Informazione


http://www.lsmetropolis.org/2013/01/a-margine-giorno-memoria/

Nella Giornata delle Memoria si ricordano i campi di sterminio organizzati dai Tedeschi, è utile ricordare anche quelli gestiti dai loro alleati.

Il 6 aprile del 1941 l’aviazione tedesca bombarda Belgrado: invadono la Jugoslavia le truppe Tedesche, Italiane, Bulgare, Ungheresi. La Croazia è in parte occupata dall’esercito italiano, in parte è stato indipendente, retto dagli Ustaša. I crimini degli Ustaša, i fascisti croati, furono tali da far inorridire perfino alcuni generali tedeschi. In particolare nel campo di Jasenovac, morirono 700000 persone, tra cui Ebrei, Serbi, partigiani catturati, comunisti e in generale oppositori del regime. Nel campo le persone venivano spesso torturate nei modi più abbietti, prima di venire assassinate.
Nel campo di Jasenovac finirono anche i Rom jugoslavi.
E’ solo da pochi anni che si ricorda nella giornata della Memoria, oltre alla Shoà anche il Porrajmos, il “divoramento” in lingua Romanì. Per troppi anni il genocidio dei Rom è stato tenuto in sordina. Eppure l’organizzazione dello sterminio nei campi nazifascisti nella II Guerra Mondiale, affonda le radici nella pratica di controllo dei Rom nei Zigeuner Lager, dove nei primi decenni del Novecento, essi venivano rinchiusi, per essere analizzati, studiati, isolati. Con le dovute differenze, in Italia i campi nomadi appartengono allo stesso modello segregativo Dopo la II Guerra mondiale, i capi Ustaša riuscirono in parte a scappare in America Latina, dopo essersi nascosti in Austria e Italia, spesso nei conventi con l’aiuto essenziale del Vaticano e di settori della Democrazia Cristiana.
Gli Italiani, alleati degli Ustaša, a loro volta compirono efferatezze nei territori da loro occupati, in particolare in Dalmazia, in Lika (la regione della Croazia popolata da Serbi), e nel Montenegro. Interi villaggi furono rasi al suolo in Lika, tutto ciò che serviva ai contadini per sopravvivere veniva requisito, si ricordano episodi in cui i contadini erano inviatati a condurre il bestiame ai comandi dell’esercito occupante e poi, una volta requisito il bestiame, venivano consegnati agli Ustaša con l’accusa di essere partigiani, e i poveretti venivano liquidati.
La Dalmazia è piena di lapidi di partigiani e civili fucilati dal Regio esercito o dalle camicie nere. Numerosi furono i campi per civili jugoslavi gestiti dagli Italiani: non si trattava di campi di sterminio, ma la gente moriva lo stesso. Vorrei solo ricordare il famigerato campo di Rab (Arbe) isola della Dalmazia, in cui morirono di stenti nella sporcizia, nel freddo e nella fame bambini, donne e uomini, rinchiusi per svariati motivi. Molti campi di prigionia meno noti ma altrettanto terribili si trovavano in Italia e in Albania, in cui morirono migliaia di donne e uomini di ogni regione della Jugoslavia.
Del resto anche in Grecia l’occupazione italiana portò alla morte di 300000 persone per fame.
E’ utile ricordare come la Jugoslavia chiese la consegna di numerosissimi criminali di guerra italiani, ma non ottenne neppure il famigerato Mario Roatta (a tale proposito è utile la visione del film della BBC Fascist Legacy).
Fra poco in Italia verrà celebrata un’altra giornata, quella del “ricordo”, il 10 febbraio: questa volta non si tratta di una cosa seria, ma di una farsa. Infatti nel dopoguerra ci fu una profonda riflessione in Germania a vari livelli su quanto era successo, mentre in Italia ciò non avvenne, anzi fu proposto il mito “Italiani brava gente”.
Invece di ricordare i propri crimini, gli Italiani li rimuovono e addirittura si sentono le vittime di persecuzioni e di pulizia etnica: si tratta di una losca manovra, oltre che dal punto di vista storico e politico anche da quello etico e psichiatrico e spiace che responsabili siano non solo i soliti eredi dei fascisti, ma anche forze della “sinistra”.
Un’altra operazione vergognosa è l’utilizzo della memoria dell’Olocausto per la propaganda di guerra.
E’ già sorprendente è che a celebrare il giorno della Memoria siano anche coloro che si adoperano attualmente nella persecuzione dei Rom, degli extracomunitari e dell’organizzazione delle guerre contro i paesi scomodi, per riportarli nel cortile dello zio Sam e dei suoi alleati europei. Dalla prima guerra all’Iraq, passando per la Jugoslavia fino alla recente aggressione alla Libia, ai tentativi di distruggere lo stato siriano e all’intervento in Mali, le forze occidentali aggrediscono stati sovrani, o intervengono a favore di uno schieramento interno contro l’altro. Il fatto stesso che le forze occidentali siano incommensurabilmente superiori a quelle del cosiddetto nemico, il bombardamento sulle infrastrutture industriali e civili e l’embargo sono strumenti di sterminio, l’uso di uranio impoverito in Jugoslavia o la strage di Falluja sono esempi particolarmente significativi.
Ma è interessante notare che quando uno stato scomodo viene aggredito, in genere parte una campagna mediatica, in cui lo stato da aggredire viene equiparato alla Germania nazista, il capo di stato del Paese a un novello Hitler: ciò è avvenuto principalmente nella preparazione mediatica della guerra all’Iraq e alla Jugoslavia: nel secondo caso, in particolare, come a suo tempo fece notare Angelo d’Orsi, nella vulgata mediatica, i Serbi venivano paragonati ai nazisti e gli Albanesi agli Ebrei perseguitati.
La strategia mediatica si va modificando: dopo l’11 settembre il modello è stato la “lotta al terrorismo”, ed .attualmente è alla ricerca di nuove strade che possano ancora una volta ingannare l’opinione pubblica.

Torino 28 Gennaio 2013
Tamara Bellone

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Albania: la rinascita nazionalista



Per la prima volta nella storia recente dell'Albania il nazionalismo estremo ha una sua rappresentanza politica: l'Alleanza Rossonera. Un'intervista all'antropologa Armanda Kodra
Armanda Kodra, antropologa di Tirana, si occupa di balcanologia comparata, storia urbana e rapporti interetnici nei Balcani. Ha svolto una ricerca sull'eredità dei bazar ottomani e ha lavorato per diversi anni presso l'Istituto albanese di studi antropologici. Attualmente è ricercatrice presso la School of Slavonic and East European Studies di Londra, dove ha vinto la borsa Alexander Nash in Albanian Studies. Sta svolgendo una ricerca sulle ragioni che hanno portato all'aumento del nazionalismo albanese nei Balcani e sugli scambi transfrontalieri con particolar enfasi sul recente fenomeno dei matrimoni misti serbo-albanesi.

Il nazionalismo è sempre più presente nel discorso pubblico in Albania. E’ una novità?
Il nazionalismo nel discorso pubblico albanese non ha mai smesso di esistere, ma si è intensificato in particolar modo dopo la proclamazione dell’indipendenza del Kosovo. Negli ultimi anni, inoltre, è emerso l’interesse dei media a espandere il mercato vendendo i propri prodotti agli albanesi oltre confine. Il fenomeno si è intensificato con l’emersione delle nuove tecnologie digitali introdotte dal gruppo Top Media, il maggiore gruppo mediatico del paese, che ha cominciato a nutrire il nazionalismo per attirare gli albanesi fuori dall’Albania. Questo esempio è stato seguito da altri media, e ha fatto sì che il nazionalismo diventasse anche merce di consumo.
La novità dell’ultimo anno è che per la prima volta nel discorso politico si è iniziato a parlare apertamente con un linguaggio nazionalista estremista, con forti elementi sciovinisti.
Dopo il crollo del comunismo Tirana si è però sempre vantata di essere un fattore di pace e stabilità nei Balcani, archiviando il sogno della Grande Albania e proclamando ufficialmente che gli albanesi si sarebbero riuniti solo all’interno dell’Unione europea...
Questo è stato parte del discorso ufficiale dei partiti, però non vi è mai stato un momento in cui si sia parlato in termini non nazionalisti sul tema della patria, della storia degli albanesi, della storia nazionale, della letteratura o delle arti. Non abbiamo avuto un’alternativa civica, con poche eccezioni, e la storia nazional-comunista non è mai stata messa in discussione.
Ad esempio non è mai stata messa in discussione la narrazione nazionalista sulle origini illiriche e pelasgiche degli albanesi, o il concetto delle terre etniche albanesi “rimaste ingiustamente fuori dai confini dell’Albania”. Il testo "Storia albanese", pubblicato dall’Accademia delle Scienze dell’Albania all’inizio del 2000, si distingue poco dall’edizione del 1959. L’espressione invece che ci riuniremo nell’UE non cela più di tanto “l’irrisolta causa nazionale albanese”.
Attualmente esiste secondo lei un progetto politico segreto di riunificazione?
Non sono in grado di affermare una cosa del genere. Non credo. Sono sempre scettica riguardo ad eventuali progetti segreti, non perché non esistano, ma perché non si può mai sapere quanto facciano sul serio i loro ideatori.
Dubito fortemente anche che la nostra élite politica abbia degli ideali, a parte il profitto personale. Se vi sono stati progetti del genere in passato si sarà trattato probabilmente di un piano B da attuare nel caso in cui le altre manipolazioni non fossero state più sufficienti per mantenere il potere.
Per quanto riguarda gli intellettuali, invece, la questione è diversa. Sono sempre stati motivati da una prospettiva del genere. In Albania viene considerato un intellettuale degno di questo nome solo chi si impegna al servizio della nazione.
Perché quest'apertura senza veli al nazionalismo avviene proprio ora? Non è un paradosso dato che l’Albania sta uscendo sempre più dall'isolamento del passato: i rapporti con i vicini sono molto costruttivi, il libero movimento nei Balcani e nell’area Schengen...
Avviene ora perché l’indipendenza del Kosovo ha dato la libertà ai kosovari di pretendere quello che le élite di Tirana avevano promesso: essere un'unica nazione. Queste idee vengono oggi articolate sempre più anche perché non vi sono più gli ostacoli che impedivano di mettere in piedi attività comuni. Abbiamo mass media in comune, dalla parte kosovara arriva il messaggio di volersi riunire, e in Albania non vi è opposizione a questo poiché in fondo tutti a scuola hanno imparato che la causa albanese è tuttora irrisolta.
Inoltre, la sostanziale mancanza di differenze tra il Partito democratico, il Partito socialista e le loro clientele fanno del nazionalismo un’alternativa che la gente potrebbe percepire come l’unico ideale in mezzo a tanta mancanza di scrupoli.
Bruxelles non è più una prospettiva attraente?
Bruxelles è sempre una prospettiva attraente per gli albanesi. A mio avviso se avessimo ottenuto una data per l’inizio dei negoziati per l'ingresso UE i toni del premier Sali Berisha non sarebbero ora così nazionalisti, non avrebbe promesso i passaporti albanesi a tutti gli albanesi etnici, perché Berisha sarebbe stato orgoglioso di aver portato il paese più vicino all’UE.
Il premier si è reinventato in veste nazionalista?
No, Berisha fa tutto per il potere. Se il cosmopolitismo fosse un’ideologia che lo legittima a mantenere il potere, lui diventerebbe un filosofo del cosmopolitismo.
Fino a che punto può arrivare con il suo nazionalismo?
Non lo so. Quel poco che si può dire con certezza di Berisha e dei politici albanesi è che sono assolutamente irresponsabili e imprevedibili. Se i rappresentanti UE e USA non si oppongono a queste iniziative, può darsi che continui a fare il nazionalista almeno fino alle prossime elezioni.
Quanto contano UE e USA oggi in Albania?
Riguardo alla loro importanza, direi che è enorme. Ma dovrebbero fare più pressioni. Sono forse gli unici che fanno sì che i nostri politici feudali non ci schiaccino del tutto.
Le reazioni negative di UE e USA però dovrebbero dissuadere gli albanesi dal sostenere leadership nazionaliste...
Credo che Berisha sia diventato un nazionalista per fare in modo che l’Alleanza Rossonera non porti via elettori al suo Partito democratico. La strategia di Berisha per un verso rafforza la sua immagine presso gli albanesi oltre confine, per l’altro conserva degli equilibri elettorali. Per ora non vi sono formazioni politiche non nazionaliste. Alcuni sono più moderati, vogliono la riunificazione ma evitando guerre, altri sono pronti ad andare in guerra.
Ci sono diversi tipi di nazionalismo?
Sì, abbiamo un pluralismo di nazionalismi. Abbiamo un nazional-cattolicesimo, un nazional-islamismo, quelli che dicono che la sinistra ha venduto l’Albania alla Jugoslavia, quello dei socialisti che sostengono che re Zog era un traditore e che i nazionalisti ci hanno venduto ai nazi-fascisti. Ciascuno di essi sostiene naturalmente di essere il vero nazionalismo.
Che tipo di conseguenze può avere questo nazionalismo fuori dall’Albania?
Creerà tensioni nei rapporti etnici in Macedonia e in Serbia. Destabilizzerà la Macedonia facendo aumentare a sproposito le speranze dei kosovari di integrarsi in un unico stato albanese con l’Albania. Il governo macedone ha fatto il possibile per far in modo che la situazione non degeneri tra albanesi e macedoni, ma i rapporti tra i due gruppi sono congelati e vi è scarsa fiducia in un futuro migliore. Nel sud della Serbia non vi sono sforzi seri da parte del governo di Belgrado per migliorare i rapporti interetnici, e il nazionalismo proveniente da Tirana non fa che peggiorare le cose anche a livello micro, nell’interazione tra i cittadini.
Vi è da temere il peggio?
Nessuno può dirlo. Ma quando il male diventa banale, e quindi presente ovunque fino al punto che non ci si accorge più del fatto che esista, è possibile che si crei una galvanizzazione difficile da tenere sotto controllo. E se qualche politico vorrà sfruttare le circostanze per andare al potere, la situazione diventerà esplosiva. Non dobbiamo mai dimenticarci della fine della Jugoslavia.
Pensa che i nazionalisti albanesi abbiano un programma politico concreto quando parlano della riunificazione delle terre albanesi?
Il progetto politico è sempre esistito. E’ il progetto che ha spinto alla rivolta armata in Kosovo, quello che è stato sostenuto anche da Enver Hoxha e dal partito comunista albanese, quello da cui è nato l’UCK in Svizzera, e che oggi viene portato avanti da Vetevendosja in Kosovo e da Koço Danaj in Albania. Non penso però che questo progetto abbia il sostegno dello stato albanese dopo il 1990. Ma non significa che ciò non possa accadere.
Oggi, con un mercato televisivo comune, l’Autostrada della Nazione che accorcia le distanze tra Pristina e Tirana, il libero movimento, gli scambi economici, i social network e numerosi eventi pan-albanesi, ha senso parlare di rimozione di confini?
Non ha senso. Però il nazionalismo albanese è rimasto quello dei tempi di Rilindja, non ha nulla di civico o di pragmatico. Il problema è che il sostegno all’Albania etnica in Kosovo e in Albania è sempre in crescita, in base a quanto rilevano i sondaggi di ICG e Gallup Balkan Monitor. La domanda da porre oggi sarebbe: siete davvero disposti ad affrontare una guerra per l’Albania etnica?
A leggere i commenti nei forum albanofoni c’è da spaventarsi, sembra che ci sia gente che non vede l’ora di andare in guerra. Però nei vari sondaggi non è mai stata posta questa domanda.
Bisogna spiegare che la “riunificazione delle terre albanesi” non si può fare senza una guerra balcanica tra l’Albania, la Grecia, la Macedonia, la Serbia e il Montenegro. Inutile menzionare che tipo di conseguenze distruttive potrebbe avere per l’Albania, e che tipo di disastro umano comporterebbe.
Io penso che l’unica possibilità sia di creare una forma di Benelux balcanica tra tutti i paesi balcanici. Altrimenti saremo sempre una periferia inquieta dell’Europa.



Giornata della Memoria: il Porrajmos

1) Sui Rom morti durante la Seconda Guerra Mondiale

2) Recensione del libro UN NOMADISMO FORZATO di A. Bejzak e K. Jenkins


SEGNALAZIONE: GIORNATA DELLA MEMORIA 2013 A NIGUARDA (MILANO)

Da:  ANPI Crescenzago <anpi.crescenzago @ libero.it>
Oggetto:  GIORNATA DELLA MEMORIA 2013 A NIGUARDA (MILANO)   -   6 VIDEO
Data:  27 gennaio 2013 11.40.01 GMT+01.00
 
INTERVENTI DI DIJANA PAVLOVIC, FRANCO BOMPREZZI, MARCO MORI, EMANUELE FIANO, ONORIO ROSATI E RENATO SARTI:
 
Sabato 26 gennaio 2013 presso il circolo “Francesco Rigoldi” di via Hermada 8 a Niguarda, quartiere della Zona 9 di Milano, iniziativa in occasione della “Giornata della Memoria”, per non dimenticare la Deportazione e lo sterminio pianificato nei lager nazifascisti.
Proiezioni di audiovisivi ed interventi di Dijana Pavlovic (attrice, Comunità Rom), Franco Bomprezzi (portavoce Ledha), Marco Mori (ARCI Gay di Milano), Emanuele Fiano (Comunità Ebraica di Milano), Renato Sarti (attore, Teatro della Cooperativa di Niguarda) ed Onorio Rosati (Sindacato CGIL).


=== 1 ===

GIORNO DELLA MEMORIA -- 27 GENNAIO 2013

Quanti conoscono la parola "Porrajmos"?
Porrajmos nella lingua dei Rom significa "divoramento" e indica la persecuzione e lo sterminio che il Terzo Reich attuò nei loro confronti.


tratto da: PARLONS TSIGANE Histoire, culture et langue du peuple tsigane - pag. 21-22 - Editions l'Harmattan Paris - di Vania de Gila-Kochanowski trad. Alessandro Bellucci 
 

SUI ROM MORTI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Se io testimonio oggi che la "soluzione finale" per i rom era stata progettata da Hitler fin dal 1933 (cf: "MEIN KAMPF") e questo piano mostruoso è stato attuato con un genocidio di 7.500.000 di noi, allora io avrò assolto al mio dovere affinchè dopo 100 anni o addirittura 50 anni tutta questa pagina della storia rom non sia definitivamente cancellata. Si tratta di un "olocausto" regolarmente dimenticato... o volontariamente occultato e la sua valutazione merita alcune spiegazioni.
Prima della guerra c'erano circa 25 milioni di rom dispersi attraverso l'Europa, di cui soltanto 10 milioni si riconoscevano ufficialmente come rom. Dunque la maggioranza degli studiosi dei rom, amici come nemici, sono d'accordo per stimare una ecatombe del 75% che corrisponde ad un genocidio di circa 7.500.000 di individui.
Si è lontani dalle 500.000 vittime - cifra spesso usata per quantificare il genocidio rom nel suo insieme. Io, come anziano prigioniero dei campi di sterminio nazisti, sono stato invitato a testimoniare nel processo intentato contro il negazionista francese Robert Faurisson.
Gli archivi messi a mia disposizione, provenienti da Germania, Polonia, Cecoslavacchia, Bulgaria, ecc., permettono di ritenere che i 500.000 rom morti nei diversi campi di concentramento si riferiscono agli individui di ogni sesso e di ogni età che sono serviti per gli esperimenti etnici e biologici dei tecnici e dei medici criminali nazisti.
Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti ben conosciuto, indica la cifra di 2 milioni per l'olocausto del rom nei campi e nelle prigioni. Ma tutti gli altri? Le testimonianze delle popolazioni europee sotto il nazismo abbondano nel descrivere esecuzioni di massa: nei campi, nelle foreste, nelle strade, ecc.. E, come dimenticare, tutti i rom morti nelle armate regolari o fra i partigiani? E i giovani rom arruolati a forza nelle SS o nella Wermacht, evasi, ripresi e fucilati.


Vania de Gila-Kochanowski, sociologo e linguista rom, nato nel il 6 agosto 1920 in Polonia, ex deportato, diventato poi dal 1959 cittadino francese si divideva tra la lotta per i diritti dei rom, gli studi e la scrittura. E' stato uno dei primo rom ad ottenere due lauree, una agli inzi degli anni '60, in studi linguistici e la seconda in etno-sociologia. Diventato professore, ha contribuito in maniera unica e significativa a diffondere la storia e la cultura dei rom per affermarne il valore. E' morto a Parigi il 18 maggio 2007. I suoi libri non sono mai stati tradotti in Italia

(a cura di P. Cecchi per CNJ onlus)


=== 2 ===

Sul perdurante genocidio dei Rom di Kosovo e Metohija

Recensione del libro UN NOMADISMO FORZATO di A. Bejzak e K. Jenkins

di Andrea Martocchia
(segretario, Coord. Naz. per la Jugoslavia - onlus)
per il sito Marx 21 - http://www.marx21.it/

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Adem Bejzak e Kristin Jenkins

UN NOMADISMO FORZATO
...di guerra in guerra... Racconti rom dal Kosovo all'Italia

Edizioni Archeoares, 2011
7 euro, 180 p., ISBN 978-88-96889-22-0
---

Qualcuno ha scritto che "la Giornata della Memoria non funziona" (1). Sicuramente sussiste un problema di fondo, che riguarda l'oggetto stesso della ricorrenza. Infatti, a rendere giustizia, non solo dal punto di vista morale ma proprio dal punto di vista storico, alle vittime del nazifascismo si dovrebbero includere tutti i crimini del nazifascismo verso intere categorie e soggetti nazionali e/o razziali; viceversa, nella stessa legge istitutiva della Giornata della Memoria nel nostro paese (2) si chiede di ricordare solamente "la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte", e con loro "i giusti", cioè coloro che "si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati". 

L'omissione è dunque flagrante. Non è ricordato, ufficialmente, il genocidio dei Rom - genocidio che, vista l'attualità italiana, visti i ripetuti pogrom ai danni della comunità Rom in Italia, visto il razzismo così diffuso, generalizzato, nella nostra società, nessuno dovrebbe osare di omettere dalla narrazione sulla nostra storia recente, tantomeno nella Giornata della Memoria. Non c'è spazio, sulla carta, nemmeno per ricordare - o scoprire e studiare - il genocidio dei disabili, dei gay, le immani stragi commesse sulle popolazioni civili, le politiche razziste del nazifascismo verso i popoli slavi, i pogrom che i cattolici "uniati" commisero contro altri cristiani in Ucraina e Bielorussia; né per ricordare il sistema concentrazionario ed i crimini degli ustascia nei Balcani, pur così vicini all'Italia sia per rapporti storico-politici (attraverso Fascismo e Vaticano) sia geograficamente.

In questo "mare di silenzio" si perde in particolare la vicenda - pluridecennale, in verità, ma che toccò un apice drammatico proprio sotto l'occupazione nazifascista - delle pulizie etniche commesse  in Kosovo e Metohija (Kosmet). A ricordarla, dallo specifico punto di vista della comunità Rom kosovara, è uno straordinario libricino frutto della collaborazione di un esule rom kosovaro, Adem Bejzak, e di una esperta di diritti delle minoranze, Kristin Jenkins.

Bejzak, classe 1957, è originario di Kosovo Polje. Di mestiere autista e meccanico, militante nella Lega dei Comunisti di Jugoslavia, risiede nella sua terra e vive tante vicende, raccontate nel libro, finché l'aggravarsi della situazione sociale ed economica non gli fa scegliere l'emigrazione all'estero. Soprattutto l'embargo imposto dai paesi occidentali contro la Repubblica Federale di Jugoslavia a partire dal 1990, finalizzato a piegare il paese per poterlo successivamente smembrare, costringe Bejzak a cercare migliore fortuna all'estero per sostenere finanziariamente a distanza la famiglia rimasta in Kosovo. 
A Bologna, però, per la prima volta vede in quali condizioni disumane vivano i rom in Italia. Dal 1993 si stabilisce nel campo dell'Olmatello a Firenze; a partire dall'agosto 1999 si uniscono a lui tutti i suoi famigliari, costretti all'esilio dal nuovo regime razzista instaurato in Kosovo dalla NATO. E' allora che anche la moglie Bedria e i figli "scoprono" le condizioni miserabili dei campi rom italiani - e non possono credere ai loro occhi...
Solo nell'ottobre 2006, dopo innumerevoli difficoltà, la famiglia Bejzak ottiene una casa vera e propria dove risiedere, dal Comune di Firenze. E per questo dovrebbe ritenersi fortunata, vista la condizione della maggiorparte dei rom che abitano in Italia. Eppure, i Bejzak non erano "nomadi" prima, in Jugoslavia... 

Bejzak scrive che in Kosovo "per secoli prima della guerra, la popolazione rom ha vissuto una vita sedentaria svolgendo lavori onesti... Con la guerra del 1999, le nostre case ed i nostri terreni sono stati bombardati, bruciati e derubati ed i rom sono stati costretti a fuggire attraverso il mare Adriatico verso altri paesi europei... Oggi nell'ex Jugoslavia sono stati creati nuovi stati ed i rom storici rimasti lì non hanno avuto nessun riconoscimento... Nonostante varie distinte ricerche etnografiche sui rom, c'è una mancanza di ricerca della verità sull'origine del nomadismo forzato [sic] del popolo rom e di conseguenza sono nati molti pregiudizi e discriminazioni" (p.17).

Le parole di Adem, Bedria e dei loro figli sono state raccolte da Kristin Jenkins, studiosa della problematica dei rom del Kosovo, con vero e proprio sgomento: quella stessa sensazione che molti di noi hanno dovuto sperimentare in questi anni incontrando la verità della tragedia jugoslava. Una verità a tutti gli effetti elusa, mistificata tra fiumi di parole "a effetto" che dicono di solito il contrario di quello che sarebbe necessario dire e sapere. Sul Kosovo, ad esempio: il nostro telespettatore è abituato ad imputare allo Stato jugoslavo, plurinazionale e improntato ai valori socialisti di giustizia sociale ed eguaglianza nazionale (fino al suo scioglimento avvenuto il 4 febbraio 2003), quei crimini di prevaricazione e "pulizia etnica" che sono stati invece commessi dalla parte antagonistica, cioè il secessionismo pan-albanese e l'imperialismo della NATO.

Il libro è anche un viaggio nella storia recente del popolo Rom. Vi incontriamo rom partigiani, attivi combattenti contro il nazifascismo oppure vittime del genocidio praticato nei lager gestiti dagli ustascia; vi incontriamo attivisti del movimento per i diritti nazionali rom, sorto in Kosovo a partire dal 1968; vi incontriamo rom comunisti, impegnati a frequentare scuole di formazione politica nella Jugoslavia degli anni Settanta, e donne rom impegnate ad emanciparsi dalle tradizioni arcaiche della cultura di provenienza. Vi incontriamo rom giovani e anziani, donne e uomini tutti insieme bloccati in coda in una autocolonna lunga 30 chilometri che il 17 giugno 1999, a passo d'uomo, li conduce fuori dalla loro terra, e poi in agosto a Bar (Montenegro), sotto un grande albero nei pressi del porto ad attendere per un mese la nave che li deve portare in esilio. Vi incontriamo rom che nolenti o volenti vengono registrati come "albanesi" dalla burocrazia - perché è "politicamente corretto" e così, forse, si riesce a far valere qualche diritto umano elementare.

Nel libro, oltre a leggere, vediamo Bejkaz in fotografia, partecipare ad una manifestazione ad Aviano nella primavera 1999, per protesta contro le "bombe imperialiste" e la politica della NATO di strumentalizzazione della questione "etnica" nella sua terra. Sempre in fotografia vediamo la casa di famiglia di Adem nei giorni felici (pp.19 e 60) e devastata (a p.50 e in copertina) da NATO e UCK tra di loro alleati. E vediamo Adem in visita da suoi connazionali e presso i luoghi-simbolo della tragica storia Rom: ad esempio a Kragujevac, nel parco delle Sumarice. (3)

C'è il racconto di una visita di Bejkaz ad Auschwitz, nell'ambito di una delegazione del Comune di Firenze: lì Adem rivive, fino a sentirsi male, i patimenti dei suoi avi. C'è il racconto toccante del primo ritorno della famiglia Bejzak in Serbia, 6 anni dopo i bombardamenti, in visita dai genitori di Adem a Nis: nella Serbia meridionale riconoscono i tristi effetti dei bombardamenti nella vita sociale, ma anche la laboriosità e la dignità della loro gente, ed incontrano ex partigiani rom, attivisti dell'associazionismo rom, parenti ed amici originari del Kosovo con le loro storie drammatiche. Ritrovano i segni del genocidio attuato dai nazifascisti e della Resistenza eroica di tanti rom: storie della II G.M. che non hanno goduto del riconoscimento storiografico e morale che era dovuto.

Il libro si chiude con alcune note sulle principali tradizioni Rom (Djurdjevdan, matrimoni) e con alcune poesie di Adem Bejzak. Ci auguriamo che una seconda edizione, che si pensa imminente, consentirà una ben maggiore diffusione di questo piccolo tesoro, la cui lettura è di grande aiuto a chiunque voglia comprendere la stretta concatenazione esistente tra questioni apparentemente distinte: condizione Rom, secessione del Kosmet, crimini del nazifascismo, Giornata della Memoria.


Note
(1) "2010: Perché la giornata della Memoria non funziona", su http://www.olokaustos.org/2010.htm .
(2) Il Giorno della Memoria (27 Gennaio) è una ricorrenza istituita con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 dal Parlamento italiano che ha in tal modo aderito alla proposta internazionale. Il testo dell'articolo 1 della legge così definisce le finalità del Giorno della Memoria: « La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. » (Legge 20 luglio 2000, n. 211, Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 177 del 31 luglio 2000, dal sito web Parlamento Italiano. Riportato il 12 aprile 2007.)
E' il caso di rammentare il significato del termine GENOCIDIO: ogni atto commesso con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.


(srpskohrvatski / francais)


Annie Lacroix-Riz, profesor emeritus , Univerzitet Pariz 7


70 –godišnjica kraja staljingradske bitke i pobjede u Staljingradu 2 februara 1943


Kapitulacija von Paulusove armije u Staljingradu 2 februara 1943 značila je, za svjetsko javno mnjenje, odlučan vojni preokret, koji nipošto nije bio prvi u tom smjeru.

Ta je pobjeda proisotekla iz ruskih priprema za rat s Njemačkom, koji se smatrao neizbježnim. Posljenji francuski vojni ataše u SSSR-u, Palasse, o tome je dao realne ocjene. Nasuprot tadašnjem ministru vojske, koji je bio zagriženi protivnik sklapanja trojnog saveza Francuske sa Sovjetima (Moskva, Pariz, London), što bi bilo prisililo Reich na rat na dva fronta, ovaj je promatrač imao drugačije mišljenje, jer je upoznao sovjetske ratne mjere u ekonomiji, pripreme Crvene Armije i stanje duha stanovništva, koje je bilo rašireno u SSSR-u, a odisalo je «nenarušivim povjerenjem u vlastitu obrambenu moć», koja će sasvim sigurno poraziti svakog napadača.

Ishod u sukobima s Japanom na granici SSSR-a, Kine i Koreje, u godine 1938-1939 (kad se Žukov već istaknuo) još su više učvrstili francuskog vojnog atašea u takvom mišljenju. To objašnjava zašto je Tokio razborito sklopio s Moskvom 13 aprila 1941 «pakt o neutralnosti», koji je Moskvi prištedio rat na dva fronta.

Nakon njemačkog napada 22 juna 1941 odmah se vidjelo da je smjesta došao kraj Blitzkriega. General Paul Doyen, koji je od vlade u Vichyju bio delegiran u komisiju za potpisivanje primirja, ovo je poručio maršalu Pétainu 16 jula 1941:»Iako III Reich u Rusiji bilježi neosporive strateške uspjehe tok operacija ipak ne odgovara mišljenju, koje je o tim operacijama postojalo kod ratnih vođa. Oni uopće nisu računali na tako bjesomučan otpor na koji naišli kod ruskog vojnika, na toliko strasno fanatizirano stanovništvo, ni na tako iscrpljujuće gerilske napade u pozadini, niti na tako ozbiljne gubitke te na potpunu prazninu na koju nailazi zavojevač, niti na toliko ozbiljne poteškoće u snabdjevanju i u savladavanju komunikacija. Ne brinući se za to što će je sutra pogoditi glad, Rusija pali sve bacačima plamena: žito, sela, razara sve što može da se kreće na kotačima i sabotira sva nalazišta siovina.»

Taj je general vichijevske Francuske smatrao njemački rat toliko kompromitiranim da je već od tog dana počeo zagovarati prelazak Francuske s njemačkog tutorstva (koje prosuđuje još uvijek neophodnim) na američko tutorstvo. Jer, piše on «šta god se dogodilo svijet će morati, u idućih desetak godina, slušati volju Sjedinjenih Država Amerike.»

Vatikan, najbolja obavještajna služba svijeta, jako se uzbudio početkom 1941 zbog «njemačkih teškoća» i takvog «ishoda, u kojem će Staljin biti pozvan na organiziranje koncerta mira za Cherchilla i za Rosvelta».

Drugi put je ratna sreća dovela do zaustavljanja Wermachta pod Moskvom, u mjesecima novembru i decembru 1941, a ta je pobjeda pod Moskvom proslavila političku i ratnu sposobnost SSSR, koju su simbolizirali Staljin i Žukov. U to vrijeme Sjedinjene Države još nisu bile službeno ušle u rat.


Njemački Reich vodio je protiv SSSR-a istrebljivački rat, bespoštedan sve do časa njegovog posvemašnjeg povlačenja s Istočnog fronta, ali se Crvena Armija pokazala sposobnom da slomi ofanzive Wermachta , a naročito onu u ljeto 1942 godine, kojoj je cilj bio dokopati se (kavkaske) nafte. Ozbiljni vojni historičari, i to naročito anglo-američke provenijencije, koji se u Francusoj ne prevode, pa prema tome i ignoriraju, danas se najviše bave onim što je dovelo do vojne pobjede Sovjetskog Saveza u odnosu na sukobe koji su počeli u julu 1942 između «dvije armije sa više od miliona vojnika». Crvena Armija dobila je protiv Wemachta »tu ogorčenu bitku», koju su iz dana u dan budno pratili svi narodi u okupiranoj Evropi i svi ostali narodi svijeta, i koja je «prevazišla žestinom sve bitke iz I svjetskog rata, jer se borba vodila za svaku kuću, za svaki rezervoar za vodu, za svaki podrum, za svaku zaostalu ruševinu». Ta pobjeda, kako je napisao britanski historičar John Ericson «postavila je SSSR među svjetske moćnike» i bila je jednako značajna kao i bitka «kod Poltava 1709 /protiv Švedske/, koja je Rusiju preobrazila u evripsku vojnu silu».

Sovjetsku pobjedu pod Staljingradom, treću sovjetsku po redu vojnu pobjedu, ljudi su smjesta doživjeli kao obrt ratne sreće, tako jasan i očit da ga čak ni nacistička ratna propaganda nije uspjela prikriti. Taj je događaj odmah najizravnije postavio pitanje što će se dogpditi nakon rata, budući da su Sjedinjene Države obogatile u ratnom sukobu, u suprotnosti sa Sovjetskim Savezom, koji je trpio velike gubitke sve do 8 maja 1945. Opća statistika poginulih u II svjetskom ratu svjedoči o doprinosu Sovjetskog Saveza i o općem ratnom naporu koliko i o ogromnoj patnji koju je taj ratni sukob značio za njegovo stanovništvo: 26 do 28 miliona mrtvih (brojka se neprestano povećava) od 50 miliona ratom zahvaćenog stanovništva, od čega više od polovine čine civilne žrtve.

Amerikanaca je poginulo manje od 300.000 na japanskom i na evropskom frntu. Ne vređamo istoriju kad tvrdimo da su Sjedinjene Države, bogate i snažne, gospodari poraća, mogle pobjediti Njemačku zato jer su Rusi zadali Wermachtu udarac, koji ga je smlavio. Nije Wermacht pobijedio «general zima», taj ledini general koji 1917-1918 spriječio Reichswer da ostane na istoku.

Francuska je potvrdila vlastitu rusofobiju, koja joj je postala opsesijom nakon 1917, a zbog koje je podnijela slom u mjesecima maju i junu 1940, odlučno odbijajući da oda počast i Rusiji prilikom proslave 60-godišnjice ikrcavanja u Normandiji, 5 juna 1944. Tema o američkom spasavanju «Evrope» nametala se tokom te cijele godini proslave savezničkog iskrcavanja. Mi stariji znamo , čak i kad se ne radi o historičarima, da je Staljingrad značio nadu u prestanak hitlerovskog barbarstva.

Od tog pobjedonosnog dana «nada je prešla na drugu stranu, a borba je promijenila duh». Samo zbog opsesivnog ideološkog lupanja i lupetanja mlade generacije o tome ne znaju ništa.


Bibliografija:

John Ericson, 2 toma: The Road to Stalingrad:Stalin's war with Germany, The Road to Berlin: Stalin's War with Germany, Prvo izdanje 1983 London; drgo izdanje New Haven.

London. Yale Unoversity Press, 1999:

Geoffrey Roberts, Stalin's Wars: From World War to Cold War, 1939-1953. New Haven&London, Yale University Press, 2006.

Stalin's general: the life of Georgey Zhukov, London, icon Books, 2012.

David Glantz i Jonathan M. House, Armagedon in Stalingrad: September-November 1942 (The Stalingrad Trilogy, 2 toma, Moder War Studies, Lawrance, Kansas, University Press of Kansas 2009.

Alexander Werth, la Russie en guerre, paris, Stock, 1964.


(prevod: Jasna Tkalec)




Da: "Histoire" <histoire @ mcicom.net>
Data: 23 gennaio 2013 12.05.54 GMT+01.00
Oggetto: [listalr] 1943 - 2013 Le sens de la victoire soviètique de Stalingrad.
Rispondi a: histoire @ mcicom.net


Chers amis,

L’importance historique et civique de la bataille et de la victoire soviétique de Stalingrad me semblent imposer :

1° participation à la cérémonie organisée le samedi 2 février près du métro Stalingrad : voir invitation ci-jointe.

2°  un rappel sur le sens de Stalingrad, le texte ci-joint, que j’ai rédigé pour la revue La nouvelle presse.

Je profite de l’occasion pour vous annoncer que paraîtra prochainement  l’excellent ouvrage de Geoffrey Roberts, dont je sollicite la traduction depuis sa parution (voir sur mon site, l’article « Geoffrey Roberts, Stalin’s Wars, From World War to Cold War, 1939-1953 : un événement éditorial », 2007, sur le site www.historiographie.info), aux éditions Delga (j’en rédigerai la préface). Il figure naturellement dans la bibliographie succincte que j’ai ajoutée à ce petit texte, avec son récent ouvrage, Stalin’s general: the life of Georgy Zhukov. London, Icon Books, 2012.

Amitiés, et meilleurs vœux pour 2013.

 

Annie Lacroix-Riz

 

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www.historiographie.info



1)

HONNEUR et GRATITUDE ETERNELLE du PEUPLE FRANÇAIS aux HEROIQUES COMBATTANTS DE STALINGRAD

Le Général de Gaulle et les Français reconnurent le rôle capital de l’Union Soviétique dans la victoire sur l’hitlérisme.
Alors que, de l’école aux médias en passant par les déclarations du « parlement européen », une propagande de chaque instant prétend amalgamer l’Union Soviétique au Troisième Reich, les vrais démocrates gardent au cœur les combattants de Stalingrad, de Koursk et de Leningrad qui, au prix de sacrifices inouïs, ont brisé la machine de guerre nazie, ont permis la contre‐offensive générale de l’Armée rouge et la prise de Berlin, pendant qu’à l’Ouest s’ouvrait enfin le second front contre la Bête immonde hitlérienne.
L’impératif de l’histoire conduisit pendant la seconde guerre mondiale à « la belle et bonne alliance » entre l’URSS et la France combattante reposant sur la coopération entre peuples libres, égaux et fraternels, coopération toujours d’actualité au plan européen et mondial. Le général de Gaulle en donna une illustration à son arrivée à Moscou, le 20 juin 1966, répondant au président NV Podgorny, il évoqua la grande Russie qu’il avait vue en 1944 : « tendue dans l’esprit guerrier qui allait assurer sa victoire et, pour une très large part celle de la France et de ses alliés », puis à la réception au Kremlin, en soulignant chez les Français le sentiment de solidarité, il revint sur « la part capitale que l’Union Soviétique prit à la victoire décisive », qui précise‐t‐il le 30 juin, a porté l’URSS « au plus haut degré de la puissance et de la gloire » À cette occasion fut signée une déclaration bilatérale qui donna une impulsion considérable à une coopération multiforme. Le domaine spatial en témoigne encore.
Quoi qu’on pense de l’URSS et de son histoire – et cela appelle de notre point de vue de nombreux débats exempts d’intolérance et de caricature – nul ne peut nier que la bataille de Stalingrad prend place dans l’Histoire au même niveau que celle de Marathon, où les jeunes démocraties grecques stoppèrent l’Empire mède – ou de Valmy, où l’armée de la Révolution française repoussa les envahisseurs de l’Europe contre‐révolutionnaire.
Nous avons commémoré, le 2 février 2008 à Paris, le 65ème anniversaire de la victoire de Stalingrad car le sommet de l’ignominie avait été atteint par les gouvernements profascistes des Pays Baltes qui, avec la caution de l’Union Européenne, dressaient des monuments à la gloire des SS. Notre solidarité va à la puissante et légitime riposte qui s’est manifestée en Russie et dans les pays de la CEI défendant l’honneur et l’héroïsme des combattants qui sacrifièrent leur vie pour la liberté.
À l’heure où l’UE, arrogamment pilotée par Berlin, écrase les peuples, leur souveraineté nationale et leurs acquis sociaux, à l’heure où des dirigeants du MEDEF appellent publiquement à « changer d’aires » pour mieux liquider la nation et les conquêtes du CNR, à l’heure où les peuples se dressent de plus en plus contre les guerres impérialistes et contre la dictature des marchés financiers et de leur bras armé l’OTAN menaçant la Russie et les Etats de la CEI avec le bouclier antimissiles américain, à l’heure où la criminalisation du communisme en Europe de l’Est suscite une chasse aux sorcières liberticide et prépare la revanche posthume des fascismes,
Les signataires de cet appel, représentants de sensibilités politiques distinctes.
Appellent la population de France à continuer le combat des héros de Stalingrad et de la Résistance antifasciste et patriotique en défendant l’indépendance nationale, la démocratie, les conquêtes sociales, pour qu’un nouveau Reich euro‐atlantique destructeur des libertés ne prenne pas la succession de Hitler sous des oripeaux pseudo‐démocratiques ;
Appellent à combattre sous toutes ses formes le racisme et la xénophobie d’Etat ;
Condamnent l’anticommunisme, qu’ils ne confondent pas avec la discussion contradictoire et argumentée sur le bilan de la première expérience socialiste de l’histoire, et dans lequel ils voient avant tout une arme idéologique de l’oligarchie capitaliste pour briser l’ensemble des conquêtes démocratiques de notre peuple et de tous les peuples.
Demandent que le service public à France télévisions 1 et à la radio programme des émissions sur l’Armée Rouge et à son année phare de 1943 avec les victoires de Stalingrad, Koursk, le lancement de l’offensive finale sur Berlin et la coopération du général de Gaulle‐URSS, avec son plus beau fleuron : le régiment Normandie‐Niemen ainsi que la participation soviétique au combat animée par le mineur ukrainien Vasil Porik , de 1942 à 1944, dans les mines et les corons du Nord‐Pas‐de‐ Calais, combat ouvert par la Grande Grève Patriotique de mai‐juin 1941.
Dans le respect de leurs convictions propres, les personnalités signataires appellent également au rassemblement du 2 février 2013, place de la bataille de Stalingrad, à Paris.
C’est une exigence d’avenir que de célébrer le 70ème anniversaire de la victoire de Stalingrad dans l’union des forces patriotiques, républicaines et antifascistes, d’exprimer la gratitude éternelle aux combattants de l’Armée Rouge dans cette ville martyre où se joua le destin de l’humanité.
En multipliant les initiatives décentralisées allant dans le même sens dans la semaine précédant cet anniversaire les signataires de cette déclaration appellent les travailleurs, les femmes et les hommes, les jeunes défenseurs de la paix, du progrès et de l’indépendance nationale et résolus à contribuer à la défaite du fascisme, du racisme et de la xénophobie d’Etat, de l’impérialisme, à se mobiliser et à mobiliser pour que résonne dans la capitale de la France,

LE RASSEMBLEMENT NATIONAL AVEC UNE REPRESENTATION
INTERNATIONALE qui aura lieu SAMEDI 2 FEVRIER 2013
à 14 h 30 (pour les organisateurs) et 15 h00 (pour la manifestation),
PLACE DE LA BATAILLE DE STALINGRAD (métro Stalingrad)
avec prises de paroles et un dépôt de fleurs au monument des héros de Stalingrad.

Coordinateur : Pierre Pranchère, ancien résistant, député honoraire, 2 Puy Salmont 19800 Saint‐Priest‐ de‐Gimel, courriel : Pierre.pranchere@... – tél : 05 55 21 35 55
Pour vous associer, envoyez votre signature à Jany SANFELIEU (jany.sanfelieu@...), en indiquant : Nom – prénom / Qualités / Adresse / Courriel – tél.
1 Solliciter M. Alain le Garrec, médiateur à France télévisions 7 Esplanade Henri de France 75015 Paris. Tél :01 56 22 99 61


2)

70E ANNIVERSAIRE DE LA VICTOIRE SOVIÉTIQUE DE STALINGRAD, 2 FÉVRIER 1943

Annie Lacroix-Riz, professeur émérite, université Paris 7

La capitulation de l’armée de von Paulus à Stalingrad, le 2 février 1943, marqua, pour l’opinion publique mondiale, un tournant militaire décisif, mais qui ne fut pas le premier. Cette victoire trouve son origine dans les préparatifs de l’URSS à la guerre allemande jugée inévitable : le dernier attaché militaire français en URSS, Palasse les estima à leur juste valeur. Contre son ministère (de la Guerre), acharné à faire barrage aux alliances franco- soviétique et tripartite (Moscou, Paris, Londres) qui eussent contraint le Reich à une guerre sur deux fronts, cet observateur de l’économie de guerre soviétique, de l’armée rouge et de l’état d’esprit de la population affirma dès 1938 que l’URSS, dotée d’« une confiance inébranlable dans sa force défensive », infligerait une sévère défaite à tout agresseur. Les revers japonais dans les affrontements à la frontière URSS-Chine-Corée en 1938-1939 (où Joukov se fit déjà remarquer) confirmèrent Palasse dans son avis : ils expliquent que Tokyo ait prudemment signé à Moscou le 13 avril 1941 le « pacte de neutralité » qui épargna à l’URSS la guerre sur deux fronts.
Après l’attaque allemande du 22 juin 1941, le premier tournant militaire de la guerre fut la mort immédiate du Blitzkrieg. Le général Paul Doyen, délégué de Vichy à la commission d’armistice, l’annonça ainsi à Pétain le 16 juillet 1941 : « Si le IIIème Reich remporte en Russie des succès stratégiques certains, le tour pris par les opérations ne répond pas néanmoins à l’idée que s’étaient faite ses dirigeants. Ceux-ci n’avaient pas prévu une résistance aussi farouche du soldat russe, un fanatisme aussi passionné de la population, une guérilla aussi épuisante sur les arrières, des pertes aussi sérieuses, un vide aussi complet devant l’envahisseur, des difficultés aussi considérables de ravitaillement et de communications. Sans souci de sa nourriture de demain, le Russe incendie au lance-flamme ses récoltes, fait sauter ses villages, détruit son matériel roulant, sabote ses exploitations ». Ce général vichyste jugea la guerre allemande si gravement compromise qu’il prôna ce jour-là transition de la France du tuteur allemand (jugé encore nécessaire) au tuteur américain, puisque, écrivit-il, « quoi qu’il arrive, le monde devra, dans les prochaines décades, se soumettre à la volonté des États-Unis. » Le Vatican, meilleure agence de renseignement du monde, s’alarma début septembre 1941 des difficultés « des Allemands » et d’une issue « telle que Staline serait appelé à organiser la paix de concert avec Churchill et Roosevelt ».
Le second tournant militaire de la guerre fut l’arrêt de la Wehrmacht devant Moscou, en novembre-décembre 1941, qui consacra la capacité politique et militaire de l’URSS, symbolisée par Staline et Joukov. Les États-Unis n’étaient pas encore officiellement entrés en guerre. Le Reich mena contre l’URSS une guerre d’extermination, inexpiable jusqu’à sa retraite générale à l’Est, mais l’armée rouge se montra capable de faire échouer les offensives de la Wehrmacht, en particulier celle de l’été 1942 qui prétendait gagner le pétrole (caucasien). Les historiens militaires sérieux, anglo-américains notamment, jamais traduits et donc ignorés en France, travaillent plus que jamais aujourd’hui sur ce qui a conduit à la victoire soviétique, au terme de l’affrontement commencé en juillet 1942, entre « deux armées de plus d’un million d’hommes ». Contre la Wehrmacht, l’Armée rouge gagna cette « bataille acharnée », suivie au jour le jour par les peuples de l’Europe occupée et du monde, qui « dépassa en violence toutes celles de la Première Guerre mondiale, pour chaque maison, chaque château d’eau, chaque cave, chaque morceau de ruine ». Cette victoire qui, a écrit l’historien britannique John Erickson, « mit l’URSS sur la voie de la puissance mondiale », comme celle « de Poltava en 1709 [contre la Suède] avait transformé la Russie en puissance européenne ».
La victoire soviétique de Stalingrad, troisième tournant militaire soviétique, fut comprise par les populations comme le tournant de la guerre, si flagrant que la propagande nazie ne parvint plus à le dissimuler. L’événement posa surtout directement la question de l’après-guerre, préparé par les États-Unis enrichis par le conflit, contre l’URSS dont les pertes furent considérables jusqu’au 8 mai 1945. La statistique générale des morts de la Deuxième Guerre mondiale témoigne de sa contribution à l’effort militaire général et de la part qu’elle représenta dans les souffrances de cette guerre d’attrition : de 26 à 28 millions de morts soviétiques (les chiffres ne cessent d’être réévalués) sur environ 50, dont plus de la moitié de civils. Il y eut moins de 300 000 morts américains, tous militaires, sur les fronts japonais et européen. Ce n’est pas faire injure à l’histoire que de noter que les États-Unis, riches et puissants, maîtres des lendemains de guerre, ne purent vaincre l’Allemagne et gagner la paix que parce que l’URSS avait infligé une défaite écrasante à la Wehrmacht. Ce n’est pas « le général Hiver » qui l’avait vaincue, lui qui n’avait pas empêché la Reichswehr de rester en 1917-1918 victorieuse à l’Est.
La France a confirmé la russophobie, obsessionnelle depuis 1917, qui lui a valu, entre autres, la Débâcle de mai-juin 1940, en omettant d’honorer la Russie lors du 60e anniversaire du débarquement en Normandie du 6 juin 1944. Le thème du sauvetage américain de « l’Europe » s’est imposé au fil des années de célébration dudit débarquement. Les plus vieux d’entre nous savent, même quand ils ne sont pas historiens, que Stalingrad a donné aux peuples l’espoir de sortir de la barbarie hitlérienne. À compter de cette victoire, « l’espoir changea de camp, le combat changea d’âme. » Ce n’est qu’en raison d’un matraquage idéologique obsédant que les jeunes générations l’ignorent.

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Bibliographie : 
John Erickson, 2 vol., The Road to Stalingrad: Stalin’s War with Germany; The Road to Berlin: Stalin’ War with Germany, 1e édition 1983, Londres; réédition, New Haven & London, Yale University Press, 1999:
Geoffrey Roberts, Stalin’s Wars: From World War to Cold War, 1939-1953. New Haven & London,Yale University Press, 2006 (qui devrait être traduit dans la période à venir);
Stalin’s general: the life of Georgy Zhukov, London, Icon Books, 2012
David Glantz et Jonathan M. House, Armageddon in Stalingrad: September-November 1942 (The Stalingrad Trilogy, vol. 2, Modern War Studies, Lawrence, Kansas, University Press of Kansas, 2009.
Alexander Werth, La Russie en guerre, Paris, Stock, 1964, reste fondamental. 

Bibliographie restreinte :
Geoffrey Roberts, Stalin’s Wars: From World War to Cold War, 1939-1953. New Haven & London: Yale University Press, 2006 (qui devrait être traduit dans la période à venir);
Stalin’s general: the life of Georgy Zhukov. London, Icon Books, 2012. 
Alexander Werth, La Russie en guerre, Paris, Stock, 1964, reste fondamental.