Informazione
Gli uomini della “Marche” furono quasi completamente catturati dai tedeschi; gli uomini dell’«Emilia» riuscirono in parte a raggiungere l’Italia. I superstiti della “Taurinense” – che erano stati attaccati perfino da reparti della Divisione “Ferrara” passata ai tedeschi – divennero tuttavia la punta di diamante della nuova unità di combattimento affiancatasi all’esercito di Tito.
Il 12 ottobre, quasi a inaugurare il nuovo capitolo della storia dell’esercito italiano, due aerei Macchi 205 partiti dalle Puglie raggiunsero il cielo di Berane, lanciarono il cifrario e stabilirono un collegamento radio regolare fra le due Divisioni e il Comando Italiano insediato a Brindisi. Questo nuovo esercito regolare italiano affiancatosi ai partigiani jugoslavi contava circa 14.000 uomini. Alcune altre migliaia di soldati italiani, tuttavia, inseriti direttamente in varie Brigate jugoslave, già combattevano da un mese contro i tedeschi nel vasto scacchiere del Montenegro, delle Bocche di Cattaro e del Sangiaccato, avendo compiuto autonomamente e con notevole anticipo sulle decisioni dei generali Oxilia e Vivalda, la scelta della lotta partigiana. Mi riferisco, in particolare, al Battaglione “Italia” comandato dal capitano Mario Riva della “Venezia” e alla Brigata di artiglieria alpina “Aosta”, comandata dal maggiore Carlo Ravnich, il quale diventerà poi comandante della Divisione partigiana “Garibaldi” sorta nel dicembre dalla fusione delle Divisioni “Venezia” e “Taurinense” e dalla loro ristrutturazione secondo le norme dell’esercito partigiano jugoslavo.
Erano stati proprio gli uomini di una batteria del Gruppo “Aosta”, la sesta batteria del tenente Francesco Perello, a impegnare i tedeschi nel primo scontro in terra jugoslava, alle ore 8 del mattino del 9 settembre. Una colonna autocarrata tedesca, avvistata all’inizio della piana di Nikšić mentre scendeva da Šavnik, venne fermata e costretta a ripiegare a colpi di cannone. Il maggiore Ravnich premiò i suoi uomini con un bigliettone da 500 lire e una lettera di encomio: “Bravi artiglieri!”. Sarebbe qui lungo raccontare la storia della Divisione partigiana italiana “Garibaldi”, le aspre battaglie sostenute dalle sue Brigate sulle aspre montagne del Montenegro e nei boschi della Bosnia, nei comprensori dei fiumi Piva, Tara, Drina, Lim, da Pljevlja ad Andrijevica, da Kolašin a Gacko, fino a Dubrovnik dove per i suoi uomini la guerra terminò l’8 marzo 1945. Nel mio volume “Ventimila Caduti” ho dedicato a questa Divisione circa 300 pagine e non sono riuscito che a dare una sintesi della sua dura e gloriosa odissea. L’epilogo è questo: su 19.000 soldati e ufficiali, rientrarono alle loro case soltanto 12.567 uomini. In combattimento ne caddero 3.272, altri 3.072 furono dati per dispersi, 128 morirono nella prigionia tedesca. Totale delle perdite, 6.472 uomini, un terzo degli effettivi.
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Quasi tutti venivano dalla Divisione “Bergamo” i cui uomini avevano difeso strenuamente, insieme ai partigiani, i passi montani attraverso cui, dopo circa un mese di strenui combattimenti, i tedeschi riuscirono a penetrare nel capoluogo della Dalmazia. Sia il “Garibaldi” che il “Matteotti” furono inseriti nella Prima Divisione proletaria, la più agguerrita formazione dell’esercito di Tito. Questi Battaglioni presero parte alle più epiche battaglie della guerra di liberazione jugoslava dalla Dalmazia alla Bosnia, dal Sangiaccato alla Serbia, fino alla liberazione di Belgrado avvenuta il 20 ottobre 1944.
Nella capitale jugoslava, dove gli italiani gareggiarono in eroismo con le migliori unità di Tito e con i reparti corazzati sovietici del maresciallo Tolbuhin, furono essi a innalzare la prima bandiera dell’Italia democratica sull’edificio dell’Ambasciata italiana e fu il commissario politico dell’«Italia», Innocente Cozzolino, a svolgere provvisoriamente le funzioni di console italiano nella nuova Jugoslavia. Il Maresciallo Tito volle che i due Battaglioni italiani sfilassero in prima fila nella rivista che gli passò ai reparti liberatori.
Sempre a Belgrado, in seguito alla liberazione di alcune migliaia di soldati italiani che avevano sofferto la prigionia tedesca, nacquero altri due Battaglioni, “Fratelli Bandiera” e “Goffredo Mameli”. Nacque così la Brigata “Italia”, divenuta poi Divisione con l’afflusso continuo di nuovi volontari, che sbucavano da ogni parte lungo il cammino di guerra. L’8 maggio 1945 i combattenti dell’«Italia», dopo altri duri combattimenti sostenuti a Tovarnik, a Pleternica, sul monte Slijem, entravano vittoriosi a Zagabria. Erano circa 5.000 uomini ormai, strutturati su 12 Battaglioni, al comando di Giuseppe Maras, ex sottotenente dei bersaglieri; commissario politico Carlo Cutolo, ex tenente di fanteria; vice comandante e capo di stato maggiore il tenente Aldo Parmeggiani; vice commissario Attilio Mario Ceccarelli, ex soldato semplice; capo dei servizi stampa, cultura e propaganda Innocente Cozzolino, ex sottotenente; commissario di collegamento l’ex sergente Mario Gatani Tindari, siciliano, il quale era passato ai partigiani fin dal 1942.
Nel cimitero di Zagabria, dove riposano le ossa degli ultimi caduti della Divisione “Italia”, sorge un monumento sul quale si leggono queste parole: «Compagno, quando vedrai mia madre dille di non piangere. Non sono solo. – Giace al mio fianco un compagno jugoslavo. Che nessuno ardisca gettare fango sul sangue sparso nella lotta comune. Trovammo qui fede madre pane fucile. I morti lo sanno. I vivi non lo dimenticheranno. Fiumi di sangue divisero due popoli. Li unisce oggi il sacrificio dei compagni migliori».
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Sull'argomento si vedano anche:
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La cancellazione della Repubblica Serba di Krajina: crimini di guerra e desaparecidos
Intervista al prof. Aldo Bernardini sul carattere del nuovo Stato indipendente croato dal punto di vista del Diritto Internazionale
A Maastricht il ricatto tedesco: se volete l'Unione Europea dovete uccidere l'unità jugoslava
di Matteo Tacconi - OBC 27 giugno 2013
Quanto alla disoccupazione, è arrivata oltre il 20% e solo venerdì scorso la Slovenia si è affrettata a votare l'estensione delle restrizioni all'accesso del suo mercato del lavoro per i cittadini croati, che saranno considerati de facto extra-comunitari per almeno altri due anni.
www.ansa.it 4 giugno 2013
A meno di quattro settimane dall’ingresso nell’Unione europea, il primo luglio prossimo, la Croazia sembra oggi un Paese quasi indifferente verso questa importante tappa storica, considerata in passato come il culmine del processo di indipendenza e di democratizzazione, iniziati ventidue anni fa. Il governo di centro-sinistra, in carica dal novembre del 2011, ha subito un rovescio alle amministrative di domenica scorsa, perdendo la guida della capitale Zagabria dopo 13 anni di amministrazione socialdemocratica, seppur vincendo nelle altre maggiori città. I forti tagli alla spesa pubblica, inclusa la riduzione degli stipendi degli statali, e la mancata promessa di attirare nuovi investimenti esteri e avviare alcuni grandi progetti infrastrutturali pubblici, sono alla base del calo di consensi del governo.
Ma un più largo scontento sociale, che questa settimana potrebbe sfociare in una prima grande ondata di scioperi nel settore pubblico, è dovuto alla profonda crisi economica e alla disoccupazione che ormai da un anno è costantemente sopra il 20 per cento della forza lavoro (a circa il 40 per cento quella giovanile). L’economia è in recessione per il quinto anno consecutivo, nonostante la politica di austerità il debito estero continua a crescere e la produzione industriale a calare. Il turismo, che rappresenta quasi il 20 per cento del Pil del Paese, rimane l’unico settore a non risentire della crisi. Ma le notizie negative che continuano ad arrivare dell’eurozona e i problemi interne alla Ue non contribuiscono a smorzare l’atmosfera di apatia. Dalla prima fase dopo l’adesione non ci si attende molto.
Paesi come Germania e Austria hanno già annunciato che useranno il diritto di limitare l’ingresso dei croati al loro mercato del lavoro. Per quanto i prodotti croati avranno accesso al mercato unico, molti temono che l’ingresso nell’Ue potrebbe tramutarsi in un altro colpo all’industria croata, soprattutto quella agroalimentare, dato che i prodotti europei avranno il libero accesso ai supermercati in Croazia. Inoltre, dal primo luglio il Paese è costretto a uscire dalla Cefta, l’associazione di libero scambio tra i Paesi dei Balcani non-membri dell’Ue, zona in cui la Croazia tradizionalmente, sin dal periodo jugoslavo, realizza una enorme fetta del suo interscambio commerciale, sempre con un avanzo a suo beneficio. D’altro canto, come importane stimolo allo sviluppo del Paese, viene indicato che nell’ambito del quadro finanziario pluriennale UE 2014-2020, Zagabria potrà contare su 11.7 miliardi di euro, e già nella seconda metà del 2013 avrà a disposizione circa 665 milioni di euro, di cui 450 milioni di fondi strutturali e di coesione.
A prescindere dal quadro economico, l’adesione alla Ue ha comunque per la Croazia un fortissimo valore simbolico, e rappresenta la conclusione di un lungo processo di transizione dall’esperienza jugoslava e socialista, conclusasi con la sanguinosa guerra per l’indipendenza negli anni Novanta, verso l’appartenenza alla famiglia delle nazioni europee. I negoziati di adesione sono stati lunghi e più severi di quelli degli altri Paesi dell’est europeo. Nella prima fase l’ostacolo maggiore era costituito dalla non soddisfacente cooperazione con il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia (Tpi), mentre negli ultimi anni Bruxelles ha insistito sulla democratizzazione del quadro legislativo e delle istituzioni, come anche sulla lotta al crimine organizzato e alla corruzione.
L’esempio più visibile degli sforzi fatti da Zagabria sono i tre processi per corruzione contro l’ex primo ministro Ivo Sanader, e una sua condanna in primo grado a dieci anni di carcere. Ma per ironia della sorte, proprio Sanader sarà ricordato nei libri di storia come il leader politico croato che, governando dal 2004 al 2009, ha avviato una serie di riforme che hanno portato la Croazia nella Ue. Il 30 giugno è in programma a Zagabria e in altre città croate una grande festa per l’adesione, e sono attesi i massimi dirigenti delle istituzioni europee, leader di una ventina di Paesi dell’Ue, incluso il presidente Giorgio Napolitano e il presidente del consiglio Enrico Letta, come anche i dirigenti dei Paesi vicini, come la Serbia e la Bosnia. Con l’ingresso della Croazia, secondo Paese della ex Jugoslavia a entrare nell’Unione dopo la Slovenia, per l’Ue non cambierà molto, dato che il Paese rappresenterà lo 0,85 per cento dell’intera popolazione, l’1,33 per cento del territorio e lo 0,53 per cento del Pil. A livello simbolico invece l’adesione dei croati rappresenta la conclusione della prima fase della stabilizzazione e integrazione dei Balcani, dopo le guerre degli anni Novanta, e una piccola spinta alla fiducia nell’Europa unita nella presente situazione di crisi.
su Il Piccolo del 5 giugno 2013
Croazia, appena entrata nell’Ue e subito “bocciata” da Bruxelles. Potrebbe essere questo il destino di Zagabria, il prossimo primo luglio. Un destino, ha rivelato ieri l’agenzia di stampa Reuters, provocato dalle pessime condizioni di salute del prossimo 28esimo membro dell’Unione. Unione che, ha specificato Reuters, potrebbe – quasi contemporaneamente all’adesione di Zagabria – aprire «misure disciplinari» contro la Croazia a causa del deficit e del debito pubblico in crescita costante.
La previsione è corroborata dai contenuti di un documento di lavoro della Commissione europea, pubblicato a fine maggio, che mette a nudo i punti deboli dell’economia croata. Economia che «continua a dibattersi in una recessione» che proseguirà almeno fino al 2014 e che dura ormai da cinque anni.
Da quel 2009, annus horribilis della crisi, «amplificata» in Croazia dalle «debolezze strutturali» del sistema economico. Ma il problema maggiore per Zagabria è il deficit. «Le autorità si sono impegnate a ridurlo a meno del 3% del Pil entro il 2016», segnala l’analisi della Commissione, ma per ora risultati positivi non si vedono. Le previsioni di primavera di Bruxelles sull’economia croata evidenziano un disavanzo nel 2013 al 4,7% del Pil, che salirà al 5,6% nel 2014. Male anche il debito pubblico croato, quasi raddoppiato dal 2008, che l’Ue prevede «supererà il limite del 60% del Pil nel 2014», a causa del deficit crescente. Da qui le previsioni di Reuters, che suggerisce di leggere tra le righe il rapporto della Commissione.
E leggendo tra le righe si comprende che Zagabria potrebbe – come accadde ad esempio all’Ungheria nel 2004 – entrare nell’Ue e al contempo venire iscritta tra i Paesi sotto osservazione a causa del deficit superiore ai parametri europei, ossia «il 3% di rapporto deficit/Pil e il 60% di rapporto debito pubblico/Pil». Nel caso in cui uno Stato membro sfori la soglia prevista per il disavanzo, dall’Unione scatta la procedura per disavanzo eccessivo», ricorda la Commissione. Una procedura che comprende «diverse fasi, giungendo fino a eventuali sanzioni». Un modo per fare pressioni sui Paesi membri Ue affinché adottino «misure correttive».
E potrebbe essere questo il di verdetto per Zagabria.
Difficile infatti che in poche settimana la Croazia riesca a tornare a essere virtuosa, evitando l’onta della procedura d’infrazione. E per Zagabria si prospettano anche anni di scelte lacrime e sangue, come suggerito dalla Commissione. Zagabria che dovrà aumentare le tasse, si legge nel rapporto, «combattere evasioni e frodi fiscali», abbandonare ogni velleità di sostegno alle grandi imprese pubbliche, «altamente indebitate e a rischio per le finanze statali», leggi nuove privatizzazioni, migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione e agire contro «la rigidità del mercato del lavoro».
su Il Piccolo del 14 giugno 2013
I primi cinque mesi dell’anno hanno regalato grosse soddisfazioni in Croazia quanto a risultati turistici, ma è giugno a preoccupare gli operatori del settore. L’estate tarda ancora ad arrivare, i Paesi dell’Europa Centrale sono colpiti da gravi alluvioni e a peggiorare il quadro è la situazione sorta dallo scorso primo aprile, quando Zagabria ha dovuto uniformarsi all’Unione europea, introducendo il regime di visti per i cittadini russi ed ucraini.
Tutto ciò sta erodendo i dati positivi registrati nel periodo da gennaio a maggio, con la Croazia, dove oltre il 90% degli arrivi di villeggianti riguarda le regioni adriatiche, che è stata visitata da 1 milione e 900mila vacanzieri, che hanno fatto totalizzare agli operatori 6 milioni e 700mila pernottamenti. Rispetto all’identico periodo di un anno fa, l’incremento è molto consistente, rispettivamente del 9 e dell’11 per cento. Tenendo conto di quanto avviene nella stragrande maggioranza dei Paesi mediterranei la Croazia può – o potrebbe – dirsi nella tradizionale “botte di ferro”. In realtà non è tuttavia così, perché il mese corrente sta continuando a sfornare giornate di tempo instabile, con poco sole, tante nuvole e temperature del mare che oscillano ancora tra i 19 e i 20 gradi.
Fa eccezione Pola, dove giorni fa la temperatura marina ha toccato i 23 gradi, di sicuro più gradita ai bagnanti. La nuvolosità variabile ha inciso negativamente soprattutto sui viaggi last minute, con gli interessati che preferiscono restare a casa invece di trascorrere le vacanze con l’ombrello aperto o tappati nelle strutture ricettive. «Le alluvioni all’estero - sostengono i lavoratori turistici croati - hanno avuto un contraccolpo negativo per l’industria turistica, con i potenziali vacanzieri che preferiscono non mettersi in viaggio». Non almeno fino a quando la situazione non si sarà normalizzata e il pericolo superato. A peggiorare il tutto sono i visti per l’ingresso in Croazia per i cittadini russi e ucraini. Il ministro del Turismo, l’istriano Darko Lorencin, ha visitato a tale scopo la Russia, proponendo una soluzione che è piaciuta alle autorità di Mosca. In 18 città della Russia con almeno un milione di abitanti, sono stati aperti uffici per i visti, che contribuiscono a snellire il rilascio degli stessi. Dal primo aprile l’ambasciata croata a Mosca ha rilasciato poco più di 13mila visti, mentre quotidianamente riceve da 1.000 a 1.500 richieste. L’anno scorso a soggiornare in Croazia sono stati circa 200mila villeggianti russi, l’8% in più rispetto all’anno precedente.
È dunque sempre più consistente la quota del mercato turistico croato formata dai vacanzieri della Russia. Stando agli addetti ai lavori, i visti costringeranno non pochi russi a rinunciare alla trasferta croata e a dirigersi verso i lidi del Montenegro, Paese che non prevede invece questo tipo di permesso.
Croatie : sur les chantiers navals de Split, on licencie tout le monde !
L’entreprise DIV, qui a racheté à l’Etat en mars dernier la quasi-totalité des actions de l’entreprise pour une bouchée de pain, annonce qu’elle emploiera au départ environ 1 500 personnes en CDI et 500 autres en CDD. A terme, entre 2 000 et 2 500 personnes seront employées dans la nouvelle structure. Les patrons de DIV s’engagent à puiser dans le vivier des employés licenciés lors des futures embauches.
« Plus de 3 000 employés de Brodosplit percevront une prime de licenciement au montant de 4 000 kunas (530 euros) par année de carrière pour les 20 premières années et 1 500 kunas (200 euros) par année au delà de 20 ans passés chez Brodosplit », a annoncé la direction. Le programme a été approuvé par l’Agence croate pour l’emploi dans le cadre de la restructuration de Brodosplit.
« La Direction a dû procéder immédiatement au licenciement d’un certain nombre de salariés. Ces mesures étaient indispensables dans le cadre du processus de restructuration, ainsi que pour la mise en place d’une structure adaptée aux véritables besoins de Brodosplit. C’est la conséquence de la gestion irresponsable conduite par le passé, de la mauvaise politique commerciale, des mesures de restructuration qui n’ont pas été prises au moment voulu et l’accumulation des pertes durant plusieurs années, qui ont mené la compagnie au bord de la faillite », précise le communiqué officiel de la Direction.
Le programme de sélection des employés est actuellement en cours et de nouveaux contrats de travail seront proposés. On espère que tout sera prêt dans le courant du mois de juin, au plus tard en juillet. « La réembauche dépendra en grande partie du choix des collaborateurs, des résultats des examens d’embauche et des décisions des futurs cadres », annonce la direction, en ajoutant que les travailleurs auxquels un nouveau contrat de travail ne sera pas proposé pourront bénéficier de consultations pour les aider à trouver un nouvel emploi.
s.g. su Il Piccolo del 31 maggio 2013
Cari amici croati, bravi e benvenuti nell’Ue. Sì, benvenuti. Non fatevi però neppure venire in mente – almeno per un paio d’anni – di fare le valigie, attraversare il confine a Bregana, a Pasjak o a Rupa per venire liberamente a lavorare in Slovenia. Sarà questo, salvo sorprese, l’augurio-ordine che la Slovenia rivolgerà il primo luglio ai croati appena diventati cittadini Ue a tutti gli effetti. Cittadini che potrebbero non poter accedere liberamente al mercato del lavoro di Lubiana, senza richiedere un apposito permesso.
La Slovenia sta infatti alacremente lavorando a una legge che renda efficace il “regime transitorio” previsto dal trattato di adesione di Zagabria nell’Ue, che prevede la possibilità di introdurre restrizioni all’accesso al mercato del lavoro sloveno per i croati. «La misura temporanea» dovrebbe «entrare in vigore» proprio dal 1° luglio e rimanere valida «fino al 30 giugno 2015», secondo la bozza di legge preparata dal ministero del Lavoro di Lubiana.
Questa legge, se adottata dal governo e approvata dal Parlamento, obbligherà per due anni la Slovenia «a trattare i cittadini croati», nell’accesso all’impiego in Slovenia, «come cittadini di Stati non membri» dell’Unione, spiega l’agenzia di stampa “Sta”. Un modo per arginare un’assai improbabile “invasione” di croati, affamati di lavoro e diretti in Slovenia. E per «proteggere un mercato del lavoro», quello di Lubiana, le cui condizioni «potrebbero deteriorarsi» ulteriormente. Come potrebbe deteriorarsi anche il fronte della spesa pubblica, da rimettere sotto controllo anche con tagli alle pensioni, ha annunciato ieri il ministro delle Finanze sloveno, Uros Cufer.
Ma non tutti sembrano convinti che sbarrare le porte del mercato del lavoro sloveno sia una buona idea. Prima di muoversi bisogna capire se la mossa «non faccia più male che bene», ha detto nei giorni scorsi il ministro degli Esteri sloveno, Karl Erjavec, che ha specificato che per ora solo i Paesi Bassi hanno ufficialmente imposto restrizioni simili nei confronti di Zagabria. Le orme di Amsterdam saranno presto ufficialmente calcate però anche da Berlino, Londra, Vienna, e forse appunto Lubiana, dove nel consiglio dei ministri della settimana prossima la legge di “blocco” dovrebbe essere adottata e poi passata all’esame del Parlamento per una rapida approvazione.
Altri stati membri non vedono invece alcun pericolo nell’aprire le frontiere ai cittadini di Zagabria in cerca d’impiego. Ultimo in ordine cronologico, l’Irlanda, che ha assicurato che non sceglierà la via del “regime transitorio” dato che vari studi segnalano «la bassa propensione» dei croati «a emigrare» in cerca di lavoro. Dublino è così entrata nel club dei membri Ue meno preoccupati per “un’invasione” da Zagabria. Un club ristretto, formato per ora da Cechia, Slovacchia, Danimarca, Finlandia, Estonia e Lituania.
Il ministro ha spiegato che il governo ha deciso di attivare il diritto alla moratoria “per l’alto tasso di disoccupazione in Slovenia, dettato dalla difficile situazione economica”. “I senza lavoro sono molti anche nella vicina Croazia, e solo nelle regioni limitrofe alla Slovenia ce ne sono circa 100 mila”, ha aggiunto Kopac, spiegando che si tratta di “una decisione razionale che mira a dare la priorità ai disoccupati sloveni, e non è in nessun modo diretta contro la Croazia”. Il tasso di disoccupazione in Slovenia ha raggiunto il 13 per cento, mentre in Croazia i senza lavoro sono 330 mila, pari al 20 per cento della forza lavoro.
Zagabria, in base al principio di reciprocità, ha diritto a introdurre la stessa limitazione per i cittadini sloveni. I Paesi membri dell’Ue possono chiudere il proprio mercato del lavoro ai croati per un periodo transitorio fino a un massimo di sette anni. Secondo al stampa di Zagabria, simili limitazioni per i croati varranno anche nel Regno Unito, in Austria e in Germania, in quest’ultimo Paese con l’eccezione dei professionisti con laurea e i lavoratori stagionali. La Francia starebbe ancora valutando se introdurre o meno la moratoria, mentre non ci saranno limitazioni per i croati in Danimarca, Finlandia, Estonia e Lituania.
Nei giorni scorsi il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Enrico Letta, invitandolo a esaminare la questione dell’ingresso della Croazia nell’Unione Europea, preoccupato delle conseguenze che questo potrà avere sul piano del mercato del lavoro, in particolare in Veneto.
La giornata prevede momenti celebrativi e conferenze stampa, saranno sottolineate le ragioni della storica importanza dell'ingresso della Croazia nell'Unione europea.
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traduzione a cura di Marx21.it
In totale, la proposta è stata appoggiata da trenta paesi, la maggioranza del Terzo Mondo, mentre le nazioni europee, insieme a Stati Uniti, Giappone e India si sono astenute (8) o hanno votato contro (9). Tra gli europei astenuti Polonia e Italia, oltre alla Svizzera che non appartiene all'UE. La Spagna, insieme a Germania, Repubblica Ceca e Austria, ha votato No.
La risoluzione è un'iniziativa di Cuba, in seguito assunta dalla Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), che, per raccogliere il maggior consenso possibile, si limita a chiedere che si collabori con il gruppo di lavoro e un comitato consultivo già esistente perché, mediante la consultazione con gli Stati membri, la società civile, il mondo accademico e tutti gli altri operatori di rilievo, si prepari un progetto di Dichiarazione sul Diritto dei popoli alla pace.
Il citato Comitato Consultivo ha presentato lo scorso anno un progetto di dichiarazione che raccoglie la maggior parte dei suggerimenti ricevuti da esperti, governi e società civile. Questo comitato ha suggerito di cambiare la formulazione originale “Diritto dei popoli alla pace” con la più breve “Diritto alla pace”, considerandola più opportuno in quanto permette di includere tanto la dimensione individuale quanto quella collettiva di tale diritto. Ad opinione di Micol Savia, rappresentante nel Consiglio dei Diritti Umani dell'Associazione Internazionale dei Giuristi (link), “il progetto supera la tendenza restrittiva a considerare la pace principalmente come un diritto collettivo e a metterla in relazione esclusivamente con temi come guerra e disarmo. Il diritto alla pace è un diritto inerente a tutti gli esseri umani senza alcuna distinzione o discriminazione” (art. 1). E la pace non è solo assenza di violenza: 'ogni persona ha diritto a vivere senza paura e senza miseria' e 'vivere senza miseria implica il godimento del diritto allo sviluppo sostenibile e ai diritti economici, sociali e culturali' (art. 2)”.
Secondo Savia, “la Dichiarazione si occupa di varie questioni relative alla pace e alla sicurezza internazionale (disarmo, educazione e realizzazione della pace, diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare, imprese militari e di sicurezza privata, resistenza e opposizione all'oppressione, conservazione della pace, ecc.). Ma, riconoscendo che 'la disuguaglianza, l'esclusione e la povertà generano violenza strutturale che è incompatibile con la pace e devono essere eliminate', il testo include anche standard di pace in ambiti come sviluppo, ambiente, rifugiati e migranti, ecc”.
Quando nel giugno del 2012 il Comitato Consultivo presentò il progetto al Consiglio dei Diritti Umani, la grande maggioranza degli Stati e la società civile reagirono con entusiasmo. L'UE si limitò a prendere nota, ribadendo la sua posizione di non includere il diritto alla pace nel diritto internazionale.
Il progetto votato lo scorso 13 giugno conta sull'appoggio di numerose organizzazioni della società civile, capeggiate dalla Fondazione Pace senza Frontiere (link) copresieduta dal cantante spagnolo Miguel Bosé e dal colombiano Juanes. Lo stesso Bosé ha partecipato a una manifestazione pubblica organizzata dai paesi latinoamericani nel Consiglio. In una conferenza stampa a Ginevra ha affermato di non capire perché esistano nazioni che resistono al fatto che la pace venga codificata come un diritto umano, quando rappresenta insieme alla sicurezza la garanzia fondamentale per lo sviluppo, uno dei quattro fondamenti del lavoro delle Nazioni Unite (link).
A parere della Missione Permanente di Cuba a Ginevra (link), “in un mondo in cui determinate potenze promuovono guerre e interventi in varie regioni, risulta imprescindibile la codificazione del diritto alla pace, che costituisce la condizione fondamentale per la fruizione di tutti i diritti umani, in particolare il diritto alla vita. In virtù della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, ogni persona ha diritto ad un ordine in cui tutti i diritti possano essere pienamente realizzabili. La pace, senza alcun dubbio, è una componente essenziale di questo ordine”.
Ci si attende che il gruppo di lavoro, presieduto dal Costa Rica, concluda i suoi lavori nel 2014 affinché il progetto di dichiarazione possa essere approvato nel Consiglio dei Diritti Umani e, in seguito, dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite
Fonte: www.publico.es