Informazione

(english / italiano.

Sulle assoluzioni "politiche" del "tribunale ad hoc", sulla lettera di denuncia del giudice Harhoff e sul suo successivo "impeachment" si vedano anche:

Sul carattere para-legale, fazioso e illegittimo del "tribunale ad hoc" si veda anche la documentazione raccolta alle pagine:



In che direzione sta andando il Tribunale dell’Aja?


Scritto da Sense Agency

 L’Aja 11/07/2013

La Corte per il processo Gotovina


“Presunzione di infallibilità”,questa è la definizione che descrive i giudici in assenza di un’ulteriore istanza di appello alle loro sentenze, ma che non li dovrebbe proteggere dall’opinione pubblica preoccupata e critica nei loro confronti, che protesta contro il “nuovo corso” che stanno intraprendendo negli ultimi mesi presso il Tribunale dell’Aja e ad Arusha negli ultimi mesi.

Ha fatto scalpore la lettera del giudice Harhoff, che però fa passare in secondo piano lo sconcerto e le proteste contro la piega che sta assumendo il Tribunale dell’Aja, che sono state sollevate prima del 13 luglio 2013, data della pubblicazione della lettera, e che han avuto molta eco sui media danesi e poi nel resto del mondo.

Nelle battute di apertura della lettera che ha mandato a 56 fra amici e colleghi il 6 giugno, Harhoff fa riferimento a due recenti articoli, che “mettono a fuoco eventi che han causato molta preoccupazione sia per me che per i miei colleghi del tribunale”. Tenendo presente le date, possiamo presumere che si riferisse all’articolo intitolato “Cosa accade al tribunale dell’Aja” di Eric Gordy, pubblicato sul New York Times il 2 giugno e un post intitolato “Due sentenze sconcertanti all’Aja”, firmato da T.J. e pubblicato il 1° giugno sul sito dell’Economist.

Se avesse aspettato un altro giorno a mandare la lettera, avrebbe potuto citare un’altra fonte, cioè quella scritta dall’ex assistente al Segretario di Stato USA John Shattuck, un provato e fedele amico del Tribunale, che prese parte alla sua creazione. Nel suo articolo “Crimini di guerra insabbiati”, pubblicato il 7 giugno sul Boston Globe, Shattuck afferma che “se la maggioranza dei giudici dell’ ICTY fosse stata al processo di Norimberga, pochi, anzi pochissimi, capi nazisti sarebbero stati incriminati”.

Contrariamente a chi dice che il problema è stato ingigantito dal giudice “talpa”, piuttosto che dal presunto cambiamento di corso che lo stesso poneva all’attenzione, non è stato il giudice Harnoff a introdurre al pubblico dibattito i recenti sviluppi del tribunale. Negli ultimi mesi, centinaia, se non migliaia di articoli e analisi sono stati pubblicati sulla direzione intrapresa dal Tribunale. Sono stati più severi della lettera di Harnoff.  Sono state firmate petizioni, richieste inchieste, chieste dimissioni senza che ciò abbia portato a dei risultati. Nemmeno uno dei pezzi grossi del Tribunale ha prestato attenzione a tutto ciò. “Sarà dimenticato”, hanno detto. Tuttavia non lo è.

Il dibattito su quanto accaduto fu lanciato lo scorso novembre, dopo la prima controversa sentenza che assolse i generali croati Gotovina e Markac grazie ad una maggioranza risicata di voti (3 contro 2). Le prime “salve” del dibattito furono sparate dai giudici Pocar e Angius, che non han tenuto toni moderati nell’esprimere la loro opinione contraria. Hanno definito la ricerca della maggioranza (giudici Meron, Robinson, Guney) come “semplicemente grottesca” e “in contraddizione con ogni senso di giustizia”, hanno poi affermato con schiettezza che la maggioranza è stata guidata da motivi differenti da quelli che concernono la tutela della legalità.

Il dibattito è proseguito ininterrotto, per divenire sempre più acceso dopo l’assoluzione del generale dell’esercito jugoslavo Perisic, fino ad infiammarsi dopo l’assoluzione dei capi dei servizi segreti serbi Stanisic e Simatovic. Si sono visti simili sviluppi al Tribunale del Rwanda che ha in comune le camere d’appello, e che è stato oggetto di polemiche e proteste sul nuovo corso assunto dopo le recenti sentenze.

Sta agli esperti di diritto internazionale, che si stanno occupando del caso dallo scorso novembre, analizzare e capire se il Tribunale sta veramente prendendo un nuovo indirizzo, chi ne trarrà beneficio e che impatto vi sarà per la giurisprudenza. In questa sede vogliamo solamente porre in rilievo alcuni casi lampanti, circa il volta faccia della giurisprudenza del tribunale dell’Aja e di Arusha. I fatti indicano che vi sono cose che non vanno.

Nel giro di un ristretto lasso di tempo pari a tre mesi e mezzo, dalla metà di novembre 2012 alla fine di febbraio del 2013, la camera di appello del Tribunale dell’Aja e di Arusha, guidato dal giudice Meron, ha cassato a colpi di maggioranza tre sentenze di condanna di cinque alti ufficiali militari e civili che erano stati condotti in giudizio per gravi violazioni dei diritto internazionale umanitario della Ex Jugoslavia e in Rwanda.

I tre processi sono durati complessivamente nove anni, con 900 sedute di tribunale. La corte ha dato udienza a 453 testimoni e ha esaminato migliaia di prove. La sentenza che ha stabilito che le responsabilità riportate dall’accusa erano state provate al di la di ogni ragionevole dubbio, così come indicato nelle motivazioni della sentenza lunghe 2608 pagine: 1377 pagine per Gotovina e Markac, 595 pagine per Mugenizi e Muginareza e 636 pagine per Perisic. I cinque accusati sono stati condannati a 24 anni (Gotovina), 18 anni (Markac), 30 anni (Mugenizi), 30 anni (Muginareza) e 27 anni (Perisic): totale 129 anni.

Successivamente, nel procedimento di appello, fu trovato che tutto ciò fu sbagliato e gli accusati sono stati prosciolti da tutte le accuse. Le sentenze di appello hanno rispettivamente 56, 55 e 49 pagine, e sono tra le sentenze più corte della storia. Alcuni giudici le hanno beffardamente commentate come “sentenze da rotocalco”.

Può esser vero che, come per le altre cose della vita, “non è la lunghezza ciò che conta”. Però a tutto c’è un limite. Per esempio, la sentenza d’appello del caso contro Florence Hartmann è lunga quanto quella di Gotovina e Markac. Nel caso di lei il procedimento di appello durò 22 mesi, tre mesi in più del caso contro i generali croati. Forse la camera d’appello ci mise più tempo data la natura peculiare del caso, dove la camera d’appello giocava tre ruoli: quella della presunta parte lesa, di procuratore e di giudicante. Forse è questo il motivo per cui ebbero bisogno di più tempo per scrivere e motivare la sentenza rispetto al caso dei due generali croati accusati di crimini di guerra contro civili Serbi durante l’operazione Storm nell’estate del 1995. Vogliamo semplicemente ricordare che il crimine della Hartmann fu quello di pubblicare il fatto che la Corte d’Appello di un tribunale che è sotto l’egida delle Nazioni Unite classificava come riservati una serie di documenti prodotti dal Consiglio Supremo di Difesa della Repubblica di Jugoslavia, rendendo per quest’ultimi impossibile l’utilizzo dinanzi ad un’altra corte delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, nel caso portato avanti dalla Bosnia Erzegovina contro la Serbia.

Torniamo ora alle sentenze cassate dai tribunali dell’Aja e di Arusha. Una domanda sorge spontanea: com’è possibile per nove giudici di tre collegi (per la precisione otto, perché un giudice voleva assolvere Perisic già in primo grado), com’è possibile per otto giudici di rango internazionale, commettere un così grave errore e condannare cinque innocenti per un totale di 129 anni? Come è possibile dopo che han speso ben 900 giorni di udienze ascoltando centinaia di testimoni e studiando migliaia di prove? Com’è possibile dopo che han speso milioni di dollari di tasse di contribuenti di tutto il mondo? Solo per la camera d’appello si può sommariamente concludere che gli sforzi e le conclusioni dei giudici di primo grado non valgono nemmeno la carta su cui sono stati scritti?

E’ possibile che i giudici di primo grado dei tribunali dell’Aja e di Arusha, siano così privi di integrità e professionalità, così da poter scartare così alla leggera le lo ricostruzioni e le loro conclusioni? Chi ha dato loro l’incarico di giudici di livello internazionale, se davvero sono così inetti? Chi ha stabilito che loro avessero i requisiti previsti all’Articolo 13 dello Statuto, che stipula che “i giudici devono essere persone di alto valore morale, imparziali e integerrimi e devono avere i requisiti previsti nei loro paesi per poter esercitare il ruolo di giudice”? Chi di loro può ricoprire alti ruoli nella magistratura del proprio paese se poi le sue sentenze vengono fatte a pezzi in appello? Chi assegnerà loro nuovi casi, nuovi processi a giudici di così bassa reputazione? E per quale motivo? Per vederli umiliati un’altra volta in appello?

E’ possibile che vi sia una così alta differenza in termini di qualità, professionalità, integrità e temperamento tra i giudici di primo grado e di appello? Dopo tutto, fatta eccezione per una sentenza di condanna che fu revisionata dopo la sentenza d’appello, le sentenze della camera d’appello non vengono né revisionate né cassate. Se questo è dovuto all’infallibilità dei giudici d’appello o alla mancanza di un’istanza superiore, questo è ancora da chiarire. In assenza di ulteriore grado, i loro rilievi e le loro conclusioni sono protetti dalla “presunzione di infallibilità”.

Tuttavia, la “presunzione di infallibilità”, non deve essere per loro uno scudo che li metta al riparo da critiche e proteste contro “il nuovo indirizzo” che hanno progettato per il Tribunale dell’Aja e di Arusha.

 

Fonte: Sense Agency

Traduzione di Pacifico S. per Forum Belgrado Italia

 

 
 

THE HAGUE | 11.07.2013.

WHERE IS THE TRIBUNAL HEADING FOR?

Appellate judges at the Gotovina trial

 

“Presumption of infallibility”, enjoyed by the appellate judges in the absence of a higher instance for the review of their judgments, should not shield them against public expressions of concern, criticism and protests against the ‘new course’ that they have plotted for the Tribunals in The Hague and in Arusha over the past few months

In a major upheaval following Judge Harhoff’s letter one tends to overlook the fact that public expressions of concern, criticism and protests against the Tribunal’s‘new course’ had been voiced long before 13 June 2013, when the letter was published, first in the Danish media and then worldwide.

In the opening lines of the letter that he sent to 56 of his friends and colleagues on 6 June, Harhoff refers to two recent articles, which ‘focus on events that cause deep concern both for me and for my colleagues here in the corridors of the the Tribunal'. Bearing in mind the dates, we can assume that he means the article entitled ‘What Happened to the Hague Tribunal’, an op-ed piece by Eric Gordy, published in the New York Times on 2 June and the blog post, ‘Two Puzzling Judgments in The Hague’, signed by T.J. and published on 1 June on the Economist’s website.

Had he waited for just one more day to send his letter, Judge Harhoff could have included another reference, the one to the piece written by former US Assistant Secretary of the State John Shattuck, a tried and tested friend of the Tribunal, who had taken part in its establishment. In his article ‘War Crimes Whitewash’, published on 7 June in the Boston Globe, Shattuck says that ‘if the ICTY majority had been sitting at Nuremberg, few, if any, Nazi leaders would have been convicted’.

Contrary to the claims made by those who believe that the problem lies with the first whistleblower judge rather than the change of the course he points to,it was not Judge Harhoff who launched the public debate about the recent developments at the Tribunal. Over the past few months, hundreds, if not thousands of critical articles and analyses on the Tribunal’s new course have been published. They were much harsher than Harhoff’s letter. Petitions have been signed, investigations called for, resignations demanded… yet to no avail. None of the top brass at the Tribunal has paid any attention to all that. ‘It will blow over’, they were saying. However, it has not.

The debate on what happens with the Tribunal was launched last November, after the first controversial judgment that acquitted Croatian generals Gotovina and Markač by a tight majority of votes (3:2). The initial salvoes in the debate were fired by judges Pocar and Agius, who did not mince their words in their dissenting opinions. They labeled the findings of the majority (judges Meron, Robinson and Güney) ‘simply grotesque’ and ‘contradict[ing] any sense of justice’, bluntly suggesting that the majority could have been guided by motives other than legal.

The debate has continued unabated, only to get more agitated after the acquittal of the former Chief of the VJ General Staff, Perišić, and to reach its boiling point with the acquittal of the former heads of the Serbian Secret Service, Stanišić and Simatović. There have been similar developments at the Rwanda Tribunal that shares both the Appeals Chamber as well as the concern and protests over the new course assumed following recent judgments.

It is up to the international law experts, who have been dealing with the issue since last November, to provide critical analysis in order to see whether the Tribunal indeed took a new course, who will benefit from it and what will be the impact of this new course on the Tribunal’s legal legacy. Here, we will merely highlight some glaring, easy to see facts, about the ‘volte-face’ in the jurisprudence of the Tribunals in The Hague and in Arusha. These facts indicate that there is something wrong with this picture.

In a short span of only three and a half months from mid-November 2012 to late February 2013, the Appeals Chambers of the Tribunals in The Hague and Arusha, led by Judge Meron, quashed by a majority vote three judgments convicting five high military and civilian officials who had been on trial for serious violations of international humanitarian law in the former Yugoslavia and Rwanda.

The three trials lasted for a combined total of nine years, or 900 trial days. The trial chambers heard a total of 453 witnesses and admitted into evidence thousands of exhibits. The trial judgments that found that the guilt of the accused had been proven beyond reasonable doubt, extended to a total of 2608 pages: 1377 pages for Gotovina and Markač, 595 pages for Mugenizi and Muginareza and 636 for pages Perišić. The five accused were convicted and sentenced to 24 years (Gotovina), 18 years (Markač), 30 years (Mugenizi), 30 years (Muginareza) and 27 years (Perišić): a total of 129 years.

And then, in the appellate proceedings, it was found that all this was erroneous and the accused were acquitted of all charges. The appellate judgments have 56, 55, and 49 pages respectively, and are among the thinnest judgments in the history of both tribunals (not only in volume). Some judges sneeringly describe them as ‘magazine judgments’.

It might well be true, just as for some other things in life, that it is not the ‘size that matters’ for appelate judgements. However, there should be a limit. For instance, the appellate judgment in the case against Florence Hartmann is as long as the Gotovina and Markač appellate judgment. In her case, the appellate proceedings took 22 months, three months longer than in the case against the Croatian generals. Perhaps the Appeals Chamber took more time to deal with it because of the peculiar nature of the case, where the Appeals Chamber played the triple role: that of an alleged injured party, the prosecutor and the trier. Perhaps that is why they needed more time to deliberate and produced a longer statement of reasons than in the case of the two generals charged with the war crimes against Serb civilians during and after Operation Storm in the summer of 1995. Let us justremind here that Hartmann’s ‘crime’ was to publish the fact that the Appeals Chamber of a UN court granted confidentiality to a set of documents produced by the Supreme Defense Council of the Federal Republic of Yugoslavia, thus making it impossible for them to be used before another UN court, the ICJ, in the case brought by Bosnia and Herzegovina against Serbia.

Let us go back to the quashed judgments of the Tribunals in The Hague and in Arusha. They beg the question: how is it possible for nine judges in three trial chambers (or, in fact eight, since one of the judges wanted to acquit Perišić at trial), so, how is it possible for eight professional international judges, to make such a grave mistake and put away five innocent generals and ministers for a total of 129 years? How is all of that possible after they had spent a total of 900 trial days hearing hundreds of witnesses and studying thousands of exhibits? How is it possible after they had spent untold millions of dollars of taxpayers’ money from all over the world? Only for the majority in the Appeals Chamber to summarily conclude that the efforts and the conclusions of the trial judges were worthless, not worth the paper they were printed on?

Is it possible that the members of the trial chambers of the two Tribunals, in The Hague and in Arusha, are so lacking in professionalism and integrity, that their findings and conclusions can be set aside so lightly? Who has appointed them as international judges, if they are really so inept? Were they appointed after they had pulled some strings ? Who looked at them and made a decision that they met the criteria set in Article 13 of the Statute, stipulating that ‘[t]he judges shall be persons of high moral character, impartiality and integrity who possess the qualifications required in their respective countries for appointment to the highest judicial offices’? What highest judicial office could be held by the judges whose judgments were so drastically torn to pieces on appeal? Who kept assigning new cases and new trials to the same judges who brought their profession into disrepute? Why? So that they could be humiliated on appeal again?

Is it possible that there is such a world of difference in terms of quality, professionalism, integrity and judicial temperament between the judges in the trial and appeals chambers? After all, with the exception of a single prison sentence that was revised following the appellate judgment, the appellate judgments still stand, unrevised and unquashed. Whether this is due to the infallibility of the appellate judges or to the lack of a higher instance for the review of their findings and conclusions… is an open question. In the absence of this higher instance, their findings and conclusions are protected by the “presumption of infallibility”.

However, the “presumtion of infallibility” should not shield them from public expressions of concern, criticism and protests against the ‘new course’ that they have plotted for the Tribunals in The Hague and Arusha.

 

Da Sense Agency




70 ANNI FA...
La fuga degli antifascisti jugoslavi dalla Rocca di Spoleto (PG) e gli albori della Resistenza in Valnerina


Fonte: I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA
Storie e memorie di una vicenda ignorata
di Andrea Martocchia - con contributi di Susanna Angeleri, Gaetano Colantuono, Ivan Pavičevac
Prefazione di Davide Conti, Introduzione di Giacomo Scotti
Roma, Odradek, 2011 - http://www.partigianijugoslavi.it/

dalle pp. 26, 32-34:


<< In Umbria, a partire dal 1942, tanti jugoslavi – montenegrini, sloveni, croati – furono destinati alle miniere di lignite o alle fornaci di mattoni della Regione; altri furono rinchiusi nelle carceri di Perugia e Spoleto; altri ancora – la maggioranza – furono internati in campi di concentramento, il principale dei quali fu quello di Colfiorito, presso Foligno. [...]  
Il vero nucleo organizzativo-militare della costituenda brigata partigiana della Valnerina fu costituito da quelli scappati dalla Rocca di Spoleto: 

"un folto gruppo di jugoslavi (...) vi erano detenuti per motivi politici. Scarse testimonianze si hanno di questa evasione. Essa comunque avvenne nella notte tra il 13 ed il 14 ottobre 1943." [...]  

Svetozar Laković [nome di battaglia "Toso"], che era nativo di Berane (Montenegro), racconta: 

"Come partigiano della prima ora nel 1941, fui arrestato qui nel Montenegro da fascisti italiani e condannato a vent’anni di carcere. Fui dapprima, assieme ad altri compagni nelle carceri dell’Italia del nord [Volterra] e quindi trasferito a Rocca di Spoleto. Noi jugoslavi eravamo circa 150, c’erano anche una cinquantina di prigionieri politici greci e gli altri erano italiani. Dopo la capitolazione apprendemmo che dai vari campi di concentramento i prigionieri cominciavano a fuggire. Paventando di essere consegnati ai tedeschi (...) effettuammo un attacco in forze contro la guardia del carcere, una trentina di carabinieri; li disarmammo e riuscimmo a fuggire. Ci dividemmo in quattro gruppi ed io mi posi al comando di un gruppo (avevamo con noi qualche fucile)." [...]  

Otello Loreti, un antifascista di Spoleto che già il 13 settembre si era dato alla macchia, ricordò così quella evasione:

"Ero a conoscenza che nella Rocca di Spoleto vi era un forte nucleo di detenuti politici jugoslavi, prevalentemente studenti condannati dai tribunali ustascia ed italiani. Infatti questi detenuti erano inviati a lavorare nei vari laboratori ed aziende della città ed è stato per questo motivo che sono venuto in contatto con alcuni prigionieri. La sera del 13 ottobre, verso le 17, tutti i detenuti erano stati rinchiusi nelle loro celle. Era rimasto fuori Giuseppe [...], uno slavo che esercitava il mestiere di fabbro. Giuseppe aggredì una guardia di servizio, gli tolse l’arma e lo obbligò ad aprire le celle in modo da far uscire gli altri. Accorsero altre guardie che si fecero disarmare facilmente. I detenuti, armi alla mano, obbligarono il Direttore [Guido Melis] ad aprire la porta principale ed anche il magazzino viveri dove si rifornirono di vettovaglie. Gli jugoslavi disarmarono poi altre guardie e quindi dal Ponte delle Torri presero la via dei boschi dopo essersi divisi in tre gruppi per meglio sfuggire alle ricerche."

Loreti ed il suo piccolo gruppo, costituito assieme ad Umbro Giulidori e Mario Leonardi, [...] intercettarono gli jugoslavi in fuga, a Raischio, nella proprietà del marchese della Genga, e per loro approntarono la sistemazione in un fienile.

"I boschi circostanti Spoleto erano loro familiari in quanto vi erano stati condotti in occasione di alcuni bombardamenti aerei, per cui fu abbastanza agevole per essi dileguarsi e raggiungere la montagna dove si incontrarono con noi che già ci eravamo dati alla macchia. Il Direttore del Carcere di Spoleto dottor Melis ritardò a dare l’allarme e questo agevolò, in un certo senso, la fuga degli jugoslavi. Per questo ritardo il Direttore fu arrestato insieme alla famiglia ed a molte guardie di servizio e detenuto nel carcere di Perugia fino alla Liberazione."

Il primo scontro a fuoco con i tedeschi in cerca degli evasi si verifica già il giorno 14 nel paesino di Caso. In questa località i partigiani di Loreti riescono a rifornirsi di alcuni fucili che erano nascosti in un fienile; a dare man forte c’è poi lo stesso Ernesto Melis [il figlio del Direttore del carcere, che si pone alla guida di una sua banda partigiana] con i suoi uomini, dotati di mitragliatrici: presi tra due fuochi, i tedeschi si danno alla fuga. [...]  

La banda Melis, anche in virtù della sua composizione, si prefiggeva obiettivi diversi rispetto a quelli dei partigiani comunisti – tali erano Loreti, gli jugoslavi guidati da “Toso”, e tutti quelli che negli stessi giorni si radunavano attorno ad Alfredo Filipponi presso Terni. Lo stesso Loreti non aderì mai alla “Melis” e preferì unirsi agli jugoslavi; con loro entrò nella brigata “Gramsci” di Filipponi e condivise tutte le vicende della Resistenza in zona. Ci fu comunque un periodo di “interregno” ed incertezza che durò fino alla fine del mese di ottobre. Ai primi di novembre Ernesto Melis d’accordo con lo stato maggiore della sua banda ne decise lo scioglimento “tattico”, per evitare che i propri famigliari – che nel frattempo erano stati tutti arrestati – corressero rischi eccessivi. In seguito, sia i militari di Melis che gli jugoslavi di “Toso” si trasferirono in altre zone ritenute più sicure. Gli jugoslavi in particolare scelsero come base Mucciafora in Alta Valnerina...




TENTACOLI GIULIANO-DALMATI

Eremo di Ronzano, tremila firme
contro lo sfratto dei frati


Oggi si riunisce il consiglio provinciale dei Servi di Maria. L'appello dei laici: "Non vogliamo perdere il luogo della chiesta conciliare a Bologna, fermatevi"


Tremila firme contro lo sfratto dei frati da Ronzano. Cresce la rivolta di laici e religiosi a difesa dell’eremo e della sua storia. L’ordine dei Servi di Maria, a livello provinciale, ha deciso di far scendere i religiosi, rimasti in quattro, dalla collina, per assegnare la gestione del complesso conventuale ad esponenti dell’associazione reduci giuliano-dalmati. Una decisione che ha colto tutti di sorpresa e che trova contrari gli stessi frati e i laici.

In rete è partita già da alcune settimane la protesta, che ora è arrivata a 2.244 sostenitori (quelli che hanno firmato l’appello on line) più le settecento firme raccolte dall’Associazione Amici di Ronzano in banchetti e incontri nelle ultime settimane. Tante anche le lettere private, qualcuno ha scritto al sindaco Virginio Merola. Indignazione e rabbia. L’appello, rivolto al priore provinciale fra Gino Leonardi, chiede di rivedere la decisione, di aprire “un confronto che consenta una soluzione che salvaguardi questa importante realtà ecclesiale, civile e culturale”. Perché con la “cacciata” dei religiosi quel luogo di testimonianza della chiesa conciliare che Ronzano ha rappresentato per decenni a Bologna rischia di disperdersi.

Oggi è previsto un incontro del Consiglio provinciale dell’Ordine dei Servi di Maria. Sul tavolo arriverà la protesta, rilanciata nei giorni scorsi anche dall’agenzia Adista, che è la più importante agenzia di informazione religiosa. All’incontro parteciperà anche frate Pietro, che ha rassegnato le dimissioni da priore conventuale perché contrario al “programma di ristrutturazione” della Provincia dell’ordine religioso.

Sono centinaia di testimonianze on line per quel luogo dell’anima condiviso da decenni da cattolici e non solo. “Importantissimo preservare un luogo di incontro tra laici e credenti in un ambiente splendido”, scrive Paola Calzolari. “Sono sempre più rari i luoghi dove si possa sperimentare la bellezza di Dio. Ronzano è uno di questi luoghi intrisi di Spirito Santo. Non abbandonatelo al mondo”, è la richiesta di Dino Dazzani. Per Giampaolo, Ronzano “è un luogo di crescita e confronto, una perla che il mondo cattolico non può perdere”

Nell’appello si legge: “I sottoscritti chiedono al Priore Provinciale e al Consiglio dei Servi di Maria di rivedere la scelta su Ronzano.
 Che cosa rappresenta l’Eremo per quanti lo frequentano? Un luogo di spiritualità conciliare, ispirato al Vaticano II, un luogo di cultura e ricerca, uno spazio di fraternità, un eremo accogliente e un ambiente ecologico. Pur nel rispetto delle difficoltà dell’Ordine, che sono all’origine dei provvedimenti, si chiede di aprire un confronto che consenta una soluzione che salvaguardi questa importante realtà ecclesiale, civile, culturale”.

(14 ottobre 2013)


Per sottoscrivere l'appello: 



(castillano, italiano)

Dalla Libia a Lampedusa il passo è molto breve

1) 20 ottobre 2011 - 2013: Due anni fa l'assassinio per linciaggio e sevizie di Muammar Gheddafi. Il testamento politico
2) ¿Quién hundió el “Anti-Titanic” en Lampedusa? (N. Armanian)
3) La disintegrazione della Libia (P. Lavrentieva)
4) Libia, Intervista a Angelo Del Boca: «Il paese non c'è più, ormai si è somalizzato»


CITAZIONE:

"La storia sarà con i popoli che lottano per giuste cause, mai con chi sollecita le potenze imperiali straniere a venire ad attaccare il proprio paese. Il destino che attende i criminali del CNT è scritto con inchiostro indelebile, come è rimasta scritta, la storia del martirio di un popolo, delle sua città e della sua famiglia. Avanti con il sacro dovere di lottare fino alla vittoria o alla morte. Con l'esempio eterno del colonnello Gheddafi, leader coraggioso del popolo libico e guida della Jamahiriya Libica Popolare e Socialista".
Fidel Castro

LINKS:

Patto segreto tra Italia e Libia contro i migranti. La denuncia di A.I. (2012)

Sul rifornimento italiano di armi ai tagliagole anti-libici:
Armi sui traghetti, il segreto di Stato fa affondare l’inchiesta
http://lanuovasardegna.gelocal.it/olbia/cronaca/2013/04/06/news/armi-sui-traghetti-il-segreto-di-stato-fa-affondare-l-inchiesta-1.6831787


=== 1 ===


Testamento politico di Muammar Gheddafi, Guida della Rivoluzione della Grande Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista

In nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso;
Per 40 anni, o magari di più, non ricordo, ho fatto tutto il possibile per dare alla gente case, ospedali, scuole e quando aveva fame, gli ho dato da mangiare convertendo anche il deserto di Bengasi in terra coltivata.
Ho resistito agli attacchi di quel cowboy di nome Reagan anche quando uccise mia figlia, orfana adottata, mentre in realtà, tolse la vita a quella povera ragazza innocente cercando di uccidere me.
Successivamente aiutai i miei fratelli e le mie sorelle d’Africa soccorrendo economicamente l'Unione africana, ho fatto tutto quello che potevo per aiutare la gente a capire il concetto di vera democrazia in cui i comitati popolari guidavano il nostro paese; ma non era mai abbastanza, qualcuno me lo disse, tra loro persino alcuni che possedevano case con dieci camere, nuovi vestiti e mobili, non erano mai soddisfatti, così egoisti che volevano di più, dicendo agli statunitensi e ad altri visitatori, che avevano bisogno di "democrazia" e "libertà", senza rendersi conto che era un sistema crudele, dove il cane più grande mangia gli altri.

Ma quelle parole piacevano e non si resero mai conto che negli Stati Uniti non c’erano medicine gratuite, né ospedali gratuiti, nessun alloggio gratuito, senza l’istruzione gratuita o pasti gratuiti, tranne quando le persone devono chiedere l'elemosina formando lunghe file per ottenere un zuppa; no, non era importante quello che facevo, per alcuni non era mai abbastanza.

Altri invece, sapevano che ero il figlio di Gamal Abdel Nasser, l'unico vero leader arabo e musulmano che abbiamo avuto dai tempi di Saladino, che rivendicò il Canale di Suez per il suo popolo come io rivendicai la Libia per il mio; sono stati i suoi passi quelli che ho provato a seguire per mantenere il mio popolo libero dalla dominazione coloniale, dai ladri che volevano derubarci.

Adesso la maggiore forza nella storia militare mi attacca; il mio figliuolo africano, Obama, vuole uccidermi, togliere la libertà al nostro paese, prendere le nostre case gratuite, la nostra medicina gratuita, la nostra istruzione gratuita, il nostro cibo gratuito e sostituirli con il saccheggio in stile statunitense, chiamato "capitalismo", ma tutti noi del Terzo Mondo sappiamo cosa significa: significa che le corporazioni governano i paesi, governano il mondo e la gente soffre, quindi non mi rimangono alternative, devo resistere.

E se Allah vuole, morirò seguendo la sua via, la via che ha arricchito il nostro paese con terra coltivabile, cibo e salute e ci ha permesso di aiutare anche i nostri fratelli e sorelle africani ed arabi a lavorare con noi nella Jamahiriya libica.
Non voglio morire, ma se succede, per salvare questo paese, il mio popolo e tutte le migliaia che sono i miei figli, così sia.

Che questo testamento sia la mia voce di fronte al mondo: che ho combattuto contro gli attacchi dei crociati della NATO, che ho combattuto contro la crudeltà, contro il tradimento, che ho combattuto l'Occidente e le sue ambizioni coloniali e che sono rimasto con i miei fratelli africani, i miei veri fratelli arabi e musulmani, come un faro di luce, quando gli altri stavano costruendo castelli.

Ho vissuto in una casa modesta ed in una tenda. Non ho mai dimenticato la mia gioventù a Sirte, non spesi follemente il nostro tesoro nazionale e, come Saladino, il nostro grande leader musulmano che riscattò Gerusalemme all'Islam, presi poco per me ....

In Occidente, alcuni mi hanno chiamato "pazzo", "demente": conoscono la verità, ma continuano a mentire; sanno che il nostro paese è indipendente e libero, che non è in mani coloniali, che la mia visione, il mio percorso è, ed è stato, chiaro per il mio popolo : lotterò fino al mio ultimo respiro per mantenerci liberi, che Allah Onnipotente ci aiuti a rimanere fedeli e liberi.

Colonnello Muammar Gheddafi, 5 aprile 2011


=== 2 ===

en francais: Qui est responsable du naufrage de « l’anti-Titanic » de Lampedusa ? 

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¿Quién hundió el “Anti-Titanic” en Lampedusa?


06 oct  2013
Nazanín Armanian

Si no fuera porque el número de los refugiados fallecidos en la costa italiana ha superado el techo de la “normalidad” que ronda sobre 60-70 personas, la tragedia de los tripulantes de esta patera hubiera pasado desapercibida. Hace dos años 61 refugiados –incluidos varios niños-, naufragaron en este mismo lugar al quedarse sin alimentos y combustible, mientras un portaaviones de la OTAN les miraba sin pestañear.

Sin nombre, ni historias de amor o de intriga, ninguna canción eternizará su viaje a la muerte, ni nadie hará una película de esos hombres y mujeres valientes capaces de arriesgar su vida no solo para cumplir su sueño, sino para ayudar a su familia y empujar de paso el carro de la civilización humana.

“Deshumanizar al otro” es una estrategia política que legitima el trato que se le da; el mismo que han recibido decenas de miles de asesinados bajo los bombardeos en Irak, en Afganistán o en Pakistán: mientras ellos carecen de identidad, nos enseñan en la tele la foto de la boda y de la esposa embarazada de aquel soldado de ocupación muerto a manos de un nativo “bárbaro y despiadado”.

¡Cómo esos cuerpos en el mar han puesto a prueba, una vez más, nuestra capacidad de no sentir vergüenza de votar a individuos que aprueban leyes antinaturales como la de castigar a quien ayuda al prójimo! Aún así, varios pescadores italianos siguiendo su instinto salvaron la vida de decenas de aquellas personas desesperadas, escupiendo a la cara de demonios disfrazados que hemos colocado en los sofás de los palacios.


Vidas no contadas

Entre las historias de vida de miles de personas, campeones olímpicos sin medallas que saltan las vallas de púas más altas con manos ensangrentadas, que se lanzan a los mares indomables huyendo de guerras, hambrunas, persecuciones políticas, étnicas, religiosas, de género, víctimas de políticas de sus gobiernos o del pulso de las grandes potencias mundiales por expolio de sus inmensos recursos naturales, podemos conocer las siguientes:

-Fátima, mujer somalí de 26 años que viajaba junto con su hijo Ahmed de 5 años. Su país, ubicado sobre un lago de petróleo no explotado, ha sido declarado por Occidente  como “Estado fallido” – contraseña del “país poseedor de recursos naturales o ruta de su tránsito, ya apto para ser dominado”-, desfallece de hambre sobre inmensas reservas de uranio, oro, petróleo, gas, bauxita y cobre. El escándalo fabricado sobre los “piratas” de pocamonta en 2009, -si bien estaba al servicio de militarizar el Cuerno de África y el Golfo de Adén, uno de los corredores más estratégicos del planeta que conecta el Golfo Pérsico, el Mar rojo y el Canal de Suez y por donde pasa el 30% del petróleo del mundo-, revelaba además que el pescado y el marisco de sus caladeros –lo poco sustento que les quedaba-, acababan en las mesas de los hoteles españoles y franceses, y que los verdaderos “bandidos del mar” de guantes y tez blancos, de paso vertían toneladas de desechos tóxicos en sus costas.

- Ahmed, niño de ojos grandes de 10 años, otra víctima, era huérfano al igual que varios millones de pequeños somalíes. No quería convertirse en uno de los 500.000 niños que viven en las calles del país, o verse obligado a trabajar jornadas interminables a cambio de un plato de comida, con palizas y abusos sexuales de postre, o convertirse en soldado o esclavo en el “mercado libre” del capitalismo global que ofrece “niño a la carta” a las empresas de todo tipo. Ahmed, que al embarcarse pensó que se había librado de tal destino, se encuentra ahora en el fondo del mar.


De Etiopia y Libia

- Abeba, mujer de la tierra del café, Etiopía, había conseguido junto con otras activistas que la Constitución prohibiera la ablación. Todo un logro. Para la luchadora de las batallas imposibles era más difícil, sin embargo, derrotar el sistema económico, político y social capitalista que bendice una violencia patriarcal estructurada. Su espalda, destrozada por llevar cargas pesadas durante horas de camino, ya no aguantaba. Se echó a esta aventura llevando consigo a su sobrina Hakima, de 7 años, una de los cuatro millones de niños huérfanos etíopes. El sueño de Abeba era salvarle de la desnutrición severa que mata a miles de pequeños en este país, que un día de 1974 se declaró socialista tras derrocar al dictador zombie Haile Selassie, gobernante de una población literalmente moribunda, enferma y analfabeta. El Gobierno militar de Haile Mariam, con el apoyo de la Unión Soviética y Cuba realizó reforma agraria, declaró universal y gratuitas la educación y la sanidad, y miró por los derechos de la mujer y de las minorías étnicas. Sus recursos como el oro, gas natural, tantalio, y mármol, por fin iban a servir al rescate de sus propietarios. Los errores del Gobierno, las terribles sequías de los años 80 que mataron a cientos de miles de personas, junto con las provocaciones de EEUU desde Eritrea que armaba a los rebeldes (quienes destinaban las ayudas internacionales contra el hambre a la compra de armas) ralentizaron este avance hasta ser paralizado con la caída de la URSS. Una situación parecida a la de Afganistán, país del que han huido unas 6 millones de personas en las últimos tres décadas.

Al final el Mar “rojo” no hizo gala de su nombre y Washington consiguió apoderarse del control del país y su privilegiada ubicación. Hoy, a pesar de ser una economía en bancarrota, y con medio millón de niños en riesgo inminente de morir, el Gobierno gasta 100 millones de dólares en la compra de 200 tanques a Ucrania.

- Ebrahim fue un arquitecto libio que dejó a su esposa y los dos hijos, y siguió la ruta del transporte que lleva los recursos de su tierra y se dirigió a Italia. Pensaba hacerse con un sitio allí y luego solicitar la reagrupación familiar. La situación tras el asesinato de Gadafi es caótica y deja en nada la promesa de la OTAN de democratizar el país. Es la misma Alianza militar que descargó toneladas de bombas sobre la población civil, sepultando miles de vidas y destruyendo las infraestructuras, para luego reconstruirlas con el dinero de las propias damnificadas (Libia: un negocio de guerra redondo). Se equivocó Ibrahim si pensó que los gobiernos occidentales beneficiarios de aquella infame agresión, a cambio, atenderían a los ciudadanos libios en Europa. ¡Había 65.000 millones de dólares líquidos libios en los bancos italianos! Por su parte, la Fiscalía de París investiga la posible financiación de la campaña electoral de Sarkozy en 2007 por parte de Gadafi. Los juegos sucios alcanzan puntos insospechados: Sarkozy luego pactó con los rebeldes del Consejo Nacional de Transición el derrocar al Coronel a cambio de que las empresas galas obtuvieran el 35% de las participaciones en el negocio de fuel. Hoy, el desgobierno, una cruenta lucha entre grupos armados por hacerse con el control de lo que es la mayor reserva petrolífera de África (la doble que las de EEUU), y una huelga intermitente de los trabajadores del petróleo han paralizado la economía. El colapso del Estado libio y la baja productividad de su industria petrolífera son parte de los motivos que impiden a los europeos apuntarse a la guerra de EEUU contra Siria.


Política de empobrecimiento

Condenar a los países ricos al subdesarrollo es una estrategia política que se ejecuta con la complicidad de las oligarquías y regímenes locales neopatrimonialistas ligados a negocios de todo tipo. Es la esencia de las recetas cocinadas por las instituciones financieras que obligan a los Estados a realizar reajustes estructurales y privatizar sus recursos naturales (¡como bosques de Tanzania!), con el fin de facilitar inversiones extranjeras. Una parte de la liquidez de los bancos occidentales ( Banco de Crédito y Comercio Internacional, por ejemplo) proviene del contrabando de piedras preciosas, tráfico de drogas y de armas de un África que mueve dinero dentro y fuera pero no deja nada para su desarrollo.

En nuestro cayuco imaginario también estaban gente de Malí, país invadido por la OTAN , tierra de petróleo, oro y uranio, donde la esperanza de vida es sólo de 37 años, o de Nigeria, el séptimo productor mundial del petróleo…

Es la misma historia de los iraquíes: atacados y masacrados por EEUU y sus aliados, unos 5 millones de los habitantes de la antigua babilonia, se han refugiado en los países vecinos, donde empiezan otras guerras (la de Siria) y deben volver a recoger sus bártulos huyendo hacia ninguna parte.

En 2012 se contabilizaron unos 230 millones de inmigrantes.

Ninguna vigilancia aérea y marítima, ni siquiera hundir las pateras en el mar a cañonazos, como proponía el ultraderechista italiano Umberto Bossi , podrá detener a millones de seres humanos a que huyan a de su tierra.

Ya no funciona relacionar la inmigración con la delincuencia: ¡que miren los juzgados en España! Tampoco es tarde que los ciudadanos corrijan su mirada hacia los refugiados e inmigrantes cuando tienen hijos que con dos títulos universitarios, viven en un piso patera en Londres o Berlín, y limpian los WC. Aun así, España desde el 2013 ha deportado a 6.056 inmigrantes, y seguía deteniendo al desgraciado transportista de una patera o de un camión, quizás para desviar la atención a los verdaderos causantes del tráfico de seres humanos o quizás para que nadie ponga en entredicho su idea brillante de pagar a los gobiernos, como al senegalés, para que admitan la repatriación de los refugiados detenidos, pisando las leyes internacionales. No nos dicen que las autoridades corruptas de éste mismo país conceden licencias especiales de pescar a empresas extranjeras, elevan las tasas de estos permisos para los nativos, forzándoles a lanzarse al mar para llegar a España.

De África se están llevando el oro, el coltán, el hidrocarburo y otros recursos, y a cambio se les envía aviones cargados de armas y muchos misioneros para que les invite a paciencia y vivir el sueño de tener una vida mejor en el “otro mundo”.



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La disintegrazione della Libia

di Polina Lavrentieva

Nel 2011, Thierry Meyssan assicurava che non vi era alcuna primavera araba in Libia, che la popolazione non si era rivoltata contro Muammar Gheddafi, ma che gli occidentali usavano il movimento separatista della Cirenaica. Due anni dopo, il gioco è fatto: Tripoli ha perso il controllo di Cirenaica e Fezzan, come hanno osservato gli inviati speciali delle Nazioni Unite. La ricchezza del Paese è ora solo nelle mani delle bande e delle multinazionali statunitensi.

RETE VOLTAIRE | MOSCA (RUSSIA) | 11 OTTOBRE 2013

Non si può fermare il processo di disintegrazione della Libia iniziato dall’assassinio di Muammar Gheddafi. Un nuovo rapporto delle Nazioni Unite dice: sullo sfondo della separazione della province della Libia “liberata dal dittatore”, avvengono esecuzioni affrettate, una massiccia oppressione politica e torture.
Secondo la relazione congiunta della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) [1] e dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, circa 27 persone sono morte in carcere nel Paese solo alla fine del 2011 [2]. 8000 persone sono detenute nelle carceri del Paese. Sono state definite, nel 2011, “partigiani di Gheddafi”. La maggior parte di loro non è stata nemmeno formalmente indagata e nessuno sa per quanto tempo rimarranno in carcere, perché il sistema giudiziario non funziona quasi più.
Il New York Times suggerisce che le persone siano state arrestate per motivi religiosi o etnici, o perché sospettate di non essere fedeli alla “democrazia”. I detenuti con cui gli ispettori delle Nazioni Unite hanno potuto parlare, hanno riferito di essere picchiati e torturati dal fuoco e dalla fame, nelle carceri.
Nell’aprile di quest’anno, è stata approvata una legge in Libia per impedire la tortura e condannare i rapimenti. Ma non viene applicata. Questa è solo una parte del quadro della disintegrazione dello Stato libico. Le regioni si ritirano gradualmente, come ci aspettavamo due anni fa su queste pagine. E questo non accade senza spargimento di sangue.
Il 27 settembre, il Fezzan ha dichiarato l’indipendenza, o almeno la sua piena autonomia, [3] i leader tribali hanno deciso così “per via dello scarso lavoro del Congresso.” A giugno, è stata la regione (ricca di petrolio) della Cirenaica [4] che s’è ripresa la sua libertà. Delle tre regioni storiche della Libia, solo la tripolitania ne fa ancora parte. Per ora, non c’è forza in grado di riunire questi tre Stati storici che formavano la Libia dal 1951.

Fonte 
Odnako (Russia)
Settimanale d’informazione generale. Redattore capo: Mikhail Leont’ev. 


Traduzione di Alessandro Lattanzio (SitoAurora)

[1] Sito della MANUL.

[2] “Tortura e morte nelle carceri della Libia“, relazione Unismil, ottobre 2013.

[3] “La ‘nuova Libia’: la regione del Fezzan dichiara la sua indipendenza“, Irib, 27 settembre 2013

[4] “Ливии официально больше нет. Восток объявил “нефтяное государство” “(la Libia è ufficialmente finita, l’oriente si dichiara petro-Stato) Odnako, 7 marzo 2012.



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LIBIA - MONDO

«Il paese non c'è più, ormai si è somalizzato»

TOMMASO DI FRANCESCO
11.10.2013

Intervista a Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano, sul sequestro del primo ministro: «È uno scontro di potere. Non sono assolutamente sorpreso». «Ali Zeidan, professore universitario magnificato da tutto l'Occidente è un uomo stranamente ricchissimo»

Per capire l'evolversi della crisi libica abbiamo intervistato Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e massimo esperto internazionale della Libia.

Come giudica il sequestro da parte delle milizie armate del primo ministro libico Ali Zeidan, poi liberato?

È uno scontro di potere. Fa parte del caos nel quale la Libia è caduta dopo la guerra della Nato che ha deposto nel sangue Gheddafi. Non sono assolutamente sorpreso del sequestro. L'anno scorso, quando doveva diventare premier Anwar Fekini, figura di spicco dell'opposizione in esilio (e nipote di Mohammed Fekini protagonista della rivolta contro l'occupazioneitaliana) ho cercato di dissuaderlo. Era restio ai miei suggerimenti, ma recentemente mi ha ringraziato dicendomi: «Mi hai salvato la vita».

Che cosa è accaduto in Libia dall'uccisione di Gheddafi, nell'ottobre 2011, a oggi?

È accaduto il fenomeno della proliferazione delle milizie armate. Da stime dell'intelligence statunitense sono più di 500 e temibilissime. La stessa Casa bianca, che fornì l'aviazione a questi insorti, se n'è accorta dolorosamente l'11 settembre 2011 quando i jihadisti hanno attaccato il consolato Usa di Bengasi assassinando l'ambasciatore americano Chris Stevens e tre alti funzionari statunitensi. Tra le milizie è fortissimo il peso dei jihadisti. Così, dopo la cattura nei giorni scorsi da parte di forze speciali americane del presunto esponente di Al Qaeda, Abu Anas-Al Lybi, molto in vista nel sommovimento libico, è scattata la «risposta» delle milizie più islamiste. Che manda a dire - credibilmente - a Washington: avete fatto un arresto arbitrario, contro la nostra sovranità. Il giorno prima Zeidan aveva smentito ogni avallo di Tripoli all'operazione. Ma il segretario di stato Usa John Kerry lo ha clamorosamente smentito poche ore dopo, rivelando che il governo libico era stato consenziente. Mi piace ricordare un elemento che può far capire la commistione tra milizie e governo in Libia. Ali Zeidan, professore universitario magnificato da tutto l'Occidente è un uomo stranamente ricchissimo e solo un mese fa ha regalato un miliardo di dollari alle milizie di Misurata, considerate quelle più forti e radicali.

Si può dire che la crisi in corso in Libia è, in qualche modo, anche una crisi italiana, che cioè chiama in causa le nostre responsabilità poltiche?

Certamente. Mi spiego meglio. In questi giorni ho cercato ripetutamente di mettermi in contatto con il presidente Enrico Letta per consigliarlo. Perché Letta ha commesso in questo periodo un gravissimo errore: ha dato la disponibilità dell'Italia al presidente americano Obama che gli ha chiesto, per la vicinanza e la storia, di coinvolgersi ancora di più nella crisi libica. Come? Rimettendo in piedi esercito e polizia, ricostituendo le istituzioni e, soprattutto, «disarmando le milizie». Ma dire di sì a questa «disarmante» e sconcertante richiesta vorrebbe dire prepararsi di fatto alla terza invasione militare italiana della Libia. Perché, sempre secondo l'intelligence Usa, le più di 500 milizie corrispondono a circa 30mila uomini armati fino ai denti, con cannoni e carri armati. Un vero e proprio esercito agguerrito. Con un incessante e massiccio traffico di armi verso la destabilizzazione di aree decisive come Siria, Sinai (Egitto), nord-Mali, Tunisia e Algeria. Ma, come se non bastasse, ci sono altre due questioni, perfino più gravi, che in queste ore chiamano in causa l'Italia. In primo luogo il fatto che gli Stati uniti, di fronte alla situazione libica, hanno deciso di inviare forze speciali - già subito più di 200 marine - nella base di Sigonella. Perché su questa decisione il governo Letta-Alfano tace? Dovrebbe invece prendere posizione, perché l'intenzione statunitense è l'apertura di fatto di un fronte in Libia di guerra «coperta». Bisogna ringraziare i Paesi della Nato e gli stessi Stati uniti che con la guerra del 2011 hanno trasformato la Libia nella nuova Somalia del 1993-1994, quando venne abbandonata da truppe americane e italiane, dopo l'avventura bellica anche allora venduta come «umanitaria». Insomma, la Libia che abbiamo conosciuto non esiste più, si è «somalizzata», con l'aggravante che è una «Somalia» dall'altra parte delle nostre sponde mediterranee. E invece il presidente Letta vuole tornarci «per disarmare». 

E c'è anche il massacro di Lampedusa...

Sì, perché c'è l'altra drammatica vicenda dei migranti in fuga dalla grande Africa dell'interno, da miseria, fame, da guerre attivate per interessi occidentali su gigantesche ricchezze minerarie e fonti di energia. Proprio due giorni fa, in piena sintonia criminale con il massacro di Lampedusa, e con l'avvallo del governo italiano, lo stato maggiore italiano della Guardia di Finanza e della Guardia costiera nazionale ha firmato «un accordo con le autorità libiche» (quali?) per il pattugliamento congiunto dei porti della Libia. Viene da chiedere: con quali milizie, con quali leader jihadisti abbiamo firmato questo incredibile patto, a chi abbiamo promesso denaro italiano per fermare militarmente i disperati che fuggono con le bagnarole nel Mediterraneo?