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Documento della Commissione UE sullo stato di avanzamento al 2007 della Risoluzione 1244 (UNSCR 1244) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul Kosovo

Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova


È la traduzione di un documento cruciale per una proficua discussione sulla questione "Kosovo". Si tratta della relazione della Commissione della Unione Europea sullo status della provincia, in cui viene fatto il punto sul funzionamento di tutte le istituzioni di governo messe in piedi dall'UNMIK, dalla NATO e dall'Unione Europea da tanto tempo, in preparazione delle condizioni per l'aggregazione del nuovo stato indipendente del Kosovo all'Unione Europea. Il Kosovo, nel documento, viene in effetti considerato come una enclave già indipendente, senza tenere in nessunissimo conto che la pace di Kumanovo considera il Kosovo parte integrante della Serbia. 
Siamo in presenza di uno stravolgimento totale del diritto internazionale, iniziato con la disgregazione della Jugoslavia, continuato con i bombardamenti criminali sulla Serbia, e che si concluderà con la destabilizzazione di tutta l'area Balcanica, e forse dell'Europa intera, a tutto vantaggio dell'ultraliberismo imperialista. (C. Bettio)




(en français:
SKO: Le rapt du Kosovo 
na srpskohrvatskom:
OTIMANJE KOSOVA OD SRBIJE, POSLEDNJI CIN U POGREBNOM RITUALU SFRJ-e


L’ULTIMO ATTO DELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA DEFUNTA SFRJ: 

LA RAPINA DEL KOSOVO


 

“Noi facciamo affidamento sulla Slovenia, siamo del resto per metà colonia sua” ha dichiarato Shkelzen Maliqi di Pristina, contornato da molti titoli a seconda della presentazione (filosofo, giornalista, dirigente del centro studi umanisti di Pristina, attivista, anarchico ecc.) il giorno 15 dicembre 2007 in un’intervista al Delo di Lubiana. Si può ben pensare che il filosofo Maliqi connosca la definizione di “colonia”.
Altra cosa è sapere se ha ben valutato quale sarà la fetta della torta coloniale che spetterà alla Slovenia per compensare il suo ruolo di zelante affossatore del vecchio stato socialista. Va da se che i distributori di briciole si sono riservati per sé stessi la divisione del dolce anche per i complici della “democratizzazione” dei piccoli rottami della ex Jugoslavia, ivi comprese le marionette al potere in Serbia. Con i bombardamenti criminali del 1999 hanno messo la spada di D amocle sopra la testa, indicando loro la strada da seguire. Sono ora temporaneamente spaventati da una vittoria nelle prossime elezioni presidenziali dei “radicali” poco obbedienti. Anche se i “radicali” non hanno nessuna intenzione di cambiare il sistema capitalista, non ci si auspica la loro vittoria; infatti non sono incondizionatamente ossequienti, per di più sono favorevoli ai russi. Quindi viene aiutato il “democratico” Tadic con ogni possibile mezzo, sperando di continuare per suo mezzo a dominare la Serbia anche dopo aver strappato il Kosovo. Chiaramente hanno omesso di dire quanti milioni costerà loro l’elezione di Tadic, esattamente come fece l’ex segretario di stato Madalene Allbright quando si impegnò alla demolizione del legittimo potere jugoslavo negli anni ’80.
Col miraggio della ricca ricompensa spettante alla Slovenia il regime è spinto a vantare le proprie vittorie, in particolare quelle dell’esercito sloveno nella sua “luminosa” missione nel Kosmet quale partecipe delle forze d’occupazione. Cercano di convincere l’opinione pubblica che si tratta di una missione storica e nell’interesse della nazione Slovena e che l’esercito Sloveno diventando sempre più una forza per azioni di battaglia da inviare all’estero non fa altro che difendere gli interessi nazionali, economici e politici del paese. Nelo stesso modo in cui affermavano che era nell’“interesse nazionale” costituire uno stato capitalista “indipendente” giustificando così la distruzione dello stato socialista e la liquidazione del sistema dell’autogestione. In questo modo hanno identificato l’“interesse nazionale” con gli interessi delle forze imperialiste: la distruzione dei paesi socialisti.
Una inattesa ricompensa costituisce uno stimolo ulteriore per la tenacia e l’attivismo della diplomazia slovena nella fase finale della rapina del Kosmet alla Serbia. La Presidenza dell’Unione europea nella prim a metà del 2008 le permette di compiere ancora più efficientemente il suo dovere, assumendo il ruolo di affossatrice della Jugoslavia socialista. Ne il compito né la ricompensa derivano dal caso. La Slovenia sarà sacrificata da organizzatori e dirigenti del processo di distruzione della Jugoslavia per potersi salvare dalla condanna dell’opinione pubblica mondiale per la violazione della Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, essa sarà la vittima espiatrice, la responsabile sulla quale puntare il dito, anche per quanto fatto in precedenza quando la si accusò di essere la principale responsabile della disintegrazione della Jugoslavia (giudizio espresso dall’ex ambasciatore americano in Jugoslavia Warren Zimmermann). Essi lavorano con ostinazione alla realizzazione dell’unità dei paesi europei e non per sostenere il furto del Kosmet anche se il ministro delgi affari esteri sloveno ha dichiarato (nella sua veste di rapinatore principale) che è possibile comunque operare anche senza l’unanimità degli accordi.
Una riunione dei ministri degli esteri di Granbrettagna, Germania, Francia, Italia e Slovenia in presenza del commissario europeo all’allargamento dell’UE e, va da se, di Javier Solana, sperimentato pianificatore e comandante dell’aggressione armata contro la Jugoslavia del 1999 e, in questo ruolo, ben definibile come beccamorto capo – ha avuto luogo a Brdo presso Kranj il 19 gennaio 2008.
La Slovenia ha avuto la visita del partigiano ostinato della rapina, il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki Moon, che non ha alcuna difficoltà a rivestire l’abito del “esecutore giudiziario” per l’appropriazione di territori stranieri, vista la sua esperienza in materia. Ban Ki Moon ha scambiato le proprie opinioni con l’ex presidente sloveno Mlan Kucan, attivo partecipe alla distruzione della Jugoslavia, allo smantellamento della Lega dei comunisti jugoslavi, e traditore del sistema autogestionario socialista.
La riunione si è tenuta a porte chiuse, senza comunicati stampa finali allo scopo di mantenere il mistero e creare le condizioni per l’esproprio finale del Kosmet permettendo ai separatisti albanesi la dichiarazioni unilaterale di indipendenza, in realtà di “stato colonia”. I creatori del progetto di rapina del Kosmet sono stati invece molto presto ed amaramente sorpresi dalla pubblicazione il 25 gennaio 2008 da parte della televisione slovena di un documento relativo agli incontri diplomatici segreti tra americani e sloveni, durante i quali gli sloveni avevano ricevuto alcune indicazioni relative alle mosse durante il loro periodo di presidenza della UE soprattutto sull’atteggiamento da tenere rispetto alla rapina del Kosmet. Il contenuto di quelle informazioni non è stato smentito, e la persona che ha rivelato il compromettente documento è oggi attivamente ricercata. I diplomatici americani hanno avuto bisogno di tre ore per spiegare ai loro colleghi sloveni il Manuale su come presiedere l’Unione e realizzare il piano per l’ “indipendenza” del Kosovo, ha scritto in quei giorni il quotidiano italiano “Corriere della sera”. I rapitori propagano con insistenza la demagogica tesi sullo scoppiare di sommosse e di destabilizzazione del Kosmet in caso di rifiuto della proclamazione di indipendenza. Si sa del resto benissimo che il separatismo, gli scontri e le vittime sia nel Kosmet che, del resto, in tutta la Jugoslavia sono stati il risultato di piani, di indicazioni e sono avvenuti secondo direttive dei paesi imperialisti e dei loro servizi segreti. Eventuali disordini, soggetto di manipolazioni e di minacce, possono scoppiare solo con il permesso o l’ordine espresso delle autorità del Kosmet. Solo dei faciloni possono pensare altrimenti. Del resto si sa bene cosa gli imperialisti sperano di ottenere con l’appropriazione del Kosmet: il mantenimento di posizioni geostrategiche e lo spiegamento in basi di espansione verso l’est, scatenare l’attivismo separatista e la rivolta delle minoranze albanesi nel sud della Serbia, in Macedonia, in Bulgaria e in Grecia e, in periodo a più lungo termine, creare le condizioni di tensione e di conflitto nel sud ei Balcani per prolungare il loro controllo sulla regione e renderlo ancora più efficace.
Tuttavia la maggioranza dei cittadini della Slovenia sa da tempo che la tesi di supposti interessi sloveni nel Kosmet non è che demagogia utile a nascondere i veri obbiettivi che tendono a trasformare il Kosmet in una colonia. È interesse individuale solo di qualche capitalista sloveno arricchito dalla rapina e dal saccheggio della proprietà sociale. Sanno benissimo che nel Kosmet solo sfruttatori motivati potranno realizzare utili usando beni strumentali appartenenti ad altri e mano d’opera impoverita. I cittadini sloveni onesti considerano amorale la presentazione demagogica degli interessi capitalisti come fossero interessi nazionali.
Sanno anche che non si tratta degli interessi dei lavoratori del Kosmet che, come a tutti i lavoratori del vecchio stato socialista, non hanno altro da capire se non quale borghesia li sfrutterà. Sono del resto tanto più esasperati, in quanto sono sfruttati e maltrattati dalla loro borghesia e dalla borghesia appartenente ad altri stati del loro vecchio stato comune socialista. Le dichiarazioni di individui che appartengono all’oligarchia e che proclamano il proprio apprezzamento per i ricchi capitalisti nazionali a rispetto ai capitalisti stranieri di altri piccoli stati sono particolarmente ridicole. Ma con questi insensati propositi non potranno nuovamente ingannare e manipolare i cittadini che oramai sanno bene che non è loro del tutto indifferente vivere in un sistema capitalista piuttosto che in un sistema socialista. Oggi la maggior parte dei cittadini pensa che la Jugoslavia socialista, con i valori che aveva creato, è stata il loro paese molto più di quanto lo siano i micro stati attuali, sfruttatori e molto meno indipendenti di quanto lo erano le repubbliche jugoslave.
I cittadini sloveni sanno anche del resto che non è interesse del popolo sloveno inimicarsi e scontrarsi col popolo serbo con il quale in passato non hanno avuto altro che rapporti positivi ed amichevoli, soprattutto durante la seconda guerra mondiale e dopo la costruzione comune della Jugoslavia socialista. Questi buoni rapporti tradizionali sono messi in pericolo da nazionalisti e separatisti dei due stati, che operano sempre nell’interesse dei circoli imperialisti, che, come già detto, traggono benefici strategici dall’opposizione, dalla separazione, dal disprezzo degli altri, per regnare più facilmente nel quadro della globalizzazione del “Nuovo Ordine”, della democrazia fittizia e di altrettanto falsi diritti dell’uomo. Naturalmente i cattivi rapporti tra due popoli non disturbano i loro borghesi infinitamente egoisti nei loro traffici e piani di rapina, come non sono disturbati da frontiere statali e differenze di sviluppo, di cultura, di lingua esistenti già nel passato e usati da vari imperi per sfruttare e dividere i popoli nel processo di demolizione della comunità socialista. Al contrario per loro le cattive relazioni sono occasione e la possibilità di potersi scatenare nella pesca nel torbido. I cittadini sloveni che non sono d’accordo con le aspirazioni sfruttatrici della loro nuova classe borghese e del ruolo di marionetta del loro governo nella rapina del Kosmet devono opporsi più apertamente e massicciamente alla loro azione contro la Serbia e contro gli interessi del popolo Sloveno. Se non lo faranno sarà loro più difficile poi eliminare le conseguenze che colpiranno certamente le loro relazioni con il popolo Serbo. Le generazioni successive potranno difficilmente porre rimedio e perdonare le azioni  nocive dei lor predecessori. D’altra parte il ratto illegale di una parte del territorio serbo può ripetersi domani in un altro paese, perché non in Slovenia?


 

31 gennaio 2008

Il comitato comunista sloveno
Ufficio di informazione pubblica rivoluzionaria 

(traduzione in francese: Stojan Jejcic
in italiano: Peter Behrens)



Privatizzazioni

Do you remember Zastava?

Dopo le bombe umanitarie e la cura liberista l'auto serba va fuori strada

da il Manifesto del 7.2.2008 p.20

Dei 38 mila dipendenti del gigante industriale jugoslavo solo 6 mila hanno mantenuto il lavoro. 300 assemblano Fiat Punto, gli altri sono finiti in mani slovene, bulgare, norvegesi. E il paese è alla fame

Loris Campetti

«Al cuore, colpiscila al cuore. E la Zastava è stata colpita al cuore, poi alle braccia e alle gambe, un colpo le ha fatto esplodere il polmone e un altro il cervello. Adesso tonnellate di lamiera contorta e di cemento riposano senza pace nel fango. Due cornacchie amoreggiano sopra i resti del centro elaborazione dati». Iniziava così un nostro reportage da Kragujevac nel '99, quando i detriti lasciati dalle bombe e dai missili della Nato sulla più grande fabbrica di automobili dei Balcani erano ancora caldi. Ora alla Zastava non ci sono più le carcasse carbonizzate delle vetture Jugo 45 e Jugo 55 ma fiammanti Punto, seppure il modello vecchio. Nove anni fa, nelle 34 fabbriche del gigante serbo apparentato con la Fiat sia nel settore auto che in quello dei camion (Zastava Kamiona), lavoravano 38 mila persone. Oggi, dopo i licenziamenti seguiti ai bombardamenti, i dipendenti dell'auto sono crollati da 13.500 a 3.500 e dei 38 mila complessivi del gruppo solo 6.000 hanno mantenuto il posto di lavoro. Gli altri tutti a casa, con una buonuscita pari a 200 euro per ogni anno di anzianità, bruciati in poco tempo dalla precipitazione della crisi economica. Il ministro del lavoro aveva suggerito agli ex-operai di investire quel misero gruzzoletto in un'attività in proprio, in un paese allo stremo dove mancano i beni esserziali e le privatizzazioni riempiono gli uffici di collocamento di quarantenni e cinquantenni. I licenziati Zastava li trovavi, fino a pochi mesi fa, al mercatino delle pulci dove tentavano di vendere il poco che hanno, mobilia, cianfrusaglie, poveri prodotti dell'orto, ricordi sbiaditi dell'epopea jugoslava. Adesso il terreno dove sorgeva quel piccolo suq è stato venduto a una società slovena. Per costruirci un supermercato. Così gli ex-operai non hanno più neanche un luogo dove scambiare, con le cianfrusaglie, qualche malinconia e le poche, residuali speranze per il futuro.
A una lunga stagione di latitanza - bellica e postbellica - della multinazionale torinese, hanno fatto seguito prima il pagamento alla Fiat del debito Zastava da parte del governo di Belgrado e, un anno fa, un accordo limitato per la costruzione nella fabbrica serba di alcune migliaia di vetture Punto: solo assemblaggio di pezzi e componenti provenienti dall'Italia, su una linea che ora si chiama «Zastava ten», trasferita a Kragujevac direttamente da Mirafiori. «Licence by Fiat», qualche capetto formato a Mirafiori, un corso di sei mesi di lingua italiana e 300 lavoratori occupati, dipendenti di un'azienda esterna la cui proprietà - ci dice un operaio della Zastava, tra i pochi ancora stipendiati ma senza un lavoro da svolgere - non è nota. L'obiettivo di vendere un po' di vetture è vincolato alla ripresa di una domanda interna, oggi praticamente inesistente, e all'esportazione in Russia e nei vicini paesi dell'est, Bosnia in primis. Sapendo però che la maggior parte dei marchi automobilistici orientali è stata o assorbita da giganti occidentali (è il caso della Trabant, nell'ex Ddr, finita in mano Volkswagen che ne ha rottamato il marchio), o acquistata dalle multinazionali delle quattro ruote (le ex-cecoslovacche Skoda e Tatra, la rumena Dacia), o trasformata in società miste (le russe Auto Vaz e la Uaz, l'ucraina Zaz). Un eccesso di concorrenza in un mercato che arranca, in cui opera anche la Fiat polacca, controllata in toto dai torinesi.
Alcune multinazionali europee e occidentali, tra cui la Opel interessata a impiantare una linea per la fabbricazione della Corsa, hanno studiato l'ipotesi di mettere le mani sulla fabbrica di automobili di Kragujevac. Non se ne è fatto nulla. La Peugeot ha anche stipulato un accordo per l'avvio di una linea di produzione rimasto però soltanto sulla carta. Tra la Zastava Kamiona e la Fiat Iveco, invece, è finito qualsiasi rapporto e la produzione ristagna così come i dipendenti, ridotti a 600 unità. Va avanti la privatizzazione decisa dai governi liberisti succedutisi a Belgrado del gigante ferito dalle bombe umanitarie e stremato dalla crisi, ed entro il 2008 si dovrà concludere in tutte le 34 aziende del gruppo, pena la loro liquidazione. La fabbrica di attrezzeria è stata acquistata dalla Union slovena; occupa 380 operai specializzati che lavorano - su vecchie macchine italiane - prodotti destinati all'esportazione, un drappello pagato decisamente meglio della media degli operai serbi, 400 euro al mese contro i 250 del settore auto. Anche la selleria è di proprietà slovena e lavora su commesse della Opel. Le fucine sono passate dallo stato serbo a una società bulgara che paga i suoi 250 dipendenti 220 euro ed esporta i prodotti ottenuti dallo stampaggio a caldo. Restano da privatizzare, insieme all'auto e ai camion, la componentistica plastica i ricambi. L'impiantistica e la carpenteria sono invece passate in mano norvegese e i 180 dipendenti sopravvissuti lavorano per le piattaforme petrolifere del nord-Europa. Ben poco si sa della fabbrica di armi, trasferita dal sito Zastava chissà dove. Quel che è certo è che continua a produrre pistole, fucili e materiale bellico non solo per l'esercito serbo ma anche per altri soggetti. Nato compresa, si dice sottovoce a Kragujevac.
Un gruppo di delegate e dirigenti sindacali della Zastava guidate da Rajka, ottimo italiano e un altrettanto ottimo lavoro legato all'adozione a distanza dei figli di lavoratori licenziati dalle bombe, ci aggiorna sulle condizioni disperate in cui vivono migliaia di famiglie nella Torino jugoslava, Kragujevac. Le adozioni - a cui hanno lavorato la Fiom, alcune Camere del lavoro italiane, i lettori del manifesto e di cui si occupa tra gli altri l'ong romana Abc-Solidarietà e pace - sono un po' diminuite nel tempo, ma coinvolgono ancora 1.800 bambini e bambine. Alla mancanza dei beni di prima necessità, dice Rajka, si aggiungono i problemi di salute, ingigantiti dalle conseguenze dell'inquinamento provocato dai bombardamenti, in particolare del reparto verniciatura da cui sono fuoriusciti liquidi altamente tossici. Da anni è aperta (in Serbia, ma anche nell'Unione europea) una polemica sull'uso delle bombe all'uranio impoverito nel sud del paese, negato dalla Nato e per motivi di «ordine pubblico» da Belgrado e in qualche modo suggerito dall'aumento spaventoso di tumori e leucemie nella popolazione della città, soprattutto tra gli operai che hanno bonificato la fabbrica. Non esistono statistiche attendibili: nei reparti onocologici degli ospedali di Kragujevac e Belgrado regna la reticenza, gli epidemiologi si rifiutano di parlare con i giornalisti. Solo sulle bombe a grappolo cominciano a circolare i primi dati.
Così si vive e si muore nella Detroit balcanica. I pochi fortunati che hanno conservato un lavoro lo eseguono in condizioni impensabili, senza pause per sette giorni a settimana. Gli infortuni, che in questa situazione non possono che aumentare, vengono taciuti dagli stessi lavoratori per paura di perdere posto e stipendio. Guerre, bombardamenti e politiche liberiste incentrate sulle privatizzazioni hanno ridotto allo stremo una popolazione costretta a condividere la propria miseria con quella importata dal vicino Kosovo, i cui profughi si accalcano in poveri campi alla periferia di Kragujevac. Siamo vicini all'emergenza umanitaria.


(Auf deutsch: Wie Sarajevo 1914
Das Kosovo ist die Lunte an einem Pulverfaß. Völkerrechtswidrige Abspaltung von Serbien "in vier oder fünf Wochen", sagt Separatistenchef Hashim Thaci. 
Von Jürgen Elsässer
junge Welt, 16.01.2008. - www.jungewelt.de



Comme Sarajevo en 1914 ?


L’indépendance du Kosovo est la mèche d’un baril de poudre

par Jürgen Elsässer*


Les États-Unis ont mis au point un processus de déclaration unilatérale d’indépendance du Kosovo, le 17 février prochain, suivi de sa reconnaissance par une centaine d’États. Ce faisant, non seulement ils admettent que l’opération de l’OTAN en 1999 était une guerre de conquête, mais ils ouvrent la porte à toutes les revendications séparatistes dans le monde. Et c’est bien le but, puisque il s’agit pour eux de provoquer par onde de choc la désintégration de la Fédération de Russie. Un jeu dangereux, dénonce Jürgen Elsässer, qui est de nature à déstabiliser toute l’Europe.

Le député au Bundestag Willy Wimmer (CDU) écrivait récemment : « Lorsqu’en 1918, le monde d’hier était réduit en cendres et que l’on préparait avec beaucoup de perfidie les fondements du prochain grand conflit, on n’a pas voulu passer beaucoup de temps à chercher les causes de la guerre. On a déclaré que c’étaient les coups de pistolet de Sarajevo qui coûtèrent la vie au couple d’héritiers du trône d’Autriche. Chacun se souvenait de l’événement et l’on n’avait pas besoin de se poser de questions sur ses tenants et aboutissants qui étaient beaucoup plus déterminants que l’attentat de Sarajevo. Jusqu’ici, il n’y a pas eu d’échanges de tirs pendant les négociations sur l’avenir du Kosovo, mais des signa­tures sur certains documents pourraient avoir le même effet que les coups de pistolet. Les ­mèches sont là et elles vont d’Irlande du Nord au Tibet et à Taiwan en passant par le pays basque, Gibraltar et le Caucase. »

La situation actuelle dans les Balkans rappelle de manière inquiétante celle qui a conduit à la Première Guerre mondiale. L’Allemagne et les autres grandes puissances avaient, après des années de troubles, trouvé en 1878, à la Conférence de Berlin, un compromis sur le nouvel ordre de l’Europe du Sud-Est : La province ottomane de Bosnie devait rester turque de jure mais être administrée de facto par l’Autriche. En 1908, Vienne a rompu le traité et a annexé la province également de jure. Là-dessus, en 1914, l’archiduc François-Ferdinand a été tué à Sarajevo.

Quelque 100 ans après, les puissances de l’OTAN ont tenté un compromis semblable : après leur guerre d’agression contre la Yougoslavie en 1999, elles ont imposé au Conseil de sécurité de l’ONU la Résolution 1244 qui maintenait de jure le Kosovo dans la Serbie, mais le plaçait de facto sous l’administration des Nations Unies. Par la suite, les puissances occidentales se sont montrées favorables à la sécession totale de la province et à sa remise, contrôlée par l’UE, à la majorité albanaise : tel est le projet du négociateur de l’ONU Martti Ahtisaari. Du point de vue du droit international, ce serait possible si Belgrade était d’accord ou si, du moins, le Conseil de sécurité approuvait cette solution. En l’absence de ces conditions, le Kosovo ne peut déclarer son indépendance qu’unilatéralement, par un acte arbitraire illégal. Et c’est précisément ce qui va se passer ces pro­chaines semaines.

Comme il y a un siècle, les intérêts des États d’Europe centrale, de la Russie et du monde musulman se heurtent toujours dans les Balkans. Tout changement violent dans cet équilibre fragile peut avoir des conséquences pour tout le continent.


On a frôlé la guerre mondiale

Dans les jours qui ont suivi le 10 juin 1999, on a pu voir combien l’Europe du Sud-Est pouvait être à l’origine d’un important conflit international. Après 78 jours de bombardements de l’OTAN, l’armée yougoslave était déjà prête à se retirer du Kosovo ; l’accord militaire à ce sujet entre Belgrade et l’Alliance atlantique était signé et la Résolution 1244 adoptée. Cependant, tandis que les troupes du président Milosevic se retiraient, des unités russes stationnées en Bosnie, s’avancèrent vers Pristina de manière tout à fait inattendue. Sur leurs chars, les soldats avaient transformé l’inscription SFOR —qui indiquait leur appartenance à la troupe de stabilisation dans l’État voisin, sous mandat de l’ONU— en KFOR, sigle de la force d’occupation du Kosovo qui venait d’être décidée. Le président russe Boris Eltsine avait donné son accord pour qu’elle soit constituée sous le haut commandement de l’OTAN mais ses généraux voulaient que la Russie obtienne au moins une tête de pont stratégique.

Le ministre allemand des Affaires étrangères de l’époque Joschka Fischer rappelle dans ses mémoires combien la situation était dramatique : « Les quelques parachutistes russes ne pouvaient pas vraiment défier l’OTAN après son entrée au Kosovo car ils étaient trop peu nombreux et leur armement trop léger. L’occupation de l’aéroport ne pouvait signifier qu’une chose : ils attendaient les renforts aériens. Cela pouvait très vite conduire à une dangereuse confrontation directe avec les États-Unis et l’OTAN. [...] La situation devint encore plus dangereuse lorsque fut confirmée la nouvelle selon laquelle le gouvernement russe avait demandé aux gouvernements hongrois, roumain et bulgare une autorisation de survol pour leurs avions de transport de troupes Antonov. Ils avaient l’intention de transporter 10 000 soldats en partie par la voie aérienne vers le Kosovo et en partie vers la Bosnie pour les acheminer ensuite vers le Kosovo par la voie terrestre. L’Ukraine avait déjà accordé la permission mais les autres pays maintinrent inébranlablement leur veto. Mais qu’arriverait-il si les avions russes passaient outre à cette interdiction ? Les USA et l’OTAN les empêcheraient-ils d’atterrir ou de débarquer leur chargement une fois à terre ou iraient-ils jusqu’à les abattre en vol ? L’éventualité d’une tragédie aux conséquences imprévisibles s’esquissait ici. » Parallèlement à la guerre des nerfs à propos des avions russes, la crise s’envenima à l’aéroport de Pristina. Les troupes du contingent britannique de la KFOR étaient arrivées rapidement et avaient pointé leurs canons sur les occupants insoumis de l’aéroport. Le haut commandant de l’OTAN, Wesley Clark, ordonna de donner l’assaut mais Michael Jackson, haut commandant britannique de la KFOR, garda son sang-froid et refusa de s’exécuter. Il appela Wesley Clark au téléphone et hurla : « Je ne vais pas risquer de déclencher la Troisième Guerre mondiale pour vous ! »

On ignore comment l’Occident a amené le président russe à stopper les Antonov. En tout cas, le combat de l’aéroport de Pristina n’a été empêché que parce que Jackson est resté ferme. Clark a accepté cet acte de désobéissance. À vrai dire, il aurait dû faire arrêter Jackson par la police militaire. Un général allemand a, par la suite, critiqué cette attitude. « La reculade des Britanniques et des Américains était une mauvaise réponse dans une situation qui n’aurait jamais conduit à un conflit sérieux entre l’OTAN et la Russie », a écrit Klaus Naumann, à l’époque président du Comité militaire de l’OTAN et par conséquent l’officier le plus haut gradé de l’Alliance.


Des missiles sur Bondsteel

Une situation aussi dangereuse peut-elle se reproduire ces prochaines semaines ? En 2006 déjà, la Fondation Science et Politique (Stiftung Wissenschaft und Politik, SWP), un des plus importants think tanks allemands, s’inquiétait à propos d’une solution à la question du Kosovo qui serait imposée de l’extérieur : « Ces missions demanderont un engagement diplomatique durable et mettront à contribution les ressources politiques, militaires et financières de l’UE. » Par « ressources militaires », les auteurs entendent la KFOR, qui comprend actuellement 17 000 soldats dont environ 2500 Allemands.

Une intervention pourrait viser non seulement le Kosovo mais également la Serbie proprement dite. La Fondation prévoyait une situation « rappelant la crise de 1999 », c’est-à-dire les bombardements. Des troubles au Kosovo pourraient s’étendre aux provinces serbes de Vojvodine et de Sandzak ainsi qu’à la vallée de Presevo. On peut lire plus loin : « Des manifestations de masse impliquant des heurts entre les forces modérées et les forces radicales ou avec la police pourraient conduire à la dissolution des structures étatiques ». Si les structures étatiques de la Serbie éclatent, l’UE, conformément à sa conception politique, pourrait endosser le rôle de stabilisateur et apporter une « assistance fraternelle ». Les « battle groups » ne servent pas à autre chose.

Examinons les événements prévisibles du printemps 2008. Aussi bien l’OTAN que les Albanais du Kosovo ont exclu catégoriquement de nouvelles négociations, comme le demandaient Belgrade et Moscou. Le 24 janvier, Hashim Thaci, ancien chef de l’organisation terroriste UÇK et depuis peu Premier ministre de la province du Kosovo, a annoncé que la déclaration formelle d’indépendance aurait lieu « d’ici quatre à cinq semaines ». Le lendemain, on pouvait lire dans l’International Herald Tribune —qui s’appuyait sur des sources diplomatiques— que « l’Allemagne et les USA [étaient] tombés d’accord pour reconnaître l’indépendance du Kosovo » et cela « après le second tour des élections présidentielles serbes du 3 février ». C’est ce dont Angela Merkel et George W. Bush étaient convenus. On peut supposer que la Chancelière CDU aura demandé conseil à son camarade de parti Willy Wimmer qui fut pendant de longues années Secrétaire d’État au ministère de la Défense sous Helmut Kohl.

Après la proclamation officielle de la « Republika kosova », les communes serbes situées au nord de l’Ibar vont sans doute affirmer leur fidélité à l’égard de la Serbie, donc leur non appartenance au nouvel État. On peut imaginer qu’alors des troupes armées des Albanais du Kosovo pénètrent dans les enclaves de la minorité, en particulier dans son bastion Nordmitrovica et répriment brutalement la résistance. Lors d’un semblable début de nettoyage ethnique à la mi-mars 2004, les terroristes skipetaris ont réussi à mobiliser une foule de 50 000 personnes. La violence de cette attaque n’a pu être freinée que parce que les soldats de la KFOR se sont opposés, au moins partiellement, aux extrémistes. Ils en ont tué huit. Dans la situation actuelle, il faut plutôt s’attendre à ce que la KFOR se comporte dans son ensemble comme naguère le contingent allemand au sein de la KFOR : on ferme les yeux et on laisse faire les terro­ristes. En 2004, dans le secteur d’occupation allemand autour de Prizren, toutes les églises et tous les couvents serbes ont été incendiés. Certes, depuis lors, les Serbes du Kosovo ont constitué des formations d’autodéfense dont la plus tapageuse est la Garde Zar-Lazar qui doit son nom à un héros de la bataille historique d’Amselfeld en 1389. Ces paramilitaires ont annoncé qu’ils lanceraient des mis­siles sur la base militaireétats-uniennee de Camp Bondsteel en cas de déclaration d’indépendance du Kosovo. Il est difficile de savoir s’il s’agit là d’une fanfaronnade ou d’un projet sérieux. Selon des connaisseurs de la région, il est possible que derrière l’étiquette de Zar Lazar se cache une bande de provocateurs de services secrets occidentaux.

Dans l’intérêt des pays membres de l’OTAN, la sécession de la province doit en tout cas faire le moins de vagues possibles et s’effectuer sans conflits militaires. On s’accommode des protestations diplomatiques de la Russie et même de petits pays de l’UE comme la Slovaquie, la Roumanie et ­Chypre. La Fondation Bertelsmann, proche du gouvernement, a, dans une étude de décembre 2007, mentionné l’exemple de Taiwan : On sait que cette république insulaire n’a été reconnue que par un petit nombre d’États et qu’elle n’a pas de siège aux Nations Unies mais qu’elle jouit depuis 60 ans d’une certaine stabilité et même d’une certaine prospérité. Le souhait des États membres de l’OTAN serait probablement que les Albanais du Kosovo, après la proclamation d’indépendance, renoncent à la violence à l’encontre de la minorité serbe et ne touchent pas, dans un premier temps, à leurs structures d’autoadministration dans le Nord. Si l’OTAN bloquait simultanément tous les liens avec la Serbie, les Serbes de Mitrovica n’auraient, à la longue, plus d’autre choix que de s’accommoder des nouveaux potentats autour de Hashim Thaci.

Cette stratégie de victoire soft des sécessionnistes pourrait cependant être contrecarrée assez facilement. La Frankfurter Allgemeine (FAZ) exprimait ses craintes fin 2007 : « Les Serbes pourraient fermer le lac de barrage de Gazivodsko Jezero, situé dans la partie du Kosovo contrôlée par les Serbes et priver ainsi d’eau de nombreuses régions du Kosovo. Cela aurait des conséquences pour l’approvisionnement en électricité, déjà insuffisant, du Kosovo car l’eau de ce lac sert à refroidir les installations de la centrale à charbon, non loin de Pristina. » L’OTAN réagirait rapidement par la force contre cette opération relativement facile à mener : une troupe de paramilitaires suffirait à occuper le barrage. « On songe déjà, précise la FAZ, à faire intervenir la KFOR pour empêcher cela, mais alors le niveau de confrontation militaire que l’Occident voudrait justement éviter serait atteint ».


La Serbie peut riposter

Comment le gouvernement de Belgrade réagirait-il si les Albanais et des soldats de l’OTAN tiraient sur des Serbes ? Poursuivrait-il sa politique actuelle consistant à ne pas intervenir militairement ? C’est la tendance avant tout du parti gouvernemental le plus fort, celui des Démocrates (DS) autour du président Boris Tadic et du ministre de la Défense Dragan Sutanovac. Le petit parti de la coalition, le Parti démocrate de Serbie (DSS) du Premier ministre Vojislav Kostunica est un peu plus audacieux. Son conseiller Aleksandar Simic a déclaré expressément que ­chaque État avait le droit de recourir à la force des armes pour protéger son intégrité territoriale. Mais en cas de crise, c’est le Conseil de la Défense et le Président qui ont la haute main sur l’Armée, c’est-à-dire, en fait, Tadic. En conséquence, l’Occident n’aurait pas dû s’inquiéter... s’il n’y avait eu d’élection présidentielle. Le candidat du Parti radical (RS) ­Tomislav Nikolic avait de sérieuses chances d’être élu. En 2004 déjà, il avait mis Tadic en ballottage et avait été battu de peu. Indignée de l’imminente dissidence du Kosovo, une majorité de citoyens aurait pu l’élire cette fois. L’Armée serbe aurait alors été placée sous le haut commandement d’un homme politique qui plaide en faveur de l’établissement d’une base militaire russe dans le pays et dont le parti possédait sa propre milice au moment des guerres des années 1990.

Cette perspective a bouleversé le calendrier des sécessionnistes. Le Conseil européen voulait en fait décider le 28 janvier de l’envoi au Kosovo d’une troupe de quelque 2000 policiers —contre la volonté de Belgrade et donc contre le droit international, mais nécessaire pour sécuriser la sécession—. Mais comme le 28 janvier précèdait de peu le deuxième tour de l’élection présidentielle décisive du 3 février, cela aurait constitué une provocation favorable à Nikolic. La question a donc été différée. Bruxelles a, le même jour, offert un accord d’association à l’ancien État voyou et a renoncé avec bienveillance à la condition posée jusqu’ici, c’est-à-dire l’extradition des « criminels de guerre » Radovan Karadzic et Ratko Mladic. L’UE espèrait ainsi apporter à Tadic les voix dont il avait besoin. Il a finalement été élu de justesse.

Belgrade a actuellement le soutien de Madrid. Selon le quotidien serbe Express du 11 janvier, le Premier ministre José Zapatero aurait obtenu l’assurance d’autres gouvernements de l’UE que le Kosovo ne proclamerait pas son indépendance avant le 10 mars —donc quatre semaines après la date annoncée par Thaci— car le nouveau Parlement espagnol doit être élu à cette date. Le gouvernement socialiste veut ainsi empêcher les mouvements séparatistes espagnols d’utiliser le précédent balkanique comme argument dans la campagne, les Basques ayant déjà commencé à le faire. En réaction, la majorité des Espagnols pourrait alors être tentée de sanctionner les socialistes que l’opposition conservatrice accuse d’être trop indulgente à l’égard des régions désireuses de faire sécession. Ces retards de calendrier mettent toutefois à rude épreuve la patience des Albanais du Kosovo. On peut craindre qu’ils essaient de donner un coup de pouce à la décision diplomatique en se livrant à quelques actions violentes spectaculaires. On se demande comment les puissances membres de l’OTAN ... et les Russes réagiraient dans ce cas. Ces derniers élisent également ce printemps un nouveau président et tout candidat qui abandonnerait le frère slave devrait s’attendre à perdre des voix.


Journaliste allemand. Dernier ouvrage publié Comment le Djihad est arrivé en Europe, préface de Jean-Pierre Chevènement. Xenia, 2005.