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SREBRENICA
Come sono andate veramente le cose
Prefazione italiana del Prof. Aldo Bernardini, ordinario di diritto internazionale presso l’università di Teramo
Formato 184x268 rilegato, pagg. 200 prezzo € 19,80
Le strazianti immagini che testimoniano il massacro di 4000 serbi. Le testimonianze dei sopravvissuti. La polemica sul numero dei miliziani musulmani uccisi. Le menzogne del Tribunale Speciale dell’Aia. Il ruolo degli USA, padrini e finanziatori di detto Tribunale.
Srebrenica era una “zona protetta”, (apparentemente) demilitarizzata, e occupata militarmente dalla NATO.
Ma Srebrenica è anche una orribile metafora sanguinaria e truculenta, in cui non solo echeggiano razzismo, fascismo, genocidio, sciovinismo, pannazionalismo, pulizia etnica e stupro di massa – in breve: tutte le etichette mendaci che negli due decenni si sono rivelate di provata efficacia per ingannare l’opinione pubblica.
La versione ufficiale di “Srebrenica” è una menzogna propagandistica che non diventa più vera se la si ripete una infinità di volte senza poterla provare. In questo libro si dimostra, con un’abbondante documentazione iconografica, che il massacro c’è veramente stato, ma fu un massacro a danno dei serbi.
Introduzione
1. Srebrenica, la Auschwitz degli anni ’90. L’Aja, la Norimberga attuale. Equiparazioni oggi correnti, sono fra i mantra dell’ideologia imperiale, i derivati del mostruoso sistema di “giustizia penale internazionale” che alquanto spensieratamente si pretende discenda dal Tribunale di Norimberga, al quale fu assegnato di giudicare i criminali del nazifascismo tedesco. Sulla base dell’accordo internazionale di Londra dell’8 agosto 1945 fra le quattro grandi Potenze (Unione Sovietica, USA, Gran Bretagna, Francia) che occuparono la Germania debellata nel secondo conflitto mondiale.
Srebrenica. Quale Srebrenica? La conclamata strage di (si dichiara) 8000 musulmani ad opera dei Serbi di Bosnia nel 1995 – la strage detta ma che secondo molti forse non ci fu, almeno nei termini della presentazione usuale -, o quella non detta, ma che ci fu, dei serbi perseguitati, trucidati, espulsi, soprattutto ma non solo nel 1995 intorno a Srebrenica e altrove, inclusa la Kraijna di Croazia? Su tutto ciò, Autori varii Il dossier nascosto del “genocidio” di Srebrenica, La Città del sole, Napoli 2007.
È davvero esistito il massacro (quello “ufficiale”) di Srebrenica?
Oramai bisogna dubitare di tutto. Tante volte siamo stati ingannati:
Vi ricordate il famoso massacro di Timisoara attribuito a Ceaucescu ed alla sua crudele “Securitate”? Quanti di noi sanno oggi che i cadaveri fotografati erano quelli di persone decedute per cause naturali e “straziati” non dalle torture, ma dall’obduzione condotta dal personale medico dell’ospedale municipale?
Vi ricordate il “massacro di civili albanesi” consumato dall’esercito jugoslavo (serbo-montenegrino) in Kosovo? Quanti fra noi hanno saputo –a distanza di tempo- che i civili non erano tali, ma combattenti dell’UÇK caduti nel corso di uno scontro armato, e che il capo degli osservatori internazionali, cioè l’agente della CIA William Walker, ha ordinato di spogliarli delle divise e di rivestirli in abiti civili creando così l’occasione lungamente attesa per dichiarare guerra alla Jugoslavia? La verità è nota a chi si è dato la pena di leggere il rapporto della dottoressa finlandese che affermava aver trovato sulle dita di tutti i cadaveri (tranne in uno) tracce di polvere da sparo. Inutile dire che la “grande stampa indipendente” non ha ritenuto opportuno darne notizia.
E i campi di concentramento dei musulmani rinchiusi dai serbi dietro al filo spinato? La foto di un giovane denutrito e con le costole sporgenti guardava, da dietro al filo spinato, decine di milioni di lettori indignati di quanto stava apparentemente succedendo. In realtà il giovane non era “detenuto” ma era stato semplicemente ricoverato, assieme a decine di altri profughi di diverse etnie, in un campo di accoglienza organizzato dai Serbi. E il filo spinato? Molto semplice: il fotografo mercenario aveva attirato alcuni profughi del campo di raccolta all’interno del confine di una proprietà privata e li aveva poi fotografati posizionando l’obbiettivo al di là del recinto che delimitava la proprietà privata.
E l’11 settembre? Quale babbeo crede ancora in buona fede che sia stata Al Qaeda, almeno da sola, ad abbattere le torri a mezzo di due improbabili aerei? Sono ormai centinaia le domande senza risposta e decine le tracce che ad abbattere i grattacieli siano state delle cariche di esplosivo plastico piazzate scientemente nelle settimane precedenti in modo da provocare il crollo dei medesimi grattacieli. Sono a disposizione oramai numerosissimi libri che demoliscono la tesi ufficiale. Avete ancora dei dubbi? Ed allora cercate di spiegare come 2 aerei possano aver abbattuto 3 grattacieli!
Tralascio di parlare dell’Iraq e delle motivazioni che sono state date da Bush per la guerra di aggressione che ha portato la cifra delle vittime irachene a sfiorare il milione di unità, perché ormai anche il più sprovveduto fra noi ha capito di essere stato brutalmente ingannato. E da ultimo le fosse comuni di Tripoli e tutto il resto dell’infame aggressione alla Libia di Gheddafi?
Che pensare allora del massacro di Srebrenica?
Questo libro ci dimostra che un massacro c’è veramente stato, con una piccola differenza però rispetto alla tesi ufficiale: VITTIME DEL MASSACRO SONO STATI I SERBI. L’altro massacro, quello dei musulmani, presenta lati oscuri nonché l’indubbia utilità del tentativo di incastrare la componente serba e, attraverso una ricercata ricostruzione della catena di comando, ha avuto di mira il presidente jugoslavo Milosevic. Certo, anche questo va indagato. Ma la “giustizia penale internazionale” viene messa a nudo: l’altra Srebrenica, quella delle vittime serbe, risulta completamente ignorata.
2. Il sistema di “giustizia penale internazionale” con le attuali istanze giudiziarie, che si va costruendo per arbitraria volontà dei “forti” e colpevole acquiescenza ad ampio raggio sul piano mondiale, può solo nell’apparenza vantare la “nobile” (tale almeno nella grande sostanza) ascendenza di Norimberga. Ne è in realtà il totale rovesciamento, pur atteggiandosi a prosecuzione o reviviscenza: si tratta di “similNorimberga”.
Il Tribunale di Norimberga venne stabilito con l’accordo di Londra dell’ 8 agosto 1945 fra le quattro grandi potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale (URSS, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia) per giudicare i crimini degli esponenti nazisti dopo la totale sconfitta della Germania. Dunque giustizia dei “vincitori”, e tale scopertamente: qui potrebbe ravvisarsi un primo tratto di aggancio con le attuali situazioni. Infatti, al di là di episodi tutto sommato marginali, le attuali istanze operano di fatto, e lo vedremo meglio, come espressioni di “giustizia”, se non dei “vincitori”, dei “forti” sul piano mondiale: ovviamente, in modo sotterraneo, implicito e certo non dichiarato, ma ben reale. D’altra parte pure, in ciò e se si va al fondo delle cose, con una fondamentale distorsione rispetto a Norimberga, il cui significato andrà chiarito.
Ci si riferisce, tralasciati il Tribunale per il Ruanda ed altre situazioni minori, al Tribunale ad hoc per la Jugoslavia, che è qui di primario interesse, e alla Corte penale internazionale, ambedue con sede all’Aja (e da distinguersi da altra istanza, che per i problemi qui trattati non ci riguarda, la Corte di giustizia internazionale, pure all’Aja, che giudica sui rapporti fra Stati in base ad accettazione della sua giurisdizione): istituiti, rispettivamente, con la ris. 827 del Consiglio di Sicurezza in data 25 maggio 1993 (per il Tribunale ad hoc) e con la Convenzione di Roma del 17 luglio 1998 (per la Corte penale internazionale). Quale l’aggancio con il passato?
Campo di azione per Norimberga: le categorie di crimini catalogate, nell’accordo istitutivo, come crimini contro la pace (non solo l’aggressione, ma tutte le macchinazioni poste in essere con l’esito della guerra), crimini contro l’umanità (fattispecie delittuose di oggettiva gravità e con dimensioni di massa, a partire dal genocidio), crimini di guerra (quelli tradizionali previsti dal diritto bellico). Di qui un’evoluzione che portò all’ampliamento della tradizionale categoria dei “crimini individuali di diritto internazionale”: esempio classico, fin dal passato, la pirateria. Legittimato da un’antica norma internazionale, qualunque Stato può esercitare la propria giurisdizione penale sul pirata anche fuori dagli usuali criteri legati alla sua sovranità (cittadinanza dell’autore o della vittima del crimine; commissione del crimine sul proprio territorio) e pertanto in base a un criterio di universalità di giurisdizione penale. Ebbene, per i crimini delle categorie di Norimberga si è tentato da taluni Stati occidentali di applicare in proprio tale criterio, con in più un elemento assai pesante, in superficiale apparenza desunto da Norimberga: nel caso di fatti compiuti in veste ufficiale da individui-organi di uno Stato, sui quali l’unica giurisdizione penale è stata tradizionalmente solo quella del proprio Stato, quei fatti, in forza di asserite nuove norme internazionali, si è cominciato a considerarli come non attribuibili solo allo Stato dell’individuo-organo, ma anche direttamente a questo individuo (rispetto a ciò erano esistite in precedenza solo marginali eccezioni nel diritto bellico). Quindi qualunque Stato, che avesse adottato per quei crimini il criterio di universalità, avrebbe potuto e potrebbe legittimamente, secondo tale ben dubbia concezione, giudicare un individuo-organo di un altro Stato, deprivato dell’immunità prima risultante, per diritto internazionale, dall’esclusiva attribuzione del fatto criminoso al proprio Stato (unico titolare questo, com’è ovvio, di giurisdizione penale sull’individuo-organo proprio). Si ricordi il caso Pinochet. Ma abbiamo assistito a un fenomeno apparentemente sorprendente: quando è sorto il pericolo di colpire, invece che esponenti considerati ostili del c.d. Terzo Mondo, determinati personaggi “amici” o comunque appartenenti al campo dei “forti”, ad esempio l’israeliano Sharon da parte del Belgio, gli Stati, così “generosi” nell’adottare il criterio dell’universalità ai fini, come veniva strombettato, di una giustizia... universale, hanno, con rapida “opportunità”, fatto marcia indietro e dunque modificato la pertinente normativa per tenere in salvo siffatti personaggi.
Dopo questa zoppicante “evoluzione”, il passaggio all’attuale “giustizia penale internazionale” con le istanze giudiziarie non statali come quelle sopra nominate.
Lasciamo per ora il profilo sostanziale della giustizia dei “vincitori” o dei “forti”. Gli elementi in senso più specificamente giuridico che paiono far affondare in Norimberga le radici dell’attuale “giustizia penale internazionale” li possiamo così sintetizzare. Si tratta di giustizia penale, quindi su individui (come ogni giustizia penale) ma stabilita da norme internazionali, sottratta o sottraibile ai sistemi giudiziari degli Stati, e quindi alla sovranità statale, con la quale la giustizia penale sarebbe di per sé connaturata, per venire affidata a “organi”giudicanti non statali. Naturalmente, per categorie di fatti criminosi definite da norme internazionali: oggi, a partire da quelle, poco fa ricordate, di Norimberga, ma con una sottrazione di peso, che offrirà spazio a considerazioni di forte rilievo. Risalirebbe ancora a Norimberga, ma in quanto sancita espressamente dalle pertinenti norme internazionali istitutive, l’esclusione, davanti alle attuali istanze, dell’immunità degli individui-organi con l’accollo ad essi di responsabilità individuale anche per fatti compiuti in veste ufficiale.
Nonostante l’adozione di siffatti caratteri, l’attuale “giustizia penale internazionale” è però una contraffazione di Norimberga. Come detto, vi è un elemento di particolare visibilità che porterebbe ad accomunare: giustizia dei vincitori contro i vinti. Ma, a ben vedere, si deve oggi prendere atto della vistosa distorsione già evocata: dovrebbe parlarsi, a differenza di Norimberga, e lo si è anticipato, dei “forti”, solo potenziali o indiretti vincitori, ai danni di nemici prematuramente segnati come vinti, pur scattando l’operazione penale internazionale (anzitutto, l’incriminazione) a conflitto tuttora in corso. Ciò che, anzitutto, conferisce alle attuali operazioni di “giustizia penale internazionale” il marchio della strumentalità: al di là di una apparente formale equiparazione dei confliggenti, in realtà a sostanziale vantaggio di una parte del conflitto in atto, come copertura dell’attività di tale parte, e dei suoi sostenitori e mandanti sul piano mondiale, e strumento di (ricercata) delegittimazione e disgregazione della dirigenza dell’altra parte, quindi della stessa relativa compagine statale. È quanto meglio mostreremo più avanti.
Certamente il Tribunale di Norimberga e le sue decisioni posero problemi giuridici estremamente delicati (appunto, l’unilateralità, in quanto organo operante solo nei riguardi dei vinti; problematico rapporto con i principii generali di civiltà giuridica in campo penale, quale nullum crimen e nulla poena sine lege, e dunque retroattività dei criteri assunti come base delle condanne...). Ma la portata immane e catastrofica, di carattere per così dire sistemico sul piano mondiale, dell’azione complessiva della coalizione dell’Asse nazifascista (a fronte, è pur vero, di numerose azioni della coalizione contrapposta, o meglio di una parte di essa, di estrema gravità sul piano dello ius in bello, ma tutto sommato in quanto episodi non connessi in un disegno criminale totale: Dresda, Hiroshima e Nagasaki...), può illuminare sulle ragioni storiche profonde a sostanziale spiegazione della base giuridica di Norimberga: rispetto, per contrapposto, alle attuali esibizioni della “giustizia penale internazionale”, sinora sempre connotate da assoluta trascuranza, predisposta sul piano normativo, dei reali contesti e quindi della reale consistenza delle attività criminose, vere o asserite, prese in esame e delle connesse responsabilità globali.
Non vi è dubbio che la previsione, per Norimberga, dei crimini contro la pace ha costituito il “cappello” idoneo a circoscrivere la sfera d’azione del Tribunale: si tratta dei comportamenti che, nel contesto storico reale, non sarebbe stato possibile ascrivere altro che alle potenze dell’Asse, quindi per Norimberga alla Germania nazista: e ciò avrebbe avuto necessariamente riflesso sulle altre due categorie di crimini sotto il profilo soggettivo della sfera degli incriminabili. Il tutto però fondato su un dato inequivocabile: punto di partenza, i comportamenti e le attività aggressive, indubbiamente senza pari, dell’Asse. Il “taglio” della categoria per le odierne istanze dell’Aja porta invece per quanto in modo subdolo, si è accennato e vi torneremo, a gravi conseguenze specifiche.
Il processo di Norimberga può sembrare aver costituito elemento di rottura dello schema tradizionale del sistema internazionale nel settore in esame e di propulsione per gli sviluppi successivi. Sì e no, per verità. Un organo giudiziario stabilito sulla base di un accordo internazionale, senza la partecipazione dello Stato, i cui individui-organi vengono sottoposti al potere di quel Tribunale, appare prima facie, secondo il discorso delineato, scardinare la struttura basilare del sistema giuridico internazionale: con radicale obliterazione della sovranità statale, eliminazione delle immunità internazionali degli individui-organi, sovraimposizione di un apparato giurisdizionale di immediata origine internazionale. È in prima linea su questa rappresentazione, lo si è ribadito, che viene giocata una pretesa ascendenza di Norimberga rispetto all’attuale “giustizia penale internazionale”.
La profonda realtà giuridica, e non solo giuridica, della situazione delineata rivela tutt’altra configurazione. Pur previsto da un accordo internazionale, necessario come disciplina dei rapporti fra le quattro grandi potenze occupanti, il Tribunale di Norimberga ha operato in realtà come organo interno del sistema giuridico della Germania occupata, nella quale l’apparato statale era crollato e il potere sovrano era congiuntamente esercitato dalle quattro potenze. Quindi, nessuna sostituzione di organi statali tedeschi o sovraimposizione ad essi, ormai inesistenti, e pieno potere, invece, di quell’organo giudiziario in realtà interno di esercitare giurisdizione penale anche sugli individui-organi dell’estinto Reich nelle attività compiute pure in veste ufficiale. Si trattò infatti, in quella fase storica, di null’altro che della giurisdizione interna propria su quegli individui. Una situazione analoga, come giudice interno, fu quella del Tribunale militare di Tokio per il Giappone occupato nel 1945, per il quale non fu necessario neppure un accordo internazionale, l’occupazione essendo solo quella degli Stati Uniti.
Senza dubbio restano riscontrabili alcune anomalie sostanziali. Furono introdotte figure criminose prima inesistenti, come i crimini contro la pace o anche quelli contro l’umanità; lo stigma di “giustizia dei vincitori” resta visibile, in quanto analoga “giustizia” non venne esercitata, negli ordinamenti degli Stati vincitori, verso i loro cittadini autori di crimini eventualmente rientranti nelle categorie di Norimberga. Qui fu decisiva la previsione della categoria dei crimini contro la pace. Una previsione che senza dubbio dette un fondamento anche politico-morale alla scelta di perseguire gli esponenti dell’Asse (e solo essi). Si perseguirono innanzi tutto le politiche, macchinazioni, operazioni che sfociarono nelle aggressioni scatenate dal Terzo Reich. Lo si è rilevato: ma le istanze attuali ignorano le aggressioni e le politiche belliciste e gli attori di esse.
3. Il problema se fosse possibile istituire un tribunale del tipo di quello di Norimberga nel quadro del sistema delle Nazioni Unite se lo pose uno dei massimi giuristi del ‘900, Hans Kelsen, e la risposta fu negativa. Kelsen, in forza della concezione generale da lui seguita, non si interrogò sulla natura internazionale o meno dell’organo giurisdizionale penale istituito in Germania nel 1945. Si chiese soltanto se un simile organo potesse venir stabilito in forza di una decisione in sede Nazioni Unite (il pensiero va all’istituzione del Tribunale ad hoc per la ex-Jugoslavia). E lo negò. Così argomentando: la Carta NU non contempla responsabilità (internazionale) di individui, in specie individui-organi, per violazioni di norme e principii internazionali (come il divieto di uso della forza), ma solo degli Stati. Situazione superabile solo, secondo Kelsen, con una modifica della Carta a termini statutari (aggiungo: con probabili problemi costituzionali per gli Stati membri).
Nel 1993, nel corso dei conflitti intrajugoslavi innescati anche per (senz’altro decisiva) responsabilità dei paesi occidentali, venne istituito - lo si è anticipato - un Tribunale penale internazionale ad hoc, quello denominato per la ex-Jugoslavia (già allora detta ex, pur se prematuramente): con decisione del C.d.s. delle NU (la ris. 827 del 25 maggio 1993, preceduta da una preparatoria ris. 808 del 22 febbraio 1993). Un organo giudiziario destinato ad esercitare giurisdizione penale su individui, in specie individui-organi,essenzialmente di uno Stato e comunque di entità di tipo statale (la Jugoslavia socialista federale, poi quella residua, e le Repubbliche secessioniste), dotati di propri poteri sovrani o assimilabili, ma senza loro partecipazione, per imposizione esterna da parte di un “organo internazionale” come il C.d.s.: da ritenersi fondamentalmente e insanabilmente incompetente all’uopo.
Siamo in presenza di una giurisdizione penale sganciata da una situazione di sovranità: le NU, di cui il C.d.s. e il Tribunale per la ex-Jugoslavia sono organi, non sono ente sovrano (non sono una federazione). E non hanno potere su individui, i destinatari o soggetti passivi della giurisdizione penale. Anche se negli ultimi tempi il C.d.s. si va prodigando in misure e sanzioni relative ad individui. Sia chiaro: non può legittimamente farlo neanche imponendo agli Stati i relativi obblighi (che è poi l’unica pratica possibilità, le NU non essendo dotate di strumenti di esecuzione loro propri). Vi è comunque la sovraimposizione dell’organo (Tribunale ad hoc) sulla sovranità di uno Stato e/o di entità di tipo statale in essere nello spazio della (ex) Jugoslavia socialista: con la sottrazione di “incriminati” alla giurisdizione penale di queste e con la sottoposizione di loro individui-organi a quel Tribunale. Dunque, anche con la cancellazione dell’eventuale immunità internazionale. Perché quel Tribunale non si innesta, e non lo ha potuto, come invece era accaduto con il Tribunale di Norimberga per la Germania, in un sistema giuridico interno, e cioè quello o quelli delle entità ex-jugoslave (senz’altro di quella, la principale, che non aveva accettato in alcun modo il Tribunale ad hoc: la Jugoslavia federale residua –Serbia e Montenegro). L’abnormità sta dunque nel fatto che si è operato simulando, per così dire, una situazione di occupazione territoriale, che invece non vi è stata. Il Tribunale ad hoc ha quindi agito, ed agisce, non solo come copertura politica e di immagine delle operazioni politiche e militari che hanno portato alla distruzione della Jugoslavia socialista, ma addirittura ha collaborato a tale distruzione con la mirata disintegrazione di compagini statali attraverso le incriminazioni individuali anzitutto dei vertici.
La risoluzione istitutiva è illegittima perché stabilisce un organo giudiziario (su individui, per di più), quando il C.d.s. non è dotato di un tale potere giudiziario. Se in quest’ottica si ponesse l’accento sul carattere di organo sussidiario da ascriversi al Tribunale ad hoc, secondo l’art. 29 della Carta, un siffatto potere giudiziario dovrebbe rinvenirsi nel C.d.s. istitutore, e appunto tale potere su individui nel C.d.s. non esiste. Sotto altro punto di vista, istituire un organo giurisdizionale presuppone un potere normativo generale, diciamo di tipo legislativo, che il C.d.s. non possiede, essendo esso fornito solo, per così dire, di un potere di ordinanza rispetto a situazioni di emergenza nei rapporti internazionali fra Stati. Quel potere generale non rientra certo nell’ambito del potere di adottare misure senza uso della forza per situazioni concrete, espresso dall’art. 41 Carta (nel quale, precisiamo per chiarire, viene per lo più ricercata la base giuridica dell’operazione compiuta dal C.d.s. con l’istituzione del Tribunale ad hoc). Oltretutto, questa norma indica, certo in modo non tassativo ma senz’altro significativo, tipi di misure senza uso della forza: si tratta di misure consistenti in rotture o interruzioni di rapporti fra Stati, e comunque sempre di misure da prendersi dagli Stati, e certo l’istituzione di un tribunale penale operata dal C.d.s. non presenta siffatte caratteristiche. E non pare compatibile con l’intrinseco carattere contingente delle misure ex art. 41 Carta.
4. Richiamato che la vantata ascendenza di Norimberga rispetto al Tribunale ad hoc non è sussistente se non per tratti minori ed estrinseci, va comunque denunciato l’elemento più grave di deviazione dalla pur invocata tradizione: l’eliminazione, dal novero delle categorie di crimini previste dallo Statuto del Tribunale ad hoc, di quella dei crimini contro la pace, includente l’aggressione.
La mancata previsione di questa categoria avrebbe potuto favorire senza dubbio, in linea astratta, l’equiparazione formale delle parti in conflitto – e addirittura dei sostenitori esterni – con riguardo alle categorie di crimini previste, quelli di guerra e contro l’umanità. Tale esclusione (dei crimini contro la pace) è avvenuta per evitare il “rischio” di coinvolgere in prima linea gli esponenti delle potenze che hanno operato per favorire la disgregazione della Jugoslavia. Si è così raggiunta l’eliminazione, dal campo di competenza assegnato (si ripete, comunque in un contesto arbitrario) al Tribunale ad hoc, dei comportamenti degli Stati, e dei loro individui-organi, che hanno (quantomeno) contribuito allo sfascio della Jugoslavia socialista. Almeno astrattamente, i comportamenti di contrasto all’autodifesa dello Stato esistente, culminati nei riconoscimenti prematuri delle Repubbliche secessioniste, vi sarebbero rientrati, in quanto azioni concertate e mirate contro la sovranità della Federazione jugoslava socialista.
Si è in tal modo evitata la possibilità, sia pur –visto il contesto- solo teorica, che venisse sotto i riflettori tutto il retroscena della vicenda jugoslava: ne è dunque derivata la concentrazione esclusiva sulle azioni di combattimento, sui conflitti armati e le loro durezze, gli eventuali crimini connessi, il tutto sradicato in tale logica dal terreno internazionale (se non fittiziamente raffigurato, come stiamo per vedere), dalle operazioni e macchinazioni e rappresentazioni ideologiche che hanno condizionato e, per così dire e in ampia misura, fornito una conformazione rappresentativa a quei conflitti armati.
Mi spiego e svolgo. È stato fondamentalmente distorto, nell’applicazione alla situazione jugoslava, il principio di autodeterminazione dei popoli in quanto principio normativo internazionale vigente: questo infatti non tutela qualunque parte di popolazione di uno Stato che intenda staccarsi, ma solo quelle parti, territorialmente compatte, che soffrono di una discriminazione fondamentale, di tipo coloniale o assimilabile, e la tutela si concreta essenzialmente nell’attenuazione, per i terzi Stati, dell’obbligo di non ingerenza nei fatti interni e quindi nel poter legittimamente fornire appoggio al movimento di autonomia o indipendenza. Fuori di quel presupposto si ha un’insurrezione, di fronte alla quale i terzi Stati non possono lecitamente intervenire. La situazione delle Repubbliche jugoslave secessioniste era con evidenza questa. La macchinazione degli Stati occidentali, in un momento storico in cui non hanno incontrato sul piano mondiale contesti ad ampio raggio di opposizione, si è incentrata sull’imposizione (ideologica) di una rappresentazione in termini di autodeterminazione a favore delle spinte e lotte secessionistiche: così da raffigurare come aggressione il comportamento della Federazione che legittimamente le contrastava.
D’altro canto, va considerato che la configurazione giuridica che si è presentata vale a fronte di Stati costituiti (come era la Federazione socialista jugoslava). Ma in un processo fattuale di graduale dissolvimento di questa e di formazione di nuove entità, non ancora Stati costituiti, centrate sulle Repubbliche federate secessioniste, non può negarsi, a favore di parti di popolazione territorialmente compatte sino ad allora integrate in una data realtà amministrativa (una Repubblica federata secessionista), un principio di autodeterminazione in senso autonomo rispetto a quello sinora illustrato: e cioè come autocostituzione di una subregione in entità indipendente o come sua permanenza nella vecchia compagine dello Stato costituito. L’imposizione da parte degli Stati occidentali di un principio (che nel diritto vigente è limitato a determinati ambiti geografici sulla scena mondiale e non è generalmente applicabile) uti possidetis iuris (come imposizione della permanenza delle frontiere, in sé meramente amministrative nel quadro della precedente Federazione, delle Repubbliche federate secessioniste) è stata contraria all’autodeterminazione-autocostituzione di subregioni che non volevano essere coinvolte nella secessione della Repubblica federata in cui sino a quel momento erano state amministrativamente conglobate. Si pensa in particolare alla Kraijna e alla Slavonia orientale di etnia serba nel quadro della Croazia federata e alla Repubblica serba di Bosnia nel quadro della Bosnia-Erzegovina federata. L’intervento di Stati terzi per (aiutare a) reprimere quei movimenti di autodeterminazione (nel senso particolare da ultimo indicato) appare illecito e, in quanto intervento armato, criminale. Alle persone più attente non sarà sfuggita la flagrante contraddizione fra l’imperativa pretesa del campo imperialista di voler difendere il diritto dei popoli a vivere in regioni omogeneamente occupate dalla stessa etnia, liberandole dal “giogo jugoslavo” da un lato, mentre dall’altro, nei casi suindicati, si volle imporre ai serbi, con la violenza delle armi, la rinuncia a quello stesso diritto.
Conseguenza di questa duplice mistificazione ideologica: i conflitti secessionisti si sono fatti apparire come di autodeterminazione e quindi “internazionalizzati” e così resi (artificialmente e illegittimamente) suscettibili di sostegno esterno: il legittimo contrasto dello Stato federale è divenuto guerra di aggressione contro l’autodeterminazione. La lotta delle subregioni antisecessioniste si è fatta passare per ribellione contro Stati costituiti e quindi legittimamente reprimibile, addirittura pure con sostegno esterno (anche contro il vero o supposto, per altro in sé legittimo, sostegno dello Stato federale in funzione antisecessionista). Questa problematica, e le mistificazioni che ne sono state espressione, sono rimaste sullo sfondo, proprio perché escluse dall’ambito di competenza assegnato al Tribunale ad hoc. Ma certamente hanno esercitato in modo sotterraneo un influsso nefasto sulle vicende processuali e le scelte dei “giudici”: la criminalizzazione, e in esito la condanna, sono state pronte e senza esitazioni a danno del campo delle forze antisecessioniste, nelle due ipotesi che si sono delineate; ben più rarefatte e meno numerose nel caso opposto. Si tratta del discrimine di fatto che si è tracciato implicitamente tra i Serbi, da un lato, i Croati e i Musulmani, da un altro, e ancor più coloro che, dall’esterno, hanno affiancato questi ultimi. Così da rendere inevitabilmente “orientato” il Tribunale ad hoc. Inevitabile (!) l’ “archiviazione” delle denunce contro la NATO per i bombardamenti sulla Jugoslavia (2 giugno 2000). La condanna di un esponente croato, il gen. Gotovina, appare nel contesto complessivo operazione di copertura.
Non mi trattengo su questi aspetti, le relative statistiche e le loro implicazioni, e cioè sulle modalità dello svolgimento dei processi, prima ancora sulle incriminazioni (al massimo livello, solo il presidente Milosevic, serbo e jugoslavo; intoccati il musulmano-bosniaco Izebetgovic e il croato Tudjman), infine sulle sentenze.
Il presidente Milosevic ha avuto l’atto di incriminazione poco dopo l’inizio dei bombardamenti, cioè l’aggressione, della NATO contro la Jugoslavia (residua) nel marzo 1999. Nella logica assunta dal Tribunale ad hoc, che appunto vede escluso dal suo campo di azione il crimine più grave, e comunque scatenante, e cioè l’aggressione o le macchinazioni che hanno favorito le guerre civili, quell’incriminazione (sia pure anche per asseriti fatti pregressi) colpisce come criminale l’individuo-organo di vertice e vale dunque quale copertura dell’aggressione NATO: reazione, questa, come viene fatta apparire ed in tale logica, alle attività criminose attribuite – in base ad incredibili teoremi giuridici - allo Stato jugoslavo e al suo presidente da ultimo per il Kosovo (in realtà, legittimo contrasto dello Stato jugoslavo costituito nei confronti di un’insurrezione locale, come in precedenza contro le secessioni).
Va da sé che si è voluto anche inferire un colpo alla compagine statale jugoslava. Mi astengo dal richiamare la vicenda scandalosa del vero e proprio rapimento e sequestro di Milosevic a Belgrado nel 2001 per tradurlo nel carcere di Scheveningen e quelle dell’annoso processo, in cui Milosevic ha opposto un comportamento eroico e ha lasciato la vita (per morte naturale, come affermano i suoi aguzzini, per assenza di cure adeguate, come affermano alcuni, o per avvelenamento, come pensano altri).
Citiamo a questo punto per incidens le incriminazioni, da parte questa volta della Corte penale internazionale dell’Aja, a carico del presidente sudanese al-Bashir e del leader libico Gheddafi, assassinato poi dalla NATO e complici: quest’ultimo, come Milosevic, appena scatenata l’aggressione aerea. Pur se questa Corte presenta una base di legittimità formale di maggior consistenza, la Convenzione di Roma del 1998, benché di fronte a probabili problemi di costituzionalità per gli Stati parti o almeno per diversi fra essi, risulta se non altro una situazione aberrante, che consente un’assimilazione al Tribunale ad hoc: l’art. 13 b, per il quale il C.d.s. può deferire alla Corte anche individui-organi di Stati non parti dello Statuto della Corte medesima (come nei due casi da ultimo citati). Si configura, con atto estraneo alla Carta NU, un potere del C.d.s. non previsto: pur se evidentemente tale esito può apparire in ultima analisi un’escrescenza del potere arrogatosi dal C.d.s. stesso con l’istituzione di tribunali penali internazionali. Se l’attribuzione di potere giurisdizionale penale al di fuori di una struttura sovrana è fenomeno singolare, per non dire abnorme, cui può – entro molte cautele - sopperire una base convenzionale (quasi ad istituzione di un organo comune degli Stati parti), la pretesa soggezione ad una tale Corte, su indicazione del C.d.s., di Stati non parti dello Statuto della Corte medesima e di loro individui-organi, con lo scalzamento delle relative immunità internazionali, ripropone lo schema di una simulata occupazione, appunto realmente non sussistente, con l’attribuzione di potere giurisdizionale penale a organo – almeno nei confronti di Stati non parti - non sovrano (neppure nel senso di una sorta di delega all’organo “internazionale” stabilita dalla convenzione istitutiva).
Va fatto presente che lo Statuto della Corte, almeno nella fase attuale, esclude anch’esso i crimini contro la pace, a partire dall’aggressione, dal proprio campo di applicazione. Il malo esempio del Tribunale ad hoc riproduce così a livello più generale i suoi effetti maligni ai danni dell’indipendenza e sovranità degli Stati.
Si noti, a completamento delle anomalie, che per giurisprudenza internazionale attuale (della Corte internazionale dell’Aja) gli organi statali godono pur sempre delle immunità internazionali, almeno finché in funzione. Principio patentemente violato dalle incriminazioni lanciate, a conflitto iniziato, dal Tribunale ad hoc e dalla Corte penale internazionale.
Ad un sistema del genere, a una siffatta “giustizia penale internazionale”, troviamo affidato il caso Srebrenica. Quello “ufficiale”. Dell’altro, documentato in questo volume, non vi è traccia.
Di fronte all’inerzia delle istanze di “giustizia penale internazionale”, che abbiamo preso in considerazione, riguardo a denunce pur lanciate contro esponenti occidentali per aggressioni e crimini di guerra in Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Palestina, oggi Libia, non si riesce ad evitare una valutazione di assoluta parzialità, di mirata selettività, di strumentalità delle operazioni giudiziarie poste in essere da quelle istanze. Di fronte alle quali ci si può dunque domandare: al suono di quale piffero queste istanze danzano?
Norimberga fu certo unilaterale, ma su base morale, politica e giuridica inoppugnabile. Si procedé a partire da incontrovertibili crimini di aggressione e contro la pace. Tutto ciò non può dirsi per le incriminazioni e i processi del Tribunale ad hoc per la ex-Jugoslavia e della Corte penale internazionale. Ne sono prova irrefutabile le “archiviazioni” di denunce contro Blair, Sharon, Clinton e loro sodali e, per il Tribunale ad hoc, contro la NATO.
A mani ben poco affidabili risulta assegnata la “questione Srebrenica”. La documentazione presentata in questo crudo e coraggioso volume dovrebbe portare a rivedere molte opinioni e meglio mistificazioni circolanti e fatte circolare nell’opinione pubblica mondiale, per lo meno in quella occidentale. Ma non sappiamo se questo auspicio, questa speranza di vera giustizia potrà trovare accoglienza contro il pensiero unico dominante.
Aldo Bernardini
Roma, 25 gennaio 2012
I ribelli addestrati in Kosovo? Mosca chiede alla Nato di “provvedere”. L'ombra di Al Qaida sulla Siria si fa più forte. Gli avversari di Assad continuano dividersi. Saltata la riunione al Cairo insieme alla Lega Araba. L’Unione Europea aumenta le sanzioni contro la Siria, uno scenario iracheno.
Mosca ha espresso ieri preoccupazione per le notizie secondo cui i ribelli siriani si addestrerebbero in Kosovo. Il ministero degli esteri russo, citato dalla Tanjug, ha fatto riferimento a notizie di stampa su “contatti fra esponenti dell'opposizione siriana e le autorità della cosidetta Repubblica del Kosovo”. Contatti che includerebbero non solo “scambi di esperienze nell'organizzazione di movimenti separatisti diretti a rovesciare governi in carica, ma anche l'addestramento di ribelli siriani in Kosovo”. Le notizie riferite dal ministero degli esteri di Mosca, paralano di centri di addestramento creati in ex basi dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck). “Trasformare il Kosovo in una base internazionale per l'addestramento di ribelli di differenti formazioni armate potrebbe rivelarsi un grosso fattore destabilizzante con effetti ben al di là dei Balcani”, ha concluso il ministero russo che ha chiesto per questo alla Forza internazionale della Nato in Kosovo (la Kfor di cui fanno parte anche militari italiani) di adottare “tutte le misure necessarie per prevenire la messa in atto di tali piani”. Accuse fantasiose? Non si direbbe. L’Associated Press rivela che il 26 aprile scorso, al ritorno dagli Stati Uniti, una delegazione di membri dell’opposizione siriana ha fatto tappa a Pristina per tenere colloqui su come impiegare in Siria le conoscenze dell’ Esercito di Liberazione del Kosovo. “Siamo venuti qui per imparare. Il Kosovo ha già compiuto questo cammino e possiede un’esperienza che potrebbe esserci molto utile,” afferma il capo della delegazione siriana Ammar Abdulhamid, “attivista dei diritti” umani nato in Siria. “Soprattutto vorremmo sapere in che modo gruppi armati sparsi si sono infine organizzati nell’UCK.” I leader dell’opposizione siriana hanno promesso di riconoscere subito il Kosovo una volta preso il potere nel paese.
Già nel 2004, il generale statunitense Lewis Mackenzie scriveva sul National Post “Gli albanesi-kosovari ci hanno suonato come uno Stradivari. Noi abbiamo finanziato e indirettamente sostenuto la loro violenta campagna per un Kosovo etnicamente puro e indipendente. Non li abbiamo mai rimproverati per essere stati i perpetratori della violenza nei primi anni ’90 e continuiamo a dipingerli oggi come le vittime designate, a dispetto delle prove del contrario. Quando essi raggiungeranno l’indipendenza con l’aiuto dei proventi delle nostre tasse, combinati con quelli di Bin Laden e di Al-Qaeda, consideriamo allora il messaggio di incoraggiamento che verrà mandato ad altri movimenti d’indipendenza sostenuti dal terrorismo in giro per il mondo”.
E’ stata intanto rinviata a data da destinarsi la riunione delle opposizioni siriane organizzata dalla Lega Araba al Cairo per il 16 e 17 maggio. Lo rende noto un comunicato della stessa Lega Araba, spiegando che la richiesta di rinvio è venuta dal Consiglio Nazionale Siriano e dalla Commissione di Coordinamento Nazionale delle forze per il cambiamento democratico. Giovedì prossimo al Cairo era prevista una riunione di tutte le opposizioni sirianeche però restano divise fra loro. Già ieri, la Commissione per il Coordinamento Nazionale (Ccn), che si dice rappresentante dell’opposizione all’interno del paese, aveva annunciato il boicottaggio della riunione del Cairo, sponsorizzata dalla Lega Araba su richiesta dell'inviato Onu Kofi Annan. I vertici del Consiglio nazionale siriano (Cns, ancora presenti a Roma, avevano detto che anche loro non sarebbero andati al Cairo, perchè “non invitati come Cns ma a titolo individuale”. Il Cns è la piattaforma che riunisce gli avversari di Assad all'estero e che conta tra le sue file i miliziani armati che agiscono all’interno del paese. Dietro le questioni formali si nascondono però nodi politici legati a rivalità interne e personali tra i vari dissidenti all'estero e in patria. Nei giorni scorsi, una commissione mista Ccn e Cns aveva tentato invano di dare vita a una piattaforma congiunta in vista della conferenza del Cairo.
L'Unione Europea ha varato nel frattempo il quindicesimo pacchetto di sanzioni contro la Siria. Da più parti piovono le accuse ai governi europei e statunitense di imporre sanzioni che alla fine colpiscono più il popolo che i vertici del potere siriano, ma l'Alto rappresentante della Ue, Catherine Ashton- così come fece l’allora segretario di stato Usa Madeleine Albright nel caso dell’Iraq, ha affermato il contrario: “Le sanzioni Ue colpiscono il regime siriano, non la popolazione civile. Finchè la repressione durerà, la Ue continuerà a mettere pressione sui responsabili”, ha detto. In Iraq, come noto, i fatti hanno dimostrato il contrario. Con la decisione odierna, salgono a 128 le persone e a 43 le imprese colpite da misure restrittive. I nomi delle nuove tre persone e delle due società colpite saranno pubblicati oggi sulla Gazzetta Ufficiale europea
http://groups.yahoo.com/group/stopnato/messages
Website and articles:
http://rickrozoff.wordpress.com
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Interfax - May 14, 2012
Moscow opposes plans to train Syrian militants in Kosovo
MOSCOW: The Russian Foreign Ministry is concerned by the reports that Syrian militants will be trained in Kosovo, and has urged the international community to prevent that from happening.
"Lately there have been media reports about contacts between Syrian opposition representatives and the authorities of the so-called Republic of Kosovo. This is not just about 'exchange of experience' in organizing separatist movements aimed at toppling existing regimes, it is also about training Syrian militants in Kosovo," the ministry said in a statement issued on Monday.
They intend to use areas that are geographically similar to the Syrian landscape, the ministry said. It is likely that training centers will be opened at the former bases of the Kosovo Liberation Army.
"Such intentions raise concerns. They run counter to the efforts of United Nations-Arab League Special Envoy Kofi Annan, backed by the entire international community. Moreover, turning Kosovo into an international site for training militants from various militant groups could become a serious destabilizing factor spreading beyond the Balkan region," the statement said.
"We are calling on international organizations present in the province to take whatever steps necessary to foil such schemes," the Russian Foreign Ministry said.
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http://en.rian.ru/russia/20120514/173451677.html
Russian Information Agency Novosti - May 14, 2012
Russia Warns Against Training Syrian Rebels in Kosovo
The Russian Foreign Ministry on Monday urged international bodies operating in Kosovo to prevent the region from turning into a training ground for Syrian rebels.
A delegation from the Syrian opposition visited Kosovo in April to allegedly make a deal on exchanging experience in guerilla warfare against ruling authorities.
So far, the fractured Syrian opposition has been unable to form a steady front against the forces of President Bashar al-Assad.
The Russian ministry said in a statement that the talks covered not only the ways of organizing armed resistance against authorities but also the training of Syrian militants in Kosovo.
“There are plans to use the areas [in Kosovo] that resemble the terrain in Syria. The possibility of setting up training camps at the former bases of the Kosovo Liberation Army [KLA] is also being discussed,” the statement said.
“Transforming Kosovo into an international training ground for armed militants may become a serious destabilizing factor that could extend beyond the Balkans,” the document said. “We urge international bodies operating in Kosovo to take all necessary steps to prevent these plans.”
The ethnic Albanian KLA fought a separatist war against the regime of President Slobodan Milosevic in 1998-99. About 10,000 people died in the Kosovo conflict.
Kosovo declared its independence from Serbia in February 2008.
Both Serbia and Russia have refused to recognize Kosovo’s independence.
http://www.b92.net/eng/news/society-article.php?yyyy=2012&mm=05&dd=01&nav_id=80052
B92 - May 1, 2012
13 years since NATO air strike on bus in Kosovo
GRAČANICA: On this day 13 years ago, NATO's war planes attacked a Niš Express bus traveling on a road near the village of Lužane, close to the town of Podujevo in Kosovo.
A file photo of a NATO attack (Tanjug)Some 40 people, many of whom women and children, died in the attack.
Zorica and Dragiša Petrović, Serbs from the enclave of Gračanica in Kosovo, lost two children in the bombing - daughter Maja and son Nikola. Dragiša's mother was also among the victims.
Zorica Petrović still struggles to cope with the loss of her children - she was taken ill after the tragedy and is still receiving therapy on a daily basis.
The three members of the Petrović family were laid to rest on May 7, 1999 - Nikola's 17th birthday.
The Petrovićs spoke to reporters on this day to say that they did not expect to receive any assistance from any quarter, "aware that they are not the only ones to have lost their loved ones during the NATO bombing".
The reason they publicly addressed the tragedy, the family said, was their desire "for someone to have them in their thoughts on this day, and ease their pain and suffering".
NATO launched its war against Serbia on March 24, 1999, and continued with aerial attacks for the next 78 days.
Georges Berghezan
Nulle force de l’OTAN, parmi toutes celles déployées sur la surface du globe, n’a connu la longévité de celle du Kosovo. Depuis bientôt treize ans, la KFOR, pour « Force du Kosovo », occupe ce coin des Balkans, une région certes moins agitée que l’Afghanistan, mais où sa simple présence témoigne de la persistance des tensions laissées les guerres d’ex-Yougoslavie, tensions que les interventions occidentales n’ont fait qu’aiguiser.
L’arte della guerra
Dopo la strage degli innocenti
di Manlio Dinucci - da Il Manifesto , 15 maggio 2012
L’Italia – dopo aver messo a disposizione della Nato sette basi aeree per le 10mila missioni di attacco alla Libia, e avervi partecipato sganciando un migliaio di bombe e missili – ha varato un «progetto a favore dei minori colpiti da traumi psicologici derivanti dal recente conflitto». Il progetto, del costo di 1,5 milioni di euro, prevede l’invio di una task force di esperti che opererà a Bengasi, Tripoli e Misurata, collaborando con le «autorità libiche». Le stesse che perfino il Consiglio di sicurezza dell’Onu chiama in causa per «le continue detenzioni illegali, torture ed esecuzioni extragiudiziarie».
In Afghanistan, dove ogni anno muoiono migliaia di bambini per gli effetti diretti e indiretti della guerra, gli aerei italiani non lanciano solo bombe e missili, ma viveri, indumenti, quaderni e penne per i bambini, così da «integrare l’azione operativa con l’attività di supporto umanitario». Un centinaio di fortunati bambini ha ricevuto, in una base militare italiana, un pacco dono, frutto di «una raccolta spontanea durante le celebrazioni delle Sante Messe». «Con l’occasione», alcuni sono stati perfino visitati da un ufficiale medico pediatra. E quando la piccola Fatima ha avuto un braccio maciullato da un ingranaggio, c’è stata la «corsa generosa e disperata» verso l’ospedale, effettuata con un Lince, il blindato usato dagli italiani nella guerra in Afghanistan.
In Iraq, l’Italia è impegnata in un «progetto comune contro la tratta di esseri umani», di cui sono vittime soprattutto ragazze e ragazzi, costretti alla prostituzione e al lavoro forzato nelle monarchie del Golfo. Nascondendo il fatto che tale fenomeno è uno degli effetti della guerra, cui ha partecipato anche l’Italia. Le vittime dirette sono state, nel 2003-11, almeno un milione e mezzo, di cui circa il 40% bambini, documenta il Tribunale di Kuala Lumpur sui crimini di guerra. Molti altri bambini sono morti per le armi a uranio impovertito, che hanno contaminato il terreno e le acque. A Fallujah, le malfomazioni cardiache dei neonati risultano 13 volte superiori alla media europea, e quelle del sistema nervoso superiori di 33 volte.
A mietere un maggior numero di vittime è il collasso della società irachena, provocato dalla guerra. Circa 5 milioni di bambini sono orfani e circa 500mila vivono abbandonati nelle strade, 3,5 milioni sono in povertà assoluta, 1,5 milioni di età inferiore ai cinque anni sono denutriti e in media ne muoiono 100 al giorno. Sono queste le prime vittime della tratta di esseri umani: bambine di 11-12 anni sono vendute per 30mila dollari ai trafficanti. A provocare questo immenso dramma contribuisce l’Italia, partecipando alle guerre camuffate da missioni internazionali di pace. Anche se il presidente Napolitano, rivolgendosi ai militari in missione, assicura: «Voi oggi, e altri prima di voi, avete dato un grandissimo contributo a un rinnovato prestigio e alla credibilità dell’Italia».