Informazione



Quattro eroi per la liberta’ italiana


Aurelio Montingelli
25.04.2012

Poletaev, Musolishvili, Bujanov, Avdeev. Quattro eroi sovietici caduti per la liberta’ italiana. Quattro Medaglie d’oro al Valor militare.

Da Mosca la Voce della Russia!

AUDIO: http://m.ruvr.ru/data/2012/04/25/1265095073/4_eroi_per%2520la%2520liberta_italiana.mp3


        Bisogna essere grati all’Avvenire di aver introdotto il tema del 25 aprile con un articolo che gia’ nel titolo prende le distanze da quell’atteggiamento di sufficienza e di indifferenza verso la Russia, oggi prevalente sia a destra che a sinistra.     

Nel suo “Sangue russo per l’Italia libera” Castellanni ha voluto dare un taglio e un colore piu’ letterario che documentario alla storia di Fedor  Poletaev.un soldato sovietico che fuggito da un campo nazista  in Italia si era unito ad un reparto partigiano che operava nella zona di Cantalupo Ligure per cadere da eroe nel febbraio del 1945.

Pochi mesi piu’ tardi egli fu insignito della Medaglia d’oro al valor militare.

Su Poletaev, di cui all’inizio non si conosceva il nome esatto, sono stati scritti dei libri e girati dei film. E’ il partigiano sovietico su cui si e’ posata una certa attenzione dei media e forse della letteratura se e’ vero che Fenoglio si sia ispirato alla sua storia per tratteggiare la figura di Volodka, il soldato russo che compare in “Il partigiano Jonny”.

E’ forse per questo che Castellani scrive che Poletaev” e’ l’unico partigiano straniero medaglia d’oro al valore militare in Italia”.

I partigiani russi decorati in Italia con la Medaglia d’oro al valor militare sono invece quattro: Fedor Poletaev, Kristofor Musolishvili, Nikolai Bujanov, Danil Avdeev. Un numero altissimo se pensiamo che in duecento anni di storia la Medaglia d’oro al valor Militare e’ stata conferita a poco piu’ di duemila persone.

Quattro soldati che rappresentano al meglio quei cinquemila cittadini  sovietici   che in terra straniera non ebbero dubbi su chi fosse il nemico da battere.

Le loro storie sono molto simili come leggiamo nelle motivazioni del conferimento dell’ ultima onorificenza concessa nel 1994

Danil Avdeev

Ufficiale della cavalleria sovietica, si sottraeva alla deportazione nazista e attraverso la Svizzera, guidando un gruppo di connazionali, dopo dura e arditissima marcia, giungeva nelle prealpi Carniche in Friuli. Qui, riuniva in un reparto unico tutti i cittadini sovietici sfuggiti alla prigionia nazista e si metteva agli ordini del comando Garibaldi del Friuli, operando con coraggio e sagacia contro il comune nemico.

Nel novembre del 1944, durante la violenta offensiva nazista lungo le valli dell’alto Tagliamento e dell’Arzino, Danil Avdeev, con alcuni partigiani, nel tentativo di far saltare la strada da dove irrompeva il nemico, venne sopraffatto da ingenti forze naziste e dopo strenua ed eroica difesa che permetteva lo sganciamento dei partigiani italiani, cadde in un sublime atto di eroismo donando la sua giovane vita alla causa della liberazione d’Italia.

Pierlungo di Vito d’Asio in Friuli, 15 novembre 1944.

Kristofor Musolishvili invece era entrato in contatto con i partigiani italiani dopo una fuga di massa da un campo di concentramento nazista con un carico di armi e munizioni. Una storia incredibile che lui faceva raccontare agli altri per innata modestia. Era nato in una povera famiglia di contadini, in un villaggio sperduto fra i monti della Georgia.

Nell’ultimo combattimento della sua vita, prima di darsi la morte per non cadere nelle mani del nemico, nelle campagne del novarese riusci’ ad abbattere  piu’ di 70 soldati nazisti e repubblichini. Era il dicembre del 1944.

La medaglia d’oro gli fu conferita dal presidente Sagarat nel 1970. Una piccola delegazione, fra cui un giornalista di Radio Mosca, si reco’ in Georgia per consegnare l’onorificenza alla vecchia madre.

Peccato che la corrispondenza di Nikolai Kulikov non si sia conservata nei nostri archivi, ma ricordo come descrisse la madre dell’eroe. Una donna alta, il volto scavato sormontato da una crocchia di capelli bianchi, l’eterno vestito nero. Solo in quel momento comprese che il figlio non sarebbe piu’ tornato.

 Nikolai  Bujanov, meno fortunato dovette tentare la fuga per ben quattro volte. Ma nel giugno del 1944 riusci’ a raggiungere la compagnia “Chiatti” che operava sui monti di Castelnuovo dei Sabbioni. In Ucraina la sua famiglia era stata sterminata dall’invasore e in ogni scontro con i tedeschi si sentiva che aveva un conto aperto con loro.

Dopo un mese il suo nome era diventato una leggenda e come un eroe leggendario cadde con la mitragliatrice in pugno riuscendo a porre in salvo i suoi compagni d’arme.

Poletaev,

Musolishvili,

Bujanov,

Avdeev.

Quattro eroi sovietici caduti per la liberta’ italiana.

Quattro Medaglie d’oro al Valor militare.





Da: Comitato antifascista e per la memoria storica - Parma <comitatoantifasc_pr @ alice.it>

Oggetto: inaugurazione giovedì 10/5 a Parma Palazzo Giordani mostra sui crimini fascisti in Jugoslavia 1941-1945 

Data: 08 maggio 2012 20.47.12 GMT+02.00


Da giovedì 10 maggio a venerdì 25 maggio si terrà a Parma, a Palazzo Giordani sede della Provincia (viale Martiri della Libertà, 15), la mostra storico-documentaria, di immagini e testi, "Testa per dente" [http://www.diecifebbraio.info/testa-per-dente/] sui crimini dell'Italia fascista in Jugoslavia 1941-1945, organizzata dal Comitato antifascista e per la memoria storica e dalla Provincia di Parma, Assessorato alla scuola e cultura. 
L'inaugurazione, con gli interventi dell'assessore G. Romanini, del presidente onorario del Comitato R. Spocci, e del curatore della mostra P. Consolaro, sarà giovedì 10 maggio alle 17.30 a Palazzo Giordani.






Le tradizioni nazifasciste della stampa italiana

1937: Guernica, menzogne italiane
2012: I fascisti e il Corsera 

(fonte: Il Manifesto - www.ilmanifesto.it )


=== 1937 ===


Fonte: il manifesto | Autore: Angelo D'Orsi
27 aprile 2012

Guernica, menzogne italiane

Allineata e coperta per volontà del Duce, la stampa italiana costruì menzogne per nascondere la verità sulla distruzione della città basca. Con l’avallo di autorevoli penne ancora oggi celebrate 

Il 29 aprile 1937 il Corriere della Sera dà notizia della distruzione di Guernica, l’antica storica capitale di Euskadi, avvenuta tre giorni prima, il 26 aprile, un lunedì pomeriggio. Il primo articolo del Corriere ha un titolo emblematico, che coglie perfettamente nel segno, ma rovesciando le cose: Come si falsa la Storia. La distruzione di Guernica e le menzogne della democrazia internazionale. Di qui si può capire perché quell’evento possa esser considerato l’esempio e quasi il modello del ribaltamento della verità, a cui tante volte abbiamo poi assistito nel corso del XX e dei primi decenni del XXI specie in relazione ad eventi militari. Non è solo il Corriere a prestarsi all’operazione di costruire menzogne per nascondere le menzogne. È tutta la stampa italiana, allineata e coperta alla volontà del duce, in quell’anno terribile che fu il 1937, quando il fascismo, reduce da una guerra – l’Etiopia, con la «conquista dell’Impero» tornato «sui colli fatali di Roma» – si è immediatamente impegnato in un’altra guerra, quella contro los rojos spagnoli, guerra di cui Mussolini come Hitler capiscono subito l’importanza ideologica, prima che strategica. Con il sostegno decisivo della Chiesa cattolica spagnola, sia, un po’ più defilate, delle gerarchie vaticane, i sedicenti volontari italiani (che raggiunsero la cifra di 120.000) inviati dal regime fascista e la potente rinata, aeronautica militare del Terzo Reich, trasformano una sedizione militare, già sul punto di fallire, in un’aggressione internazionale a uno Stato europeo, usando il terrore di massa. E la menzogna per giustificarlo o occultarlo. 
Ma esisteva una stampa indipendente internazionale, e grandi reporter (a cominciare da George Steer, l’australiano, mitico corrispondente del Times e del New York Times) che si recarono sui luoghi e inviarono vere corrispondenze di guerra, in grado di inchiodare nazisti, fascisti e franchisti alle loro colpe. 
Il caso di Guernica è emblematico. Le menzogne del comando di Franco – balbettante fra diverse versioni, ma tutte coincidenti nell’attribuire la responsabilità ai rossi – si rivelano presto insostenibili davanti alle circostanziate denunce dei giornali britannici francesi e americani. Quelli italiani persistettero nel loro repertorio di sciocchezze e menzogne, tanto più desolante, se si pensa che ne furono protagoniste grandi firme, che, nel dopoguerra si riciclarono tranquillamente nella stampa “democratica” e ancora oggi sono considerate stelle del giornalismo italiano, come Luigi Barzini che, sul Popolo d’Italia (il quotidiano di Mussolini), scrisse articoli vergognosi quanto superficiali. 
La campagna su Guernica assunse un tono prevalentemente antibritannico, anticipazione della assordante propaganda contro «il popolo dei cinque pasti», che già avviata dopo le sanzioni all’Italia per l’aggressione all’Etiopia nel 1935, diverrà ossessiva durante la guerra mondiale. Non potendo negare la distruzione della città santa dei Baschi, si insiste sulla menzogna: sono stati i repubblicani in fuga, e si disegna la trama classica del complotto internazionale, su cui a partire dall’attacco all’Etiopia, e alle successive sanzioni contro l’Italia, la pubblicistica fascista si è scatenata, in un crescendo che toccherà i suoi picchi massimi nella Seconda guerra mondiale. Scrive il Popolo d’Italia che i francesi del Fronte Popolare, «prendendo a pretesto la distruzione di Guernica per attribuirla all’aviazione nazionale, piuttosto che alle torce incendiarie dei repubblicani fuggiaschi», hanno collaborato a «intorbidire l’atmosfera internazionale»: accanto a loro, «i demagoghi ispirati dalla bibbia anglicana con i seguaci di Carlo Marx e i fratelli massoni». Nell’idea della cospirazione internazionale, invece degli ebrei sono i protestanti, gli anglicani, che complottano con i marxisti, e, naturalmente, con i massoni. 
L’altro elemento che entra nel modello Guernica, ci riporta sotto gli occhi un altro luogo comune delle guerre coloniali, dalla Libia del 1911 all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia 2011. Gli invasori sono i «liberatori». Tale Riccardo Andreotti firma sulla Gazzetta del Popolo un articolo che fissa un vero canone interpretativo: «Guernica è apparsa alle truppe liberatrici quasi completamente rasa al suolo dalla furia devastatrice dei rossi che, prima di abbandonarla, l’hanno data alle fiamme». 
Un altro inviato speciale, Renzo Segàla (altro “grande nome” del giornalismo nazionale), sul Corriere della Sera presenta un quadro che sembra riprodurre i suoi stessi servizi da Addis Abeba occupata dalle truppe italiane all’incirca un anno prima: gli invasori sono salutati dalle popolazioni locali come liberatori, vengono ben accolti nelle città (e in special modo a Guernica, si precisa con straordinaria spudoratezza): in confronto a quanto fatto dai rossi a Guernica, Pompei può ancora sembrare una città abitabile. 
Su La Stampa attraverso uno dei suoi inviati di punta, Sandro Sandri (destinato morte prematura, in quello stesso anno ’37, dopo aver avuto il tempo di pubblicare un libro encomiastico verso il generale Graziani, il massacratore degli africani), fa capire, fin dal titolo, che non la verità dei fatti, ma la fedeltà politica stanno a cuore al giornale: Guernica ridotta in cenere dai dinamitardi comunisti. Il racconto vuol essere una dolente epopea capace di commuovere e insieme indignare. Mentre lungo la strada una folla commossa ed entusiasta di contadini accorsi dai villaggi vicini faceva ala al passaggio delle truppe, benedicendo ed acclamando, uno spettacolo terribile si presentò ai nostri occhi, non appena fummo nell’abitato (… ) un silenzio desolante regnava nelle vie di Guernica, su cui la barbarie rossa ha compiuto un crimine che supera di gran lunga l’incendio di Eibar. Quella di Guernica bombardata dai nacionales o loro alleati non è che una «stupida panzana». Ancora Il Popolo d’Italia ritorna sull’argomento, con parole che vorrebbero chiudere la bocca ai malevoli che parlano di bombardamento. A leggerle oggi v’è di che rimanere quasi sedotti da tanta disinvoltura: Ho compiuto oggi un doloroso pellegrinaggio fra le rovine ancora fumanti di Guernica (…) e ho potuto constatare che le case erano distrutte da incendi e che gli incendi dimostravano origine identiche. Ciò mi ha portato a credere che erano stati appiccati dall’interno. Non ho visto il minimo segno di bombe lanciate dall’alto, né ho osservato segni di esplosioni di bombe di aerei nelle vicinanze dei fabbricati. 
Siamo alla ipostatizzazione della menzogna, alla costruzione di un paradigma: se esso rimarrà vigente in Spagna, per i successivi quattro decenni, in Italia comincerà a essere incrinato solo dopo il fascismo, pur rimanendo in qualche modo in circolazione il germe del dubbio, capace se non di rovesciare la verità, quanto meno di farla apparire traballante. Insomma, il modello di una storia assurdamente “paritetica”: «Furono i tedeschi, ma agirono di testa propria, e non si esclude che gli stessi repubblicani abbiano collaborato in qualche modo…». 
Su questa strada si arriverà alle posizioni di revisionismo storiografico anche assai greve, negli ultimi decenni. Revisionismo che investirà anche, e soprattutto, il quadro di Picasso, la più efficace e drammatica testimonianza e insieme denuncia del massacro della ciudad sagrada del popolo basco. Ancora oggi capita di leggere su siti, giornali e libri che quel quadro era in realtà stato già dipinto e che il furbo pittore lo riciclò, per venderlo alla Repubblica. 
Anche per combattere tante menzogne, e mezze verità, in occasione del 75° del bombardeo si è tenuto a Guernica (Gernika nella grafia basca), un importante simposio internazionale organizzato dal Museo della Pace, e dall’annesso ricchissimo Centro di Documentazione (www.museodelapaz.org/es/docu-historia.php): è stato fatto il punto sulle conoscenze, interrogandosi sulle ragioni, gli attori, i risultati. Guernica ne è stata confermata come un esperimento che anticipa la guerra totale, con il suo terrore e le sue menzogne. È emerso, in questo primo convegno dedicato al martirio della città basca, un quadro esauriente delle ripercussioni del bombardamento, con una specie di catalogo delle menzogne, nel quale quelle italiane hanno risaltato. Al punto che un convegnista britannico ha chiesto come questo potesse spiegarsi, e ha avanzato un’ipotesi, a cui non ho saputo replicare: gli italiani popolo di guitti e mentitori, da Barzini a Berlusconi?


=== 2012 ===


Fonte: il Manifesto | Autore: Alessandro Robecchi
4 maggio 2012

I fascisti e il Corsera

Un infortunio giornalistico può sempre capitare. Ma l'errore in cui è incorso Pierluigi Battista, illustre commentatore e vicedirettore del Corriere della Sera, è un caso di scuola, una specie di esempio luminoso di cosa accade quando si scrive per tesi precostituite. I fatti separati dalle opinioni, si diceva un tempo, e mai come in questo caso lo slogan è azzeccato: i fatti qui, visibili, controllabili, stampati su foto e filmati. E le opinioni, invece, già belle e confezionate. Dunque ecco.

Il primo maggio sul Corriere Battista firma un denso editoriale dal titolo: «Cgil, perché è vietato ricordare Ramelli?». Nel resoconto di Battista si fronteggiano due realtà: una è il presidio antifascista della Cgil che si propone di «ostacolare la celebrazione in cui si ricorda l'uccisione di Sergio Ramelli», giovane di destra assassinato nel '75. Una cosa proprio brutta, su cui Battista non risparmia toni apocalittici: «lugubre decennio», «teste e coscienze penosamente aggrappate al passato», «fragorosa e rituale protesta». Insomma, i cattivi del solito antifascismo.

Dall'altro lato, invece, gli amici e i camerati di Ramelli, che onorano il loro amico con «un elementare esercizio di pietà». Lo scenario che si presenta ai lettori del primo quotidiano italiano per mezzo di una delle sue penne più illustri è dunque questo: antichi e rancorosi facinorosi ostacolano la sacrosanta pietà. Abbastanza per suscitare qualche curiosità e per scoprire alcune cose che qui si elencano come semplici dati di fatto.

1. La sacrosanta pietà degli amici di Ramelli consisteva in una riunione in una sala della Provincia di Milano gentilmente concessa dal presidente Podestà (Pdl) e pietosamente intitolata "Milano burning". Presenti le sigle più minacciose della destra fascista e nazista cittadina, con personaggi già noti alla questura e alle autorità in un tripudio di simboli, slogan e paccottiglia fascista.

2. Il presidio antifascista davanti alla Camera del Lavoro, sita a pochi metri, è stato indetto dalla stessa Camera del Lavoro (ha aderito l'Associazione ex deportati) per un motivo molto semplice: in analoghe occasioni certi raduni "pietosi" erano sfociati in raid e provocazioni. Il presidio consisteva in una discreta presenza, canti, discorsi. Età media (purtroppo) alta. Chi voglia vedere le fotografie di queste «teste e coscienze aggrappate al passato» può andare a quest'indirizzo, bit.ly/JgkD0S, e vedrà di che razza di facinorosi si tratta.

3. «L'elementare esercizio di pietà» così ben descritto da Battista è sfociato in una manifestazione, questa sì assai lugubre. In fila per cinque con i labari e le croci celtiche, le svastiche tatuate, il grido «Camerata Ramelli, presente!», gli «A noi!», e tutto il repertorio. Il video, veramente agghiacciante, è qui: bit.ly/JNEFU9 . Ognuno può rendersi conto dell'affronto che queste immagini rappresentano per Milano, città medaglia d'oro della Resistenza, che è poi la città del Corriere della Sera, lo stesso che tante belle e preziose pagine confeziona ogni anno in occasione del giorno della Memoria.

In sostanza: un semplicissimo gioco di ribaltamento: la "cattiva" Cgil ancorata al passato e i pietosi giovani di destra che commemorano il loro caduto. Questo sanno i lettori del Corriere. Cioè l'esatto opposto di quel che è successo realmente. Sarebbe bastato leggere le cronache pubblicate dallo stesso Corriere il giorno prima. Sarebbe bastato cercare un po' in rete, magari dare un'occhiata al corteo nazifascista. Ma l'opinione preconfezionata ne avrebbe forse risentito, e allora perché farlo?

Viste quelle immagini, poi, si è cercato sul Corriere qualche cenno di errata corrige, qualche velata scusa, qualche ritrattazione, un pietoso (questo sì) «mi sono sbagliato». Invece niente. E dunque, vien da pensare, non un banale errore giornalistico, ma qualcosa di più. Irresistibile, per esempio, l'incipit del pezzo di Pierluigi Battista, che così recita: «Sinceramente non si capisce perché la Cgil, che pure avrebbe molti impegni da onorare in questo terribile periodo di crisi del lavoro debba prodigarsi per organizzare un presidio antifascista...». «Sinceramente», mi raccomando. Insomma: nazisti, vittime degli anni bui, sprangate, labari e croci celtiche non c'entrano niente, e quel che si voleva era mettere un po' al suo posto la Cgil. Tutto qui. Tutto semplice e lineare. La vergogna di cinquecento neonazisti che marciano inquadrati militarmente per Milano scimmiottando le coreografie berlinesi degli anni Trenta non conta. Ma che importa: leggendo soltanto l'accorato commento di Battista - lontano anni luce da fatti comodamente controllabili - i lettori del Corriere non lo sapranno.





INTERVISTA A NERINO GOBBO “GINO”



È recentemente scomparso Nerino Gobbo “Gino”, comandante del II settore della città di Trieste al momento della Liberazione. Nel corso di alcune interviste ci ha raccontato la sua storia, che riassumiamo qui.

- Gino, si sono dette tante cose su Nerino Gobbo, “spietato commissario del popolo”, “infoibatore”, ed altro. Ma chi è veramente Gino?

- Io sono nato a Rovereto, nel 1920 e la mia famiglia si stabilì a Trieste quando ero ancora molto piccolo. Avevo avuto dei problemi di salute e ci consigliarono di trasferirci in una città di mare, così venimmo a Trieste. Abitavamo nella corte di Fedrigovez, una zona di casette mono e bifamiliari nel rione di San Giovanni.

- Sì, conosciamo il posto, ci viviamo anche noi!

- Davvero? Ecco, questa è proprio una bella coincidenza. Ma andiamo avanti. Mio padre faceva il sarto, lavorava presso la ditta Beltrame, un grande negozio di sartoria ed abbigliamento, ed era considerato un ottimo sarto, tagliatore per abiti da donna. Sapete come perse il lavoro? Mio padre frequentava l’osteria detta del “Caligareto”, quella in via Giulia, all’ingresso della corte. Una sera, qualcuno disse che il governo aveva vietato di dire Messa in sloveno, e lui commentò che se la gente non ha più nemmeno il diritto di pregare nella propria lingua, allora vuol dire che siamo proprio messi male. Il giorno dopo, il padrone del negozio lo mandò a chiamare e gli disse che gli spiaceva, ma non poteva più farlo lavorare perché si era espresso contro il governo. Così da quel momento dovemmo tirare la cinghia, solo perché mio padre aveva detto quelle parole, che evidentemente qualche spione che frequentava l’osteria doveva avere riferito a “chi di dovere”.

Quindi ho dovuto iniziare a lavorare da giovanissimo per aiutare la famiglia, ma sono riuscito a non rinunciare all’alpinismo e alla speleologia, che erano le mie passioni nel tempo libero.

- Dicono che Gino era stato istruttore della GIL [1].

- Anche questo è un modo per cercare di screditare una persona. Io sono stato chiamato alla leva ed ho prestato servizio militare presso la Scuola Militare di Alpinismo ad Aosta, nel Battaglione Duca degli Abruzzi, dove ho fatto l’istruttore. La scuola istruiva gli alpini sulle tecniche di arrampicamento, sia su roccia che su ghiaccio, e sulla tecnica dello sci, teneva anche corsi di addestramento alpinistico agli ufficiali che uscivano dall’accademia militare prima che fossero assegnati alle singole unità.

Noi che eravamo stati già prima istruttori alla scuola del CAI [2] di Trieste fummo per questo mandati alla scuola militare, che inviava i propri istruttori ai corsi di alpinismo del CAI presso altre regioni ad organizzazioni che ci richiedevano. Noi istruttori della scuola militare non avevamo nulla a che fare con la GIL: faccio questa precisazione perché si è ripetutamente cercato di far credere che gli istruttori della Scuola Militare di Alpinismo erano comandati dalla GIL, cosa del tutto falsa. Una dimostrazione della distanza che c’era tra noi e la GIL s’è vista al corso tenuto al Passo Sella in Val Gardena. Lì sentimmo la notizia della caduta di Mussolini: allora i capi della GIL, visto il clima di giubilo esploso tra i corsisti, se ne sono andati lasciando i ragazzi allo sbando. E siamo stati invece noi istruttori che ci siamo impegnati per fare tornare i corsisti alle loro case. È vero che sulle tessere del CAI c’era la stampigliatura della GIL, ma questo non significa che noi ne facessimo parte.

Devo aggiungere che quasi tutti noi cercavamo di seguire la situazione di Trieste e cosa accadeva in Slovenia. Ascoltavamo radio Londra e simpatizzavamo per i partigiani; inoltre alcuni di noi erano stati in licenza a Trieste tra luglio ed agosto 1943.

Io ritornai a Trieste con altri compagni nel 1944 inun momento molto critico. C’erano stati da poco le fucilazioni di Opicina, le impiccagioni di via Ghega, molti attivisti politici dell’OF e dell’UO [3] erano stati arrestati o uccisi [4]. Per questo il nostro arrivo fu accolto molto bene. Io trovai subito il collegamento col movimento di liberazione attraverso compagni che conoscevo da sempre: nella fabbrica dove avevo lavorato prima di andare militare esisteva già una cellula comunista, anche se io non ne avevo fatto parte. Nel rione di San Giovanni i miei compagni d’infanzia e di giovinezza erano tutti attivi chi nell’OF chi nell’UO. Ad esempio Maria Birsa era attivista dell’OF all’ospedale maggiore dove lavorava come infermiera; Giuseppe Birsa, due volte naufrago della Marina da guerra, demobilitato per ragioni di salute, era attivo nell’OF sul territorio e nell’UO alla Fabbrica Macchine, Marcello Grill lavorava in un magazzino alimentare che riforniva l’esercito tedesco ed aveva la possibilità di sottrarre viveri che venivano mandati ai compagni.

Il periodo era dei più pericolosi. Prima del mio arrivo erano caduti nelle mani di Collotti [5] parecchi attivisti importanti.

Valutato il mio lavoro venni incluso relativamente presto nel comitato Circondariale dell’UO. Tirava già aria di insurrezione per cui dalle azioni di raccolta viveri e vestiario per le formazioni partigiane, dalla propaganda per l’afflusso nelle file dei combattenti, dalle azioni di volantinaggio che imbestialivano tedeschi e fascisti, iniziò anche l’azione per la raccolta delle armi. Gli avvenimenti scorrevano veloci.

Ad un certo punto il compagno Tofful mi mandò a dire che mi avrebbero incontrato due compagni per parlarmi. Erano i compagni Franovic e Dolesi del comitato circondariale dell’UO-DE, che vollero sapere tutto di me e mi fecero un interrogatorio a tiro incrociato di terzo grado. Ma ho avuto l’impressione che sapessero già tutto di me. Io spiegai loro che volevo andare in montagna, ma loro mi dissero che per il momento dovevo rimanere in città e lavorare per l’Unità Operaia, parlarono di perdite di quadri e necessità di sostituirli.

I miei contatti mi procurarono dei documenti della Todt [6] e fui in grado di muovermi liberamente in città. A casa mia vennero un paio di volte i carabinieri a domandare di me, ma i miei dissero che mi avevano dato per disperso dall’8 settembre.

Fui così inserito nella Unità operaia del secondo rione (la città era stata divisa in otto zone d’intervento, dette “rioni”); poi quando venne a Trieste la commissione militare a preparare la formazione del Comando città del IX Corpus, la città venne suddivisa in quattro settori territoriali e vennero formati i Comandi di Settore del Comando Città. Del Comando del II settore era stato nominato comandante Martin Praček, vecchio attivista dell’OF.

Ho partecipato a questo processo fin dall’inizio: fui prima nominato commissario politico del II settore, poi all’inizio del ‘45 ne divenni il comandante. Come tale ho partecipato all’insurrezione armata ed i risultati non sono mancati, come pure i riconoscimenti.

- Parliamo un po’ dell’attività a Trieste.

- Certo. Verso la fine del 1944 i nazifascisti avevano riempito la città di manifesti di propaganda antipartigiana, soprattutto anticomunista, manifesti che rappresentavano i comunisti come mostri sanguinari.

A quel punto decidemmo una, chiamiamola così, controffensiva di affissioni. Ci riunimmo nel Boschetto di Trieste una sera, approfittando di un preallarme come facevamo spesso, perché in quei momenti tanta gente andava a cercare rifugio dai bombardamenti e non si dava nell’occhio se ci si trovava assieme. Eravamo una trentina di persone, quasi tutti molto giovani. Dopo alcune discussioni sull’agire o non agire, decidemmo di fare un’affissione a tappeto di manifestini con l’effigie di Tito. Fu in quell’occasione che notai per la prima volta Carla, una bella ragazza scura di occhi e di capelli: era una kurirka, una staffetta di San Giovanni: prese la parola, non ricordo se parlò in italiano o in sloveno, ma con tanta enfasi che convinse anche i più dubbiosi ad intervenire con questa azione.

Così preparammo i manifesti: erano in formato A3 ed A4; li portò a San Giovanni, in una javka [7] presso un carbonaio di via San Cilino di nome Poropat (che teneva presso di sé anche armi per il movimento di liberazione), don Giulio, un prete che collaborava con noi. Con lui non parlavamo più che tanto di politica o di religione, stava con noi e questo bastava: anche con l’altro sacerdote che faceva parte del movimento, don Canciani [8], eravamo rimasti d’accordo di non entrare in polemiche o discussioni, noi non intendevamo proibire la religione o impedire la libertà di culto, ci bastava che fossero riconosciuti come valori fondamentali l’antifascismo e la democrazia socialista. E questi preti erano d’accordo con noi.

Non so il cognome di don Giulio, so che abitava nella zona di via Piccardi; qualcuno andò a cercarlo poco prima dell’insurrezione ma sentì da dietro la porta di casa sua che stava litigando con qualcuno e se ne andò senza farsi sentire.

A proposito di preti, voglio dire che uno dei posti dove dormivamo durante la clandestinità era proprio un alloggio di preti presso la parrocchia di San Giovanni, anch’io ho passato diverse notti lì. Finché un giorno il vescovo Santin non diede ordine a don Canciani di sbatterci fuori, allora ce ne andammo perché il posto non era più sicuro.

Ma parlavamo dei manifesti di Tito. I compagni si organizzarono in coppiette, che facendo finta di fermarsi apomiciare per le strade, attaccarono i manifesti in tutta via Giulia e via Carducci, anche piuttosto vicino alle sedi dei nazisti (in piazza Oberdan c’era il comando della SS).

Per i volantini avevamo diversi sistemi di diffusione: uno era quello della bora… nelle giornate di vento si posava una pila di volantini in punti strategici (uno dei migliori era sotto i portici di Chiozza), e quando arrivava una raffica i volantini volavano davvero, dappertutto. Un altro sistema l’aveva pensato Giulio, uno dei nostri compagni più in gamba: figuratevi che una volta ha disarmato, da solo, un tedesco nella zona del cimitero. Gli era andato alle spalle, gli aveva ficcato un dito nella schiena ed intimato di consegnarli l’arma. Il nazista si spaventò e gli diede la pistola, senza rendersi conto del bluff. Bene, questo Giulio aveva un sistema di diffondere i volantini ed anche i nostri giornali, nelle case: andava fino all’ultimo piano, e da lì, scendendo infilava i fogli nelle cassette delle lettere o sotto le porte. Così prima che uno si accorgesse di cosa accadeva il militante era già fuori dallo stabile.

Questo metodo piacque ai compagni e fu adottato per la diffusione della stampa.

- Poi c’erano anche attività più pericolose.

- Sì. Vorrei parlarvi di Ruggero Haas e di sua moglie Albina, che abitavano in una casa sul monte Valerio, presso la quale avevano costruito un bunker dove conservavano il materiale per la lotta. Haas era un buon compagno, onesto e coraggioso, però purtroppo non riusciva ad entrare nello spirito della vita clandestina. Si vestiva in tuta da lavoro, cosa che non andava molto bene, all’epoca era meglio indossare abiti buoni, perché un operaio che girava di giorno era sospetto. Inoltre era sempre sul chi vive e si aggirava guardingo, al punto che dava nell’occhio il modo in cui si muoveva. Questo comportamento gli aveva meritato il soprannome, affettuosamente ironico, di Konspiracijo.

Un altro bunker era stato sistemato in una casa vicina alla loro, dove abitava la famiglia Pierazzi. In quest’altro bunker c’era anche la macchina per la stampa.

Quando la banda Collotti arrestò i coniugi Haas e trovò il bunker, anche noi ci trovammo in una brutta situazione, perché dovevamo fare in modo di portare via tutto il materiale, senza farci scoprire.

Dalla casa dei Pierazzi si riusciva a vedere Collotti ed i suoi che cercavano il bunker nel terreno dei Haas. Ci organizzammo in modo da prelevare il materiale dall’altro bunker e di notte (mi ricordo che era una notte molto buia, senza luna) andammo a prendere la roba per portarla, attraverso il bosco, in un posto sicuro. Per coprire il rumore che facevamo nel nostro andirivieni, qualcuno si mise a segare della legna, cosa che alla fine avrebbe potuto essere ancora più pericolosa per noi, perché magari i poliziotti si sarebbero insospettiti a sentire il rumore e avrebbero potuto venire a controllare come mai c’era chi segava legna a notte fonda nel buio [9]. Il compagno era talmente agitato che lo si capiva dal rumore che faceva la sua sega: man mano che gli aumentava l’ansia, accelerava il ritmo e faceva sempre più rumore. In ogni caso riuscimmo a concludere l’operazione, quella notte portammo via tutto il materiale dal bunker dei Pierazzi e lo consegnammo a Milan, un compagno di Longera, che lo depositò nel bunker del loro villaggio.

- Dopo alcuni mesi di prigionia e torture i coniugi Haas furono fucilati, il 28/4/45. Ed anche il bunker di Longera fu scoperto, nel corso di un’azione che costò la vita a quattro compagni. La banda Collotti operò una repressione feroce e terribile a Trieste.

- Sì, ed infatti nella primavera del ’45 si era pensato di organizzare un attentato contro la sede di via Cologna dell’Ispettorato Speciale di PS: l’idea era di passare attraverso le condotte fognarie partendo dalla zona della Rotonda del Boschetto, a due chilometri circa da via Cologna, e di piazzare dell’esplosivo sotto la sede dell’Ispettorato. Ma poi questa idea fu accantonata, sia perché le piogge primaverili avevano ingrossato i torrenti e di conseguenza reso impraticabili le condotte, ma soprattutto perché avevamo valutato che erano troppi i compagni imprigionati nella caserma e l’esplosione avrebbe ucciso anche loro.

- Poi Gino ha organizzato anche l’attentato di via D’Azeglio…

- Sì, era il 27 marzo 1945. Nel garage Principe, in via D’Azeglio, c’erano mezzi di rifornimento per l’offensiva che la X Mas stava preparando contro il IX Korpus (le forze allora erano in equilibrio perciò si sarebbe trattato di una grande offensiva, e noi dovevamo fare il possibile per sabotare i nazifascisti). All’inizio avevamo pensato di asportare il carburante, ma considerate le difficoltà del trasporto si decise di distruggerlo. Io ho personalmente diretto quell’azione alla quale hanno partecipato altre sei persone: Silvio Pirjevec, Enzo Donini, Sergio Cebroni, Livio Stocchi, Remigio Visini ed un compagno alla sua prima esperienza di lotta, Giorgio De Rosa.

Dopo avere bloccato tutte le strade attorno al garage abbiamo fermato il proprietario, che faceva anche da guardiano, l’abbiamo obbligato a farci entrare e poi consegnato a due compagni che avevano l’ordine di portarlo nella ritirata con sé, di tenerlo prigioniero per motivi di sicurezza; di ucciderlo se le cose si fossero messe male. Invece al momento della fuga non se la sentirono di ucciderlo e lo lasciarono libero. Così riuscì a dare l’allarme che causò la cattura dei quattro compagni e la loro impiccagione.

Io e Silvio entrammo nel garage, dovevamo far saltare in aria i fusti di benzina, ne abbiamo aperto uno e quando la benzina ha iniziato a scorrere, abbiamo lanciato delle bombe e in quel momento è successa una cosa che non dimenticherò mai: la benzina ha cominciato a prendere fuoco in modo talmente rapido che si è sentito un rumore come una sirena, un ululato che andava all’infinito. S’era anche formato un calore enorme, ed a quel punto dovevamo uscire più in fretta possibile, ma quando abbiamo cercato di uscire dalla porticina laterale ci siamo resi conto che la pressione dell’aria era tale che non solo aveva rotto i vetri delle finestre, ma addirittura premeva tanto contro la porta che questa non si poteva più aprire dall’interno. Allora mi sono seduto a terra rivolto verso la porta, più sopra c’era il catenaccio; ho puntato le gambe sulla parte fissa della porta e ho tirato col catenaccio fintanto che non si è aperta una fessura; Silvio ha inserito il mitra in questa fessura e ha fatto forza, riuscendo ad aprire di quel tanto che ci ha permesso di sgusciare fuori, appena in tempo.

Intanto (saranno passati in tutto non più di dieci secondi) i compagni che erano fuori, avendo sentito le bombe e visto le fiamme e non avendoci visti uscire, devono aver creduto che eravamo rimasti vittime dell’esplosione; così si sono ritirati disordinatamente invece di attenersi a quanto era stato previsto nel piano. Stocchi, Cebroni e Visini andarono a cercare Donini a casa, ma questa era sorvegliata perché il padre, primario dell’ospedale psichiatrico, era notoriamente antifascista: Donini riuscì a fuggire, ma gli altri furono arrestati da una pattuglia delle SS italiane. De Rosa invece fu arrestato da una pattuglia della Guardia Civica presso la Rotonda del Boschetto. Dopo la cattura furono ferocemente torturati e la mattina dopo impiccati proprio al muro del garage: questi quattro giovani sono i martiri di via D’Azeglio.

Silvio ed io ci siamo salvati perché abbiamo seguito le regole stabilite: siamo usciti dal garage, ci siamo mischiati alla gente che era accorsa e abbiamo preso sottobraccio una ragazza con la quale ci siamo allontanati e che ci disse: “Se fossero tutti come voi non ci sarebbero più i tedeschi a Trieste”.

- Gino, parliamo ora dei preparativi per l’insurrezione a Trieste.