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L'UNION EUROPÉENNE RÉELLEMENT EXISTANTE



Le gouvernement estonien rend hommage au nazisme

RÉSEAU VOLTAIRE | 8 JUILLET 2013
Le ministre estonien de la Défense, Urmas Reinsalu, président de Union Pro Patria et Res Publica (IRL), a adressé, le 7 juillet 2013, un message de soutien aux membres de l’« Alliance des combattants pour la liberté de l’Estonie », réunis pour leur meeting annuel.
L’« Alliance des combattants pour la liberté de l’Estonie » rassemble d’anciens SS qui se battirent pour « préserver l’Estonie du communisme ».
En 2012, Urmas Reinsalu s’était personnellement rendu à ce rassemblement annuel sur l’île de Saaremaa. Il y avait félicité d’anciens SS pour avoir « libéré la patrie » (sic).
Depuis une dizaine d’années, l’Estonie et la Lettonie affichent leur soutien au nazisme. Ces deux États sont à la fois membres de l’Otan et de l’Union européenne, deux organisations officiellement créées sur les ruines du nazisme.

 « La présidente de la Lettonie réhabilite le nazisme », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 16 mars 2005. 
 « Estonie : pour France-Info, la réhabilitation du nazisme compte moins que les déductions fiscales », par Cédric Housez,Réseau Voltaire, 31 août 2006.


Si veda il necrologio fatto dai suoi sodali nazional-irredentisti:
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E’ stata definita in mille modi. Ne hanno fatto un idolo. L’hanno confusa con il simbolo dell’Italia ‘mutilata’ dal trattato di pace di Parigi. E’ ancora oggi richiamata in molti siti web di ispirazione neofascista e neonazista. E’ “la maestrina d’italiano”, il “coraggio” personificato, il “fiore nato da un pantano”, il simbolo della destra per il sociale e di tutti i veri fascisti vecchi e nuovi che non vogliono morire.

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Ma a leggere i documenti della storia che, grazie a Dio, ci indicano le strade della verità e dei fatti umani , il giudizio che ne possiamo trarre è che  Maria Pasquinelli fu tutt’altra cosa che un’eroina. Coperta da apparati che resistevano e si riorganizzavano nel nome della lotta cosiddetta antibolscevica, fu in realtà una donna che  si prestò semplicemente a realizzare una missione omicida che le consentirono di fare.

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Ed ecco i fatti.

“La mattina del 10 febbraio 1947, verso le ore 9.00, mi trovavo a cinquanta metri dal quartier generale britannico, in un punto da cui potevo osservare il cambio della guardia. Alle ore 9.30 vidi arrivare l’automobile del Comandante e, immediatamente, mi avviai verso l’edificio. La pistola era nascosta all’interno di una delle maniche del mio cappotto. Nell’avvicinarmi, notai che il generale stava parlando con i soldati schierati. Gli sparai tre colpi alla schiena, a bruciapelo. Ferito, iniziò a barcollare, mentre i quattro militi si dileguavano all’interno della caserma. Pochi secondi dopo, vidi arrivare un soldato britannico con il fucile puntato verso di me. Si avvicinò, ma sembrava incerto se sparare o meno. Lasciai cadere la pistola a terra e aspettai di essere arrestata.”

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Maria Pasquinelli – fiorentina, classe 1913, di professione insegnante – così rievoca uno degli episodi più sensazionali del dopoguerra sul confine orientale: l’uccisione del generale britannico Robert W. De Winton, comandante della Tredicesima Brigata di Fanteria a Pola, all’epoca sotto il controllo del Governo militare alleato (Gma). La deposizione avviene a Trieste  dinanzi agli agenti del Secret intelligence bureau (Sib).

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Il fatto, che avrebbe dovuto passare agli annali dei crimini politici commessi in quel tempo, diventa al contrario l’occasione per fare dell’omicida l’eroina dell’“italianità tradita”. Un controverso simbolo nazionalista per le migliaia di famiglie istriane e dalmate che proprio in quelle settimane prendono la via dell’esilio volontario.

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Due mesi dopo, la Pasquinelli, è condannata a morte da una Corte militare alleata, a Trieste. In maggio, però, la pena è commutata in ergastolo per decisione del generale John H. Lee, comandante delle Forze alleate nel Mediterraneo. Dopo aver trascorso diciassette anni nelle carceri di Venezia, Perugia e Firenze, torna in libertà nel settembre 1964.

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Per oltre mezzo secolo si è pensato al gesto disperato di una giovane andata fuori di testa a causa della guerra. Altri, più ottimisticamente, hanno fatto propria la giustificazione dell’assassina: il gesto era il risultato del trattamento umiliante riservato al nostro Paese da Stati Uniti, Gran Bretagna e Urss. Il Trattato di Pace di Parigi, firmato proprio il 10 febbraio 1947, dopo che l’Italia aveva perduto disastrosamente la guerra, obbligava infatti l’Italia a rinunciare all’Istria e a Fiume, fomentando i movimenti nazionalistici all’insegna dell’Italia “mutilata”.  E passeranno molti anni prima che la “questione” di Trieste e della “Zona B” trovi una soluzione definitiva.

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Sembrava una storia consegnata per sempre alla memoria un po’ sbiadita di quegli anni in bianco e nero. Ma ora nuovi particolari emergono dagli scaffali del Public Record Office di Kew Gardens, gli Archivi Nazionali britannici. Decine di documenti del War Office, ritrovati nell’agosto 2009, ci dicono che sarebbe stato possibile evitare quel clamoroso omicidio. Come dimostrano i telegrammi, le lettere e i rapporti redatti dalle autorità militari angloamericane nelle ore e nei giorni immediatamente successivi all’attentato, carte secret e top secret custodite nel fascicolo War Office 204/12896 (“Shooting of Brigadier De Winton”).

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Ma procediamo con ordine e vediamo di seguire ciò che i documenti ci raccontano.

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E’ trascorsa una settimana dall’attentato di Pola. Il 17 febbraio 1947 – in un salone del castello di Miramare, a pochi chilometri da Trieste – si insedia una Commissione militare d’inchiesta composta dal tenente colonnello Gaisford e dai maggiori Mitchell e Stephenson. Il testimone chiave è il sergente H. Ross, agente del Field security servicebritannico (Fss), di stanza a Pola: “Il 25 ottobre 1946, ricevetti un telegramma che mi allertava dell’imminente arrivo di Maria Pasquinelli a Pola e della sua intenzione di assassinare il Comandante militare alleato”.

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Il testo del dispaccio non lascia dubbi sulle intenzioni della donna: “General staff intelligence (Gsi) / 208. Segreto. Informazione ricevuta dall’unità ‘Z’ dello Special counter intelligence (Sci) di Milano. Una fonte solitamente attendibile afferma che Pasquinelli Maria (lo ripetiamo: Pasquinelli Maria, un metro e 75 centimetri di altezza, robusta, sui 30 anni, capelli castani, scuri e riccioluti, occhi scuri, naso schiacciato, portamento maschile, fisicamente forte) potrebbe attentare alla vita del Comandante militare alleato dell’area di Pola, in segno di protesta per le decisioni di Parigi. Si presume che il Soggetto lascerà Milano per Pola tra pochi giorni e che farà sosta a Venezia per andare a trovare il fratello, un tenente al momento convalescente all’ospedale militare della città. A Pola, l’indirizzo fornito è l’hotel Miramare”.

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Il sergente aggiunge altri dettagli: “Contattai immediatamente il mio superiore a Trieste – il capitano Middleton, comandante del XXI Port Security Section (Pss) – e chiesi istruzioni. Egli mi rispose che le avrebbe ottenute dal Gsi. Ventiquattro ore più tardi, mi telefonò per fornirmi le seguenti direttive: a) per nessun motivo la donna doveva essere arrestata o interrogata. Inoltre, non si doveva agire in modo da destare i suoi sospetti; b) il Gma e la Polizia della Venezia Giulia dovevano essere allertate sulle sue intenzioni; c) dovevo chiedere alla Polizia della Venezia Giulia che mi informassero dell’arrivo della donna e fare in modo che fosse posta sotto osservazione. […] Mi recai quindi all’hotel Miramare e appurai che la Pasquinelli era partita il 20 ottobre. […] Il 3 dicembre 1946, la polizia della Venezia Giulia e il gerente dell’hotel Miramare ci avvertirono del suo arrivo. La sera stessa, verso le 20.00, la donna si presentò nel mio ufficio. Ne controllai la carta d’identità e le domandai il motivo della sua visita a Pola. Mi rispose che era una professoressa di scuola e che si interessava di cultura istriana. Attenendomi alle istruzioni ricevute, non la interrogai. La mattina dopo, il 4 dicembre, telefonai al capitano Middleton, a Trieste, per avvertirlo che la donna era tornata a Pola. […] Il capitano mi disse di allertare la Ventiquattresima Brigata e il Gma e di chiedere alla Polizia della Venezia Giulia di tenerla d’occhio”.

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Ross informa anche il tenente colonnello Orpwood – il Commissario britannico dell’area polesana – e Benvenuti, un funzionario italiano della Criminal investigation division (Cid).

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“L’Fss non ricevette ulteriori istruzioni o informazioni sulla donna fino al giorno dell’omicidio – precisa il sergente – . L’11 febbraio mi recai all’hotel Miramare per controllare il registro delle presenze. Constatai che la donna era partita da Pola il 6 dicembre 1946 e che era ritornata in città l’11 gennaio 1947. Poi, il 5 febbraio, era nuovamente partita per fare ritorno in città l’8 febbraio.”

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Il secondo testimone ad essere ascoltato è il tenente Garvin: “In data 16 dicembre 1946, assunsi il comando del XXI Pss, a Trieste. Il capitano Middleton mi aggiornò sulle questioni più importanti ma non menzionò mai il caso della Pasquinelli. Il giorno dell’omicidio, tuttavia, rinvenni le informative [dell’ottobre 1946, ndr] nei nostri archivi.”

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Davanti ai giudici sfilano poi il tenente Feldman, il maggiore Robin, il maggiore Portham.

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Arriva il turno del sergente Reeves: “Sono l’ufficiale di collegamento tra il XXI Pss e la Polizia della Venezia Giulia, al Molo Pescheria di Trieste. Il 25 ottobre 1946, il capitano Middleton mi ordinò di trasmettere alla Polizia della Venezia Giulia il nome completo e la descrizione fisica di Maria Pasquinelli, in modo che la Polizia potesse avvertirci quando la donna fosse partita per Pola. Così ho fatto, ma non ho mai ricevuto alcun rapporto in proposito.”

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Il brigadiere Erskine, infine, racconta di aver incontrato il generale De Winton alla fine di gennaio del 1947, a Trieste, ma di non avergli parlato delle segnalazioni riguardanti la Pasquinelli. Con candore, ammette che la questione “gli era sfuggita di mente”.

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Nel tardo pomeriggio del 18 febbraio 1947, la Commissione giunge alle seguenti, sconcertanti conclusioni: “L’omicidio è stato reso possibile da precisi ordini che sarebbero giunti dal Quartier generale alleato. Secondo questi ordini, la donna non doveva essere arrestata, perquisita o interrogata. Al momento, questa Commissione ritiene impossibile stabilire chi abbia emanato queste direttive. Sembra che il capitano Middleton (che ora è stato collocato in congedo) abbia ottenuto tali istruzioni dal Gsi/Quartier generale alleato. Dalle indagini condotte presso il Gsi, sembrerebbe che l’ufficiale che ha trasmesso le direttive al capitano Middleton è stato anch’egli congedato.”

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Il 19 febbraio, il generale britannico Loewen, Comandante della Prima Divisione Armata di Trieste, commenta con durezza le deliberazioni della Commissione: “L’inchiesta non è stata in grado di spiegare per quale motivo – e per ordine di chi – a Maria Pasquinelli fu consentito di muoversi liberamente nell’area di Pola.”

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Le indagini del Comando alleato proseguono in gran segreto, tra imbarazzi, sospetti e reticenze. Sembra sia stata la sede milanese dello Sci/Z ad allertare il Gsi del Comando alleato sui propositi omicidi della Pasquinelli. La fonte è definita “solitamente attendibile”. Ecco perché, il 14 febbraio 1947, un cablogramma del Quartier generale angloamericano chiede “con urgenza” di essere messo al corrente sull’identità di questo confidente e su “ulteriori dettagli” contenuti nei rapporti dello Sci/Z dell’ottobre 1946.

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La risposta arriva il giorno dopo: “La source è Zolyomy Andrea, alias ‘Bandi’, ex agente dell’Ufficio Quarto [dei servizi segreti nazisti, ndr] di Milano, arrestato nel maggio 1945.[…] E’ attualmente detenuto presso il carcere militare di Milano, in attesa di essere processato dalla Corte di Assise Straordinaria della città. Nel rapporto Sci/Z, Maria Pasquinelli è citata una sola volta per i suoi collegamenti con la Decima Flottiglia Mas e con le attività anti-slave nella Venezia Giulia.” Zolyomy, un gitano ungherese, diventerà anni dopo una figura molto nota nel panorama sportivo italiano: allenerà la nazionale di pallanuoto alle olimpiadi di Melbourne (1956) e di Roma (1960).

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Il 16 febbraio 1947, lo Sci/Z invia al Comando alleato copia di un altro cablogramma, datato 24 ottobre 1946. I dettagli non potrebbero essere più agghiaccianti: “Si ritiene che Maria Pasquinelli abbia studiato gli spostamenti quotidiani [del generale De Winton, ndr] e che abbia deciso di sparargli mentre questi è intento a passare in rassegna le truppe. […] La donna è la nipote dell’ex ministro della Guerra della Rsi, Soddu, ed è dipinta come fanatica e determinata.”

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Qualche giorno dopo, un nuovo colpo di scena: con un telegramma top secret inviato a vari uffici, il Gsi rivela di aver appreso che la source non è Zolyomy e – cosa ben più grave – che “lo Sci/Z non intende rivelare l’identità del vero confidente. La questione è al vaglio del Quartier generale delle Forze alleate”.

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Insomma, se la fonte di informazione non è il fascista ungherese, da dove arrivano le informazioni top secret? Il governo britannico continua a non vederci chiaro. Soprattutto è fuori di sé per l’apparente facilità con cui la donna ha potuto assassinare De Winton. Il 30 maggio 1947 Londra torna all’attacco. Un telegramma top secret, inviato al Comando delle Forze alleate in Italia, riferisce che “il Foreign Office desidera sapere se, in effetti, siano state le fonti ufficiali italiane a informare lo Sci/Z; oppure se, al contrario, sia stato lo Sci/Z ad utilizzare confidenti non collegati al Servizio informazioni militare (Sim) o a qualche altra organizzazione ufficiale italiana”.

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Fin qui, i documenti ritrovati a Kew Gardens nell’agosto scorso.

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A più di sessant’anni da quegli avvenimenti, non sappiamo ancora se Maria Pasquinelli fosse soltanto una scheggia impazzita in azione tra Milano, Trieste e l’Istria nel caos del dopoguerra.

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Di certo, però, sappiamo che è proprio l’unità “Z” dello Special counter intelligence a coordinare le operazioni più oscure contro la “minaccia bolscevica” rappresentata dal Pci di Togliatti. Lo Sci/Z è al comando di un ambizioso capitano non ancora trentenne, James Angleton. Arriva in Italia alla fine del 1944 come responsabile dell’X-2, il controspionaggio dell’Office of strategic services (Oss), i servizi segreti Usa attivi su tutti i fronti durante il conflitto mondiale. Ora, nel 1946, una nuova sigla spionistica ha preso il posto dell’Oss – lo Strategic services unit (Ssu) – che ben presto cederà il posto alla Central intelligence agency, la Cia.

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Sotto la guida occulta di Angleton, prende corpo una vasta rete terroristica composta da una miriade di formazioni paramilitari anticomuniste. Per gli americani, la situazione si sta facendo difficile. Il 2 giugno 1946, il Pci e i socialisti di Nenni ottengono la maggioranza relativa all’Assemblea Costituente, superando la Dc di De Gasperi. La Repubblica prevale sulla Monarchia con un vantaggio di due milioni di voti. E da Washington gli analisti più attenti prevedono la vittoria certa del blocco socialcomunista alle politiche del 1947.

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Nel 1946, gli squadroni della morte più pericolosi sono la Divisione Osoppo, le Squadre d’azione Mussolini (Sam) e l’Esercito clandestino anticomunista (Eca). Vi aderiscono gli ex partigiani “bianchi” e monarchici della Osoppo, nella Venezia Giulia, e dell’Organizzazione Franchi di Edgardo Sogno. E, soprattutto, gli ex militi salotini della Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese e delle Brigate Nere di Alessandro Pavolini. Ma in tutto il Paese sono attive decine di  formazioni armate che prendono i nomi di Fedelissima, Gruppi Azione Mussolini, Vendetta Mussolini, Audaci, Federati Neri, Partito insurrezionale fascista, Lupo, Leonessa, Sagittario, Etna, Onore e Combattimento. Nel maggio 1945, a Milano, è il capitano Angleton in persona a salvare la pelle a Borghese e a trasferirlo in gran segreto a Roma. Le sue competenze, scrive qualche tempo dopo, saranno molto utili “nell’ambito delle operazioni di lungo periodo” in Italia. In ottobre, il Comando alleato firma un atto segreto con cui garantisce la “totale immunità” agli uomini della Decima di stanza nella base navale dell’isola di Sant’Andrea, a Venezia. Nella primavera del 1946, anche Pino Romualdi – l’ex vicesegretario del Partito fascista repubblicano (Pfr) nella Rsi – finisce nell’orbita di Angleton: gira per Roma sotto falsa identità, contatta centinaia di suoi ex commilitoni e scrive un pamphlet intitolato “Il Fronte italiano antibolscevico”. Alla fine dell’anno fonda i Fasci d’azione rivoluzionaria (Far), che in breve inizieranno una lotta terroristica senza quartiere contro il Pci e le Camere del Lavoro.

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Nel 1947 – secondo vari rapporti del Servizio informazioni e sicurezza (Sis), lo spionaggio italiano – sarà il “Nuovo Comando Generale” (composto da Far, Eca e Sam) a coordinare la strategia terroristica della banda di Salvatore Giuliano in Sicilia, in vista della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947). Due mesi dopo, un arsenale dei Far sarà scoperto in uno stabile di via Romagna, a Roma, a poche decine di metri dalla sede dei servizi Usa.

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Trieste e la Venezia Giulia sono una presenza costante nelle migliaia di rapporti desecretati negli ultimi anni a Londra e a Washington.

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All’inizio del 1946, è il capitano statunitense Huppert (di origini triestine) a entrare in contatto con un altro triestino, il colonnello Nino Buttazzoni, per proporgli di lavorare per l’intelligence di Angleton con il nome di copertura di “Ingegner Cattarini”. Huppert è il responsabile del Cid a Trieste, mentre Buttazzoni è stato uno dei principali collaboratori del principe Borghese nella Rsi, al comando dei Nuotatori-Paracadutisti (Np) della Decima Mas. Al momento del suo incontro con lo spionaggio americano, a Roma, vive in clandestinità in un appartamento di via Panisperna. E’ infatti ricercato dalla Commissione delle Nazioni Unite per i Crimini di Guerra per le rappresaglie compiute dai suoi uomini nella zona di Asiago, nel Veneto, nella primavera del 1944. “Sono momenti in cui, per molti, Repubblica significa Comunismo – scrive Buttazzoni nel volume “Solo per la bandiera” (Mursia), pubblicato nel 2002 -  e la nostra scelta non ha incertezze. Abbiamo a disposizione armi e depositi al completo. Faccio contattare alcuni Np del Sud.” All’“Ingegner Cattarini”, Angleton affianca il comandante Calosi, responsabile dell’intelligence navale italiana, e la signora Vacirca (nome in codice: “Miss Quinn”) dei servizi segreti statunitensi. In breve, il colonnello diventerà il referente numero uno dell’Eca.

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I dispacci delle spie di Sua Maestà sono sempre più allarmati. E’ dal ’43 che l’intelligence britannica è in ansia per la situazione al confine orientale italiano. Le atrocità nazifasciste in Jugoslavia, la guerra partigiana dell’Esercito di liberazione e le esecuzioni di massa perpetrate per ordine del maresciallo Tito a Trieste e nella Venezia Giulia nel maggio-giugno del 1945, hanno creato un clima impossibile da gestire. Londra guarda con preoccupazione crescente ai dirty tricks, ai giochi proibiti che alcuni settori militari e dell’intelligence degli Stati Uniti stanno mettendo a punto in quell’estate del 1946. E il controspionaggio britannico decide di passare all’azione. In settembre, a Trieste, arresta un neofascista di origini siciliane, Mario Cocchiara.

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Dal rapporto dell’interrogatorio – desecretato nel 2005 -  apprendiamo che il terrorista “sta organizzando un gruppo paramilitare di destra sotto gli auspici del Sim. Si reputa che abbia già radunato 500 elementi e che sia in rapporti diretti con alcuni membri del governo italiano e con alti ufficiali del Sim, ai quali invia le sue relazioni. […] E’ in contatto con elementi neofascisti e di destra a Milano, Roma e altrove, e con i gruppi delle Sam in Lombardia e a Milano. […] Cocchiara afferma di aver incontrato, il 19 agosto 1946, i gruppi della resistenza nazista che operano nelle Alpi bavaresi. Sembra che queste formazioni utilizzino come emissari ex soldati dell’esercito tedesco rimasti in Italia (muniti di documenti di identità civili), nella zona di Merano. Per ottenere fondi, i gruppi nazisti hanno allestito un ampio traffico di cocaina verso l’Italia. Qui, i loro emissari vendono cocaina di tipo ‘Merck’ (genuina) a buon prezzo, ossia a 800.000 lire al chilogrammo. Il prezzo è mantenuto basso per incrementare le transazioni. In Italia, le organizzazioni neofasciste traggono profitto dall’acquisto di cocaina, garantendo così i finanziamenti alle loro attività. […] Anche le entrate economiche dell’organizzazione di Cocchiara potrebbero, in parte, dipendere dal traffico di cocaina”.

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Dal documento spunta anche il nome di Huppert: “In agosto, Cocchiara ha ricevuto dall’ufficio del capitano Huppert [il Cid, ndr] un’offerta di collaborazione con l’intelligence statunitense, da attuarsi dopo che tale ufficio lascerà il territorio. […] Il documento con la proposta era diviso in tre parti: quella militare (che prevedeva una serie di attività anche in territorio jugoslavo) sarebbe stata affidata al tenente Giacchelli (lavora per Huppert); quella politica a Cocchiara, mentre il settore economico doveva essere curato dal direttore di una banca di Trieste (non se ne conosce il nome). […]. I capi delle tre sezioni avrebbero avuto il compito di scegliere gli agenti e i confidenti, i cui nomi sarebbero poi stati sottoposti al vaglio dell’ufficio del capitano Huppert.”

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Due mesi dopo, Londra riferisce che “a Trieste, è sorto un nucleo formato da aderenti al Partito fascista democratico (Pfd) e alle Sam. Le attività del gruppo sono coordinate dalla Croce rossa italiana (Cri) tramite un certo Eugenio Cecchini, ex operatore cinematografico della Decima Mas. Cecchini manterrebbe stretti rapporti con le formazioni neofasciste di Milano, dalle quali riceverebbe ordini. Possiede una moto Guzzi con la quale si reca di frequente a Brescia e a Milano”.

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Le rivelazioni di Cocchiara confermano le informative dello spionaggio italiano. Nel maggio 1946, il Sis scrive che “la maggior parte delle Sam ed altre formazioni attivistiche e terroristiche neo-fasciste si sono spostate nella Venezia Giulia, in quanto corre voce che i fascisti e i monarchici intenderebbero determinare un incidente provocatorio al confine orientale, tale da poter polarizzare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla Venezia Giulia. […] Le divisioni Osoppo e Gorizia, paramilitari, ed il nucleo universitario di Trieste, già segnalati, sono quasi esclusivamente costituiti da ex fascisti ed operano in accordo con le autorità militari”.

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Ma è dell’8 ottobre 1946 il documento britannico più sensibile, reso pubblico nel 2005: “Corre voce che a Roma sia attivo un centro neofascista al quale, secondo alcuni rapporti, aderiscono degli ufficiali americani. Tra i nomi menzionati vi è quello del capitano Philip J. Corso (intelligence statunitense nella Capitale).” Il rapporto precisa che il gruppo romano è composto dal colonnello Agrifoglio, ex capo del Sim; Augusto Turati, ex segretario del Partito nazionale fascista (Pnf); Angelo Corsi, sottosegretario agli Interni nel secondo governo De Gasperi; Leone Santoro, responsabile dell’Ufficio politico del ministero dell’Interno; Luigi Ferrari, capo della Polizia. Il Foreign Office conclude allertando che “numerosi ufficiali americani di origine italiana (tra costoro, il capitano Corso sopra menzionato) sono attivamente legati a questo centro”.

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Nelle stesse settimane, secondo lo spionaggio italiano, Turati circola indossando un’uniforme dell’esercito Usa, gode “della stima e del rispetto” degli americani ed è ospite di un monsignore in via Giacomo Venezian, a Roma, nel “palazzo vaticano della Sacra Congregazione Concistoriale dei Riti”.

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La strategia golpista dello Sci/Z funziona ormai a pieno ritmo. Il capitano Corso – del Counter intelligence corps (Cic), il controspionaggio militare statunitense – è uno stretto collaboratore di Angleton, assieme a Raymond Rocca, Charles Siragusa, George Zappalà e a molte altre spie americane di origine italiana. Un’azione di forza contro il Pci sembra imminente. Vari episodi lo preannunciano.

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Una nota del Sis informa che il “Comando generale del movimento fascista” – costituito da Carlo Scorza, ex segretario del Pnf, e da Augusto Turati – intende far scoppiare “qualcosa di grosso” a gennaio o a febbraio del 1947. Nasce l’Unione patriottica anticomunista (Upa), costituita in prevalenza da militari dell’Arma. Il Fronte internazionale antibolscevico (Fia) e i Far di Romualdi iniziano un’attività terroristica su vasta scala. Infine, secondo un lungo rapporto del Sis, Salvatore Giuliano si mette “a completa disposizione delle Formazioni Nere”, che pianificano di affidargli la liberazione del principe Borghese, detenuto nel penitenziario militare dell’isola di Procida. Lo spionaggio italiano riferisce che il capobanda siciliano si sposta da Nord a Sud per coordinare le attività delle Sam insieme al suo luogotenente, il killer Salvatore Ferreri, alias “lo Scugnizzo di Palermo”. Stando ai rapporti del Sim, Giuliano è in contatto con i reparti speciali della Decima Mas dall’estate del 1944, quando alcuni commandos del principe Borghese raggiungono segretamente Partinico e Montelepre, in provincia di Palermo, per finanziare, armare e addestrare alla guerriglia gli uomini della sua banda. Si fanno i nomi di Rodolfo Ceccacci, Pasquale Sidari, Giovanni Tarroni, Dante Magistrelli e dei fratelli Giovanni e Giuseppe Console, tutti in missione nell’Italia liberata su ordini del colonnello Buttazzoni. E’ la “guerra segreta oltre le linee”, messa in campo dai servizi segreti nazifascisti all’indomani dello sbarco alleato in Sicilia del luglio 1943.

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Ma i piani dell’intelligence di Angleton e delle bande armate anticomuniste si sviluppano lungo tutto il 1947.

Nel luglio 1947, il Sis registra gli anomali comportamenti di Selene Corbellini, ex membro della banda Koch ed ex agente dei servizi di Salò, responsabile delle Sam tra Roma e Torino. La Corbellini è segnalata in contatto con la banda di Salvatore Giuliano, a Palermo. Ma è anche definita “elemento pericoloso” per la propaganda diffusa tra gli “esuli giuliani” della Capitale: “E’ stato riferito che elementi non ancora individuati lavorerebbero intensamente in questi giorni nei confronti di elementi giuliani, che sono abitudinari del dormitorio istituito presso i profughi e i reduci della stazione Termini, in Roma, allo scopo di organizzare gruppi di uomini destinati ad azioni di piazza in Roma e nella Venezia Giulia, all’evidente scopo di aggravare con atti inconsulti (si parla anche con insistenza di un attentato contro Tito) la situazione nazionale ed internazionale. L’iniziativa partirebbe dalle Sam, già rappresentate a Roma dalla nota ricercata Selene Corbellini.  Circolerebbe fra i predetti abbondante denaro (si parla di veri e propri ingaggi a lire 10.000).” Un’altra informativa italiana scrive che “per ordine del Fronte anticomunista, profughi giuliani ex fascisti vengono fatti partire isolatamente alla volta di Trieste, Fiume, Pola e Gorizia, col compito di creare localmente cellule di propaganda e di azione anti-russa e anti-Tito”.

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Nel biennio 1946-1947, vari rapporti dell’intelligence alleata parlano di “elementi del separatismo siciliano” nella Venezia Giulia e a Trieste. Presenze decisamente sospette, vista la lontananza geografica con la grande isola mediterranea. Nel giugno 1946, il controspionaggio del Sim segnala la presenza nel capoluogo giuliano di “due militanti dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (Evis), provenienti da Catania: Tullio di Mauro, nato a Trieste nel 1923, ed Enzo Finocchiaro, nato a Catania nel 1925”. I due sono in possesso di speciali documenti di identità che certificano la loro appartenenza all’Evis, firmati da un certo “colonnello Spina”.

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Al “sergente maggiore Spina” della Cri, a Trieste, accenna il lungo documento britannico su Cocchiara del settembre 1946, già visto. Il neofascista è dato in contatto permanente con il sergente maggiore, definito un “confidente” del Sim nel capoluogo giuliano, alle dipendenze del capitano Huppert. In specie, il rapporto comunica che Spina “organizza le squadre d’azione italiane”.

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Nell’estate del 1947, Londra scrive di uno Spina “comandante del Terzo corpo volontari della libertà (3Cvl) nella Venezia Giulia”. L’organizzazione è composta dalla Divisione Osoppo, dalla Divisione Julia e dal Gruppo Aspro. Il 24 luglio 1947 il Foreign Office allerta: “Spina si è incontrato con il colonnello Zitelli (Sim)”, che ha promesso di inviare “armi, munizioni e finanziamenti al 3Cvl. […] Zitelli si è poi detto d’accordo nel fare tutto il possibile per coordinare gli analoghi gruppi operanti nell’Italia meridionale con quelli attivi nel settentrione”. Si fa il nome dell’Unione monarchica italiana (Umi), un partito che, secondo lo spionaggio italiano, finanzia le attività terroristiche della banda Giuliano, dell’Evis e di altre  formazioni separatiste in Sicilia, Calabria e Basilicata tra il 1945 e il 1947. Il collegamento tra Salvatore Giuliano e l’Umi, a Roma, viene garantito dal neofascista catanese Franco Garase, alias “lo zoppo”, da Caterina Bianca, ex agente dei servizi segreti della Rsi, e da Silvestro Cannamela, ex milite dei commandos della Decima Mas al Sud.

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All’indomani della strage di Portella della Ginestra, altra circostanza anomala è la presenza in Sicilia di alcuni “continentali”. Fermati e identificati dai carabinieri sulle montagne di Montelepre, vengono rispediti a casa in fretta e furia: “Un gruppo di settentrionali composto da Giancarlo Celestini, 20 anni da Milano, Enzo Forniz, 18 anni da Pordenone e Bruno Trucco, un ragazzo di Genova, ebbero a entrare nella banda di Salvatore Giuliano. A quale appello avevano risposto? Tra il 10 luglio e il 14 agosto 1947, furono poi fermati sulle montagne di Montelepre undici misteriosi individui nativi di Cava dei Tirreni (Francesco Lambiase e Vincenzo di Donato); Sicaminò, in provincia di Messina (Francesco Minuti); Taranto (Cosimo Vozza, Pietro Capozza, Cataldo Sorrentino, Santo Balestra); Cagliari (Carlo De Santis); Vicenza (Gaetano Dalconte e Edoardo Affollati); Ragusa (Giuseppe Ferma).” (Cfr. “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato”, FrancoAngeli, 1997).

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Che cosa ci facciano in una formazione paramilitare della Sicilia occidentale cinque giovani provenienti da Milano, Vicenza, Pordenone e Genova, rimane un gran bel mistero. O, almeno, tale è stato fino all’apertura integrale degli archivi del War Office britannico e dell’Oss statunitense, dopo il 2000.

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L’Evis è una formazione terroristica attiva dal 1944, definita “neofascista” dai dispacci dell’intelligence Usa in Sicilia. Nel settembre 1945 ne assume il comando il “colonnello” Salvatore Giuliano, con una solenne investitura sulle montagne di Sàgana, nei pressi di Montelepre, alla presenza dei massimi dirigenti del Movimento per l’indipendenza della Sicilia (Mis). Ma, come dimostrano decine di rapporti dell’intelligence alleata resi pubblici negli ultimi anni, l’Evis ha le sue origini nei servizi segreti della Rsi e nei commandos della Decima Mas. E’ un fronte della più generale guerra che i neofascisti hanno dichiarato al governo di Badoglio e Bonomi dopo l’8 settembre. Nell’aprile 1945, poche settimane prima della disfatta nazifascista nell’Italia settentrionale, 120 militi della brigata “Raffaele Manganiello”, di stanza a Montorfano (Como), raggiungono la Sicilia per continuare la “resistenza fascista” al Sud. Fanno parte del battaglione “Vega”, un corpo di èlite di 350 uomini voluto dal principe Borghese nell’estate del 1944 e addestrato dal tenente di vascello Mario Rossi. Gli uomini del “Vega” provengono in gran parte dalle fila degli Np del colonnello Buttazzoni. Negli elenchi stilati dal colonnello Hill-Dillon del controspionaggio statunitense nell’aprile  1945, compaiono i nomi del “tenente Giuliano” e di altri futuri componenti della cosiddetta “banda” del monteleprino, come il parà Giuseppe Sapienza. A Como, gli uomini della “Manganiello” sono guidati da Fortunato Polvani, ex federale di Firenze e stretto collaboratore di Romualdi nella Rsi. Nell’autunno del 1945, da Palermo (dove rimarrà fino alla primavera del 1947), entra in contatto con il capitano Angleton e assume il coordinamento delle squadre armate  neofasciste per tutta l’Italia, a cominciare dalle Sam.

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Il 12 giugno 1946, in Sicilia arriva anche l’ex partigiano bianco Giuseppe Caccini,  il “Comandante Tempesta” della brigata Carnia (Osoppo), con l’obiettivo di stabilire contatti permanenti con l’Umi a Palermo. Ma qui, dopo pochi giorni, viene arrestato dalla Polizia nei pressi della stazione ferroviaria.

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Dal suo interrogatorio, conservato negli archivi del Sis,  apprendiamo che “dopo l’8 settembre 1943, in contrapposizione dell’influenza panslava nel Friuli e nella Carnia, formai la brigata Osoppo, brigata a carattere nazionalista-monarchico. Fino al 1° maggio 1945 rimasi a capo della brigata Carnia. Fino all’ottobre 1945, rimasi in montagna assieme alla mia brigata per avere dopo il 1° maggio combattuto contro le forze jugoslave che volevano invadere il territorio del Friuli, e precisamente oltrepassare il Tagliamento e la Fella e occupare anche la zona carnica. Di ciò ne può dare conferma la missione inglese che dirigeva in quella località i movimenti militari e politici delle brigate osovane (il capitano Patt e il maggiore Rudolph del Field security service)”.

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In un documento successivo (“Movimento e costituzione bande armate”, 26 giugno 1946), leggiamo un’altra dichiarazione di “Tempesta” riportata dagli agenti italiani: “Poiché la situazione si delineava grave e constatando che elementi contrari alla Monarchia avrebbero reagito, qualora l’esito del referendum [del 2 giugno 1946, ndr] fosse stato a questa favorevole, decise di condurre a Roma [da Udine, ndr] gli uomini della sua ex brigata per difendere eventualmente gli interessi del popolo e la legalità delle elezioni. Ritornò pertanto a Roma nei primi dello scorso mese di maggio, alloggiando in casa di vari amici, che non ha voluto indicare. Entro il 10 dello stesso mese di maggio arrivarono nella capitale, alla spicciolata, i suoi uomini in  numero di 221, i quali nelle rispettive valigie tenevano nascosta la divisa militare degli alpini. Alcuni di essi, giunti con un autocarro del regio esercito, portarono a Roma 4 fucili mitragliatori, uno marca Brem e gli altri 3 tipo n. 37 di fabbricazione italiana, molti mitra steen, mitra parabellum, pistole automatiche e bombe a mano. […] Fra i 221 uomini, formanti due compagnie, si trovavano due sottotenenti, dei quali egli non ha voluto fornire il nome. Il Caccini ha dichiarato di essere il comandante militare con lo pseudonimo di ‘Tempesta’. Il giorno 5 del corrente mese, poiché il risultato del referendum era stato favorevole alla Repubblica, egli e i suoi uomini decisero di sciogliersi, e con lo stesso camion, che nel frattempo era ritornato dal Friuli per portare i viveri, rispedivano armi e divise al luogo di provenienza, mentre il grosso degli uomini faceva ritorno in montagna con mezzi propri. Soltanto una ventina di essi si trattenevano nei dintorni di Roma per procurarsi una occupazione. Risultato vano tale tentativo, il Caccini decideva di venire in Sicilia nella persuasione di trovarsi in ambiente più favorevole alla sua fede, per cercare impiego ed anche, secondo la sua asserzione, per sfuggire alla persecuzione di agenti titini che lo ricercavano.”

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Nel giugno 1946, tra i venti partigiani armati che rimangono con “Tempesta” a Roma, troviamo un certo De Santis, alias “Marco”. Un certo Carlo De Santis – lo abbiamo visto – verrà fermato dai carabinieri un anno dopo, sulle montagne che circondano Montelepre.

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Il racconto di Caccini coincide in parte con quello di Buttazzoni, nel già citato volume “Solo per la bandiera”: “E’ in questo periodo [agli inizi del 1946, ndr] che nasce l’Esercito clandestino anticomunista – racconta il colonnello degli Np – . Possiamo contare su un nucleo ristretto di gente decisa e bene addestrata. Un esponente militare vuole valutare visivamente la consistenza di questo gruppo. Al Pincio facciamo una prova. Viene mandato un osservatore che non conosco. Io sono seduto su una panchina e davanti a me faccio sfilare tutti gli aderenti con un segno di riconoscimento. Alla fine sono 212.”

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Al giorno d’oggi, qualche verità potrebbe arrivare anche da saggi e testimonianze di recente pubblicazione, come il volume “La giustizia secondo Maria” (Del Bianco editore), una lunga intervista realizzata dalla scrittrice triestina Rosanna Giuricin nel 2008. “Nel libro, Maria Pasquinelli parla poco e continua a mantenere il segreto su alcune questioni non di poco conto – osserva Pietro Spirito su ‘Il Piccolo’ del 14 settembre 2008 – . Come la circostanza secondo la quale l’attentato non fu un’iniziativa squisitamente personale, ma ci fossero dietro uno o più complici. Sull’argomento c’è solo una velata ammissione, per altro riportata da terzi: ‘Non era Maria che avrebbe dovuto sparare – scrive Giuricin -, il compito era stato assegnato a Giuliano. Chi poi fosse Giuliano non si sa, la trattazione si ferma all’ipotesi secondo la quale, all’ultimo momento, ‘Giuliano’, preso dagli scrupoli, avesse passato la pistola alla Pasquinelli’ (che per altro, nel libro, continua a ripetere di averla trovata per strada, per puro caso, a Milano).”

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Il governo De Gasperi partecipa attivamente alla strategia anticomunista sul confine orientale, in totale sintonia con l’intelligence Us

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Giacomo Scotti

MONTENEGRO AMARO
L’odissea dei soldati italiani tra le Bocche di Cattaro e l’Erzegovina dal luglio 1941 all’ottobre 1943.

Prefazione di Davide Conti

Con numerose illustrazioni

Collana Blu
ISBN 978-88-96487-25-9
pp. 420 € 26,00
ordina il libro: http://www.odradek.it/html/ordinazione.html
PREZZO SPEDIZIONE COMPRESA

Il Montenegro fu regione ribelle, zona di opposizione e resistenza all'aggressione del fascismo italiano e dell’esercito tedesco, coadiuvati dai collaborazionisti cetnici e ustascia. Le divisioni italiane – la “Taurinense” alpina e la “Venezia” di fanteria, oltre a sparsi reparti dell’“Emilia”– ebbero alcune migliaia di caduti e quasi pari furono le perdite dei partigiani jugoslavi, mentre le vittime nella popolazione, compresi vecchi, donne e bambini – morti negli incendi dei villaggi, fucilati nei rastrellamenti e deportati nei campi di concentramento in Albania e Italia – furono circa quarantamila.
Il libro, documentatissimo, è una rappresentazione viva e puntuale della guerra combattuta dalle divisioni partigiane jugoslave contro tedeschi e italiani, e restituisce le due facce della presenza armata italiana in Montenegro e dintorni: la faccia (e il ruolo) dell’invasore a partire dal 1941, e la faccia liberatrice delle migliaia di militari italiani passati a combattere con i partigiani jugoslavi dopo l'8 settembre 1943. 
La ricostruzione di scenari complessi consente di guardare da prospettive non strumentali, come quelle configuratesi nell'ultimo decennio con l'uso politico della vicenda delle foibe, né retorico-celebrative, proprie della narrazione della «epopea resistenziale», fatti ed eventi che hanno segnato i rapporti bilaterali tra Italia e Jugoslavia nell'era post-bellica della Guerra Fredda e poi in quella post-'89 dopo la caduta del muro di Berlino ed il dissolvimento della Jugoslavia.


Giacomo Scotti (Saviano 1928). Scrittore, giornalista e letterato, ha trascorso  gran parte della vita in Croazia, a Fiume-Rijeka, viaggiando da un capo all'altro dell'ex Jugoslavia per circa 60 anni come giornalista. Dal 1982 si muove fra l’Italia e Balcani. Scrittore bilingue (italiano e croato), ha all'attivo circa cinquanta opere. Ha pubblicato ricerche riguardanti la lotta antifascista e di liberazione jugoslava, tra cui, con Mursia: Ventimila caduti 1970, Il battaglione degli straccioni1974, I disertori 1980, Juris, juris, all'attacco! 1986, Le aquile delleMontagne nere (con L.Viazzi) 1987, L'inutile vittoria (con L.Viazzi) 1989. E ancora: Kragujevac, la citta' fucilata 1967, Ustascia tra il fascio e la svastica 1976, Rossa una stella (con L.Giuricin) 1971), Goli Otok, ritono all'Isola Calva 1991, Il partigiano del cielo 2004, Tre storie partigiane 2006, Il bosco dopo il mare 2009. Con Odradek ha pubblicato “BONO TALIANO”. Militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a disertori ( http://www.odradek.it/Schedelibri/bonotalianob.html ) e, a sua cura, A te mia Dolores ( http://www.odradek.it/Schedelibri/Bozovic.html ) di Saša Božovic'.



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Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - ONLUS
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(english / italiano.

français: Le juge Theodor Meron absout les chefs militaires de crimes contre l’humanité
 
english: Judge Theodor Meron absolves military leaders of crimes against humanity
 
deutsch: Richter Theodor Meron entbindet Militärführer der Verbrechen gegen die Menschlichkeit
 
español: El juez Theodor Meron absuelve a jefes militares acusados de crímenes contra la humanidad

Sullo stesso argomento: Il TPIJ dell'Aia assolve spie e servi della NATO (srpskohrvatski / francais / italiano)
Sul carattere illegittimo, servile e fazioso del "Tribunale ad hoc" si veda anche la documentazione raccolta al nostro sito: 

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Il giudice Theodor Meron assolve i capi militari per crimini contro l’umanità

RETE VOLTAIRE  | 26 GIUGNO 2013

In Ruanda, la Commissione nazionale per la lotta contro il genocidio, e in Slovenia, l’Istituto di Studi Internazionali per il Medio-Oriente e i Balcani (IFIMES), chiedono la rimozione del giudice Theodor Meron, presidente del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia e presidente della Corte d’appello del Tribunale penale internazionale per il Ruanda.
Sotto la sua guida, i tribunali internazionali hanno profondamente cambiato la loro giurisprudenza. Hanno smesso di condannare i capi militari per i crimini commessi dai loro subordinati e che non avevano punito.
I tribunali ora ritengono che l’autorità di vigilanza non può essere condannata che quando venga stabilita l’"intenzione diretta" nel commettere questi crimini. Per il dissenziente giudice danese, Frederik Harhoff, che ha inviato una e-mail ai colleghi il 6 giugno (vedi sotto), questo cambiamento è dovuto all’influenza delle forze armate statunitensi e israeliane preoccupate di dover rendere conto, un giorno, delle loro responsabilità.
Il giudice Theodor Meron, 83 anni, è stato successivamente polacco, israeliano e statunitense. È stato consigliere giuridico del governo israeliano e ambasciatore israeliano in Canada e alle Nazioni Unite. Ha acquisito la cittadinanza degli Stati Uniti diventando presidente dell’associazione giuridica internazionale.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

ICTY Judge FREDERIK HARHOFFs
EMAIL to 56 CONTACTS, JUNE 6, 2013
Dear friends,
Some of you may by now have read the two articles I sent round, and I thought it only proper to add a few personal comments to what you have read. The articles are good because they focus on measures that cause deep concern both for me and among colleagues here in the corridors of the court .
In brief : Right up until autumn 2012, it has been a more or less set practice at the court that military commanders were held responsible for war crimes that their subordinates committed during the war in the former Yugoslavia from 1992- 95, when the Daytona Agreement brought an end to the war in December 1995.
The responsibility then was either normal criminal responsibility as either (1) contributing to or (2) responsibility for the top officers with command responsibilities in a military system of command authority where these failed to prevent the crime or punish the subordinates.There is nothing new in this. We had also developed an extended criminal responsibility for people (ministers, politicians, military leaders, officers and others), who had supported an overall goal to eradicate ethnic groups from certain areas through criminal violence, and which in one way or a nother contributed to the achievement of such a goal ; it is this responsibility that goes by the name of "joint criminal enterprise".
But then the court’s Appeals Chamber suddenly back-tracked last autumn with the three Croatian generals and ministers in the Gotovina case. They were acquitted f or the Croatian army’s war crimes while driving out Serbian forces and the Serbian people from major areas in Croatia - the so-called Krajina area in August 1995 (home to generations of Serbians).
Shortly after , the Appeals Chamber struck ag ain with the acquittal of the Serbian Commander Chief of Staff, General Perisic, when the Chamber decided that even though his military and logistical support from Serbia in the Bosnian-Serbian forces in Bosnia had contributed to the forces’ crimes against Bosnian Muslims and the Bosnian Croatians in Bosnia, Perisic had “not intended ” for his forces to be used to commit crimes.He provided the support, but was unaware, according to the Appeals Chamber, that the support would be and was used to commit crimes in Bosnia.This despite the media’s daily coverage of the Bosnian-Serbian forces’ macabre crimes against Muslims (and to a less extent Croatians) in Bosnia.
It is however very hard to believe that Perisic didn’t know what the plan was in Bosnia, and what his support was actually used for.
And now follows the judgement last week that acquitted the head of the Serbian secret service, General Jovica Stanisic and his henchman Franko Simatovic, for their assistance in the Bosnian-Serbian forces ’ notorious crimes in Bosnia against the Bosnian Muslims and Croatians, and with the same reason used for Perisic , that those in question were "unaware" that their efforts would be used to commit crimes.
What can we learn from this ? You would think that the military establishment in leading states (such as USA and Israel) felt that the courts in practice were getting too close to the military commanders’ responsibilities. One hoped that the commanders would not be held responsible unless they had actively encouraged their subordinate forces to commit crimes. In other words : The court was heading too far in the direction of commanding officers being held responsible for every crime their subordinates committed. Thus their intention to commit crime had to be specifically proven.
But that is exactly what the commanders get paid for:They MUST ensure that in their area of responsibility no crimes are committed, and if they are they must do what they can to prosecute the guilty parties. And no one who supports the idea of ethnic eradication can deny the responsibility of, in one way or a nother, contributing to the achievement of such a goal .
However, this is no longer the case. Now apparently the commanders must have had a d irect intention to commit crimes – and not just knowledge or suspicion that the crimes were or would be committed. Well, that begs the question of how this military logic pressures the international criminal justice system ? Have any American or Israeli officials ever exerted pressure on the American presiding judge (the presiding judge for the court that is) to ensure a change of direction ?
We will probably never know. But reports of the same American presiding judge’s tenacious pressure on his colleagues in the Gotovina-Perisic case makes you think he was determined to achieve an acquittal - and especially that he was lucky enough to convince the elderly Turkish judge to change his mind at the last minute. Both judgements then became majority judgements 3-2.
And so what of the latest judgement in the Stanisic-Simatovic case ? Here it was not t he Appeals Chamber that passed the judgement, but a department in a premium authority with the Dutch judge Orie as presiding judge supported by the Zimbabwean judge , but with dissent from the female French judge...? Was Orie under pressure from the American presiding judge ? It appears so ! Rumour from the corridors has it that the presiding judge demanded that the judgement against the two defendants absolutely had to be delivered last Thurs day – without the three judges in the premium authority having had time to discuss t he defence properly – so that the presiding judge’s promise to the FN’s security service could be met. The French judge only had 4 days to write the dissent, which was not even discussed between the three judges in the department. A rush job. I would not have believed it of Orie.
The result is now that not only has the court taken a significant step back from the lesson that commanding military leaders have to take responsibility for their subordinates’ crimes (unless it can be proven that they knew nothing about it) – but a lso that the theory of responsibility under the specific “joint criminal enterprise" has now been reduced from contribution to crimes (in some way or another) to demanding a direct intention to commit crime (and so not just acceptance of the crimes being committed). Most of the cases will lead to commanding officers walking free from here on. So the American (and Israeli) military leaders can breathe a sigh of relief.
You may think this is just splitting hairs. But I am sitting here with a very uncomfortable feeling that the court has changed the direction of pressure from “the military establishments” in certain dominant countries.
In all the courts I have worked in here, I have always presumed that it was right to convict leaders for the crimes committed with their knowledge within a framework of a common goal. It all boils down to t he difference between knowing on the one hand that the crimes actually were committed or that they were going to be committed, and on the other hand planning to commit them .
That’s the bottom line !
How do we now explain to the 10 00s of victims that the court is no longer able to convict the participants of the joint criminal enterprise, unless the judges can justify that the participants in their common goal actively and with direct intent contributed to the crimes ? Until now, we have convicted these participants who in one way or another had showed that they agreed with the common goal (= to eradicate the non-Serbian population from areas the Serbians had deemed “clean” ) as well as, in one way or another, had contributed to achieving the common goal – without having to specifically prove that they had a direct intention to commit every single crime to achieve it. It is almost impossible to prove...
And I always thought that was right. I have delivered my judgements in trust that those at the top could see that the plan to “eradicatethe others” from “own” areas contradicted the basic order of life, a challenge of right or wrong, and not least in a world where internationalisation and globalisation rejects any notion of someone’s "natural right" to live incertain areas without the presence of others. Seventy years ago we called it Lebensraum.
However, apparently this is no longer the case. The latest judgements here have brought me before a deep professional and moral dilemma, not previously faced. The worst of it is the suspicion that some of my colleagues have been be hind a short-sighted political pressure that completely changes the premises of my work in my service to wisdom and the law.
Kind regards
Frederik