

En entendant le chef de l’Etat français, François Hollande, le mardi 25 août, dire qu’une solution politique à la crise en Syrie implique la « neutralisation » de Bachar el-Assad on pouvait se demander quel sens il donne à ce mot.
« Nous devons réduire les emprises terroristes sans préserver Assad. Les deux ont partie liée. »
« En même temps, il nous faut chercher une transition politique en Syrie, c’est une nécessité. 
La première, c’est la neutralisation de Bachar el-Assad ».
La diplomatie française a toujours mis comme préalable à toute solution le départ du « boucher Assad » [*] qui « ne mériterait pas d’être sur la terre » [**].
Elle aurait voulu le liquider. Elle n’a pas réussi. Sa « neutralisation » n’est-elle qu’une variante de la liquidation ?
Par ailleurs, comment Hollande peut-il faire une symétrie entre les groupes terroristes et Bachar el-Assad qui – fort de son gouvernement et du soutien de la grande majorité des Syriens – les combat depuis quatre ans et demi ?
Comment peut-il se contenter de « réduire les emprises terroristes » ?
Les Syriens qui les craignent et subissent leurs atrocités ont-ils leur mot à dire?
Quoi qu’il en soit, par son obstination à écarter Assad, la France continue d’ouvrir la route de Damas aux coupeurs de têtes d’al-Nosra et compagnie[***].
Silvia Cattori | 26 août 2015
* François Hollande et Manuel Valls ont qualifié Bachar el-Assad de « boucher« .
**  Laurent Fabius a déclaré le 17 août 2012: «Le régime syrien doit être abattu et rapidement... Bachar ne mériterait pas d’être sur la terre».
 ***  Exécutions et décapitions de soldats de l’armée gouvernementale syrienne bien avant l’arrivée de l’EI
FOTO: Le New York Times a mis en ligne une vidéo tournée dans le nord de la Syrie au printemps 2012 montrant des « rebelles » exécutant sept soldats de l’armée régulière syrienne
FOTO: Décapitations de soldats de l’armée régulière en 2014





Civitavecchia, Giovedì 27 agosto 2015

alle ore 18:30 al Parco dell'Uliveto – nell'ambito della festa dell'Unità


PIETRO BENEDETTI

in

DRUG
GOJKO

REGIA DI

ELENA MOZZETTA


TRATTO DAI RACCONTI 
DEL PARTIGIANO NELLO MARIGNOLI
IDEATO DA GIULIANO CALLISTI E SILVIO ANTONINI
TESTI TEATRALI - PIETRO BENEDETTI
CONSULENZA LETTERARIA - ANTONELLO RICCI
MUSICHE - BEVANO QUARTET E FIORE BENIGNI
FOTO - DANIELE VITA
UN RINGRAZIAMENTO PARTICOLARE A NELLO MARIGNOLI



Drug Gojko (Compagno Gojko) narra, sottoforma di monologo, le vicende di Nello Marignoli, classe 1923, gommista viterbese, radiotelegrafista della Marina militare italiana sul fronte greco - albanese e, a seguito dell’8 settembre 1943, Combattente partigiano nell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo. Lo spettacolo, che si avvale della testimonianza diretta di Marignoli, riguarda la storia locale, nazionale ed europea assieme, nel dramma individuale e collettivo della Seconda guerra mondiale. Una storia militare, civile e sociale, riassunta nei trascorsi di un artigiano, vulcanizzatore, del Novecento, rievocati con un innato stile narrativo, emozionante quanto privo di retorica.


«QUELLO CHE DICO, DICO POCO»
Note di Antonello Ricci sullo spettacolo Drug Gojko di Pietro Benedetti

L’inizio è sul dragamine Rovigno: una croce uncinata issata al posto del tricolore. Il finale è l’abbraccio tra madre e figlio, finalmente ritrovati, nella città in macerie.
Così vuole l’epos popolare. Così dispiega la sua odissea di guerra un bravo narratore: secondo il più convenzionale degli schemi, in ordine cronologico.
Ma mulinelli si aprono, di continuo, nel flusso del racconto. Rompono la superficie dello schema complessivo, lo increspano, lo fanno singhiozzare magari fino a contraddirlo: parentesi, divagazioni, digressioni, precisazioni, correzioni, rettifiche, commenti, esempi, sentenze, morali.
Così, proprio così Nello racconta il suo racconto di guerra. Nello Marignoli da Viterbo: gommista in tempo di pace; in guerra, invece, prima soldato della Regia Marina italica e poi radiotelegrafista nella resistenza jugoslava.
Nello è narratore di straordinaria intensità. Tesse trame per dettagli e per figure, una dopo l’altra, una più bella dell’altra: la ricezione in cuffia, l’8 settembre, dell’armistizio; il disprezzo tedesco di fronte al tricolore ammainato; l’idea di segare nottetempo le catene al dragamine e tentare la fuga in mare aperto; il barbiere nel campo di prigionia: «un ometto insignificante» che si rivela ufficiale della Decima Brigata Herzegovaska; le piastrine degli italiani trucidati dai nazisti: poveri figli col cranio sfondato e quelle misere giacchette a -20°; il cadavere del soldato tedesco con la foto di sua moglie stretta nel pugno; lo zoccolo pietoso del cavallo che risparmia i corpi senza vita sul sentiero; il lasciapassare partigiano e la picara«locomotiva umana», tutta muscoli e nervi e barba lunga, che percorre a piedi l’Italia, da Trieste a Viterbo; la stella rossa sul berretto che indispettisce i camion anglo-americani e non li fa fermare; la visione infine, terribile, assoluta, della città in macerie.
Ma soprattutto un’idea ferma: la certezza che le parole non ce la faranno a tener dietro, ad accogliere e contenere, a garantire forma compiuta e un senso permanente all’immane sciagura scampata dal superstite (e testimone). «Quello che dico, dico poco».
Da qui riparte Pietro Benedetti col suo spettacolo Drug Gojko. Da questa soglia affacciata su ciò che non si potrà ridire. Da un atto di fedeltà incondizionata al raffinato artigianato del ricordo ad alta voce di Nello Marignoli. Il racconto di Nello è ripreso da Pietro pressoché alla lettera, con tutti gli stigmi e i protocolli peculiari di una oralità “genuina” e filologica, formulaica e improvvisata al tempo stesso. Pausa per pausa, tono per tono, espressione per espressione. Pietro stila il proprio copione con puntiglio notarile, stillandolo dalla viva voce di Nello.
Questa la scommessa (che è anche ipotesi critica) di Benedetti: ricondurre i modi di un canovaccio popolare entro il canone del copione recitato, serbando però, al massimo grado, fisicità verace del narrare e verità delle sue forme.
Anche per questo la scena è scarna. Così da rendere presente e tangibile il doppio piano temporale su cui racconto e spettacolo si fondano (quello dei fatti e quello dei ricordi): sul fondo un manifesto antipartigiano firmato Casa Pound, che accoglie al suo ingresso Nello-Pietro in tuta da lavoro; sulla sinistra un pneumatico da TIR in riparazione; al centro il bussolotto della ricetrasmittente.
Andiamo a cominciare.

Sulla testimonianza di Nello Marignoli, partigiano italiano in Jugoslavia, si vedano anche:
* il libro "Diario di guerra" (Com. prov. ANPI, Viterbo 2004)
* il documentario-intervista "Mio fratello Gojko" (di Giuliano Calisti e Francesco Giuliani - DVD_60’_italia_2007) 

Lo spettacolo è ora anche un libro per i tipi di Davide Ghaleb Editore



(srpskohrvatski / deutsch / francais / italiano)

Bosnia ieri e oggi

1) Сви учесници Дејтонског споразума (Ж. Јовановић)
2) Kravica: una strage impunita e obliata (E. Vigna)
3) Erinnerungen – ein Serbe erzählt. Alexander Dorin über das Massaker in Kljevci bei Sanski Most, 1941
4) U Sarajevu je najmanje ubijeno 8.255 Srba u periodu od 1992. do 1995. godine, a mogućnost greške je tri odsto
5) Daesh (ISIS) se niche au plein cœur de l’UE / Trois camps de Daesh en Bosnie


A lire aussi:

ISLAM RADICAL EN BOSNIE-HERZÉGOVINE : L’ATTRAIT PUISSANT DE LA GUERRE EN SYRIE (CdB, 20 août 2015)
Un nouveau rapport vient d’être publié par l’Atlantic Initiative sur les ressortissants bosniens qui se sont rendus en Syrie et en Irak depuis 2012. L’étude révèle pour la première fois le nombre de citoyens partis au front : 217 personnes, dont 25 enfants et 36 femmes...


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ОПАСНО ОМАЛОВАЖАВАЊЕ ДЕЈTОНСКОГ СПОРАЗУМА

Сви учесници Дејтонског споразума

 

Из разговора Председника Београдског форума за свет равноправних Живадина Јовановића, са новинарком Новинске агенције СРНА Миленом Гачевић, 5. августа 2015.

Необично је да препоруке о уређењу БиХ и уставној реформи, као услову ЕУ, саопштава амерички амбасадор. Правно посматрано то личи на «неовлашћено обављање туђих послова», а политички на мешање у унутрашње послове ЕУ и БиХ - оцјењује бивши министар спољних послова СР Југославије Живадин Јовановић.

Дејтонски мировни споразум је нормативни међународни правни акт трајног значаја и није временски ограничен, па су покушаји његовог омаловажавања неосновани и опасни.
Коментаришући недавну колумну америчког амбасадора у БиХ Морин Кормак, Јовановић оцјењује да су "покушаји омаловажавања тог споразума опасни и не доприносе стибилности нити учвршћивању мира на Балкану. На једној, бошњачкој страни, то подгрејава тежњу за унитарном БиХ, на другој, српској, подстиче страховања од укидања равноправности и стечених права".

Кормакова је у ауторском тексту за "Независне новине" навела да
је првобитни циљ Дејтона био да се оконча рат и да се сада
поставља питање његове улоге. Она је, у име евроинтеграција, писала како би требало да буде уређена БиХ, а поједини аналитичари у Србији њено писање протумачили су као признање да Америка никада није жељела Дејтонски споразум какав је постигнут компромисом и потписан, већ су га сматрали само фазом у наметању онога за што је по вољи Сарајева.

Живадин Јовановић за Срну напомиње да "Дејтонски споразум није дело једне земље, макар она била иницијатор, посредник, или домаћин преговора који су довели до његовог прихватања. У Дејтону где је парафиран 21. новембра 1995., а потом и у Паризу где је потписан 14. децембра 1995., овај Спорзум су потврдиле све чланице Контакт групе, сталне чланице Савјета безбједности УН (изузев Кине), као и сама Европска унија. Посебан значај има чињеница да је Савет безбедности УН једногласно прихватио и потврдио Дејтонски споразум својом резолуцијом број 1031, од 15. децембра 1995. Нема, дакле, никакве сумње да је тај међународни уговор, вољом уговорних страна, великих сила и Саавета безбедности УН, постао трајни интегрални део међународног правног поретка заснованог на Повељи УН.
У погледу трајности и правне снаге Дејтонски споразум се не разликује од сличних споразума у систему међународног права. Свако ко би тај Споразум релативизовао, омаловажавао или накнадно временски ограничавао доводио би у питање кредибилитет међународног преговарања, међународног права и правног поретка у целини. У конкретном случају, то би озбиљно угрожавало мир и стбилност на Балкану и у Европи.
Када је ријеч о притисцима на Српску, треба их такође посматрати у светлу заоштравања глобалних односа Истока и Запада. САД не желе да у Европи, па ни на Балкану, постоји ни једна самостална држава или ентитет изван њихове пуне контроле. Када је реч о притисцима за унитаризацију Босне и Херцеговине уз обезбеђивање доминације Бошњака, треба имати у виду и сталну потребу САД да се конзервативним режимима муслиманских земаља покажу као «принципијелни» заштитници мусиламана на Балкану не би их придобили у сузбијању антиамеричког расположења на Блиском Истоку и у муслиманском свету уопште.
Јовановић сматра да је необично да препоруке о уређењу БиХ и уставној реформи, као услову ЕУ, саопштава амерички амбасадор.
"Ако постоје неки услови за чланство у ЕУ нормално је да их саопшти легитимно тело Европске уније – Савет, Комисија, или њихов представник, а не амбасадор земље нечланице"- примећује Јовановић. 
Притисци изван БиХ, а пре свега, из Вашингтона, да се промени уставни поредак у БиХ, да се наруше основни принципи Дејтонско-париског споразума, као што су равноправност три констутивна народа и два ентитета, као и принцип консенсуса, обично се образлажу тезом да је улога Дејтона била «само» да оконча рат, да успостави мир. А шта су циљеви притисака да се омаловажава и напушта Дејтон? Зар поштовање и доследна примена тог споразума не чува мир и безбедност данас и у будуће? Може ли се мир очувати рушењем темеља на коме почива? У свету апсурда у коме живимо, вероватно би се нашао неко коме би користила још једна «контролисана» дестабилизација дела Европе? У таквом свету, можда, неко верује да се Срби, Република Српска и Србија, морају данас одрећи статуса и права стечених пре 20 година? Ако су притисци били делотворни да се Србија практично одрекне резолуције СБ УН 1244 да би се удовољило Албанцима на Косову и Метохији, Ердутског споразума да би се задовољила Хрватска, зашто је непритиснути да сарађује у у збацивању Милорада Додига и развлашћивању Републике Српске у корист Бошњака? То је и тако практично проглашено као «европски» стандард. 
Када се добро размисли ко и шта све захтева од Србије, Републике Српске, српског народа уопште, шта су стварни циљеви уставних промена у БиХ, (па и у Србији), онда није далеко од памети да се човек упита – да ли Империја уопште жели Србију и српски народ као политички фактор на Балкану, или чини све да се он раздроби, утопи и претвори у пуку монету за поткусуривање у исцртавању увек нове «просторне ситуације»? Ако слаби и разара географску осу и центар Балкана, да ли уопште има интереса за напретком, миром и стабилношћу, или њеним геостратешким нацртима, можда, више одговара продужена дестабилизација овог дела Балкана и држање Србије на још краћем поводцу? Империја има све сложеније проблеме у односима са Русијом, Кином, Латинском Америком... На Блиском Истоку и Северу Африке даље се распламсавају сукоби, хаос, убијање. Масовне миграције избеглица и азиланата произведених њеним агресивним ратовима све више притискају Европу и Балкан, а воље за стварно решавање нема на видику. Да ли би нова дестабилизација Балкана могла да скрене пажњу са свега тога? Захваљујући недавном руском вету у Савету безбедности, Република Српска, Србија и српски народ нису жигосани као геноцидни. Неће ли, ако већ није почела, англо-саксонска осовина ненавикнута на праштање, тражити «асиметричне» одговоре? Порука од априла 2000. да Србију треба трајно држати изван европског развоја није орочена!



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Bosnia, Kravica 1993-2013: una strage impunita e obliata, ed un Natale di dolore e solitudine per i serbi di Enrico Vigna

 

Banja Luka, Rep. Srpska di Bosnia, 5 gennaio 2013 

Nel villaggio di Kravica nei pressi di Bratunac si è celebrato con una funzione funebre, il 20° anniversario, del ricordo delle 49 vittime massacrate nel Natale ortodosso del 1993; una strage efferata commessa da unità dell’Armija Bosniaca musulmana secessionista, sotto il comando di Naser Oric,.
La cerimonia funebre è stata officiata nella chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo (che fu vandalizzata) , e poi corone e fiori sono stati posti presso il monumento centrale in Kravica.

Nel Natale ortodosso di 20 anni fa, membri dell'esercito secessionista della BH, sotto il comando di Naser Oric uccisero a Kravica e nella vicina Kravica Zasa, 49 serbi, 80 civili e soldati furono feriti; sette persone furono rapite, di cinque delle quali ancora non sono stati ritrovati i corpi.

Due giorni dopo il Natale del 1993, furono trovati e sepolti sette corpi di civili serbi, mentre i resti delle altre 42 vittime sono stati trovati,  identificati e sepolti dopo due mesi.
In quel giorno furono saccheggiate e bruciate 688 case serbe, circa 200 imprese ed edifici ausiliari  e 27 edifici pubblici. Circa 1.000 persone rimasero senza casa. 101 Bambini persero uno o entrambi i genitori. Gli uccisi in quei giorni, compresi altri villaggi vicini attaccati, furono 158 serbi; in questa regione, i serbi uccisi documentati, furono 3267.

"…Alle famiglie delle vittime fa male la dura verità che nessuno è stato ritenuto responsabile dei crimini contro i serbi in quel giorno di Natale 1993…. ", ha detto il presidente dell'Organizzazione delle famiglie dei soldati e civili uccisi o scomparsi, di Bratunac, Radojka Filipovic .
Oltre al dolore per i familiari, per i vicini e amici caduti, gli abitanti sono indignati che per questo crimine di Kravica, anche dopo 20 anni, nessuno ne ha risposto.

In un primo momento Naser Oric fu mandato al TPI dell’Aja ( poi prosciolto e rimandato a casa, oggi vive tranquillo e ricco in Bosnia…), e tra le decine di accuse di omicidi, stupri, mutilazioni, saccheggi, vi era anche quella per questa strage; così recitava l'atto di accusa contro di lui da parte del Tribunale dell'Aia:  "…Un massacro brutale di civili nel villaggio di Kravica, nel Natale ortodosso il 7 gennaio dell’anno  1993…”.In una seduta del Tribunale egli disse: “…Abbiamo fatto crimini, sono stati commessi  crimini. Ma chi può giudicare chi ha commesso più crimini ?...”.

Esiste un video che mostra l’orrore perpetrato:  all'ingresso del villaggio, due teschi umani furono messi per terra ad uso dei pneumatici delle automobili dei terroristi che andavano e venivano; per le strade del villaggio: mucchi di corpi mutilati collocati uno  accanto all'altro. Il più giovane aveva 20 anni: Risto Popovic gli spararono in bocca;  dentro la scuola primaria 'Kravica' ... Ljubica Baskić, aveva settant’anni, ucciso con un colpo di pistola sotto il torace e poi un colpito con un oggetto contundente sulla destra  della testa .... Lazzaro Veselinovic, gli mozzarono la testa ... Corpi pugnalati, percossi a morte, mutilati atrocemente…  Animali bruciati o impiccati, come i maiali… Sui muri graffiti con scritto “ Naser, Turchia, Bosnia, Ali, Srebrenica ". .. Per la Corte Internazionale, materiale  non sufficientemente importante da farlo vedere in aula…

Nessun rappresentante di alcuna istituzione della Comunità Internazionale europea, del mondo della cosiddetta “società civile” o umanitaria (presenti in centinaia di sigle e ONG in Bosnia), ha partecipato, e nemmeno esponenti della Bosnia-Erzegovina.

Ancora una volta persa, da parte di tutti (… soprattutto dei “tifosi” occidentali di questa Bosnia) , un occasione per condividere il dolore della gente e lanciare un segno che indichi la denuncia ed il rifiuto degli orrori e dei crimini, la di là di religioni o etnie, da qualsiasi parte siano commessi. Invece il “razzismo” culturale e politico contro i serbi come etnia, ha ancora una volta avuto la meglio; ed un processo per una riconciliazione e un avvicinamento tra i popoli…è ancora più lontano.

Essere presenti per testimoniare in un luogo memoriale della miseria e della sofferenza di questo angolo della terra e sostenere il diritto alla verità, alla giustizia soprattutto verso coloro che hanno perso la vita in quella guerra fratricida. Per dire Gloria eterna a tutti i morti ed eterno rispetto per chi è caduto innocente, di qualsiasi parte esso sia. 

Ma forse per certi “tifosi”, è troppo difficile sentire nell’anima questi valori e questa coscienza civile, sono troppo impegnati a soddisfare proprie peculiarità esistenziali ed il dolore non lo conoscono, non nella loro carne ed anima, ma solo “mediaticamente” o professionalmente.

 “…Poi i dominanti inventeranno misere bugie, per scaricare le colpe su chi viene attaccato, ed ogni persona del reame sarà felice di quelle falsità che gli alleviano la coscienza, e le studierà accuratamente, e si rifiuterà di esaminare qualsivoglia loro confutazione. E così ringrazierà Iddio per i sonni migliori che potrà dormire, in seguito a questo grottesco processo  auto ingannatore…” .    (M. Twain)



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[Mit dem folgenden, sehr informativen und eindruecksvollen Text stimmen wir fast voellig ueberein, wenn es nicht für die Beurteilung um die Haltung sozialistischer Jugoslawien gegenueber den Genozid der Serben: die Tatsache, dass das Kljevci-Denkmal, das in den Fotos gezeigt wird, in der Zeit Titos-Jugoslawien errichtet worden war, spricht allein. Italienische Koord. fuer Jugoslawien]



Erinnerungen – ein Serbe erzählt

August 11, 2015


Als ich zum ersten Mal von den Büchern des Autors Alexander Dorin hörte, war ich misstrauisch, weil er gebürtiger Serbe ist. Dann geriet ich in einen Konflikt, denn ich wollte doch nie ein Rassist sein – vorurteilsfrei erzog ich schließlich auch meine Kinder. Zwei Jahre zuvor hatte ich zwar schon kritische Bücher über die Balkankriege gelesen, jedoch von deutschsprachigen Autoren. Hier war es anders und das Thema Srebrenica galt schließlich auch für mich bis Ende 2010 als unumstößliches und bewiesenes Massaker an Tausenden moslemischen Männern. Also begann ich gegen mein entdecktes Vorurteil anzukämpfen, ohne eine Ahnung zu haben woher dieses kollektive Misstrauen gegen die serbische Bevölkerung entstanden war.

Das Buch „Jasenovac – das jugoslawische Auschwitz und der Vatikan“ von Vladimir Dedijer, ein Kampfgefährte und Biograph Titos (Josip Broz), habe ich erst vor zwei Jahren gelesen. Im Vorwort erzählt Alexander Dorin seine Erinnerungen:


Ich schaue oft zurück und erinnere mich mit etwas Wehmut an die zahlreichen Aufenthalte in Bosnien während meiner Kindheit. Meine Eltern nutzten jede Gelegenheit, um mit mir ihre alte Heimat zu besuchen. Das Leben als Gastarbeiter in der Schweiz hatte bei ihnen die Sehnsucht nach ihren Wurzeln genährt.

Ich kann es ihnen nachempfinden, denn wenn ich heute an das »alte« Bosnien denke, so erinnere ich mich an grüne Hügel, Wälder und Wiesen, wie auch an quirlige Bäche und Flüsse, und überall zierten die Heuhaufen der Bauern die malerische Landschaft. Anstelle von Traktoren zogen noch oft Pferde die Wagen mit den verschiedenen Gütern und verliehen dem Land einen Hauch von einer längst vergangenen Zeit. Viele Male ritt ich mit Freunden und Bekannten durch die schöne Gegend, vorbei an Quellen mit Trinkwasser und Wäldern voller essbarer Pilze, die wir oft einsammelten. Ich erinnere mich auch an den weit verbreiteten Duft, wenn mich die Dorfbewohner auf die Felder mitnahmen, um mit ihnen während warmen Sommertagen das Heu auf die Wagen zu laden. Es war aber nicht nur das Heu, das diesen Duft ausmachte, sondern auch das bosnische Basilikum, das oft wild wuchs, von den Bewohnern »Bosiljak« genannt wird und das zusammen mit dem Heu zum »Duft Bosniens« verschmolz.

Es führten damals noch keine Straßen zum Geburtsdorf meines Vaters, so dass wir uns den Zugang dorthin mit dem Auto nur mühsam und über holperige Stein- und Schlammwege bahnen konnten, vorbei an schlichten, weiß getünchten Häusern und an verwitterten Holzschuppen. Die Dorfbewohner waren sehr nett und für ihre Gastfreundschaft bekannt. Tagelang wurde gekocht, gegessen und getrunken, wenn ich mit meinen Eltern zu Besuch war. Von morgens bis abends rief uns jemand ins Haus auf ein Getränk, zum Essen oder auch nur zum Plaudern. Oft streiften wir auch mit Pferdewagen durch die Wälder und überquerten Flüsse, wenn Ausflüge und Essen in der freien Natur organisiert wurden. Begleitet wurden diese Feierlichkeiten natürlich von lebendiger Musik und Tanz. Einige Male konnte ich auch alte Bräuche miterleben, während denen die Dorfbewohner nachts mit brennenden Fackeln ausgestattet durch die Gegend zogen.

Ich genoss damals als Kind diese Atmosphäre und Aufmerksamkeit, die einem von diesen Menschen entgegengebracht wurden. Erst mit der Zeit stellte ich mir die Frage, weshalb ich eigentlich nur so wenige Verwandte besaß. Wo waren denn die Großeltern, Onkel, Tanten und andere Verwandte, die meine gleichaltrigen Schulkollegen in der Schweiz besaßen. Weshalb hatte ich nur eine Großmutter, während der Rest der Familie, bis auf einige Halbverwandten, nicht vorhanden war? Zur gleichen Zeit fiel mir auf, dass überall dieser Harmonie und Liebenswürdigkeit auch eine tiefe Trauer schwebte, die sich vor allem in den Augen der älteren Menschen spiegelte. Oft sah ich meine Großmutter, wie sie, auf einer Bank vor dem bescheidenen Häuschen sitzend, mit glänzenden Augen sehnsüchtig in die Ferne schaute. Wo waren ihr Mann, ihre Kinder und ihre Verwandten geblieben?

Eines Tages – ich war schon viele Male nach Bosnien gereist – stellte ich meiner Mutter die Frage, wo denn die anderen Familienmitglieder aus Vaters Familie geblieben sind. Der ansonsten immer liebliche Gesichtsausdruck meiner Mutter veränderte sich schlagartig zu einer seltsam versteinerten, von tiefer Betroffenheit gezeichneten Miene, und es folgte längeres Schweigen, bis sie schließlich leise und zögerlich antwortete: »Es war während des letzten Krieges, als böse Menschen hier eindrangen und schlimme Verbrechen verübten.« »Ja aber wer denn? «, wollte ich wissen. »Die Nazis, mein Junge, die Nazis«, antwortete sie und atmete dabei tief durch. Erst viele Jahre später sollte ich erfahren, dass das nur die halbe Wahrheit gewesen ist.

[Der Journalist Zoran Jovanovic erklärte mir im August 2011, als wir in Vlasenica einen Friedhof besuchten, auf dem serbische Opfer aus den Neunzigern bestattet sind und sich Gedenksteine der serbischen Opfer aus WWII befinden, dass die Verbrechen im Zweiten Weltkrieg, die von kroatischen und moslemischen Nazi-Kollaborateuren an Serben verübt worden sind, Tabuthemen waren. Man kannte nur die deutschen Faschisten.]

Ich befragte auch meinen Vater zu den damaligen Ereignissen, doch er wollte noch weniger dazu sagen. Er wandte sein Gesicht von mir ab, und ich begriff, dass ihn irgend etwas an meiner Frage tief erschütterte und alte Wunden aufgerissen hatte. Was um Himmels willen war nur geschehen? Und wieso wollte niemand darüber reden?

Erst einige Jahre vor Ausbruch der jüngsten jugoslawischen Kriege – ich war so um die zwanzig Jahre alt – erhielt ich endlich von einem entfernten Verwandten die lang ersehnte Antwort. 1941 waren deutsche Truppen in Bosnien eingedrungen und hatten Massenmorde an serbischen Zivilisten verübt. Bosnien gehörte damals – so erfuhr ich – zum großkroatischen Staat, der, nebst Kroatien, auch Bosnien und Teile Serbiens umfasste. In diesem großkroatischen Staat wüteten kroatische Soldaten besonders grausam und übertrafen an Sadismus die Soldaten der Wehrmacht, die die Serben, Zigeuner und Juden meist erschossen, während die faschistische kroatische Ustascha sich durch besonders abscheuliche Folterungen und Massaker hervortat. Ich las später, dass diesen Verbrechen Hunderttausende Serben, Zigeuner und Juden zum Opfer fielen. Ich erfuhr weiter, dass in Jasenovac das berüchtigtste war und in denen die Opfer dermaßen brutal gequält und ermordet wurden, dass sogar einige Nazis dagegen protestierten.

Den kroatischen Ustaschen und den Nazis schlossen sich auch viele bosnisch-moslemische Einheiten an, die sich an den Greueltaten beteiligten. Und so trieben im Jahr 1941 deutsche Soldaten, unterstützt von moslemischen Bewohnern aus der Region, im Dorf Kljevci (nahe der Stadt Sanski Most) 280 serbische Zivilisten zusammen und erschossen sie an Ort und Stelle. Unter den Opfern waren auch mein Großvater, drei ältere Brüder meines Vaters und weitere Verwandte. Meine Großmutter und mein Vater mussten sich das grausige Geschehen aus einiger Entfernung anschauen. Oft ergötzten sich die Täter, so berichtete mir mein Gesprächspartner, am Leid der Familienmitglieder, die sich diese Verbrechen an ihren Verwandten anschauen mussten, und ließen einige von ihnen völlig gebrochen zurück. Und so wurde auch meine Großmutter mit ihrem jüngsten Sohn zurückgelassen.

Für diese Opfer wurde beim Dorf Kljevci ein Denkmal errichtet, das 1995 während des jüngsten Bosnienkrieges von der moslemischen Armee fast völlig zerstört wurde. Ein Halbcousin von mir (meine Großmutter heiratete nach dem Krieg noch einmal) erzählte mir eines Tages, dass mein Vater während jedes Besuches regelrecht zum Denkmal geschoben werden musste und anschließend für mindestens einen Tag nicht mehr ansprechbar war. Ab 1992 verstarb er aufgrund des hohen Alkoholkonsums im Alter von einundsechzig Jahren.

Meine Mutter erging es 1941 als Zweijährige noch ein wenig schlechter als meinem Vater. Die Deutschen und die Ustascha überfielen ihr Dorf Devetaci bei Novi Grad nahe der Grenze zu Kroatien. Dabei wurden viele ihrer Verwandten und Bekannten verschleppt und ermordet, darunter auch ihre beiden Eltern. Sie selber wurde von einer Großtante kurz vor dem Angriff weggebracht. Sie verbachte eine gewisse Zeit mi den Partisanen von Josip Broz »Tito« im Kozara-Gebirge, geriet jedoch während der Kriegshandlungen in deutsche Gefangenschaft. Sie wurde für einige Zeit in ein kroatisches Konzentrationslager gesperrt, bevor sie, zusammen mit ihrer Großtante, als Kriegsgefangene nach Deutschland transportiert wurde (2004, ein Jahr vor ihrem Tod und ihrem sechsundsechzigsten Geburtstag, erhielt meine Mutter von der deutschen Bundesregierung als Entschädigung für Deportation, Unterbringung in einem Konzentrationslager und Zwangsarbeit 7669 Euro und 36 Cent, ausbezahlt von der »International Organisation for Migration« [IOM] aus Genf im Rahmen des »German forced labour compensation«. Nicht ganz 7670 Euro für eine zerstörte Kindheit und eine fast ausgerottete Familie! Serbisches Leben scheint nicht so teuer zu sein). Nach Kriegsende wurde sie wieder nach Jugoslawien gebracht, wo sie als Kriegswaise aufwuchs. Später, als junger Mensch – sie lebte und arbeitete mittlerweile in Belgrad -, lernte sie meinen Vater kennen, der mit ihr das gleiche Schicksal teilte.

Meine Eltern redeten kaum jemals über diese traumatischen Ereignisse, wie die meisten serbischen Kriegsopfer aus dem Zweiten Weltkrieg im ehemaligen Jugoslawien. Im einstigen jugoslawischen Vielvölkerstaat unter Josip Broz »Tito« war es verpönt, über diese Verbrechen zu reden. Eine Geschichtsaufarbeitung fand im Interesse der »Brüderlichkeit und Einigkeit« nicht statt. Es wurde ganz einfach ein Deckel über den zweiten Völkermord am serbischen Volk innerhalb weniger Jahrzehnte gelegt. Auch die Tatsache, dass der Vatikan damals während des an den Serben verübten Massenmords im katholischen Großkroatien maßgeblich beteiligt war, wurde nach Kriegsende bis heute in der Weltöffentlichkeit nahzu tabuisiert, ganz zu schweigen von der Tatsache, dass der Vatikan ab 1991 dem kroatischen Staat wieder tatkräftig unter die Arme griff.

Meine Mutter fing erst zu Beginn der jüngsten jugoslawischen Kriege über die Schrecken des Zweiten Weltkrieges an zu reden, als sie mitansehen musste, wie in ihrer alten Heimat wieder der Krieg tobte. Doch wie schon damals, so hörte auch dieses Mal niemand die Stimmen der serbischen Opfer. Was nach dem Ende des Zweiten Weltkrieges im Namen der »Brüderlichkeit und Einigkeit« verschwiegen wurde, wurde während der jüngsten Kriege erneut tabuisiert, dieses Mal von den führenden westlichen Massenmedien. In einem Anfall von völligen Tatsachenverdrehungen, zrückgehaltenden Fakten und auch schamlosen Lügen Kreierten »unsere« Medien bewusst ein völlig verzerrrtes Bild der letzten Balkankriege. Die Serben wurden kollektiv zu einem Volk von nationalistischen Verbrechern und Massnemöprdern erklärt, während man die anderen Völker Ex-Jugoslaweiens quasi zu heiligen Unschuldslämmern und Opfern des »großserbischen« Wahns erklärte. Es wurde die Perversion vollbracht, die einstigen serbischen Völkermordopfer zu Faschisten umzulügen. Damit wurden die ehemaligen Opfer der Achse Nazideutschland/Großkroatien gleich zweimal getötet.

Ich erinnere mich daran, wie sich meine Mutter, im Sterbebett liegend, weinend darüber beklagte, dass sie ihre Eltern nie kennenlernen durfte und als Serbin von ihrem Umfeld bis kurz vor ihrem Tod angegriffen und schlechtgemacht wurde. Worin lag ihre Schuld für das erlebte Unglück und das Schweigen in der Weltöffentlichkeit über solche Schicksale? Was haben Menschen wie sie den NATO-Staaten und den westlichen Massenmedien angetan, dass diese sich ab 1991 das Recht herausnahmen, Millionen von Serben in einer beispiellosen Hetz- und Desinformationskampagne zu demütigen, zu denunzieren und niederzumachen? War es ihre orthodoxe Religionszugehörigkeit? Oder war es ihr serbischer Name? Ist jemand schuldig, zu sein? Wird uns seit dem Ende Nazideutschlands nicht immer und immer wieder eingetrichtert, dass die Zeit des Rassenhasses vorbei sei? Sind unsere »Neuzeithumanisten« tatsächlich der Meinung, dass diese Regel in bezug auf alle Völker gilt, mit Ausnahme des serbischen Volkes?

Gegenwärtig scheint die Weltherrschaft der USA ohne Konkurrenz und von unabsehbar langer Dauer zu sein. Möge das vorliegende Buch eines Tages, wenn sich die politische Situation weltweit zuungunsten der momentan einzigen Weltmacht und all ihrer negativen Begleiterscheinungen wie z.B. Aggressionskriege gegen »Schurkenstaaten«, totalitäre Massenmedien und Angriffe gegen Andersdenkende – was ja von vielen europäischen Staaten vom großen »US-Bruder« dankbar übernommen und auch angewandt wurde – dazu beigetragen, dass die serbischen Opfer wiederholter Völkermorde während des letzten Jahrhunderts späte Gerechtigkeit erfahren. Und man mag auch zaghaft hoffen, dass der Westen in der Zukunft nicht noch einmal von der letzten Großmacht und den von ihr beeinflussten Massenmedien erzeugten Sturm des antiserbischen Rassenhasses heimgesucht wird.

Alexander Dorin


[FOTOS: Diese Fotos sind der Facebookseite von Alexander Dorin entnommen: Das Denkmal befindet sich auf dem Weg in das Dorf Kljevci. Es ist 300 Serben gewidmet, die 1941 getötet worden sind, darunter befand sich ein großer Teil der Familie von Alexander Dorins verstorbenen Vater.
Das Monument wurde während des Krieges in den Neunzigern zerstört. ]


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O OVOM GENOCIDU NAD SRBIMA SVI ĆUTE
уторак, 14 јул 2015 

Evo koliko srpskih civila su BOŠNJACI BRUTALNO UBILI u Sarajevu!

U Sarajevu je najmanje ubijeno 8.255 Srba u periodu od 1992. do 1995. godine, a mogućnost greške je tri odsto

Najmanje 8.255 Srba ubijeno je u Sarajevu od 1992. do 1995. godine, popisao je Institut za istraživanje srpskih stradanja u 20. veku iz Beograda. Još 860 osoba vodi se kao nestalo, a iz Instituta navode da je mogućnost greške u popisu tri odsto i da se spisak još proverava.
Saradnici Instituta podatke su prikupljali uz pomoć svedoka koji su bili po logorima, ljudi koji su živeli u Sarajevu za vreme rata i članova porodice koji su preživeli zločine, a tamo gde su pobijene čitave porodice, svedočili su njihove komšije i prijatelji.
Jedan od saradnika Instituta, Strahinja Živak, rekao je da se spisak još proverava i da će za svaku žrtvu sadržati ime i prezime, godinu rođenja i smrti.
– U tako velikom spisku može biti oko tri odsto greške, zato što su neki ljudi posle razmenjeni ili pobegli iz logora, a mi te kasnije podatke nismo našli. Moguće su greške, ali 97 odsto podaci su provereni i tačni – rekao je Živak za "Novi reporter".
On je najavio da će uskoro biti objavljena knjiga "Srpska stratišta Sarajeva".


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Daesh se niche au plein cœur de l’UE


19 juil. 2015


Daesh achète en secret des terrains entourés de forêt près du village d’Osve en Bosnie. Les agences de renseignement bosniaques sont persuadées que l’EI cherche à créer une base à partir de laquelle l’organisation terroriste attaquera l’UE.

Les terrains achetés par l’EI ont un atout sans précèdent : leur proximité avec la mer Méditerranée. Cela signifie que les terroristes peuvent facilement y arriver depuis la Syrie, l’Irak et l’Afrique du Nord en traversant illégalement la Grèce, la Turquie, la Macédoine et la Serbie.

Le village d’Osve est situé sur une colline à 96 kilomètres de Sarajevo. On ne peut pas trouver ce village sur les cartes GPS et il est plus commode d’y arriver à pied car les routes sont trop sinueuses et étroites pour les voitures. Les services de sécurité de la Bosnie croient que Daesh utilise ces territoires pour y entraîner ses nouvelles recrues loin des yeux de la communauté internationale.

Un autre atout de la Bosnie pour Daesh, c’est la vente illégale d’armes qui dure depuis le conflit des années 1990. 

L'Etat islamique appelle au djihad dans les Balkanshttp://francais.rt.com/international/2982-daesh-appelle-jihad-dans-BALKANS 

Il y a cinq mois, les forces anti-terroristes bosniaques ont aperçu pour la première fois le drapeau de Daesh sur les maisons d’un autre village, celui de Gornja Maoca.

L’extrémisme a toujours été un sujet sensible pour les Bosniaques. Selon les estimations des services de renseignements, depuis 2012, environ 200 de ses ressortissants sont partis rejoindre les rangs de Daesh en Syrie et en Irak. Une trentaine seraient morts et quarante environ, rentrés en Bosnie.

En septembre dernier, la police fédérale bosniaque (SIPA), a procédé à l’arrestation de deux leaders salafistes Bilal Husein Bosnić et Nusret Imamović. Mais malgré ces arrestations, des centaines de fidèles à travers le pays se sont ralliés à trois autres dirigeants. Il s’agit de Harun Mehicevic, qui était parti en Australie dans les années 1990 mais qui poursuit aujourd’hui ses activités en Bosnie, Jasin Rizvic et Osman Kekic, qui, selon les rumeurs, se battent maintenant en Syrie et Irak. Ils sont soupçonnés d’avoir acheté ces terrains.

Selon l’enquête menée par le Mirror, les résidents des villages voisins entendent régulièrement des tirs et voudraient bien quitter la région le plus rapidement possible.

«Je m’inquiète pour l’éducation de mes enfants ici. Il vaudrait mieux partir maintenant mais il n’est pas si facile de vendre la maison», a déclaré un habitant interrogé par le journal britannique.


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Trois camps de Daesh en Bosnie

RÉSEAU VOLTAIRE  | 23 JUILLET 2015

En 2012, des jihadistes ont acquis des terres en Bosnie-Herzégovine, à Gornja Maoča, Ošve et Dubnica, pour y installer des camps de formation, sous le commandement de Nusret Imamović.
D’abord affilié à al-Qaïda, Nusret Imamović est devenu le numéro 3 de sa branche syrienne, le Front al-Nosra. Il a ajourd’hui rejoint l’Émirat islamique (Daesh) et les communautés jihadistes bosniaques l’ont suivi dans sa démarche.
Les jihadistes bosniaques se divisent en deux groupes :
 d’une part les anciens combattants de la Légion arabe d’Oussama Ben Laden qui participèrent à la guerre de Bosnie de 1992 à 1995 (on se souvient qu’à l’époque Ben Laden était conseiller militaire du président Alija Izetbegović, qui avait également comme conseiller politique Richard Perle et comme conseiller en communication Bernard-Henri Lévy). 
 d’autre part de nouveaux convertis, généralement de moins de 30 ans.
Depuis les Accords de Dayton, la Bosnie-Herzégovine est dirigée par un Haut Représentant international, actuellement l’Autrichien Valentin Inzko, représentant les intérêts de l’union européenne, assisté de l’ambassadeur états-unien David M. Robinson. Ce dernier, après avoir été impliqué dans le soutien aux Contras du Nicaragua a été chargé d’influer sur les élections vénézuéliennes de 2008, puis a poursuivi sa carrière en Afghanistan. Il devrait prendre prochainement d’importantes fonctions au département d’État.







Itinerari
Suggerimenti per gli escursionisti...




Lettera inviata a Montagne360, periodico del Club Alpino Italiano

Gentile Redazione,
 
L'interessante articolo di Gillian Price apparso su Montagne360 di Luglio 2015, dedicato ai sentieri percorsi dai prigionieri alleati [POW] in fuga dai campi di prigionia, opportunamente integrando le recenti iniziative editoriali dedicate ai sentieri partigiani nel 70.mo della Liberazione, ci porta a conoscenza di quella che è in effetti solo la punta di un iceberg. Gli storici hanno iniziato in tempi recenti a ricostruire quello che fu l' "universo concentrazionario" italiano: si parla di 876 tra luoghi di internamento, prigionia, lavori forzati o confino, sul solo territorio nazionale (cfr. http://www.campifascisti.it/ )... In questi luoghi, i prigionieri anglosassoni erano solo una delle presenze, e nemmeno maggioritaria: tra i prigionieri stranieri erano soprattutto numerosi gli jugoslavi. In Appennino centrale oltre ai campi marchigiani di Servigliano e Sforzacosta menzionati nell'articolo, se ne contavano numerosi altri, e al confine con l'Umbria nell'incantevole altipiano di Colfiorito sorgono tuttora le "Casermette", dove erano rinchiusi migliaia di montenegrini che in gran parte evasero da un varco nella recinzione nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1943. Erano invece soprattutto sloveni i reclusi del campo della Motina a Renicci, presso Anghiari, che presero la fuga il 14 settembre 1943. Ancora in Umbria, oltre alle numerose destinazioni per i lavori forzati dove gli jugoslavi erano impiegati in grande numero, vale la pena di ricordare soprattutto il carcere della Rocca di Spoleto, da cui centinaia di detenuti evasero in maniera rocambolesca e romanzesca a più riprese dopo l'8 Settembre. Più a sud, in Abruzzo, confluirono dai campi di Corropoli, Tossicia, Civitella ed altri ancora quegli stranieri – tra cui 60 inglesi e 45 jugoslavi – che ebbero un ruolo centrale nei fatti di Bosco Martese, dove si svolse "la prima battaglia in campo aperto della Resistenza italiana" (Ferruccio Parri).
Proprio in Abruzzo furono tanti gli antifascisti slavi che, nel tentativo di passare le linee e recarsi nell'Italia meridionale sotto controllo alleato, rimasero bloccati sulle montagne dove spesso trovarono la protezione delle famiglie locali, ma talvolta – come nel caso di Radusinović e Radonjić – perirono drammaticamente per assideramento.

Diversamente dagli inglesi, che hanno curato la memoria creando enti dedicati, gli antifascisti jugoslavi sono stati vittime di un oblio che trova spiegazione nelle note vicende politiche passate e presenti. Il ricordo delle loro imprese è sopravvissuto solo grazie alla passione di alcuni singoli, tra i quali meritano riconoscenza Vlado Vujović e Drago Ivanović. Eppure, ripercorrendo i destini di tutti loro, è possibile tracciare itinerari di grande interesse escursionistico e storico. 
Una direttrice fondamentale è quella del crinale appenninico tra Umbria e Marche: in particolare, da Colfiorito lungo il versante ovest dei Sibillini fino ai Monti della Laga e al Gran Sasso; con una possibile variante, storicamente importante, sul versante opposto dei Sibillini, fino a Sarnano.
Da Spoleto si possono invece idealmente seguire le sorti degli evasi della Rocca salendo alla Forca di Cerro per poi attraversare la Valnerina e risalire sul Monte Coscerno, teatro della prima grande strage nazifascista in quel comprensorio (Mucciafora 29/11/1943), per eventualmente proseguire verso gli altri luoghi che videro protagonista la locale Brigata Gramsci, in cui gli slavi confluirono: Norcia, Cascia, Monteleone, Leonessa, Polino.
Da Anghiari possiamo "seguire" gli sloveni verso nord, in montagna, o verso sud, lungo la valle del Tevere.
In tutti i casi, ripercorrere quelle direttrici ci riporta ad un mondo sul quale non solo le vicende storiche del secondo dopoguerra, o i devastanti terremoti, ma soprattutto i cambiamenti socio-economici (urbanizzazione in primis) hanno infierito come vere schiacciasassi. L'escursionista attento può comunque riconoscere su quei sentieri non solo i segni oramai labili dei valori di un tempo, tra giustizia sociale e pietas rurale, ma anche l'opera super-storica della Natura, che si è trionfalmente riconquistata ampie porzioni del nostro Appennino.
 
Andrea Martocchia, 6 agosto 2015




Itinerari partigiani sulla montagna abruzzese

A L'Aquila, "l’assessorato alla Cultura del Comune ha sposato in pieno il progetto, ideato dalla sezione dell’Aquila dell’ANPI e realizzato grazie alla collaborazione del CAI, dell’Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea e del Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga. Il percorso, di circa 60 chilometri, si articola in sei tratti:
1. L’Aquila–San Sisto–Collebrincioni, inaugurato l’anno scorso con il cippo in memoria dei 9 Martiri,
2. Collebrincioni–Fonte Nera–Arischia, zona operativa del gruppo partigiano di Antonio D’Ascenzo e luogo di fucilazione dei pescaresi Vermondo Di Federico e Renato Berardinucci, medaglie d’oro al valor militare,
3. Arischia–Casale Cappelli, luogo di scontro armato tra il gruppo di Giovanni Ricottilli e i tedeschi, in cui perse la vita il partigiano Giovanni Vincenzo,
4. Casale Cappelli–Assergi–Filetto, luogo d’azione dei partigiani del gruppo Aldo Rasero e della strage dei civili del 7 giugno ’44, quando Filetto fu dato alle fiamme,
5. Filetto–Monte Archetto, luogo di insediamento del gruppo di Aldo Rasero nella primavera del ’44,
6. Monte Archetto–Onna, luogo della strage nazista dell’11 giugno ’44."

All'interno del percorso è possibile rintracciare la presenza della compagine slava sulle montagne abruzzesi. 
Nella tappa n.1 il 23 settembre 1943 le truppe tedesche, alla ricerca dei POWs fuggiti dalle casermette, alleati e slavi, dettero luogo a Collebrincioni ad uno dei primi scontri a fuoco della Resistenza nel corso del quale morirono due prigionieri inglesi e "9 martiri giovinetti" aquilani furono catturati e giustiziati.
Nella tappa n.2 ad Arischia operava, all'interno della banda partigiana locale, Blagoje Popović,che i locali ricordano ancora col nickname italianizzato di Biagio, ardimentoso studente universitario di diciannove anni, figlio dell’ambasciatore jugoslavo a Londra, ricordato dal suo comandante come «ragazzo coraggioso e battagliero che cadrà vittima dei tedeschi per la sua eccessiva temerarietà»,  catturato ed impiccato il 17 maggio 1944 ad un pilone della teleferica.
Nella tappa n.4 a Casale Cappelli truppe naziste attaccano il casale dove si era asserragliato il gruppo composto da sei partigiani, uccidendone uno e catturandone altri quattro, fra i quali gli slavi Badonić e Basević, quest’ultimo ferito.

Riccardo Lolli
, agosto 2015

Per maggiori informazioni si veda la ricerca dedicata ai partigiani jugoslavi in Abruzzo