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Segnaliamo il nuovo volume appena uscito per le edizioni Zambon:
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A. DORIN / Z. JOVANOVIC

SREBRENICA
Come sono andate veramente le cose

Prefazione italiana del Prof. Aldo Bernardini, ordinario di diritto internazionale presso l’università di Teramo

Formato 184x268 rilegato, pagg. 200 prezzo € 19,80 
Zambon editore - ISBN 978 88 87826 75 3

Le strazianti immagini che testimoniano il massacro di 4000 serbi. Le testimonianze dei sopravvissuti. La polemica sul numero dei miliziani musulmani uccisi. Le menzogne del Tribunale Speciale dell’Aia. Il ruolo degli USA, padrini e finanziatori di detto Tribunale.

Con oltre 200 foto e documenti.


Dalla quarta di copertina:

Srebrenica è una piccola città situata nella ex Repubblica jugoslava e dello Stato attuale Bosnia-Erzegovina artificialmente creato dalla NATO. Era un’enclave in territorio serbo, abitata fino a metà degli anni ’90 in maggioranza da musulmani.
Srebrenica era una “zona protetta”, (apparentemente) demilitarizzata, e occupata militarmente dalla NATO.
Ma Srebrenica è anche una orribile metafora sanguinaria e truculenta, in cui non solo echeggiano razzismo, fascismo, genocidio, sciovinismo, pannazionalismo, pulizia etnica e stupro di massa – in breve: tutte le etichette mendaci che negli due decenni si sono rivelate di provata efficacia per ingannare l’opinione pubblica.
La versione ufficiale di “Srebrenica” è una menzogna propagandistica che non diventa più vera se la si ripete una infinità di volte senza poterla provare. In questo libro si dimostra, con un’abbondante documentazione iconografica, che il massacro c’è veramente stato, ma fu un massacro a danno dei serbi.

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Introduzione


1. Srebrenica, la Auschwitz degli anni ’90. L’Aja, la Norimberga attuale. Equiparazioni oggi correnti, sono fra i mantra dell’ideologia imperiale, i derivati del mostruoso sistema di “giustizia penale internazionale” che alquanto spensieratamente si pretende discenda dal Tribunale di Norimberga, al quale fu assegnato di giudicare i criminali del nazifascismo tedesco. Sulla base dell’accordo internazionale di Londra dell’8 agosto 1945 fra le quattro grandi Potenze (Unione Sovietica, USA, Gran Bretagna, Francia) che occuparono la Germania debellata nel secondo conflitto mondiale.

Srebrenica. Quale Srebrenica? La conclamata strage di (si dichiara) 8000 musulmani ad opera dei Serbi di Bosnia nel 1995 – la strage detta ma che secondo molti forse non ci fu, almeno nei termini della presentazione usuale -, o quella non detta, ma che ci fu, dei serbi perseguitati, trucidati, espulsi, soprattutto ma non solo nel 1995 intorno a Srebrenica e altrove, inclusa la Kraijna di Croazia? Su tutto ciò, Autori varii Il dossier nascosto del “genocidio” di Srebrenica, La Città del sole, Napoli 2007.

È davvero esistito il massacro (quello “ufficiale”) di Srebrenica?

Oramai bisogna dubitare di tutto. Tante volte siamo stati ingannati:

Vi ricordate il famoso massacro di Timisoara attribuito a Ceaucescu ed alla sua crudele “Securitate”? Quanti di noi sanno oggi che i cadaveri fotografati erano quelli di persone decedute per cause naturali e “straziati” non dalle torture, ma dall’obduzione condotta dal personale medico dell’ospedale municipale?

Vi ricordate il “massacro di civili albanesi” consumato dall’esercito jugoslavo (serbo-montenegrino) in Kosovo? Quanti fra noi hanno saputo –a distanza di tempo- che i civili non erano tali, ma combattenti dell’UÇK caduti nel corso di uno scontro armato, e che il capo degli osservatori internazionali, cioè l’agente della CIA William Walker, ha ordinato di spogliarli delle divise e di rivestirli in abiti civili creando così l’occasione lungamente attesa per dichiarare guerra alla Jugoslavia? La verità è nota a chi si è dato la pena di leggere il rapporto della dottoressa finlandese che affermava aver trovato sulle dita di tutti i cadaveri (tranne in uno) tracce di polvere da sparo. Inutile dire che la “grande stampa indipendente” non ha ritenuto opportuno darne notizia.

E i campi di concentramento dei musulmani rinchiusi dai serbi dietro al filo spinato? La foto di un giovane denutrito e con le costole sporgenti guardava, da dietro al filo spinato, decine di milioni di lettori indignati di quanto stava apparentemente succedendo. In realtà il giovane non era “detenuto” ma era stato semplicemente ricoverato, assieme a decine di altri profughi di diverse etnie, in un campo di accoglienza organizzato dai Serbi. E il filo spinato? Molto semplice: il fotografo mercenario aveva attirato alcuni profughi del campo di raccolta all’interno del confine di una proprietà privata e li aveva poi fotografati posizionando l’obbiettivo al di là del recinto che delimitava la proprietà privata.

E l’11 settembre? Quale babbeo crede ancora in buona fede che sia stata Al Qaeda, almeno da sola, ad abbattere le torri a mezzo di due improbabili aerei? Sono ormai centinaia le domande senza risposta e decine le tracce che ad abbattere i grattacieli siano state delle cariche di esplosivo plastico piazzate scientemente nelle settimane precedenti in modo da provocare il crollo dei medesimi grattacieli. Sono a disposizione oramai numerosissimi libri che demoliscono la tesi ufficiale. Avete ancora dei dubbi? Ed allora cercate di spiegare come 2 aerei possano aver abbattuto 3 grattacieli!

Tralascio di parlare dell’Iraq e delle motivazioni che sono state date da Bush per la guerra di aggressione che ha portato la cifra delle vittime irachene a sfiorare il milione di unità, perché ormai anche il più sprovveduto fra noi ha capito di essere stato brutalmente ingannato. E da ultimo le fosse comuni di Tripoli e tutto il resto dell’infame aggressione alla Libia di Gheddafi?

Che pensare allora del massacro di Srebrenica?

Questo libro ci dimostra che un massacro c’è veramente stato, con una piccola differenza però rispetto alla tesi ufficiale: VITTIME DEL MASSACRO SONO STATI I SERBI. L’altro massacro, quello dei musulmani, presenta lati oscuri nonché l’indubbia utilità del tentativo di incastrare la componente serba e, attraverso una ricercata ricostruzione della catena di comando, ha avuto di mira il presidente jugoslavo Milosevic. Certo, anche questo va indagato. Ma la “giustizia penale internazionale” viene messa a nudo: l’altra Srebrenica, quella delle vittime serbe, risulta completamente ignorata.


2. Il sistema di “giustizia penale internazionale” con le attuali istanze giudiziarie, che si va costruendo per arbitraria volontà dei “forti” e colpevole acquiescenza ad ampio raggio sul piano mondiale, può solo nell’apparenza vantare la “nobile” (tale almeno nella grande sostanza) ascendenza di Norimberga. Ne è in realtà il totale rovesciamento, pur atteggiandosi a prosecuzione o reviviscenza: si tratta di “similNorimberga”.

Il Tribunale di Norimberga venne stabilito con l’accordo di Londra dell’ 8 agosto 1945 fra le quattro grandi potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale (URSS, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia) per giudicare i crimini degli esponenti nazisti dopo la totale sconfitta della Germania. Dunque giustizia dei “vincitori”, e tale scopertamente: qui potrebbe ravvisarsi un primo tratto di aggancio con le attuali situazioni. Infatti, al di là di episodi tutto sommato marginali, le attuali istanze operano di fatto, e lo vedremo meglio, come espressioni di “giustizia”, se non dei “vincitori”, dei “forti” sul piano mondiale: ovviamente, in modo sotterraneo, implicito e certo non dichiarato, ma ben reale. D’altra parte pure, in ciò e se si va al fondo delle cose, con una fondamentale distorsione rispetto a Norimberga, il cui significato andrà chiarito.

Ci si riferisce, tralasciati il Tribunale per il Ruanda ed altre situazioni minori, al Tribunale ad hoc per la Jugoslavia, che è qui di primario interesse, e alla Corte penale internazionale, ambedue con sede all’Aja (e da distinguersi da altra istanza, che per i problemi qui trattati non ci riguarda, la Corte di giustizia internazionale, pure all’Aja, che giudica sui rapporti fra Stati in base ad accettazione della sua giurisdizione): istituiti, rispettivamente, con la ris. 827 del Consiglio di Sicurezza in data 25 maggio 1993 (per il Tribunale ad hoc)  e con la Convenzione di Roma del 17 luglio 1998 (per la Corte penale internazionale). Quale l’aggancio con il passato?

Campo di azione per Norimberga: le categorie di crimini catalogate, nell’accordo istitutivo, come crimini contro la pace (non solo l’aggressione, ma tutte le macchinazioni poste in essere con l’esito della guerra), crimini contro l’umanità (fattispecie delittuose di oggettiva gravità e con dimensioni di massa, a partire dal genocidio), crimini di guerra (quelli tradizionali previsti dal diritto bellico). Di qui un’evoluzione che portò all’ampliamento della tradizionale categoria dei “crimini individuali di diritto internazionale”: esempio classico, fin dal passato, la pirateria. Legittimato da un’antica norma internazionale, qualunque Stato può esercitare la propria giurisdizione penale sul pirata anche fuori dagli usuali criteri legati alla sua sovranità (cittadinanza dell’autore o della vittima del crimine; commissione del crimine sul proprio territorio) e pertanto in base a un criterio di universalità di giurisdizione penale. Ebbene, per i crimini delle categorie di Norimberga si è tentato da taluni Stati occidentali di applicare in proprio tale criterio, con in più un elemento assai pesante, in superficiale apparenza desunto da Norimberga: nel caso di fatti compiuti in veste ufficiale da individui-organi di uno Stato, sui quali l’unica giurisdizione penale è stata tradizionalmente solo quella del proprio Stato, quei fatti, in forza di asserite nuove norme internazionali, si è cominciato a considerarli come non attribuibili solo allo Stato dell’individuo-organo, ma anche direttamente a questo individuo (rispetto a ciò erano esistite in precedenza solo marginali eccezioni nel diritto bellico). Quindi qualunque Stato, che avesse adottato per quei crimini il criterio di universalità, avrebbe potuto e potrebbe legittimamente, secondo tale ben dubbia concezione, giudicare un individuo-organo di un altro Stato, deprivato dell’immunità prima risultante, per diritto internazionale, dall’esclusiva attribuzione del fatto criminoso al proprio Stato (unico titolare questo, com’è ovvio, di giurisdizione penale sull’individuo-organo proprio). Si ricordi il caso Pinochet. Ma abbiamo assistito a un fenomeno apparentemente sorprendente: quando è sorto il pericolo di colpire, invece che esponenti considerati ostili del c.d. Terzo Mondo, determinati personaggi “amici” o comunque appartenenti al campo dei “forti”, ad esempio l’israeliano Sharon da parte del Belgio, gli Stati, così “generosi” nell’adottare il criterio dell’universalità ai fini, come veniva strombettato, di una giustizia... universale, hanno, con rapida “opportunità”, fatto marcia indietro e dunque modificato la pertinente normativa per tenere in salvo siffatti personaggi.

Dopo questa zoppicante “evoluzione”, il passaggio all’attuale “giustizia penale internazionale” con le istanze giudiziarie non statali come quelle sopra nominate.

Lasciamo per ora il profilo sostanziale della giustizia dei “vincitori” o dei “forti”. Gli elementi in senso più specificamente giuridico che paiono far affondare in Norimberga le radici dell’attuale “giustizia penale internazionale” li possiamo così sintetizzare. Si tratta di giustizia penale, quindi su individui (come ogni giustizia penale) ma stabilita da norme internazionali, sottratta o sottraibile ai sistemi giudiziari degli Stati, e quindi alla sovranità statale, con la quale la giustizia penale sarebbe di per sé connaturata, per venire affidata a “organi”giudicanti non statali. Naturalmente, per categorie di fatti criminosi definite da norme internazionali: oggi, a partire da quelle, poco fa ricordate, di Norimberga, ma con una sottrazione di peso, che offrirà spazio a considerazioni di forte rilievo. Risalirebbe ancora a Norimberga, ma in quanto sancita espressamente dalle pertinenti norme internazionali istitutive, l’esclusione, davanti alle attuali istanze, dell’immunità degli individui-organi con l’accollo ad essi di responsabilità individuale anche per fatti compiuti in veste ufficiale.

Nonostante l’adozione di siffatti caratteri, l’attuale “giustizia penale internazionale” è però una contraffazione di Norimberga. Come detto, vi è un elemento di particolare visibilità che porterebbe ad accomunare: giustizia dei vincitori contro i vinti. Ma, a ben vedere, si deve oggi prendere atto della vistosa distorsione già evocata: dovrebbe parlarsi, a differenza di Norimberga, e lo si è anticipato, dei “forti”, solo potenziali o indiretti vincitori, ai danni di nemici prematuramente segnati come vinti, pur scattando l’operazione penale internazionale (anzitutto, l’incriminazione) a conflitto tuttora in corso. Ciò che, anzitutto, conferisce alle attuali operazioni di “giustizia penale internazionale” il marchio della strumentalità: al di là di una apparente formale equiparazione dei confliggenti, in realtà a sostanziale vantaggio di una parte del conflitto in atto, come copertura dell’attività di tale parte, e dei suoi sostenitori e mandanti sul piano mondiale, e strumento di (ricercata) delegittimazione e disgregazione della dirigenza dell’altra parte, quindi della stessa relativa compagine statale. È quanto meglio mostreremo più avanti.

Certamente il Tribunale di Norimberga e le sue decisioni posero problemi giuridici estremamente delicati (appunto, l’unilateralità, in quanto organo operante solo nei riguardi dei vinti; problematico rapporto con i principii generali di civiltà giuridica in campo penale, quale nullum crimen e nulla poena sine lege, e dunque retroattività dei criteri assunti come base delle condanne...). Ma la portata immane e catastrofica, di carattere per così dire sistemico sul piano mondiale, dell’azione complessiva della coalizione dell’Asse nazifascista (a fronte, è pur vero, di numerose azioni della coalizione contrapposta, o meglio di una parte di essa, di estrema gravità sul piano dello ius in bello, ma tutto sommato in quanto episodi non connessi in un disegno criminale totale: Dresda, Hiroshima e Nagasaki...), può illuminare sulle ragioni storiche profonde a sostanziale spiegazione della base giuridica di Norimberga: rispetto, per contrapposto, alle attuali esibizioni della “giustizia penale internazionale”, sinora sempre connotate da assoluta trascuranza, predisposta sul piano normativo, dei reali contesti e quindi della reale consistenza delle attività criminose, vere o asserite, prese in esame e delle connesse responsabilità globali.

Non vi è dubbio che la previsione, per Norimberga, dei crimini contro la pace ha costituito il “cappello” idoneo a circoscrivere la sfera d’azione del Tribunale: si tratta dei comportamenti che, nel contesto storico reale, non sarebbe stato possibile ascrivere altro che alle potenze dell’Asse, quindi per Norimberga alla Germania nazista: e ciò avrebbe avuto necessariamente riflesso sulle altre due categorie di crimini sotto il profilo soggettivo della sfera degli incriminabili. Il tutto però fondato su un dato inequivocabile: punto di partenza, i comportamenti e le attività aggressive, indubbiamente senza pari, dell’Asse. Il “taglio” della categoria per le odierne istanze dell’Aja porta invece per quanto in modo subdolo, si è accennato e vi torneremo, a gravi conseguenze specifiche.

Il processo di Norimberga può sembrare aver costituito elemento di rottura dello schema tradizionale del sistema internazionale nel settore in esame e di propulsione per gli sviluppi successivi. Sì e no, per verità. Un organo giudiziario stabilito sulla base di un accordo internazionale, senza la partecipazione dello Stato, i cui individui-organi vengono sottoposti al potere di quel Tribunale, appare prima facie, secondo il discorso delineato, scardinare la struttura basilare del sistema giuridico internazionale: con radicale obliterazione della sovranità statale, eliminazione delle immunità internazionali degli individui-organi, sovraimposizione di un apparato giurisdizionale di immediata origine internazionale. È in prima linea su questa rappresentazione, lo si è ribadito, che viene giocata una pretesa ascendenza di Norimberga rispetto all’attuale “giustizia penale internazionale”.

La profonda realtà giuridica, e non solo giuridica, della situazione delineata rivela tutt’altra configurazione. Pur previsto da un accordo internazionale, necessario come disciplina dei rapporti fra le quattro grandi potenze occupanti, il Tribunale di Norimberga ha operato in realtà come organo interno del sistema giuridico della Germania occupata, nella quale l’apparato statale era crollato e il potere sovrano era congiuntamente esercitato dalle quattro potenze. Quindi, nessuna sostituzione di organi statali tedeschi o sovraimposizione ad essi, ormai inesistenti, e pieno potere, invece, di quell’organo giudiziario in realtà interno di esercitare giurisdizione penale anche sugli individui-organi dell’estinto Reich nelle attività compiute pure in veste ufficiale. Si trattò infatti, in quella fase storica, di null’altro che della giurisdizione interna propria su quegli individui. Una situazione analoga, come giudice interno, fu quella del Tribunale militare di Tokio per il Giappone occupato nel 1945, per il quale non fu necessario neppure un accordo internazionale, l’occupazione essendo solo quella degli Stati Uniti.

Senza dubbio restano riscontrabili alcune anomalie sostanziali. Furono introdotte figure criminose prima inesistenti, come i crimini contro la pace o anche quelli contro l’umanità; lo stigma di “giustizia dei vincitori” resta visibile, in quanto analoga “giustizia” non venne esercitata, negli ordinamenti degli Stati vincitori, verso i loro cittadini autori di crimini eventualmente rientranti nelle categorie di Norimberga. Qui fu decisiva la previsione della categoria dei crimini contro la pace. Una previsione che senza dubbio dette un fondamento anche politico-morale alla scelta di perseguire gli esponenti dell’Asse (e solo essi). Si perseguirono innanzi tutto le politiche, macchinazioni, operazioni che sfociarono nelle aggressioni scatenate dal Terzo Reich. Lo si è rilevato: ma le istanze attuali ignorano le aggressioni e le politiche belliciste e gli attori di esse.


3. Il problema se fosse possibile istituire un tribunale del tipo di quello di Norimberga nel quadro del sistema delle Nazioni Unite se lo pose uno dei massimi giuristi del ‘900, Hans Kelsen, e la risposta fu negativa. Kelsen, in forza della concezione generale da lui seguita, non si interrogò sulla natura internazionale o meno dell’organo giurisdizionale penale istituito in Germania nel 1945. Si chiese soltanto se un simile organo potesse venir stabilito in forza di una decisione in sede Nazioni Unite (il pensiero va all’istituzione del Tribunale ad hoc per la ex-Jugoslavia). E lo negò. Così argomentando: la Carta NU non contempla responsabilità (internazionale) di individui, in specie individui-organi, per violazioni di norme e principii internazionali (come il divieto di uso della forza), ma solo degli Stati. Situazione superabile solo, secondo Kelsen, con una modifica della Carta a termini statutari (aggiungo: con probabili problemi costituzionali per gli Stati membri).

Nel 1993, nel corso dei conflitti intrajugoslavi innescati anche per (senz’altro decisiva) responsabilità dei paesi occidentali, venne istituito - lo si è anticipato - un Tribunale penale internazionale ad hoc, quello denominato per la ex-Jugoslavia (già allora detta ex, pur se prematuramente): con decisione del C.d.s. delle NU (la ris. 827 del 25 maggio 1993, preceduta da una preparatoria ris. 808 del 22 febbraio 1993). Un organo giudiziario destinato ad esercitare giurisdizione penale su individui, in specie individui-organi,essenzialmente di uno Stato e comunque di entità di tipo statale (la Jugoslavia socialista federale, poi quella residua, e le Repubbliche secessioniste), dotati di propri poteri sovrani o assimilabili, ma senza loro partecipazione, per imposizione esterna da parte di un “organo internazionale” come il C.d.s.: da ritenersi fondamentalmente e insanabilmente incompetente all’uopo.

Siamo in presenza di una giurisdizione penale sganciata da una situazione di sovranità: le NU, di cui il C.d.s. e il Tribunale per la ex-Jugoslavia sono organi, non sono ente sovrano (non sono una federazione). E non hanno potere su individui, i destinatari o soggetti passivi della giurisdizione penale. Anche se negli ultimi tempi il C.d.s. si va prodigando in misure e sanzioni relative ad individui. Sia chiaro: non può legittimamente farlo neanche imponendo agli Stati i relativi obblighi (che è poi l’unica pratica possibilità, le NU non essendo dotate di strumenti di esecuzione loro propri). Vi è comunque la sovraimposizione dell’organo (Tribunale ad hoc) sulla sovranità di uno Stato e/o di entità di tipo statale in essere nello spazio della (ex) Jugoslavia socialista: con la sottrazione di “incriminati” alla giurisdizione penale di queste e con la sottoposizione di loro individui-organi a quel Tribunale. Dunque, anche con la cancellazione dell’eventuale immunità internazionale. Perché quel Tribunale non si innesta, e non lo ha potuto, come invece era accaduto con il Tribunale di Norimberga per la Germania, in un sistema giuridico interno, e cioè quello o quelli delle entità ex-jugoslave (senz’altro di quella, la principale, che non aveva accettato in alcun modo il Tribunale ad hoc: la Jugoslavia federale residua –Serbia e Montenegro). L’abnormità sta dunque nel fatto che si è operato simulando, per così dire, una situazione di occupazione territoriale, che invece non vi è stata. Il Tribunale ad hoc ha quindi agito, ed agisce, non solo come copertura politica e di immagine delle operazioni politiche e militari che hanno portato alla distruzione della Jugoslavia socialista, ma addirittura ha collaborato a tale distruzione con la mirata disintegrazione di compagini statali attraverso le incriminazioni individuali anzitutto dei vertici.

La risoluzione istitutiva è illegittima perché stabilisce un organo giudiziario (su individui, per di più), quando il C.d.s. non è dotato di un tale potere giudiziario. Se in quest’ottica si ponesse l’accento sul carattere di organo sussidiario da ascriversi al Tribunale ad hoc, secondo l’art. 29 della Carta, un siffatto potere giudiziario dovrebbe rinvenirsi nel C.d.s. istitutore, e appunto tale potere su individui nel C.d.s. non esiste. Sotto altro punto di vista, istituire un organo giurisdizionale presuppone un potere normativo generale, diciamo di tipo legislativo, che il C.d.s. non possiede, essendo esso fornito solo, per così dire, di un potere di ordinanza rispetto a situazioni di emergenza nei rapporti internazionali fra Stati. Quel potere generale non rientra certo nell’ambito del potere di adottare misure senza uso della forza per situazioni concrete, espresso dall’art. 41 Carta (nel quale, precisiamo per chiarire, viene per lo più ricercata la base giuridica dell’operazione compiuta dal C.d.s. con l’istituzione del Tribunale ad hoc). Oltretutto, questa norma indica, certo in modo non tassativo ma senz’altro significativo, tipi di misure senza uso della forza: si tratta di misure consistenti in rotture o interruzioni di rapporti fra Stati, e comunque sempre di misure da prendersi dagli Stati, e certo l’istituzione di un tribunale penale operata dal C.d.s. non presenta siffatte caratteristiche. E non pare compatibile con l’intrinseco carattere contingente delle misure ex art. 41 Carta.


4. Richiamato che la vantata ascendenza di Norimberga rispetto al Tribunale ad hoc non è sussistente se non per tratti minori ed estrinseci, va comunque denunciato l’elemento più grave di deviazione dalla pur invocata tradizione: l’eliminazione, dal novero delle categorie di crimini previste dallo Statuto del Tribunale ad hoc, di quella dei crimini contro la pace, includente l’aggressione.

La mancata previsione di questa categoria avrebbe potuto favorire senza dubbio, in linea astratta, l’equiparazione formale delle parti in conflitto – e addirittura dei sostenitori esterni – con riguardo alle categorie di crimini previste, quelli di guerra e contro l’umanità. Tale esclusione (dei crimini contro la pace) è avvenuta per evitare il “rischio” di coinvolgere in prima linea gli esponenti delle potenze che hanno operato per favorire la disgregazione della Jugoslavia. Si è così raggiunta l’eliminazione, dal campo di competenza assegnato (si ripete, comunque in un contesto arbitrario) al Tribunale ad hoc, dei comportamenti degli Stati, e dei loro individui-organi, che hanno (quantomeno) contribuito allo sfascio della Jugoslavia socialista. Almeno astrattamente, i comportamenti di contrasto all’autodifesa dello Stato esistente, culminati nei riconoscimenti prematuri delle Repubbliche secessioniste, vi sarebbero rientrati, in quanto azioni concertate e mirate contro la sovranità della Federazione jugoslava socialista.

Si è in tal modo evitata la possibilità, sia pur –visto il contesto- solo teorica, che venisse sotto i riflettori tutto il retroscena della vicenda jugoslava: ne è dunque derivata la concentrazione esclusiva sulle azioni di combattimento, sui conflitti armati e le loro durezze, gli eventuali crimini connessi, il tutto sradicato in tale logica dal terreno internazionale (se non fittiziamente raffigurato, come stiamo per vedere), dalle operazioni e macchinazioni e rappresentazioni ideologiche che hanno condizionato e, per così dire e in ampia misura, fornito una conformazione rappresentativa a quei conflitti armati.

Mi spiego e svolgo. È stato fondamentalmente distorto, nell’applicazione alla situazione jugoslava, il principio di autodeterminazione dei popoli in quanto principio normativo internazionale vigente: questo infatti non tutela qualunque parte di popolazione di uno Stato che intenda staccarsi, ma solo quelle parti, territorialmente compatte, che soffrono di una discriminazione fondamentale, di tipo coloniale o assimilabile, e la tutela si concreta essenzialmente nell’attenuazione, per i terzi Stati, dell’obbligo di non ingerenza nei fatti interni e quindi nel poter legittimamente fornire appoggio al movimento di autonomia o indipendenza. Fuori di quel presupposto si ha un’insurrezione, di fronte alla quale i terzi Stati non possono lecitamente intervenire. La situazione delle Repubbliche jugoslave secessioniste era con evidenza questa. La macchinazione degli Stati occidentali, in un momento storico in cui non hanno incontrato sul piano mondiale contesti ad ampio raggio di opposizione, si è incentrata sull’imposizione (ideologica) di una rappresentazione in termini di autodeterminazione a favore delle spinte e lotte secessionistiche: così da raffigurare come aggressione il comportamento della Federazione che legittimamente le contrastava.

D’altro canto, va considerato che la configurazione giuridica che si è presentata vale a fronte di Stati costituiti (come era la Federazione socialista jugoslava). Ma in un processo fattuale di graduale dissolvimento di questa e di formazione di nuove entità, non ancora Stati costituiti, centrate sulle Repubbliche federate secessioniste, non può negarsi, a favore di parti di popolazione territorialmente compatte sino ad allora integrate in una data realtà amministrativa (una Repubblica federata secessionista), un principio di autodeterminazione in senso autonomo rispetto a quello sinora illustrato: e cioè come autocostituzione di una subregione in entità indipendente o come sua permanenza nella vecchia compagine dello Stato costituito. L’imposizione da parte degli Stati occidentali di un principio (che nel diritto vigente è limitato a determinati ambiti geografici sulla scena mondiale e non è generalmente applicabile) uti possidetis iuris (come imposizione della permanenza delle frontiere, in sé meramente amministrative nel quadro della precedente Federazione, delle Repubbliche federate secessioniste) è stata contraria all’autodeterminazione-autocostituzione di subregioni che non volevano essere coinvolte nella secessione della Repubblica federata in cui sino a quel momento erano state amministrativamente conglobate. Si pensa in particolare alla Kraijna e alla Slavonia orientale di etnia serba nel quadro della Croazia federata e alla Repubblica serba di Bosnia nel quadro della Bosnia-Erzegovina federata. L’intervento di Stati terzi per (aiutare a) reprimere quei movimenti di autodeterminazione (nel senso particolare da ultimo indicato) appare illecito e, in quanto intervento armato, criminale. Alle persone più attente non sarà sfuggita la flagrante contraddizione fra l’imperativa pretesa del campo imperialista di voler difendere il diritto dei popoli a vivere in regioni omogeneamente occupate dalla stessa etnia, liberandole dal “giogo jugoslavo” da un lato, mentre dall’altro, nei casi suindicati, si volle imporre ai serbi, con la violenza delle armi, la rinuncia a quello stesso diritto.

Conseguenza di questa duplice mistificazione ideologica: i conflitti secessionisti si sono fatti apparire come di autodeterminazione e quindi “internazionalizzati” e così resi (artificialmente e illegittimamente) suscettibili di sostegno esterno: il legittimo contrasto dello Stato federale è divenuto guerra di aggressione contro l’autodeterminazione. La lotta delle subregioni antisecessioniste si è fatta passare per ribellione contro Stati costituiti e quindi legittimamente reprimibile, addirittura pure con sostegno esterno (anche contro il vero o supposto, per altro in sé legittimo, sostegno dello Stato federale in funzione antisecessionista). Questa problematica, e le mistificazioni che ne sono state espressione, sono rimaste sullo sfondo, proprio perché escluse dall’ambito di competenza assegnato al Tribunale ad hoc. Ma certamente hanno esercitato in modo sotterraneo un influsso nefasto sulle vicende processuali e le scelte dei “giudici”: la criminalizzazione, e in esito la condanna, sono state pronte e senza esitazioni a danno del campo delle forze antisecessioniste, nelle due ipotesi che si sono delineate; ben più rarefatte e meno numerose nel caso opposto. Si tratta del discrimine di fatto che si è tracciato implicitamente tra i Serbi, da un lato, i Croati e i Musulmani, da un altro, e ancor più coloro che, dall’esterno, hanno affiancato questi ultimi. Così da rendere inevitabilmente “orientato” il Tribunale ad hoc. Inevitabile (!) l’ “archiviazione” delle denunce contro la NATO per i bombardamenti sulla Jugoslavia (2 giugno 2000). La condanna di un esponente croato, il gen. Gotovina, appare nel contesto complessivo operazione di copertura.

Non mi trattengo su questi aspetti, le relative statistiche e le loro implicazioni, e cioè sulle modalità dello svolgimento dei processi, prima ancora sulle incriminazioni (al massimo livello, solo il presidente Milosevic, serbo e jugoslavo; intoccati il musulmano-bosniaco Izebetgovic e il croato Tudjman), infine sulle sentenze.

Il presidente Milosevic ha avuto l’atto di incriminazione poco dopo l’inizio dei bombardamenti, cioè l’aggressione, della NATO contro la Jugoslavia (residua) nel marzo 1999. Nella logica assunta dal Tribunale ad hoc, che appunto vede escluso dal suo campo di azione il crimine più grave, e comunque scatenante, e cioè l’aggressione o le macchinazioni che hanno favorito le guerre civili, quell’incriminazione (sia pure anche per asseriti fatti pregressi) colpisce come criminale l’individuo-organo di vertice e vale dunque quale copertura dell’aggressione NATO: reazione, questa, come viene fatta apparire ed in tale logica, alle attività criminose attribuite – in base ad incredibili teoremi giuridici - allo Stato jugoslavo e al suo presidente da ultimo per il Kosovo (in realtà, legittimo contrasto dello Stato jugoslavo costituito nei confronti di un’insurrezione locale, come in precedenza contro le secessioni).

Va da sé che si è voluto anche inferire un colpo alla compagine statale jugoslava. Mi astengo dal richiamare la vicenda scandalosa del vero e proprio rapimento e sequestro di Milosevic a Belgrado nel 2001 per tradurlo nel carcere di Scheveningen e quelle dell’annoso processo, in cui Milosevic ha opposto un comportamento eroico e ha lasciato la vita (per morte naturale, come affermano i suoi aguzzini, per assenza di cure adeguate, come affermano alcuni, o per avvelenamento, come pensano altri).

 Citiamo a questo punto per incidens le incriminazioni, da parte questa volta della Corte penale internazionale dell’Aja, a carico del presidente sudanese al-Bashir e del leader libico Gheddafi, assassinato poi dalla NATO e complici: quest’ultimo, come Milosevic, appena scatenata l’aggressione aerea. Pur se questa Corte presenta una base di legittimità formale di maggior consistenza, la Convenzione di Roma del 1998, benché di fronte a probabili problemi di costituzionalità per gli Stati parti o almeno per diversi fra essi, risulta se non altro una situazione aberrante, che consente un’assimilazione al Tribunale ad hoc: l’art. 13 b, per il quale il C.d.s. può deferire alla Corte anche individui-organi di Stati non parti dello Statuto della Corte medesima (come nei due casi da ultimo citati). Si configura, con atto estraneo alla Carta NU, un potere del C.d.s. non previsto: pur se evidentemente tale esito può apparire in ultima analisi un’escrescenza del potere arrogatosi dal C.d.s. stesso con l’istituzione di tribunali penali internazionali. Se l’attribuzione di potere giurisdizionale penale al di fuori di una struttura sovrana è fenomeno singolare, per non dire abnorme, cui può – entro molte cautele - sopperire una base convenzionale (quasi ad istituzione di un organo comune degli Stati parti), la pretesa soggezione ad una tale Corte, su indicazione del C.d.s., di Stati non parti dello Statuto della Corte medesima e di loro individui-organi, con lo scalzamento delle relative immunità internazionali, ripropone lo schema di una simulata occupazione, appunto realmente non sussistente, con l’attribuzione di potere giurisdizionale penale a organo – almeno nei confronti di Stati non parti - non sovrano (neppure nel senso di una sorta di delega all’organo “internazionale” stabilita dalla convenzione istitutiva).

Va fatto presente che lo Statuto della Corte, almeno nella fase attuale, esclude anch’esso i crimini contro la pace, a partire dall’aggressione, dal proprio campo di applicazione. Il malo esempio del Tribunale ad hoc riproduce così a livello più generale i suoi effetti maligni ai danni dell’indipendenza e sovranità degli Stati.

Si noti, a completamento delle anomalie, che per giurisprudenza internazionale attuale (della Corte internazionale dell’Aja) gli organi statali godono pur sempre delle immunità internazionali, almeno finché in funzione. Principio patentemente violato dalle incriminazioni lanciate, a conflitto iniziato, dal Tribunale ad hoc e dalla Corte penale internazionale.

Ad un sistema del genere, a una siffatta “giustizia penale internazionale”, troviamo affidato il caso Srebrenica. Quello “ufficiale”. Dell’altro, documentato in questo volume, non vi è traccia.

Di fronte all’inerzia delle istanze di “giustizia penale internazionale”, che abbiamo preso in considerazione, riguardo a denunce pur lanciate contro esponenti occidentali per aggressioni e crimini di guerra in Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Palestina, oggi Libia, non si riesce ad evitare una valutazione di assoluta parzialità, di mirata selettività, di strumentalità delle operazioni giudiziarie poste in essere da quelle istanze. Di fronte alle quali ci si può dunque domandare: al suono di quale piffero queste istanze danzano?

Norimberga fu certo unilaterale, ma su base morale, politica e giuridica inoppugnabile. Si procedé a partire da incontrovertibili crimini di aggressione e contro la pace. Tutto ciò non può dirsi per le incriminazioni e i processi del Tribunale ad hoc per la ex-Jugoslavia e della Corte penale internazionale. Ne sono prova irrefutabile le “archiviazioni” di denunce contro Blair, Sharon, Clinton e loro sodali e, per il Tribunale ad hoc, contro la NATO.

A mani ben poco affidabili risulta assegnata la “questione Srebrenica”. La documentazione presentata in questo crudo e coraggioso volume dovrebbe portare a rivedere molte opinioni e meglio mistificazioni circolanti e fatte circolare nell’opinione pubblica mondiale, per lo meno in quella occidentale. Ma non sappiamo se questo auspicio, questa speranza di vera giustizia potrà trovare accoglienza contro il pensiero unico dominante.


Aldo Bernardini

Roma, 25 gennaio 2012



(english / italiano.
Sullo stesso tema si veda anche il nostro precedente post:


Terroristi anti-siriani addestrati dalla NATO in Kosovo

1) Siria. I miliziani anti-Assad addestrati in basi nel Kosovo (Sergio Cararo)
2) Moscow against training Syrian militants in Kosovo


A lire aussi: 
Kosovo : l’opposition syrienne à l’école de l’UÇK ?


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Siria. I miliziani anti-Assad addestrati in basi nel Kosovo 

di Sergio Cararo

I ribelli addestrati in Kosovo? Mosca chiede alla Nato di “provvedere”. L'ombra di Al Qaida sulla Siria si fa più forte. Gli avversari di Assad continuano dividersi. Saltata la riunione al Cairo insieme alla Lega Araba. L’Unione Europea aumenta le sanzioni contro la Siria, uno scenario iracheno.

Mosca ha espresso ieri preoccupazione per le notizie secondo cui i ribelli siriani si addestrerebbero in Kosovo. Il ministero degli esteri russo, citato dalla Tanjug, ha fatto riferimento a notizie di stampa su “contatti fra esponenti dell'opposizione siriana e le autorità della cosidetta Repubblica del Kosovo”. Contatti che includerebbero non solo “scambi di esperienze nell'organizzazione di movimenti separatisti diretti a rovesciare governi in carica, ma anche l'addestramento di ribelli siriani in Kosovo”. Le notizie riferite dal ministero degli esteri di Mosca, paralano di centri di addestramento creati in ex basi dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck). “Trasformare il Kosovo in una base internazionale per l'addestramento di ribelli di differenti formazioni armate potrebbe rivelarsi un grosso fattore destabilizzante con effetti ben al di là dei Balcani”, ha concluso il ministero russo che ha chiesto per questo alla Forza internazionale della Nato in Kosovo (la Kfor di cui fanno parte anche militari italiani) di adottare “tutte le misure necessarie per prevenire la messa in atto di tali piani”. Accuse fantasiose? Non si direbbe. L’Associated Press rivela che il 26 aprile scorso, al ritorno dagli Stati Uniti, una delegazione di membri dell’opposizione siriana ha fatto tappa a Pristina per tenere colloqui su come impiegare in Siria le conoscenze dell’ Esercito di Liberazione del Kosovo. “Siamo venuti qui per imparare. Il Kosovo ha già compiuto questo cammino e possiede un’esperienza che potrebbe esserci molto utile,” afferma il capo della delegazione siriana Ammar Abdulhamid, “attivista dei diritti” umani nato in Siria. “Soprattutto vorremmo sapere in che modo gruppi armati sparsi si sono infine organizzati nell’UCK.” I leader dell’opposizione siriana hanno promesso di riconoscere subito il Kosovo una volta preso il potere nel paese.

Già nel 2004, il generale statunitense Lewis Mackenzie scriveva sul National Post “Gli albanesi-kosovari ci hanno suonato come uno Stradivari. Noi abbiamo finanziato e indirettamente sostenuto la loro violenta campagna per un Kosovo etnicamente puro e indipendente. Non li abbiamo mai rimproverati per essere stati i perpetratori della violenza nei primi anni ’90 e continuiamo a dipingerli oggi come le vittime designate, a dispetto delle prove del contrario. Quando essi raggiungeranno l’indipendenza con l’aiuto dei proventi delle nostre tasse, combinati con quelli di Bin Laden e di Al-Qaeda, consideriamo allora il messaggio di incoraggiamento che verrà mandato ad altri movimenti d’indipendenza sostenuti dal terrorismo in giro per il mondo”.

E’ stata intanto rinviata a data da destinarsi la riunione delle opposizioni siriane organizzata dalla Lega Araba al Cairo per il 16 e 17 maggio. Lo rende noto un comunicato della stessa Lega Araba, spiegando che la richiesta di rinvio è venuta dal Consiglio Nazionale Siriano e dalla Commissione di Coordinamento Nazionale delle forze per il cambiamento democratico. Giovedì prossimo al Cairo era prevista una riunione di tutte le opposizioni sirianeche però restano divise fra loro. Già ieri, la Commissione per il Coordinamento Nazionale (Ccn), che si dice rappresentante dell’opposizione all’interno del paese, aveva annunciato il boicottaggio della riunione del Cairo, sponsorizzata dalla Lega Araba su richiesta dell'inviato Onu Kofi Annan. I vertici del Consiglio nazionale siriano (Cns, ancora presenti a Roma, avevano detto che anche loro non sarebbero andati al Cairo, perchè “non invitati come Cns ma a titolo individuale”. Il Cns è la piattaforma che riunisce gli avversari di Assad all'estero e che conta tra le sue file i miliziani armati che agiscono all’interno del paese. Dietro le questioni formali si nascondono però nodi politici legati a rivalità interne e personali tra i vari dissidenti all'estero e in patria. Nei giorni scorsi, una commissione mista Ccn e Cns aveva tentato invano di dare vita a una piattaforma congiunta in vista della conferenza del Cairo.

L'Unione Europea ha varato nel frattempo il quindicesimo pacchetto di sanzioni contro la Siria. Da più parti piovono le accuse ai governi europei e statunitense di imporre sanzioni che alla fine colpiscono più il popolo che i vertici del potere siriano, ma l'Alto rappresentante della Ue, Catherine Ashton- così come fece l’allora segretario di stato Usa Madeleine Albright nel caso dell’Iraq, ha affermato il contrario: “Le sanzioni Ue colpiscono il regime siriano, non la popolazione civile. Finchè la repressione durerà, la Ue continuerà a mettere pressione sui responsabili”, ha detto. In Iraq, come noto, i fatti hanno dimostrato il contrario. Con la decisione odierna, salgono a 128 le persone e a 43 le imprese colpite da misure restrittive. I nomi delle nuove tre persone e delle due società colpite saranno pubblicati oggi sulla Gazzetta Ufficiale europea


(maggio 2012)


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Source of the following texts, in english, is the Stop NATO e-mail list.
Home page with archives and search engine:
http://groups.yahoo.com/group/stopnato/messages
Website and articles:
http://rickrozoff.wordpress.com
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http://www.interfax.com/newsinf.asp?pg=2&id=331687

Interfax - May 14, 2012 

Moscow opposes plans to train Syrian militants in Kosovo


MOSCOW: The Russian Foreign Ministry is concerned by the reports that Syrian militants will be trained in Kosovo, and has urged the international community to prevent that from happening.
"Lately there have been media reports about contacts between Syrian opposition representatives and the authorities of the so-called Republic of Kosovo. This is not just about 'exchange of experience' in organizing separatist movements aimed at toppling existing regimes, it is also about training Syrian militants in Kosovo," the ministry said in a statement issued on Monday.
They intend to use areas that are geographically similar to the Syrian landscape, the ministry said. It is likely that training centers will be opened at the former bases of the Kosovo Liberation Army.
"Such intentions raise concerns. They run counter to the efforts of United Nations-Arab League Special Envoy Kofi Annan, backed by the entire international community. Moreover, turning Kosovo into an international site for training militants from various militant groups could become a serious destabilizing factor spreading beyond the Balkan region," the statement said. 
"We are calling on international organizations present in the province to take whatever steps necessary to foil such schemes," the Russian Foreign Ministry said.

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http://en.rian.ru/russia/20120514/173451677.html

Russian Information Agency Novosti - May 14, 2012

Russia Warns Against Training Syrian Rebels in Kosovo

The Russian Foreign Ministry on Monday urged international bodies operating in Kosovo to prevent the region from turning into a training ground for Syrian rebels.
A delegation from the Syrian opposition visited Kosovo in April to allegedly make a deal on exchanging experience in guerilla warfare against ruling authorities.
So far, the fractured Syrian opposition has been unable to form a steady front against the forces of President Bashar al-Assad.
The Russian ministry said in a statement that the talks covered not only the ways of organizing armed resistance against authorities but also the training of Syrian militants in Kosovo.
“There are plans to use the areas [in Kosovo] that resemble the terrain in Syria. The possibility of setting up training camps at the former bases of the Kosovo Liberation Army [KLA] is also being discussed,” the statement said.
“Transforming Kosovo into an international training ground for armed militants may become a serious destabilizing factor that could extend beyond the Balkans,” the document said. “We urge international bodies operating in Kosovo to take all necessary steps to prevent these plans.”
The ethnic Albanian KLA fought a separatist war against the regime of President Slobodan Milosevic in 1998-99. About 10,000 people died in the Kosovo conflict.
Kosovo declared its independence from Serbia in February 2008.
Both Serbia and Russia have refused to recognize Kosovo’s independence.



(english / francais)

Bail prolongé pour l’OTAN au Kosovo

1) May 1, 1999-2012: 13 years since NATO air strike on bus in Kosovo
2) Georges Berghezan: Bail prolongé pour l’OTAN au Kosovo


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http://www.b92.net/eng/news/society-article.php?yyyy=2012&mm=05&dd=01&nav_id=80052

B92 - May 1, 2012

13 years since NATO air strike on bus in Kosovo

GRAČANICA: On this day 13 years ago, NATO's war planes attacked a Niš Express bus traveling on a road near the village of Lužane, close to the town of Podujevo in Kosovo. 
A file photo of a NATO attack (Tanjug)Some 40 people, many of whom women and children, died in the attack. 
Zorica and Dragiša Petrović, Serbs from the enclave of Gračanica in Kosovo, lost two children in the bombing - daughter Maja and son Nikola. Dragiša's mother was also among the victims. 
Zorica Petrović still struggles to cope with the loss of her children - she was taken ill after the tragedy and is still receiving therapy on a daily basis. 
The three members of the Petrović family were laid to rest on May 7, 1999 - Nikola's 17th birthday. 
The Petrovićs spoke to reporters on this day to say that they did not expect to receive any assistance from any quarter, "aware that they are not the only ones to have lost their loved ones during the NATO bombing". 
The reason they publicly addressed the tragedy, the family said, was their desire "for someone to have them in their thoughts on this day, and ease their pain and suffering". 
NATO launched its war against Serbia on March 24, 1999, and continued with aerial attacks for the next 78 days.


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Bail prolongé pour l’OTAN au Kosovo

Georges Berghezan

16 mai 2012


Nulle force de l’OTAN, parmi toutes celles déployées sur la surface du globe, n’a connu la longévité de celle du Kosovo. Depuis bientôt treize ans, la KFOR, pour « Force du Kosovo », occupe ce coin des Balkans, une région certes moins agitée que l’Afghanistan, mais où sa simple présence témoigne de la persistance des tensions laissées les guerres d’ex-Yougoslavie, tensions que les interventions occidentales n’ont fait qu’aiguiser.



[PHOTO] De g. à dr., Hashim Thaçi, alors chef politique de l’UCK, Bernard Kouchner, 1er administrateur de l’ONU au Kosovo, Michael Jackson, 1er commandant de la KFOR, Agim Ceku, chef militaire de l’UCK, et Wesley Clark, commandant suprême de l’OTAN
 
 
Bien entendu, l’OTAN répète sur tous les tons que la présence de la KFOR n’est justifiée que par le souci de « maintenir un environnement sûr et sécurisé »[1], par la nécessité de s’interposer entre ces sauvages tribus balkaniques toujours prêtes à s’entredéchirer. Cependant, un peu de recul permet de se rendre compte que les choses sont un peu plus complexes et que le déploiement de la KFOR n’est pas aussi désintéressé qu’elle ne le prétend.
 
 
Bombarder et occuper
 
Il faut tout d’abord se remémorer que le déploiement de troupes sous commandement OTAN dans la province serbe du Kosovo a été précédé d’une longue campagne de bombardements par cette même alliance atlantique. Pendant 78 jours, du 24 mars au 11 juin 1999, la République fédérale de Yougoslavie (RFY), qui unissait alors la Serbie et le Monténégro, a été pilonnée par les bombardiers et missiles de l’OTAN, faisant 2 500 morts dans la population civile. Les responsables occidentaux, dont le duo Bill Clinton/Tony Blair, ont justifié leur action en affirmant qu’un génocide à l’encontre de la population albanaise du Kosovo était en cours et qu’il était de leur responsabilité de l’arrêter. Si des milices serbes s’y sont effectivement livrées à des exactions, ce fut pour l’essentiel après le début des bombardements et dans des proportions infiniment moindres que ce qui avait été alors annoncé[2]. En outre, l’argumentaire occidental présentait l’Armée de libération du Kosovo (UCK), qui multipliait depuis 1996 les attaques contre civils et policiers serbes, comme d’héroïques « combattants de la liberté », alors qu’elle était alimentée par les plus solides trafics, en particulier celui de l’héroïne et, comme on l’apprendra une dizaine d’année plus tard, par celui des organes de prisonniers serbes et de prostituées d’Europe de l’Est[3].
 
Comme ceux des Etats-Unis contre l’Irak quatre ans plus tard, les bombardements de l’OTAN sur la RFY ne disposaient d’aucun mandat du Conseil de sécurité de l’ONU, ce qui en faisait, de l’avis de la plupart des juristes, une grossière violation du droit international. Cependant, c’est une résolution du Conseil de sécurité qui y mit fin. Si Slobodan Milošević, alors Président de la RFY, accepta de retirer ses forces armées du Kosovo et de laisser y pénétrer les troupes de l’OTAN, devenues KFOR, ce fut bien sûr pour éviter que son pays ne soit totalement ravagé sous les bombes, mais aussi parce que le Conseil de sécurité adopta sa « résolution 1244 ». Celle-ci autorisait bien le déploiement d’une force sous commandement OTAN, mais remettait la gestion civile de la province à une mission de l’ONU et, surtout, réaffirmait l’appartenance du Kosovo à la RFY, autrement dit à la Serbie dont il est la province méridionale et le berceau historique.
En arrivant au Kosovo, les troupes de l’OTAN furent précédées de quelques heures par leurs collègues russes qui s’emparèrent de l’aéroport de Priština, le seul digne de ce nom dans la province. Alors que les soldats britanniques entamaient le siège de l’aéroport, la crise se dénoua finalement sans confrontation armée, en grande partie parce que le général britannique Michael Jackson, chef de la KFOR, désobéit au général étatsunien Wesley Clark, commandant suprême de l’OTAN, qui exigeait qu’il attaque les troupes russes. A cet excité, très proche de Bill Clinton, Jackson répliqua vertement : « Je ne vais pas déclencher la Troisième guerre mondiale pour vous ».
 
 
 
Nettoyage des minorités
 
Le déploiement initial de la KFOR, s’il fut pléthorique, 50 000 hommes pour un territoire grand comme un tiers de la Belgique, fut surtout chaotique. En quelques mois, environ 300 000 non-Albanais quittèrent le Kosovo, chassés par la campagne de nettoyage ethnique orchestrée par l’UCK, sous l’œil complaisant des troupes de l’OTAN. Intoxiqués par une propagande manichéenne, les soldats occidentaux étaient enclins à croire sur parole les miliciens de l’UCK expliquant que les Serbes étaient des « criminels de guerre » et les Roms des « collabos » et que tout Albanais ayant travaillé dans les services publics était un « traître » et que, donc, leur exécution ou leur expulsion était pleinement justifiée.
 
Cependant, toutes les troupes de la KFOR n’eurent pas un comportement aussi irresponsable. Les Français, en charge du nord du Kosovo, adjacent au reste de la Serbie, empêchèrent l’UCK d’y débarquer et d’y expulser la population majoritairement serbe qui a pu s’y maintenir jusqu’à aujourd’hui. Particulièrement significatif est le cas de la région de Prizren, la deuxième ville du Kosovo, où les troupes allemandes, arrivées les premières, laissèrent l’UCK donner libre cours à sa rage d’une région » ethniquement pure ». Alors que les soldats allemands défilaient bras dessus bras dessous avec les miliciens de l’UCK dans les rues de la ville, ces derniers firent subir de multiples violences, non seulement aux Serbes, mais aussi aux nombreuses minorités musulmanes, Roms, Slaves, Turcs, habitant Prizren et ses alentours. Heureusement, après quelques semaines, la ville et d’autres localités sont passées sous le contrôle de troupes turques de la KFOR qui – en bonnes héritières de l’empire ottoman où une certaine tolérance ethnique était de mise – mirent au pas l’UCK et empêchèrent la poursuite de ces exactions, à l’encontre des minorités musulmanes du moins.
 
Pas très loin de Prizren, les troupes néerlandaises déployées dans la petite ville d’Orahovac, en proie apparemment à un « syndrome de Srebrenica », ont enfermé derrière des barbelés la population serbe et rom réfugiée dans le haut de la ville, empêché les évacuations, y compris médicales, et kidnappé tous les notables serbes, accusés par l’UCK de crimes de guerre. Le summum a été atteint quand les Hollandais ont pris fait et cause pour l’UCK qui refusait l’application d’un accord conclu après la crise de l’aéroport de Priština, prévoyant qu’Orahovac passe sous la juridiction des troupes russes. A la fin 1999, on assista donc à une étrange collaboration entre une milice officiellement dissoute et une armée d’un pays de l’OTAN pour édifier des barrages routiers afin d’empêcher le déploiement de troupes russes, et donc l’exécution d’un accord conclu entre Moscou et l’OTAN ! Dégoûtés, les Russes finirent par se replier sur l’aéroport, dont ils partageaient le contrôle avec les Britanniques, puis quittèrent définitivement le Kosovo en 2003.
 
 
Apartheid européen
 
Néanmoins, après le chaos initial, la KFOR parvint, dans le courant de 2000, à pacifier quelque peu la région. Si les violences directes contre les minorités ont alors décru, on assista à la mise en place d’une forme de système d’apartheid, encouragé tacitement par la Mission de l’ONU et la KFOR. Parmi les Serbes qui n’avaient pas été expulsés, soit une petite moitié de la population de l’année précédente, une partie, ceux vivant au sud de la rivière Ibar, a dû se résoudre à vivre dans des enclaves rurales isolées ou dans de minuscules ghettos urbains, sans liberté de mouvement ni possibilité d’emploi. Les autres, au nord de l’Ibar, ont pu continuer une vie presque normale, avec la possibilité de se rendre sans encombre dans le reste de la Serbie. La ville de Mitrovica fut divisée en deux, l’Ibar marquant la frontière entre deux mondes.
 
Les autres minorités n’ont guère connu un sort plus enviable. Au moins la moitié de leurs membres ont fui, que ce soit parmi les Slaves musulmans (Bosniaques, Gorani…), les Turcs, les Ashkalis et les Egyptiens (deux groupes roms de langue albanaise) ou la petite communauté croate, chassés à la fois par la violence des partisans de la pureté ethnique, par les menaces[4]et discriminations quotidiennes, et par les difficultés économiques. Les plus durement touchés par le nettoyage ethnique ont certainement été les Roms, pratiquement tous chassés des zones majoritairement albanaphones. Mais de graves violences ont également été commises contre des Albanais kosovars, d’abord ceux soupçonnés d’avoir « collaboré » avec les Serbes, puis les opposants politiques aux partis issus de l’UCK, en particulier le Parti démocratique du Kosovo (PDK) dirigé par Hashim Thaçi, actuellement Premier ministre. Ainsi, ont été exécutés un grand nombre de partisans d’Ibrahim Rugova, dirigeant incontesté de la communauté albano-kosovare jusqu’à ce que les Etats-Unis intronisent Thaçi juste avant les bombardements.
 

[PHOTO]  Déplacés roms installés dans l’enceinte d’une école de Kosovo Polje en 1999 (© Berghezan)
 
Une nouvelle flambée de violences a eu lieu en mars 2004, quand les enclaves serbes du sud de l’Ibar ont systématiquement été prises d’assaut par des foules furieuses menées par des anciens de l’UCK. Des milliers de maisons serbes, roms et ashkalies ont été incendiées, ainsi que des dizaines d’églises et monastères orthodoxes, s’ajoutant à plus d’une centaine d’édifices religieux détruits depuis 1999, dont certains bâtis au Moyen-Age. Officiellement, les pogroms ont coûté la vie à 19 personnes, 11 Albanais et 8 Serbes, bien que diverses sources indiquent que le bilan réel pourrait être nettement plus élevé[5]. Au début totalement dépassée par les événements, se contentant d’ouvrir ses bases à des foules apeurées, la KFOR a fini par reprendre la situation en main et, au bout de trois jours, est parvenue à mater les émeutiers.
 
C’est également à ce moment que, aux yeux des Serbes des enclaves du sud comme du nord, la KFOR est devenue leur seule protection possible, alors que la police de l’ONU avait battu en retraite et que la police kosovare avait souvent épaulé les émeutiers. Si ces derniers n’ont pas hésité à affronter des unités de la KFOR, ils ont reculé face au contingent étatsunien, dont le pays est considéré comme l’allié-clé pour sa contribution à l’émergence d’un Etat kosovar.
 

[PHOTO] Maison serbe incendiée lors des pogroms de mars 2004 à Lipljan (© Berghezan)

 
Indépendance supervisée
 
Car il apparut clairement que – en dépit de la résolution 1244, la dernière sur le Kosovo adoptée par le Conseil de sécurité, et donc encore contraignante – l’objectif des puissances occidentales était de forcer l’indépendance de la province serbe. Les pogroms de 2004, restés largement impunis, furent interprétés comme un « appel » de la population albanaise à l’indépendance, appel susceptible de se muer, s’il n’était pas entendu, en « menace » pour le personnel des nombreuses organisations internationales déployé sur place. Un processus de négociation, tronqué dès le départ, démarra donc pour déterminer, sous la houlette de médiateurs européens et étatsuniens, le « statut final » du Kosovo. Il aboutit à l’adoption, par l’Union européenne (UE), les Etats-Unis et le gouvernement de Priština, d’un plan dit « Ahtisaari », du nom du diplomate finlandais ayant chapeauté la négociation, recommandant l’indépendance « supervisée » du Kosovo. Précisions que, si Ahtisaari a été mandaté par le Secrétaire général de l’ONU, son plan n’a jamais été adopté par le Conseil de sécurité.
 
Le 17 février 2008, le Kosovo proclamait donc unilatéralement son indépendance, une indépendance immédiatement reconnue par la plupart des pays occidentaux et leurs plus proches alliés, mais dénoncée, non seulement par la Serbie, mais aussi par la Russie et la Chine, ainsi que par tous les grands Etats du Sud, du Brésil à l’Indonésie, en passant par l’Egypte et l’Afrique du Sud. Quelques membres de l’UE, en particulier ceux en proie à des poussées autonomistes sur leur propre territoire (Espagne, Roumanie, Slovaquie, Chypre, mais aussi la Grèce), ont refusé d’avaliser le coup de force. A ce jour, malgré les pressions des Etats-Unis et les pots-de-vin d’un milliardaire kosovar ayant acheté les reconnaissances de multiples micro-Etats, une majorité de pays du monde ne reconnaît pas l’indépendance du territoire, dont l’accession à l’ONU et dans les grands forums internationaux demeure de toute façon bloquée sans aval du Conseil de sécurité.
 
Malgré son rôle « historique », l’OTAN ne peut pas reconnaître d’Etat kosovar indépendant, quatre de ses membres refusant de la faire, et la KFOR continue à prétendre qu’elle est neutre sur la question du statut, en particulier quand elle s’adresse aux Serbes. Cependant, c’est la KFOR qui a pris en charge la formation des membres des Forces de sécurité du Kosovo, définies par le plan Ahtisaari comme les forces armées d’un Etat souverain, donnant ainsi un sérieux coup de canif à la neutralité affichée.
 
Après la proclamation d’indépendance, la mission de l’ONU a été rapidement dégradée, ne subsistant pratiquement plus que dans le nord du Kosovo. Elle a été remplacée par la mission « Etat de droit », ou EULEX, dépendant de l’UE. Comme cinq de ses membres ne le font pas, l’UE ne peut reconnaître officiellement la République de Kosovo. Cependant, plusieurs activités d’EULEX contribuent directement à établir ou à renforcer les compétences d’un Etat indépendant, en particulier lorsqu’elle s’est employée, depuis l’été 2011, à déployer des douaniers de Priština et à installer deux « postes-frontière » entre le nord du Kosovo et le reste de la Serbie. Cela a donné lieu à l’érection de barricades et à de multiples incidents, la population serbe du nord étant furieuse de se voir ainsi coupée de la « mère Serbie ». La KFOR a été plusieurs fois impliquée dans des affrontements, soit lorsqu’elle tentait de démanteler les barricades, soit quand elle escortait des véhicules d’EULEX transportant des douaniers ou des policiers kosovars.
 

[PHOTO] Les Etats-Unis, promoteurs n° 1 d’un Kosovo indépendant
 
 
Bondsteel, mirador des Balkans
 
Ces incidents, puis la tenue d’élections dans les zones serbes en mai 2012, ont entraîné un renforcement des effectifs de la KFOR qui, après avoir été réduits à un peu plus de 5 000 hommes, sont remontés à plus de 6 000 militaires, principalement déployés dans le nord. Au cours des années, le contingent allemand s’est imposé comme le principal contributeur de la KFOR, supplantant les Etats-Unis, ayant besoin de troupes fraîches sur d’autres théâtres encore plus problématiques. Ceux-ci ont cependant gardé leur immense base de Camp Bondsteel, véritable mirador au cœur des Balkans. Quant aux troupes belges, elles ont quitté le Kosovo en mars 2010.
 
Paradoxalement, malgré les violents affrontements de ces derniers mois dans le nord du Kosovo, malgré l’opposition massive des Serbes à une adhésion de leur pays à l’OTAN[6], ces renforcements ont été salués, tant par Belgrade que par les Serbes du Kosovo. Pour ces derniers, la KFOR est devenue la première condition à leur survie au Kosovo, la police de Priština étant considérée, non seulement comme incompétente, mais surtout comme fondamentalement hostile. Les pogroms de 2004 n’ont fait que renforcer ce sentiment. Puisqu’ il est impossible d’être protégés par Belgrade, en vertu de la Résolution 1244, seule la KFOR apparaît comme apte à le faire, même si elle fait insuffisamment et même si les bombardiers de l’OTAN sont à l’origine de leur ghettoïsation.
 
Aucune « stratégie de sortie » n’est évoquée pour la KFOR. Si la sécurité des minorités dans les enclaves au sud de l’Ibar s’est progressivement améliorée – bien que les agressions reprennent à chaque regain de tension dans le nord et que des lieux de culte serbes orthodoxes continuent à être profanés –, la situation au nord de l’Ibar demeure extrêmement instable. Les Serbes y refusent à la fois l’autorité de Priština et celle d’EULEX, tandis que Thaçi et ses ministres agitent régulièrement l’option d’une solution musclée, qui entraînerait vraisemblablement un nouveau nettoyage ethnique, voire une intervention de l’armée serbe.
 
Pourtant, un processus de « dialogue » entre Priština et Belgrade a débuté en mars 2011 à Bruxelles, aboutissant à quelques accords : remise de copies de registres officiels par Belgrade, représentation de Priština dans les forums régionaux, et gestion commune des points de passage entre le Kosovo et la Serbie centrale. Ce dernier accord prévoit la présence de douaniers du gouvernement de Priština aux postes du nord du Kosovo, où ne serait visible aucun symbole étatique. Bien qu’il doive encore être appliqué, l’accord a fortement mécontenté les Serbes locaux, inquiets que se mette en place une frontière entre eux et le reste de la Serbie. Couplé au refus du gouvernement serbe d’organiser des élections locales au Kosovo, comme partout ailleurs dans le pays, les autorités de Belgrade sont confrontées à une fronde grandissante des Serbes du Kosovo, qui craignent d’être « lâchés » et, que pour adhérer à l’UE, la Serbie finisse par reconnaître d’une manière ou d’une autre l’indépendance du Kosovo.
 
En attendant que les relations entre Belgrade et Priština se normalisent, et que cela se fasse en tenant compte des intérêts de toutes les parties, y compris les Serbes du nord du Kosovo, il ne fait guère de doute qu’une force de l’OTAN continuera à veiller sur ce territoire, qui a l’avantage d’être situé à proximité d’autres régions instables (Bosnie-Herzégovine, Macédoine, ou maintenant la Grèce) et d’importants axes routiers, ferroviaires et pétroliers.

 
Source : Investig'Action
 
Notes :

[1] Voir, par exemple, le site de la KFOR, http://www.nato.int/kfor/.
[2] Lire à ce sujet L’opinion, ça se travaille (Les médias, l’OTAN & la guerre du Kosovo), de Serge Halimi et Dominique Vidal, éd. Agone, 2000, ainsi que Monopoly, L’OTAN à la conquête du monde, de Michel Collon, éd. EPO, 2000.
[3] Affaire révélée par Carla Del Ponte, in La Traque, les criminels de guerre et moi, traduction française publiée en 2009 par les éditions Héloïse d’Ormesson, et confirmée par le rapport du sénateur Dick Marty, Inhuman treatment of people and illicit trafficking in human organs in Kosovo, Assemblée parlementaire du Conseil de l’Europe, 12/10/10, disponible surhttp://www.assembly.coe.int/CommitteeDocs/2010/ajdoc462010prov.pdf.
[4] Ainsi, à l’heure de boucler ce texte, la presse serbe fait état de tracts signés par une certaine « Armée populaire albanaise », menaçant de mort les Serbes de trois villages proches de la petite ville de Klina. Expulsée en 1999, cette centaine de familles est récemment revenue au Kosovo. La KFOR a refusé de commenter l’incident, arguant qu’elle « prend au sérieux toute menace à la sécurité ». Voir http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2012&amp ;mm=05&dd=15&nav_id=80259.
[5] Durant la 2ème journée d’émeute, la Mission de l’ONU annonçait déjà « au moins 31 morts ».
[6] De multiples sondages d’opinion ont montré que, en cas de référendum, les Serbes rejetteraient l’adhésion à l’OTAN dans une proportion d’environ 7 à 1. Par contre, l’adhésion à l’UE est soutenue par une majorité de la population.
 
 
 
 





L’arte della guerra

 

Dopo la strage degli innocenti

 

di Manlio Dinucci - da Il Manifesto , 15 maggio 2012

 
Una delle capacità dell’Arte della guerra del XXI secolo è quella di cancellare dalla memoria la guerra stessa, dopo che è stata effettuata, occultando le sue conseguenze. I responsabili di aggressioni, invasioni e stragi possono così indossare la veste dei buoni samaritani, che tendono la mano caritatevole soprattutto ai bambini e ai giovani, prime vittime della guerra.
L’Italia – dopo aver messo a disposizione della Nato sette basi aeree per le 10mila missioni di attacco alla Libia, e avervi partecipato sganciando un migliaio di bombe e missili – ha varato un «progetto a favore dei minori colpiti da traumi psicologici derivanti dal recente conflitto». Il progetto, del costo di 1,5 milioni di euro, prevede l’invio di una task force di esperti che opererà a Bengasi, Tripoli e Misurata, collaborando con le «autorità libiche». Le stesse che perfino il Consiglio di sicurezza dell’Onu chiama in causa per «le continue detenzioni illegali, torture ed esecuzioni extragiudiziarie».
In Afghanistan, dove ogni anno muoiono migliaia di bambini per gli effetti diretti e indiretti della guerra, gli aerei italiani non lanciano solo bombe e missili, ma viveri, indumenti, quaderni e  penne per i bambini, così da «integrare l’azione operativa con l’attività di supporto umanitario». Un centinaio di fortunati bambini ha ricevuto, in una base militare italiana, un pacco dono, frutto di «una raccolta spontanea durante le celebrazioni delle Sante Messe». «Con l’occasione», alcuni sono stati perfino visitati da un ufficiale medico pediatra. E quando la piccola Fatima ha avuto un braccio maciullato da un ingranaggio, c’è stata la «corsa generosa e disperata» verso l’ospedale, effettuata con un Lince, il blindato usato dagli italiani nella guerra in Afghanistan.
In Iraq, l’Italia è impegnata in un «progetto comune contro la tratta di esseri umani», di cui sono vittime soprattutto ragazze e ragazzi, costretti alla prostituzione e al lavoro forzato nelle monarchie del Golfo. Nascondendo il fatto che tale fenomeno è uno degli effetti della guerra, cui ha partecipato anche l’Italia. Le vittime dirette sono state, nel 2003-11, almeno un milione e mezzo, di cui circa il 40% bambini, documenta il Tribunale di Kuala Lumpur sui crimini di guerra. Molti altri bambini sono morti per le armi a uranio impovertito,  che hanno contaminato il terreno e le acque. A Fallujah, le malfomazioni cardiache dei neonati risultano 13 volte superiori alla media europea, e quelle del sistema nervoso superiori di 33 volte.
A mietere un maggior numero di vittime è il collasso della società irachena, provocato dalla guerra. Circa 5 milioni di bambini sono orfani e circa 500mila vivono abbandonati nelle strade,  3,5 milioni sono in povertà assoluta, 1,5 milioni di età inferiore ai cinque anni sono denutriti e in media ne muoiono 100 al giorno. Sono queste le prime vittime della tratta di esseri umani: bambine di 11-12 anni sono vendute per 30mila dollari ai trafficanti. A provocare questo immenso dramma contribuisce l’Italia, partecipando alle guerre camuffate da missioni internazionali di pace. Anche se il presidente Napolitano, rivolgendosi ai militari in missione, assicura: «Voi oggi, e altri prima di voi, avete dato un grandissimo contributo a un rinnovato prestigio e alla credibilità dell’Italia».