Informazione


Domenico Moro

CLUB BILDERBERG

Gli uomini che comandano il mondo

Gruppo Bilderberg e Commissione Trilaterale: organizzazioni specifiche di una nuova classe sociale, la classe capitalistica transnazionale.

Roma: Aliberti Editore, 2013
Pagine: 178 | € 14,00 | ISBN: 9788866260899

Vedi anche: 

Perché ha vinto il club Bilderberg



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Che cosa è il Bilderberg. Complottismo o analisi della classe dominante?



1. Una diffusa ma non molto strana passione per i complotti

Tra il 6 e il 9 giugno si tiene in Inghilterra il 61esimo degli incontri che annualmente, a partire dal 1954, vengono organizzati dal Gruppo Bilderberg. Su questa riunione si è manifestata da parte dell’opinione pubblica una attenzione maggiore del solito. Del resto, degli ultimi due presidenti del Consiglio dei ministri, Monti ne è stato a lungo un dirigente, mentre Enrico Letta vi è stato invitato nel 2012. Entrambi, poi, hanno fatto parte della organizzazione sorella più giovane, la Trilaterale, come anche Marta Dassù, un tempo lontano intellettuale di area Pci e più di recente sottosegretario con Monti e viceministro con Letta agli esteri, a capo del quale c’è la Bonino, inviata al Bilderberg nel passato. Quest’anno la presenza italiana non sarà numerosa ma di livello: Monti, Bernabé di Telecom, Nagel di Mediobanca, dal dopoguerra sempre al centro del sistema di potere del capitalismo italiano, Cucchiani di Intesa, prima banca italiana, Rocca di Techint e la giornalista Gruber.


A suscitare la curiosità del pubblico sul Bilderberg contribuiscono l’alone di mistero che lo circonda, dovuto alla segretezza sui contenuti dei dibattiti, e la presenza del gotha economico e politico di Usa ed Europa Occidentale. La ragione principale, però, è riconducibile alla sempre più diffusa percezione di impotenza da parte del “cittadino comune” nei confronti di una economia e di una politica che sfuggono persino alla sua comprensione. La maggiore crisi economica dalla fine della Seconda guerra mondiale, il potere astratto dei mercati finanziari, la stessa vicenda dei debiti pubblici e dell’euro, con le conseguenze devastanti sulle condizioni di vita di centinaia di milioni di lavoratori, favoriscono la sensazione dell’esistenza di forze oscure e incontrollabili. Una testimonianza di questo stato psicologico di massa può essere individuata nella fortuna di romanzi alla Dan Brown e di innumerevoli saggi su massoneria, sette segrete, tra cui gli Illuminati (che vengono collegati al Bilderberg), e chi più ne ha più ne metta. In un clima siffatto ed in assenza di un pensiero critico strutturato e diffuso, è facile attribuire le cause di quanto avviene all’esistenza di complotti e di gruppi che, come una specie di grande “cupola”, reggono un <<nuovo ordine mondiale>>.

Il problema è che questo tipo di approccio limita la comprensione della natura e del ruolo di organizzazioni come il Bilderberg e la Trilaterale. E, in definitiva, anche la consapevolezza della loro pericolosità, perché è facile derubricare le critiche a colore giornalistico o a fantasie di qualche inguaribile complottista. Già negli anni ’50 il sociologo Wright Mills, studiando l’élite statunitense, avvertiva che la storia americana non può essere ridotta a una serie di cospirazioni, sebbene ciò non voglia dire che le cospirazioni non esistano. Del resto, aggiungiamo noi, si possono ordire tutti i complotti che si desiderano, ma, se non c’è una base oggettiva e materiale su cui agire, è difficile che si possa avere successo. Ad ogni modo, per dirla con Wright Mills, bisogna capire che il potere delle élite si fonda su fattori impersonali. Tali fattori sono costituiti dal modo di produzione capitalistico e dalla relazione tra struttura economica e sovrastruttura politico-statale della società. Lo scadimento nel complottismo è favorito anche dall’abbandono nella teoria sociologica e economica dello studio delle classi sociali e, in particolare, della classe dominante. Come ho cercato di chiarire nel mio libro, Il Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo, lo studio di questo gruppo e della Trilaterale va collocato all’interno dell’analisi della classe dominante capitalistica e delle forme organizzative che le sono proprie. E, dal momento che ogni classe e le sue forme organizzative riflettono, pur in modo non meccanicistico, i mutamenti della struttura economica, rientra nell’analisi del capitalismo contemporaneo.

2. Una nuova forma transnazionale di capitale e di capitalisti

Dunque, che cosa è il Bilderberg? Il Bilderberg è una delle organizzazioni, tra le più importanti, della classe capitalistica transnazionale. Con la mondializzazione degli anni ‘90, il capitale ha completato il raggiungimento della sua fase transnazionale. Quello transnazionale è il livello apicale del capitale nel suo stadio di evoluzione superiore e maggiormente puro, visto che la caratteristica specifica del capitale è la estrema mobilità settoriale e territoriale, in cui sia l’attività di investimento sia la sua stessa composizione proprietaria sono multinazionali. Ad esempio, nelle prime 30 imprese tedesche solo il 37% del capitale è in mano a tedeschi. Caratteristica principale di questa classe è l’estrema interconnessione, non solo tra banche e imprese, come Hilferding con Il capitale finanziario aveva già rilevato cento anni fa, ma anche tra settori economici diversi, e soprattutto tra capitali di diversa provenienza nazionale. Gli stessi consigli d’amministrazione sono interconnessi, grazie alla presenza dei cosiddetti interlocker, top manager e azionisti che siedono contemporaneamente in diversi consigli d’amministrazione. Questi soggetti sono come i nodi di una rete; non a caso alcuni studiosi definiscono il Bilderberg come un network. Del resto, come ha ricordato Gramsci, la forma organizzativa tipica del capitale non è certo quella del partito organizzato (anche se ha la necessità di egemonizzare i partiti di massa per imporsi), ma quella del gruppo informale. Dunque, se il capitale è strutturalmente interconnesso su base transazionale, anche i suoi agenti, i capitalisti, lo sono. Di conseguenza, anche la loro organizzazione tipica non può che essere internazionale. Il Bilderberg, la Trilaterale, l’Aspen Institute rappresentano la concretizzazione di questo tipo ideale. In particolare, il Bilderberg è l’organizzazione di una parte di un settore specifico di questa borghesia, quello atlantico, che fa riferimento alla Nato. Non è un caso: gli Usa e l’Europa occidentale sono due aree fortemente interconnesse tra loro ed egemoni. I giapponesi e gli orientali sono stati tenuti fuori dal Bilderberg. Per coinvolgerli, senza annacquare il carattere atlantico del Bilderberg, negli anni ’70 fu creata la Trilaterale, che spesso comprende le stesse personalità europee, statunitensi e canadesi del Bilderberg alle quali, oltre a quelle giapponesi, ogni anno si aggiungono quelle di nuovi Paesi asiatici. Naturalmente l’integrazione sovrannazionale non deve essere confusa con l’esistenza di una sorta di supercapitalismo o di Impero alla Negri privo di contraddizioni. Il capitale non sarebbe tale se non fosse molteplice e ineguale nel suo sviluppo e, quindi, se non ci fosse una concorrenza tra capitali. La fase transnazionale non è neanche la fase della fine degli stati-nazione, per lo meno di quelli più forti e imperialisti. È la fase dell’aumento della concorrenza tra capitali, tra aree valutarie e tra Stati. Così come è la fase della accentuazione della lotta di classe, quella del capitale contro il lavoro salariato.

3. Che cosa è quale e qual è la funzione del Bilderberg: la nuova oligarchia

Qual è, allora, la funzione del Bilderberg? Ad aiutarci a rispondere è la composizione del suo comitato direttivo e, meglio ancora, la composizione degli invitati ai suoi meeting. Nel comitato direttivo prevalgono esponenti della finanza e dell’industria, in quanto lo statuto prevede che politici in carica non possano farvi parte. Diversa è la situazione nei meeting annuali. Quest’anno i 138 partecipanti ufficiali, possono essere divisi in tre categorie principali. La prima è quella che fa riferimento agli agenti diretti del capitale, cui appartengono ben 65 personalità, di cui 28 afferenti a società finanziarie (banche, assicurazioni, società d’investimento), 29 a oligopoli e monopoli industriali (energia, estrazioni minerarie, metalmeccanica, chimica-farmaceutica, informatica, ecc.), e 8 a grandi network editoriali della Tv e della carta stampata. La seconda è quella della politica e delle istituzioni statali o interstatali con 38 persone. Si tratta di personaggi di primissimo piano, tra cui primi ministri, ministri dell’economia e degli esteri, membri della Commissione europea, tra i quali il presidente Barroso e Viviane Reding, vice presidente e commissario europeo alla giustizia, e di organismi sovrannazionali, come Christine Lagarde dell’Fmi. Infine, abbiamo 28 persone che appartengono a think tank (10), università (12), centri di ricerca e società di consulenza globali. Quasi tutti questi istituti sono legati a grandi corporation, parecchi sono statunitensi ed appartengono all’area neoconservatrice. Si tratta, per dirla alla Gramsci, del “meglio” dell’intellettualità organica al capitalismo internazionale.

La funzione del Bilderberg è, quindi, quella di riunire alcuni tra gli esponenti di punta del capitale mondiale con i principali decision maker politici. La presenza di queste due categorie contemporaneamente legittima l’idea che le riunioni siano l’occasione di definire linee guida generali da implementare con decisioni politiche a livello nazionale e sovrannazionale. A quali principi si ispirino queste linee guida è facile intuirlo, conoscendo l’orientamento dei think tank e dei personaggi che intervengono. Possiamo poi fare riferimento a quei pochi materiali fatti uscire dalla Trilaterale come “Crisi della democrazia” di Crozier e Huntington, che, criticando l’eccesso di democrazia degli anni ‘70, prefigurava quanto abbiamo visto realizzarsi in Italia e in Europa negli ultimi venti anni. I principi di fondo sono quelli che sono diventati egemoni negli ultimi 30 anni a partire dal il tatcherismo e dalla reaganomics: mercato autoregolato, autonomia delle banche centrali, riduzione del welfare, privatizzazioni, deregolamentazione del settore bancario, dei mercati finanziari e del mercato del lavoro e soprattutto “governabilità”, eretta a principio assoluto del funzionamento della “democrazia”.

4. Perché la classe transnazionale vince

Il Bilderberg è molto più connesso alla trasformazione in senso oligarchico delle istituzioni democratiche e rappresentative occidentali che a congiure e complotti. È abbastanza ridicolo pensare che una organizzazione di questo tipo si metta ad organizzare cospirazioni o complotti contro questo o quello. A meno che l’implementazione delle politiche di cui abbiamo parlato non la si voglia definire un complotto. In questo modo, però, perderemmo uno degli aspetti più importanti, cioè l’individuazione del perché e dei meccanismi attraverso cui l’élite transnazionale riesce a vincere. Riesce a vincere, soprattutto, grazie al fatto che è espressione dei rapporti di produzione capitalistici allo stadio transnazionale. Ciò vuol dire che vince perché è interconnessa ed integrata, molto di più di quanto i suoi avversari, il movimento operaio e i movimenti antimperialisti, riescano ad essere. E perché è capace di mettere in atto quello che Gramsci definiva esercizio dell’egemonia. Non è un caso che accanto ai produttori di ideologie neoconservatrici, come i think tank, partecipi agli incontri del Bilderberg anche una nutrita pattuglia di imprenditori e operatori dell’industria della diffusione delle idee e delle opinioni. La forza e la pervasività di questa capacità egemonica è dovuta, infine, soprattutto alla integrazione tra agenti diretti del capitale e politici appartenenti sia al centro-sinistra che al centro-destra, compresa la sinistra verde e la socialdemocrazia europea. Quest’anno tra i partecipanti spicca Stefan Löfven, neosegretario del partito socialdemocratico svedese e ex leader del sindacato dei metalmeccanici, invitato, come da prassi, dal membro svedese del comitato direttivo, Jacob Wallenberg, l’Agnelli svedese. Il vero problema non è la corruzione di basso livello dei politici o il finanziamento pubblico ai partiti, come pretendono i fustigatori della “casta”. La vera corruzione del sistema politico e dei partiti tradizionali risiede nell’integrazione dei vertici politici all’interno della borghesia transnazionale. Infatti, spesso non è possibile distinguere con nettezza tra agenti politici, intellettuali ed economici del capitale transnazionale. Gli stessi individui, come nel sistema Usa della “porte girevoli”, passano con disinvoltura dai consigli d’amministrazione ai governi nazionali alle organizzazioni sovrannazionali ai centri ideologici e viceversa, come nel caso di Mario Monti e Mario Draghi.

Concludendo, non è possibile capire il Bilderberg e le altre sue organizzazioni sorelle se non recuperiamo e non attualizziamo la categoria di modo di produzione e la relazione struttura-sovrastruttura. Non si tratta di una esigenza solamente scientifica, ma soprattutto politica, senza la quale non può essere fondato alcun durevole processo di ripresa democratica. In sintesi, possiamo definire il Bilderberg come l’organizzazione della nuova classe borghese transnazionale, nella forma del network. Una organizzazione funzionale allo scopo sia di essere camera di compensazione delle contraddizioni intercapitalistiche, interstatali e tra Europa e Usa sia soprattutto di esercitare l’egemonia sul resto della società attraverso l’elaborazione, la condivisione ideologica tra i vari settori di questa borghesia e l’implementazione nei sistemi politici di linee guida generali. Il risultato di questo attivismo non è però alcun “nuovo ordine mondiale”, bensì il caos, come possiamo osservare nelle cronache di ogni giorno. Il dato più importante su cui riflettere, alla fine, è che il capitale transnazionale produce destabilizzazione e divaricazione delle contraddizioni a tutti i livelli.









RISIERA E FOIBE: UN ACCOSTAMENTO ABERRANTE (articolo di Giovanni Miccoli del 1976)


In altra parte di questo sito abbiamo citato un intervento del professor Giovanni Miccoli, uscito sul Bollettino dell’Istituto Regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, n. 1/aprile 1976. Stante la sua chiarezza ed attualità, lo ripubblichiamo in questa sede.


RISIERA E FOIBE: UN ACCOSTAMENTO ABERRANTE.


Il processo sui crimini della Risiera ed il dibattito e le iniziative svoltisi intorno ad esso si configurano già, ancor prima della sua conclusione, come un fatto di grande rilievo nella vita della città. Nonostante i gravissimi limiti dell’istruttoria e del rinvio a giudizio, è emersa con prepotenza dalle testimonianze e dai problemi posti via via in margine alle udienze la realtà profonda di quella mentalità e di quella pratica di “antislavismo” e di “anticomunismo” che costituiscono un presupposto fondamentale per capire il fascismo di queste terre e le motivazioni reali del collaborazionismo filonazista maturatosi durante il periodo dell’Adriatisches Küstenland” e quindi per capire anche il perché della Risiera a Trieste, campo di concentramento e di smistamento verso i Lager tedeschi ma anche e soprattutto campo di sterminio strettamente collegato alla lotta e alla repressione antipartigiana.

Sono fatti emersi con grande chiarezza e che rinviano a precise responsabilità politiche, chiamando sul banco degli imputati atteggiamenti, mentalità, azioni, modi di essere che operarono allora, e largamente continuarono ad operare nella nostra regione anche negli anni del dopoguerra. Il fatto stesso che un tale processo si sia celebrato con tre decenni di ritardo, che omertà, silenzi, colpevoli mancanze di iniziativa delle autorità e delle forze politiche maggioritarie abbiano a lungo cercato di cancellare o far dimenticare le tracce della Risiera, attesta esemplarmente quanto l’eredità del passato e il contesto generale grazie al quale la Risiera era potuta nascere abbiano continuato a pesare nelle vicende e negli atteggiamenti della società locale, e negli scontri, nelle lotte, nelle tensioni e contrapposizioni che l’hanno caratterizzata.

Esplicitare tutto questo è necessario, per superare veramente quel passato, per porre basi solide e di massa – nella cultura, nei valori, nella consapevolezza degli uomini e delle donne di queste terre – alle prospettive di un futuro diverso, diversamente costruito ed orientato. Anche per questo, mi pare, bisogna fare di più di quello che si è fatto finora per allargare il dibattito e l’informazione, per portarlo nelle scuole e nei quartieri, seriamente, come un problema che investe e riguarda ancora, da qesto punto di vista, le responsablità di tutti, come un problema che allora ha coinvolto, per consenso, per colpevole silenzio, per supina accettazione, per distorta concezione e pratica di valori e miti più o meno autentici, le responsabilità di tutti. Non si tratta di fare del moralismo astratto e di proporre perciò un discorso del tipo “tutti peccatori”, che nella sua indifferenziata genericità annullerebbe le sempre necessarie distinzioni di responsabilità, di iniziativa, di azioni. Ma di affermare e sottolineare con la forza dei fatti e delle vicende reali che, come il fascismo in queste terre non fu episodio di pochi, ma trovò consensi, appoggi, alleanze in un terreno profondamente disposto ad accoglierlo, così il nazismo – e l’antislavismo, l’anticomunismo, lo stesso antisemitismo che alla esperienza fascista strettamente si riallacciano – poterono operare qui e tradursi negli stermini della Risiera perché larghi strati della nostra società erano già stati orientati ed individuare in certe direzioni l’alleato ed in altre il nemico da combattere.

Ma proprio per questo anche un altro discorso va fatto, con estrema precisione e chiarezza, riguardo al sistematico accostamento tra la Risiera e le foibe, portato avanti con numerosi interventi dal “Piccolo” e dai gruppi della destra locale. Ed è un discorso di netto e radicale rifiuto di tale accostamento, perché Risiera e foibe sono due fatti sostanzialmente e qualitativamente diversi, e perciò assolutamente incomparabili fra loro. La premessa di un tale giudizio non sta nel distinguere le responsabilità di chi è morto – come pure si deve e si dovrà, in un’analisi complessiva di quelle vicende – ma nell’individuare e quindi nel distinguere gli ambienti e le ideologie e le circostanze grazie ai quali quei determinati fatti hanno potuto prodursi. La Risiera è il frutto razionale e scientificamente impostato dall’ideologia nazista, che come ha prodotto Belsec e Treblinka, e Auschwitz e Mauthausen, e Sobibor e Dachau, così ha prodotto la Risiera, e l’ha prodotta qui, ha potuto produrla qui perché, per i fini ai quali doveva rispondere, ha trovato compiacenti servizi in ambienti largamente predisposti dal fascismo. Le foibe (quando non si tratti, come spesso si è trattato, di un modo di “seppellire” dei morti altrui: vi ricorsero i partigiani, vi ricorsero tedeschi e fascisti: e anche questa è una pagina in gran parte ancora da indagare, per evitare facili e troppo frequenti generalizzazioni e amplificazioni) sono la risposta che può essere sbagliata, irrazionale e crudele, ma pure sempre risposta alla persecuzione e alla repressione violenta e sistematica cui per più di vent’anni lo Stato italiano (il fascismo, si dirà, ma il fascismo aveva il volto dello Stato italiano) aveva sottoposto le popolazioni slovene e croate di queste zone. È assurdo parlare, riferendosi ad esse, di genocidio o di programmazione sistematica di streminio, ma sì di scoppio improvviso di odii e rancori collettivi a lungo repressi.

Le foibe istriane del settembre 1943, connesse allo sfasciarsi di ogni struttura politica e militare dello Stato italiano (varie centinaia gli infoibati secondo un rapporto abbastanza preciso proveniente dai Vigili del fuoco di Pola), corrispondono ad una vera e propria sollevazione contadina, improvvisa e violenta come tutte le sollevazioni contadine: colpisce i “padroni” – classe contro classe – perché padroni, padroni che sono anche italiani, italiani che per essere tali sono “padroni”, gli oppressori storici di sempre. Le foibe dell’aprile-maggio 1945, dove finirono quanti vennero presi e giustiziati sommariamente in quella furia di vendetta che sempre accompagna i trapassi violenti di potere, si inquadrano ancora, almeno in parte, in questo contesto: non vi furono giustiziati solo fascisti e nazisti per i crimini che avevano commesso e per l’odio che avevano suscitato (i calcoli del sindaco G. Bartoli, che sembrano peccare eventualmente per eccesso, elencano quattromila scomparsi, ma tra costoro sono compresi anche i caduti nelle azioni belliche locali tra il ‘43 e il ‘45); vi furono certamente coinvolte anche persone che con il fascismo poco o nulla avevano a che fare: è ragionevole pensare che furono coinvolte perché si trattava di italiani. Ma anche qui non si può dimenticare che un tale odio e una tale reazione trovano la loro ragione di fondo e la loro motivazione oggettiva in ciò che fu il fascismo di queste terre, nelle violenze squadristiche, nelle vessazioni, nei villaggi sloveni e croati incendiati, in quell’odio antislavo insomma che è componente anche degli stermini della Risiera e che fu truce prerogativa del fascismo e del collaborazionismo nostrano. Non si possono insomma confondere, né moralmente né storicamente, oppressori ed oppressi, nemmeno quando questi prendono il sopravvento e si vendicano talvolta anche selvaggiamente. E se un collegamento tra i due momenti si vuole stabilire esso sta semmai nella perversione dei rapporti, nell’imbestialimento dei costumi, nello stravolgimento dei valori, prodotto dal fascismo e dal nazismo, che non lasciarono indenni, non potevano lasciare indenni, nemmeno coloro che essi opprimevano (così come, ben più in generale, si può affermare che è una ben stolta illusione pensare che l’Italia fascista non sia riuscita anche a intaccare, coinvolgere, in qualche modo corrompere quell’Italia che pur fascista non era né voleva diventarlo: non si parla, sia chiaro, dei singoli, ma del costume, dei raporti sociali, dell’insieme della collettività.

Solo avendo ben chiare queste premesse si può parlare delle foibe: e se ne parli e se ne discuta, finalmente, e si indaghi con serietà sulla realtà dei fatti e delle circostanze, anche per mettere fine alle sporche strumentalizzazioni di chi di quegli odii, da cui anche le foibe sono nate, è primo responsabile: per inquadrarle anch’esse, così come vanno inquadrate, tra gli esiti del fascismo ed il conseguente scatenarsi degli odii nazionali. Ma è aberrante e grave l’ipotesi di un processo oggi (auspicato più volte sul “Piccolo” e annunciato come certo in un recente numero del “Meridiano”) dopo tutti i processi degli anni cinquanta (comodamente dimenticati da chi si fa promotore di una tale iniziativa: è la Risiera che non aveva mai avuto un processo, non le foibe, che di processi ne hanno avuti decine, e spesso forzati e immediatamente strumentali alle lotte e alle manovre politiche di allora), che si vorrebbe affiancare al processo della Risiera: perché è un processo che nascerebbe appunto, di fatto e nelle volontà dei suoi promotori, come contraltare dell’altro, in un accostamento storicamente e moralmente infondato se non, ancora una volta, da un punto di vista nazionalista e fascista: un processo non ad un’ideologia e a un sistema, e quindi occasione di crescita e di consapevolezza civile, ma un processo ad una reazione irrazionale e violenta che trovava rispondenza in tensioni e lacerazioni di interi gruppi sociali, e perciò inevitabilmente aperto, per gli equivoci gravi da cui nascerebbe, alla strumentalizzazione fascista e nazionalista. È una prospettiva questa, cogliamo crederlo, che nessuna delle forze democratiche vorrà permettere, a rischio di produure ancora una volta quelle spaccature, quelle lacerazioni e quelle contrapposizioni grazie alle quali in queste terre il neofascismo ha potuto rirprendere a prosperare anche nel dopoguerra.


One Response to RISIERA E FOIBE: UN ACCOSTAMENTO ABERRANTE (articolo di Giovanni Miccoli del 1976)


diecifebbraio4 says:

Questo accostamento aberrante dal 1976 ad oggi è diventato purtroppo luogo comune, “normalità” del discorso pubblico, e si è addirittura allargato, aggravandosi, laddove non è più solo la Risiera ad essere equiparata per gravità alle “foibe”, ma la stessa Auschwitz ed in generale tutto l’universo criminale nazifascista, incluso lo sterminio ebraico!

Si pensi ad iniziative aberranti come quella della Regione Abruzzo, che ha istituito un premio intitolato “Commemorazione della Shoah e delle Foibe – Ricordare perché non accada di nuovo”, come se Shoah e “foibe” fossero fenomeni minimamente comparabili non solo per proporzioni e gravità, ma anche dal punto di vista ideologico, motivazionale o intenzionale.

L’iniziativa della Regione Abruzzo è non a caso rivolta alle scuole, perché è alle giovani generazioni che mirano: distorcere il senso storico, confondere le prospettive dello sguardo al passato come di quello al futuro, per prepararsi strategicamente a ripetere e far ripetere gli errori ed i crimini del passato.

Scrisse acutamente Albert Camus: “Chi non chiama le cose con il proprio nome, semina disgrazie tra la gente”.




Le Monde et les conflits yougoslaves

1) Le journal Le Monde : une référence de la désinformation 
(Interview exclusive avec Fabrice Garniron, auteur du livre "Quand Le Monde... décryptage des conflits yougoslaves")
2) « Le Monde » et les conflits yougoslaves : entre manipulation, mensonges et désinformation 
(Extraits du livre de Fabrice Garniron)


Fabrice Garniron

Quand Le Monde... décryptage des conflits yougoslaves

Editions Elya, 2013, ISBN-13 : 979-1091336024


=== 1 ===

http://www.michelcollon.info/Le-journal-Le-Monde-une-reference.html?lang=fr

Le journal Le Monde : une référence de la désinformation

Fabrice Garniron

5 juin 2013


Fabrice Garniron est l'auteur d'un livre qui vient de sortir où il étudie minutieusement les mensonges du quotidien de l'intelligentsia parisienne lors de la guerre dans les Balkans. Il a accordé à B. I. une interview exclusive.



B. I. : Qu'est-ce qui vous à poussé à vous intéresser au conflit dans l'ex-Yougoslavie ?


Fabrice Garniron : Je n’avais aucun lien avec la Yougoslavie avant le déclenchement des guerres au début des années 90.

 

Je crois qu’au départ mon intérêt s’explique par une culture familiale fortement imprégnée d’antifascisme, Je ne pouvais par conséquent rester indifférent lorsque les médias occidentaux ont présenté les guerres en Yougoslavie comme le retour de la barbarie nazie par Serbes interposés.

 

Mais rapidement cette campagne m’est apparue comme fallacieuse, la référence au nazisme n’étant qu’un outil au service du bourrage de crâne. Le mois d’août 1992 a été décisif : au moment même où la seule photo d’un homme squelettique suffisait aux médias occidentaux pour faire campagne sur “Auschwitz en Bosnie”, le journal britannique The Independant, se basant sur des rapports de l’ONU, affirmait que les autorités musulmanes tiraient sur leur propre population pour mieux incriminer les Serbes. La suite n’a fait que confirmer que nous n’étions pas face à un retour du nazisme, mais à une formidable campagne de nazification en vue de diaboliser une des parties en conflit.

 

Ma méfiance en 1992 a été alimentée par plusieurs évènements où, des années 60 aux années 80, les médias occidentaux ont montré leur efficacité et leur absence de scrupules dans le formatage de l’opinion.

 

Q. : Pourquoi vous êtes-vous concentré sur Le Monde ?

 

R. : Le choix du quotidien Le Monde n’est pas du au fait que ce dernier aurait adopté une ligne originale par rapport aux autres médias. Au contraire, il s’en distingue fort peu. Ce qui m’a paru intéressant dans ce quotidien, ce n’était pas l’originalité de sa ligne mais son statut, sa réputation et sa position. Ce journal, considéré comme le “quotidien de référence”, est en France au cœur de l’information. Il influence les médias audiovisuels en même temps qu’il est le journal de ce qu’il est convenu d’appeler “l’élite” politique, économique et intellectuelle. Son rayonnement est tel que, selon moi, le critiquer sur la question yougoslave revenait à s’attaquer à la crédibilité globale des médias français sur cette question. Ajoutons que de tous les quotidiens c’est celui qui, et de loin, a offert sur la question yougoslave le plus de matière : nombre d’articles considérable, suppléments spéciaux, chronologies, rétrospectives et nombreuses contributions extérieures au journal.

 

Q. : Votre livre se compose de chapitres traitant de sujets différents. Dans chaque cas, vous présentez le texte du Monde qu’ensuite vous réfutez. Pouvez-vous nous parler de ces sujets et nous dire en quoi le journal a faussement présenté les faits ?

 

R. : Il y a d’abord ce que j’ai évoqué plus haut : la nazification des Serbes. C’est un amalgame qui a cours au Monde depuis le début des années 90. Y compris en une, ou dans ses éditoriaux. C’est le cas en août 1992 par exemple, lors de la campagne sur “les camps de la mort en Bosnie”, ou en 1995, lors des accords de Dayton, où il est fait allusion à une nouvelle Shoah en Bosnie. Les exemples sont trop nombreux pour être cités ici. Ajoutons que la désinformation à laquelle s’associe Le Monde sur Srebrenica participe de cette tentative d’attribuer au nationalisme serbe un projet génocidaire de type nazi. Les nombreux faits démentant cette assimilation fallacieuse ne sont jamais mentionnés par Le Monde.

 

Le deuxième mensonge a consisté, dès 1992, à occulter l’existence d’un nationalisme musulman bosniaque en faisant passer les dirigeants musulmans pour les dépositaires d’un pseudo projet “multiethnique”. Miracle de la propagande : alors que les autorités musulmanes campent dès 1992 sur des positions bellicistes en refusant tout partage territorial avec les Serbes et se retrouvent rapidement en guerre contre leurs anciens alliés croates, le quotidien fait passer la politique de Sarajevo pour une politique de paix ayant pour but de créer un Etat commun aux Musulmans, Serbes et Croates. C’est ainsi que Le Monde diabolisera comme fascistes et racistes les aspirations à l’autodétermination des Serbes de Bosnie, quelques mois après avoir soutenu l’éclatement de la Yougoslavie au nom du droit des peuples à disposer d’eux-mêmes...

 

Cette ligne éditoriale conduit le quotidien à dissimuler des faits essentiels. Que ce soit l’itinéraire proallemand du président bosniaque Izetbegovic pendant la Seconde guerre mondiale, son voyage en Iran pour faire allégeance à l’ayatollah Khomeiny en 1983 et sa fameuse “Déclaration islamique”, rééditée en 1990. Une Déclaration que le quotidien ne citera jamais, même pas dans la biographie qu’il fera d’Izetbegovic lors de sa mort en octobre 2003.

 

Pour mieux angéliser les Musulmans et présenter les Serbes comme les seuls fauteurs de guerre, Le Monde taira également la responsabilité des autorités musulmanes dans le déclenchement de la guerre de Bosnie : pas la moindre trace dans Le Monde du fait qu’Izetbe-govic ait retiré sa signature du plan Cutileiro en mars 1992. Quant à la politique des autorités musulmanes consistant à organiser le massacre de leurs propres citoyens pour en accuser les Serbes, elle est devenue un sujet tabou malgré la somme de témoignages de personnalités occidentales presque toujours hostiles aux Serbes.

 

Le troisième mensonge a été de présenter systématiquement les Serbes comme les responsables de l’éclatement de la Yougoslavie. A lire Le Monde, il n’y avait en Yougoslavie qu’un seul nationalisme, cause de tous les maux de la Fédération : le nationalisme serbe. Ce serait lui qui aurait suscité, à la fin des années 80, la réaction prétendument légitime des autres nationalismes.

 

Pour Le Monde, tout commence à Kosovo Polje le 24 avril 1987 lorsque Slobodan Milosevic dit aux Serbes : “Personne n’a le droit de vous battre”. Le journal cherche à faire croire que cette phrase aurait été une pure provocation prononcée dans un ciel serein, comme si à ce moment-là la situation entre Serbes et Albanais du Kosovo était caractérisée par on ne sait quelle “concorde multiethnique”. Or, je le rappelle dans mon livre, entre 1968 et 1989, les non Albanais, en particulier les Serbes et les Monténégrins, étaient au Kosovo l’objet de persécutions les obligeant à quitter la province.

 

Pour Le Monde, il s’agit de présenter à l’opinion une version expurgée d’où a disparu toute trace de nationalisme non serbe, qu’il soit albanais, croate ou slovène, pour mieux incriminer les Serbes en général et Milosevic en particulier.

 

Concluons par le quatrième mensonge, intimement lié au troisième : la désignation des Serbes comme seuls coupables sert à mieux dissimuler le rôle destructeur de l’Allemagne dans la disparition de la Yougoslavie. Ce fait – Union européenne oblige – est l’autre grand tabou des récits pseudo historiques du Monde et des médias occidentaux en général.

 

Q. : Sur de nombreuses questions, la position prise par Le Monde n'a pas été cohérente. Le “nationalisme serbe” n'a pas été considéré comme une menace, et puis il l’est devenu. Milosevic a été loué pendant un certain temps comme un réformateur, et puis il est devenu l'incarnation du mal. Quel est à votre avis l'explication de ces changements d'attitude ?

 

R. : Effectivement, lors du travail préparatoire à mon livre, j’ai été surpris de voir à quel pointLe Monde, à la fin des années 80, soutenait Slobodan Milosevic. Il en faisait même l’éloge, le considérant en juillet 1989 comme “la plus forte personnalité apparue sur la scène yougoslave depuis la mort de Tito”. En cela il était représentatif de la presse occidentale de l’époque. Le Monde approuvait la volonté de Slobodan Milosevic de rééquilibrer la position de la Serbie au sein de la Yougoslavie et soutenait les réformes constitutionnelles visant à limiter, sans la supprimer, l’autonomie de la Voïvodine et du Kosovo. On ne peut qu’être surpris de cette position quand on voit plus tard cette même presse diaboliser les réformes en question comme une abominable et arbitraire suppression de l’autonomie...

 

Pourquoi alors ce soutien occidental ? A ce moment-là, les Occidentaux continuent de souhaiter le maintien de la Yougoslavie, unité à laquelle les Serbes sont les plus attachés. Ce qui nécessite de tenir compte des intérêts nationaux serbes. Tout change en 1989 avec les bouleversements que sont la chute du Mur et la réunification allemande. Cette réunification a dopé la volonté de puissance de l’Allemagne, mettant celle-ci en situation d’obliger ses partenaires européens à entériner la destruction de la Yougoslavie, vieux rêve allemand depuis la défaite de 1918.

 

La reconnaissance de la Slovénie et de la Croatie en décembre 1991 a été d’une efficacité redoutable : elle privait la Fédération de ses républiques les plus riches et entraînait la guerre de Bosnie en incitant les nationalistes musulmans et croates à proclamer eux-mêmes l’indépendance. C’est ainsi que l’Allemagne de 1991 a réussi à mettre fin à une entité qui était un des symboles de sa défaite à la fin de la Première guerre mondiale.

 

Les Serbes étaient les principaux obstacles à cette politique de destruction de la Yougoslavie : ils ne pouvaient accepter d’être séparés de la Serbie dans diverses entités hostiles, la Bosnie d’Izetbegovic ou la Croatie de Tudjman. D’autant moins qu’au même moment, les Slovènes, les Croates et les Musulmans accédaient à l’autodétermination.

 

Quant au discours médiatique occidental, il a fait ce que les discours médiatiques font en général quand des intérêts sont en jeu, à plus forte raison en période de guerre : il a rendu l’ennemi haïssable.

 

Q. : Vous êtes particulièrement critique du Monde pour son attitude lors de la guerre en Bosnie et son explication des rapports entre communautés. Pourquoi ?

 

R. : Comme je l’ai dit précédemment, la tromperie principale a été de faire croire que les Musulmans bosniaques avaient un projet “multiethnique”, autrement dit un projet pour les Bosniaques de toutes origines. Un mensonge qui permettait d’obtenir le soutien de l’opinion occidentale. Tout a été fait pour occulter que les autorités musulmanes avaient en tête les seuls intérêts de leur communauté religieuse. Si ces mêmes autorités ont finalement bien mal défendu les intérêts des Musulmans, ce fut pour des raisons qui ne tenaient nullement à la volonté de s’entendre avec les Serbes, mais au contraire à leur extrémisme.

 

J’essaie de montrer dans mon livre que si cette l’imposture du pseudo “multiethnisme” des autorités musulmanes a eu un tel succès dans l’opinion, c’est en raison d’une illusion ethnocentrique plus ou moins savamment entretenue par nos médias : la Bosnie a été prise pour la France. Mieux : les Serbes ont été explicitement identifiés au Front national et les Musulmans bosniaques aux travailleurs immigrés d’origine maghrébine ou africaine ! Un contresens d’autant plus aberrant que la Bosnie est historiquement et constitutionnellement le pays de trois communautés nationales alors que la France est celui d’un seul peuple.

 

Q. : Quelle est votre analyse de la possibilité d’Etats multiethniques et multiculturels en Europe d’après ce que vous avez vu en Bosnie ?

 

R. : Il me serait difficile de tirer des conclusions précises pour le reste de l’Europe de ce qui s’est passé en Bosnie. Surtout que ce qui s’y est passé est parfois paradoxal : la victoire au sein du camp musulman du fondamentaliste Izetbegovic ne doit pas faire oublier la popularité d’un musulman laïc comme Fikret Abdic et le fait qu’il a affronté le président de Sarajevo.

 

Il reste que la tendance à angéliser les Musulmans de Bosnie se retrouve aujourd’hui chez ceux qui œuvrent pour des sociétés européennes soi-disant “multiculturelles”, à savoir, pour l’essentiel, des sociétés à forte présence musulmane, quelle soit démographique ou culturelle. En fait, ce qui s’organise concrètement c’est une juxtaposition de communautés et non pas leur symbiose à l’intérieur des nations européennes. Je vois là une source de conflits futurs : le risque est grand de voir émerger une identité euro-musulmane qui se transforme en une identité politique.

 

Au lieu de diaboliser ou d’angéliser l’islam, au lieu de porter des jugements de valeurs stériles, mieux vaudrait re-connaître l’évidence : la conception du monde musulman est profondément différente de l’occidentale, qu’il s’agisse de morale sexuelle, du statut de la femme, des relations entre politique et religion. Supposer que cette identité forte qu’est l’islam va tout naturellement s’intégrer dans les sociétés européennes est une illusion lourde de dangers. Oui, vous avez raison de le supposer : je ne suis pas sorti indemne de ce travail sur la Bosnie. Mes représentations classiques d’homme de gauche ont été mises à mal par mon propre travail. J’ai réalisé la puissance des identités alors que la gauche et les libéraux entretiennent l’illusion que ces identités ne peuvent que se dissoudre dans les “va-leurs universelles”, voire dans le progrès économique et social, comme si l’on pouvait réduire l’homme à un “homo economicus”.

 

Q. : En ce qui concerne Srebrenica, pouvez-vous nous donner un résumé de vos conclusions ?

 

Q. : Il ne s’agit pas de nier que des crimes très graves ont été commis par des Serbes à Srebrenica. Mais le reconnaître n’est en rien valider la version officielle. A commencer par la thèse ab-surde du “génocide”, thèse qui atteste d’une instrumentalisation politique et juridique du génocide par le Tribunal pénal international de La Haye, le TPIY.

 

On ne peut parler de génocide quand la totalité de la population civile, femmes, enfants et vieillards, a été évacuée vers les territoires contrôlés par les autorités musulmanes, évacuation par ailleurs décidée par les autorités musulmanes elles-mêmes et voulue par la population. On ne peut parler de génocide quand la majeure partie des combattants musulmans a pu passer la ligne de front à la suite d’un accord avec les autorités serbes. On ne peut pas non plus considérer que les Musulmans tombés à Srebrenica ont été dans leur ensemble abattus sommairement puisque des combats meurtriers ont eu lieu entre Serbes et Musulmans. On sait que les exhumations effectuées par le TPIY sont au nombre de 2.028, que les preuves incontestables d’exécutions sommaires sont au nombre de 448. Quant aux chiffres donnés par les autorités musulmanes, très supérieurs, ils n’ont été jusqu’ici l’objet d’aucune enquête ou contre-enquête. Le TPIY et les autorités musulmanes cherchent en fait à valider par tous les moyens la thèse des 8.000 morts, chiffre associé dans les esprits à celle du génocide.

 

Enfin, on ne peut dénoncer les crimes commis côté serbe sans dénoncer le jeu machiavélique de Sarajevo, qui a abandonné délibérément l’enclave dans les plus mauvaises conditions pour parvenir à ce qui a été son objectif durant toute la guerre : faire intervenir l’OTAN.

 

Q. : Comment peut-on expliquer une telle différence entre l'histoire officielle et vos conclusions ? Les gouvernants sont-ils aveugles, les journalistes sont-ils incompétents, le public international est-il stupide, de ne pas voir les choses que vous voyez ?

 

R. : Les gouvernements n’ont pas pour principale préoccupation la vérité, quelle qu’elle soit. Ils agissent au nom d’intérêts, ou de l’idée qu’ils s’en font.

 

Aujourd’hui, la diabolisation des Serbes et la version officielle des évènements de Srebrenica participent d’un discours de guerre qui est l’objet d’un consensus euro atlantique depuis 1992 : les Serbes sont “les méchants”, les puissances occidentales et leurs alliés locaux, en particulier les Musulmans bosniaques, sont “les bons”. C’est une version qui vise à la fois à justifier l’implication militaire des grandes puissances entre 1992 et 1999 et à légitimer leur présence actuelle dans la région.

 

Pour les journalistes, leur situation n’est guère différente : ils sont dominés par la peur et le conformisme. Tout écart par rapport à la version officielle risquerait de leur attirer l’insulte de “négationniste” et de leur faire perdre leur place.

 

Quant à l’opinion, on sait que, sans être stupide, elle a tendance à se fier à ce que les médias racontent en matière de politique internationale, domaine auquel elle a du mal à s’intéresser.

 

Source : B.I. infos

http://www.b-i-infos.com/


=== 2 ===

http://www.michelcollon.info/Le-Monde-et-les-conflits.html?lang=fr

« Le Monde » et les conflits yougoslaves : entre manipulation, mensonges et désinformation

Fabrice Garniron

5 juin 2013


Le nazisme comme grille de lecture incontournable des guerres en ex-Yougoslavie (1991-1999) a joué et joue encore un rôle central dans le discours médiatique. Interdisant toute réserve, mobilisant facilement l’opinion sous le drapeau de l’antifascisme, l’équation « Serbes = Nazis » a eu un effet de sidération qui explique largement son succès. À côté de la plupart des autres médias, mais à sa place de « quotidien de référence », Le Monde a largement participé à cette campagne, multipliant dès 1992 les allusions à la nouvelle Shoah qui aurait eu lieu lors de la guerre en Bosnie (1992-1995). (Extraits du livre de Fabrice Garniron, Quand Le Monde... décryptage des conflits yougoslaves, Editions Elya, 2013)

 

(...) Au-delà de la guerre de Bosnie, c’est à travers ce prisme que Le Monde prétend lire la période de quelques années qui précède le déclenchement des guerres en 1991. L’objectif étant de faire du nationalisme serbe un nouveau national-socialisme. Tout se passe comme si Le Monde s’efforçait de plaquer sur cette période de la fin de la Fédération le schéma de la montée du nazisme et de la responsabilité allemande dans le déclenchement de la 2ème Guerre mondiale. Dans cette perspective, il faudrait attribuer au seul nationalisme serbe et à ses ambitions hégémoniques supposées la responsabilité de l’éclatement de la Fédération yougoslave. Cette histoire reconstituée devient, à partir de 1999, le storytelling à destination du grand public que nous appelons « La fable de Kosovo Polje », titre du premier chapitre. Nous y examinons non seulement les thèmes et les amalgames qui ont fait son succès mais aussi les responsabilités et les évènements qu’elle passe à la trappe pour donner sa version partisane de la fin de la Fédération.

 

Ce storytelling a toutefois un contrepoint insolite : la ligne du quotidien lui-même pendant les dernières années de la Fédération (1987-1991). À cette époque en effet, la ligne du Monde est à l’opposé de ce qu’elle est devenue ultérieurement. De 1968 à 1990, ce sont les nationalismes croate, albanais voire slovène qui, pour le quotidien, représentent les principales menaces pesant sur la Fédération.

 

(...) Alors que le quotidien rend compte jusqu’en 1989 d’une crise multiforme, avec des causes et des dynamiques nombreuses, en particulier économiques, il ne veut plus voir aujourd’hui qu’un seul responsable : le nationalisme serbe. Pour ce faire, il procède aujourd’hui à une véritable réécriture de l’histoire, allant jusqu’à faire disparaître purement et simplement de ses analyses, chronologies et allusions au passé, des pans entiers de ce qu’a été l’histoire de la Fédération. Les révoltes nationalistes albanaises et croates (...), en particulier celles de 1968 et de 1971 font partie de ces évènements occultés, comme le départ massif et forcé des Serbes du Kosovo entre 1968 et 1989. Un exode qui est aujourd’hui l’objet d’un déni complet au Monde, alors qu’il en a régulièrement informé ses lecteurs jusqu’en 1990.

 

Dans la dernière partie de ce premier chapitre, nous revenons sur une autre question devenue taboue au Monde  : la responsabilité de l’Allemagne dans l’éclatement sanglant de la Yougoslavie. Autre occultation qui est dans la logique d’une fiction où, Europe oblige, les seuls responsables de la disparition de la Fédération doivent impérativement être serbes.

 

(...) Dans « Bosnie : ethnies ou peuples ? », nous tentons de montrer que la manière dont le quotidien a évoqué la question des « peuples » et des « ethnies » ne doit rien au hasard.

 

(...) C’est qu’avant d’être d’ordre sémantique, la problématique peuples/ethnies est éminemment politique : la notion de « peuple » débouche sur le principe du droit des peuples à disposer d’eux-mêmes tandis que celle d’« ethnie » ouvre généralement sur un principe différent, voire opposé, celui de « multiethnisme ». Pourquoi Le Monde, qui n’a cessé de vanter le « multiethnisme » dans le cas bosniaque ne l’a-t-il pas fait dans le cas yougoslave ? C’était pourtant le cadre yougoslave qui était le plus à même de garantir la vie commune et la paix entre les trois peuples bosniaques. Mais contre tout bon sens, Le Monde a discrédité en Bosnie ce qu’il a exalté dans le reste de la Yougoslavie. (...)Une contradiction que seule la politique des grandes puissances en ex-Yougoslavie permet d’élucider. Observer comment, selon les cas, Le Monde exalte ou discrédite l’un ou l’autre de ces principes est l’occasion de souligner l’adaptabilité de la rhétorique du quotidien et son suivisme à l’égard de ces mêmes puissances. (...)

 

L’aberration consistant à vouloir en Bosnie le contraire de ce qu’on préconise dans le reste de la Yougoslavie s’est accompagnée d’une illusion, voire d’une imposture. C’est le thème du troisième chapitre, Bosnie : du rêve multiethnique au despotismeLe Monde a prétendu que les dirigeants de la communauté musulmane étaient les garants du « multiethnisme » en Bosnie. Tout ce qui pouvait gêner cette illusion a été occulté ou, dans le meilleur des cas, limité à quelques lignes.





Le Courrier des Balkans


Stand up, People : la Yougoslavie de Tito, l’âge d’or de la pop tzigane


vendredi 31 mai 2013
Du temps de la Yougoslavie titiste, les Roms bénéficiaient du statut de minorité et les autorités promouvaient leur culture et leur langue. Ils ont profité de leur reconnaissance pour créer dans les années 1960-70 une musique unique, fusion des chansons traditionnelles et des musiques modernes occidentales (pop, jazz) et orientales (Bollywood). Une compilation retrace la magie de cet âge d’or de la pop tzigane. Le Courrier des Balkans a interrogé l’un des deux Anglais à l’origine de ce projet.

Propos recueillis par Simon Rico


Courrier des Balkans (CdB) : Comment est née l’idée de ce projet, de parcourir les Balkans pour y chercher des vieux vinyles de musique rom et d’en faire une compilation ?

Philip Knox (P. K.) : La musique des Balkans nous a toujours fascinés Nat (Nathaniel Morris, l’autre moitié du duo de Vlax Records à l’origine de la compilation, NDLR) et moi. Lors de nos nombreux voyages dans la région, nous avons entendu de la musique rom dans les mariages, dans la rue et dans les kafanas. Nous connaissions les stars roms de l’ancienne Yougoslavie, Šaban (Bajramović) et Esma (Redžepova), nous avons commencé à collectionner leurs disques, puis on s’est mis à chercher toute la musique rom qu’on pouvait trouver. C’est comme ça qu’on s’est rendu compte que la Yougoslavie des années 1960-70 avait une scène tzigane gigantesque et vibrante, sûrement la plus vibrante de toute l’Europe du sud-est. Et puis à un moment, il est devenu évident que l’on devait partager cette musique, et nous avons essayer de raconter cette histoire.


CdB : Les musiques populaires roms ont été popularisées par Goran Bregović et les films d’Emir Kusturica. Pourquoi vous êtes-vous intéressés seulement aux enregistrements anciens. Vous vouliez montrer qu’il existait autre chose ?

P. K. : À titre personnel, j’ai toujours eu une relation un peu problématique avec la manière dont Bregović utilise de la musique rom. Il a été accusé d’avoir exploité les chanteurs qui avaient à l’origine écrit et joué ces musiques. Mais par-dessus tout, ça m’énerve que les gens ne voient la musique tzigane que comme un truc pour faire la fête avec un coup de rakija dans le nez alors qu’en réalité, elle est subtile, sophistiquée et intelligente.


CdB : Vous avez voyagé tout autour des Balkans pour dénicher les disques qui vous ont servi à assembler Stand up, People. Avez-vous remarqué des différences dans la composition et l’orchestration suivant les régions ?

P. K. : La musique rom est d’une incroyable diversité dans les Balkans. C’était d’ailleurs l’une des difficultés dans notre projet, essayer de montrer une telle diversité en un seul disque. En Voïvodine, dans le nord de la Serbie, la musique rom s’appuie sur un violon rapide, comme on l’entend dans les enregistrements des légendes Alexandr Šišić et Duško Petrović, et malheureusement, on n’a pas trouvé de place pour eux dans ce disque. Les musiques du sud de la Serbie et de Macédoine ont elles aussi leurs différences. Peut-être que la musique la plus particulière dans Stand up, People, c’est celle du Kosovo (Hajda Sučurija, Nehat Gaši), qui a un son incroyable, sous influence ottomane, avec des passages proches de la transe. Ils utilisent parfois un oud, ce qui était apparemment unique à l’époque au Kosovo.


CdB : On entend les stars incontournables de la scène rom ex-yougoslave, Šaban Bajramović et Esma Redžepova, dans votre compilation, mais avec des titres rares, et surtout des artistes inconnus ou presque. Comment avez-vous fait votre sélection ?

P. K. : Nous voulions montrer les grandes vedettes de la scène des années 1960-70. Esma et Šaban sont devenus célèbres en Europe de l’ouest, mais Muharem Serbezovski est aussi très connu en Yougoslavie, et nous devions le mettre en avant dans ce disque. Nous avions également le sentiment qu’il était important de faire découvrir des artistes beaucoup moins célèbres - certains n’ont enregistré qu’un ou deux disques -, pour que les gens se rendent compte de la richesse de la musique rom à l’époque. Plus que tout, nous voulions montrer l’influence de gens aujourd’hui oubliés comme Medo Čun, qui est derrière de nombreux titres anciens d’Esma et Muharem. C’est génial qu’on ait pu inclure une partie de son travail solo.


CdB : Ce disque s’intéresse seulement à la musique rom à l’époque de la Yougoslavie titiste. C’est parce que la musique était meilleure pour vous à ce moment-là ou parce que vous vouliez parler d’une époque où les Roms étaient mieux considérés ?

P. K. : C’est un fait tragique qu’après la mort de Tito et l’inévitable éclatement de la Fédération, la culture rom a plongé. Il y a toujours de nombreux musiciens incroyables dans les pays issus de la Yougoslavie, mais on a l’impression qu’ils ne bénéficient plus de la même reconnaissance que dans les années 1960-70. Cela ne veut pas dire que sous Tito c’était le paradis pour les Roms, il y avait de nombreuses discriminations et peut-être que cette apparente acceptation n’était qu’une façade. Il est néanmoins indéniable que de nombreux Roms enregistraient des disques en tant que Roms, qu’ils chantaient en romani, dans les grands studios yougoslaves. Ils sortaient leur musique et n’importe qui pouvait l’apprécier.


CdB : Il y a souvent une certaine Yougonostalgie dans les pays issus de la Yougoslavie. Avez-vous constaté aussi cela chez les Roms que vous avez rencontrés ?

P. K. : Chez les Roms les plus âgés, la Yougonostalgie est très forte. Ils parlent beaucoup du temps où tout le monde avait du travail et vivait plus facilement. Ceci dit, qui sait si ce n’est pas seulement de la nostalgie ? Les jeunes sont un peu plus sceptiques, mais ils ne pensent sûrement pas que la Macédoine ou la Serbie soient une sorte de paradis.


CdB : Vous avez choisi de terminer votre compilation par une version un peu spéciale de Djelem, Djelem, l’hymne des Roms. Vous pourriez nous en dire un peu plus sur ce morceau ?

P. K. : Djelem, Djelem est une vieille chanson traditionnelle rom. Il semblerait qu’elle trouve son origine pendant la Seconde Guerre mondiale, certaines versions d’ailleurs évoquent la « Légion noire », ce régiment oustachi qui a tué de nombreux Roms. C’est à partir de cette version de la chanson, que nous avons titré la compilation, traduction en anglais d’un des vers : « Ušti Roma Akana ». Il s’agit d’une adaptation pop-rock par un groupe monténégrin. Le fait que ce morceau figure sur un 45 tours de pop, avec sur l’autre face une reprise des Bee Gees, montre à quel point la culture rom était alors devenue grand public en Yougoslavie.


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• Écoutez le mix spécial de Philip Knox pour Balkanophonie :
Stand up, People : l’âge d’or de la pop tzigane yougoslave (1964-80) http://www.balkanophonie.org/stand-up-people-l-age-d-or-de-la
• Retrouvez le CD sur notre boutique en ligne :
Stand Up, People : Gypsy Pop Music in Yugoslavia (1964-80) http://balkans.courriers.info/article22601.html




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