Informazione


www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 19-03-07 


da: UPI Agency


Resoconto sulla condizione dell’infanzia in Serbia nel 2006

 

Belgrado, Febbraio 2007

 

Nonostante gli sforzi fatti per migliorare le condizioni dei bambini in Serbia dagli ultimi anni ’90, oggi esistono ancora più di 300.000 bambini che vivono in povertà o che sono a rischio di povertà, secondo il resoconto dell’UNICEF pubblicato oggi.

 

Il Rapporto sulla Condizione dell’infanzia in Serbia 2006 sui bambini poveri ed esclusi, prodotto congiuntamente dall’Ufficio Statistico della Repubblica di Serbia, dal Consiglio per i Diritti del Bambino della Repubblica Serba e dall’Ufficio UNICEF di Belgrado, è basato sulle informazioni e sui dati statistici raccolti nella ricerca “ Ricerca sulla situazione della famiglia e sulle pratiche di cura” e dall’ “Indagine sulla povertà del bambino”, e comprende tutti i più recenti e forti indicatori e dati dall’Indagine per indicatori multipli del 2006 (MICS).

 

“L’infanzia è un’opportunità che non torna più indietro,” disse Liv Svensson, la rappresentante Unicef per la Serbia,” Il futuro della Serbia dipende da una generazione sana ed educata, che richiede delle politiche di integrazione che punti specificatamente sui bambini poveri ed esclusi ed un utilizzo migliore delle risorse”.

 

Dal Resoconto emerge che più di 155.000 bambini in Serbia sono poveri e che altri 155.000 sono a rischio di scendere sotto la soglia della povertà. Questi sono bambini che a causa delle privazioni materiali, sociali e culturali sono limitati nella realizzazione dei loro diritti all’educazione, alla salute, allo sviluppo e alla protezione. L’analisi dei dati dalle aree rurali e urbane, da famiglie di diverse dimensioni e strutture rivela differenze molto significative all’interno del paese. La più grande percentuale di bambini che sono al di sopra del rischio medio di povertà ( quindi più a rischio), sono:

 

- bambini che provengono da famiglie numerose

 

- bambini che vivono in zone rurali, specialmente nella Serbia sudorientale e occidentale

 

- bambini che appartengono ad alcune minoranze etniche, in particolare Rom

 

- bambini profughi e rifugiati

 

 Questi bambini stanno crescendo al di sotto del livello di sviluppo e sono spesso invisibili in tutto il dibattito pubblico, nelle leggi, nelle statistiche e nelle cronache.

 

Migliorare le condizioni dell’infanzia dipenderà dal livello di priorità che questo obbiettivo conquisterà tra i numerosi obbiettivi di riforma di un paese in transizione. Vi è urgente bisogno di consapevolezza e di buoni dati per concretizzare una politica basata sui fatti e per tenere sotto controllo gli effetti di queste politiche .

 

Più dell’80% dei bambini Rom che vivono nelle comunità Rom, sono poveri e tutti gli indicatori sottolineano le loro privazioni inaccettabili e le loro discriminazioni multidimensionali. La Ricerca presentata nel Resoconto mostra che questi bambini soffrono molto più spesso di malattie e rachitismo come risultato della malnutrizione e della fame – i bambini Rom sono colpiti da rachitismo quattro volte di più della media nazionale. I primi risultati dell’indagine MICS, indicano che le percentuali di mortalità infantile e dei bambini sotto i cinque anni, sono tre volte più alte tra i Rom rispetto alla popolazione comune. Questi bambini devono spesso assumere ruoli adulti in mancanza di una sufficiente assistenza pubblica, vivono spesso in catapecchie o in case di cartone o di latta e hanno poco accesso ai servizi.

 

 In Serbia, solo il 33% dei bambini partecipa alle attività pre-scolastiche, ma la percentuale è drasticamente più bassa tra i bambini Rom- solo il 4% e appena il 6% tra il 20% dei più poveri. Il 6% dei bambini che vivono al di sotto del livello della povertà non vanno alla scuola elementare e solo il 13% dei bambini Rom termina la scuola elementare. Una delle ragioni più citate per la non partecipazione è la povertà. E tuttavia, l’educazione è la zona chiave per interrompere il ciclo intergenerazionale di povertà ed esclusione. Tra i poveri, la maggioranza vengono da famiglie i cui membri adulti non hanno nessuna formazione educativa.

 

Ci sono anche altri bambini che sono esclusi, bambini privati delle cure familiari e in istituzioni assistenziali, bambini disabili e bambini vittime di abuso, di abbandono, di sfruttamento e di violenza.

 

I bambini disabili non sono solo esclusi dalle cure sanitarie e dal sistema educativo, ma sono anche esposti a emarginazione e alla non accettazione da parte della società. I genitori di bambini disabili sono spesso lasciati soli senza adeguato supporto da parte del governo.

 

La mancanza di servizi sociali assistenziali adeguati a livello locale per sostenere le famiglie povere o in difficoltà, oppure per provvedere ad un servizio di famiglie affidatarie conduce all’istituzionalizzazione, che priva il bambino del diritto di crescere in un ambiente familiare e limita lo sviluppo del bambino per la vita.

 

Il Resoconto sulla Condizione dell’Infanzia in Serbia 2006 richiede un intervento da fare urgentemente.

 

Sull'Unicef

 

L’Unicef è sul campo in 156 paesi e territori per aiutare i bambini a sopravvivere e a crescere, dalla prima infanzia all’adolescenza. Unicef è il più grande fornitore di vaccini per i paesi in via di sviluppo,sostiene la salute dei bambini e la nutrizione, l’acqua potabile e la sanità. L’educazione di base di qualità per tutti i bambini e tutte le bambine e la protezione dei bambini dalla violenza, dallo sfruttamento e dall’AIDS. UNICEF è finanziato completamente da contributi di individui, aziende, fondazioni e governi.

 

 Per ulteriori informazioni, contattare:

 

Signora Jadranka Milanovic, Communication Officer: Tel+3602; e-mail: belgrade@...

 

Traduzione a cura del Forum Belgrado Italia, per www.resistenze.org

 


(L'anniversario dell'inizio della aggressione NATO contro la RFJ nel 1999 ed i concomitanti paradossali festeggiamenti per il 50.mo della Comunità Europea, gli effetti del DU e delle politiche occidentali in Jugoslavia, la destinazione dei fondi del "Premio Alternativo Heinrich Heine": sono tra gli argomenti trattati nell'edizione del 24 marzo u.s. dall'ottimo quotidiano berlinese "junge Welt")

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24.03.2007 / Titel / Seite 1

Friede, Freude, Krieg


Zum Jahrestag des Angriffs auf Jugoslawien macht sich Kanzlerin Merkel für eine EU-Armee stark. »Berliner Erklärung« nimmt Kurs auf Neuauflage der Europa-Verfassung

Von Rüdiger Göbel


PHOTO: Frau Merkel im Manöver - 31. August 2006
Foto: AP

Zum achten Jahrestag des völkerrechtswidrigen Krieges gegen Jugoslawien geben sich Deutschland und die Europäische Union friedlich und euphorisch. Ja fast schon pazifistisch. Am Freitag ließ Bundeskanzlerin und EU-Ratspräsidentin Angela Merkel (CDU) freudig ihre bis dahin geheimgehaltene »Berliner Erklärung« zum 50.Jahrestag der Unterzeichnung der Römischen Verträge verbreiten. Das dreiseitige Dokument umreißt in blumigen Worten die Entstehung, die Werte und die künftigen »Herausforderungen« der Europäischen Union. »Die europäische Einigung hat uns Frieden und Wohlstand ermöglicht. Sie hat Gemeinsamkeit gestiftet und Gegensätze überwunden«, frohlockt das Papier, als seien Belgrad, Nis und Pristina 1999 nicht von europäischen Kampfjets bombardiert worden. 

Merkel konnte am Freitag zufrieden sein. Alle anderen Staats- und Regierungschefs der EU-Staaten hatten ihre Erklärung am Ende abgenickt. Am Sonntag werden sich die 27 auf einer Jubelfeier in Berlin verpflichten, die Union bis 2009 auf eine »erneuerte gemeinsame Grundlage« zu stellen, d.h. die nach den Referenden in Frankreich und in den Niederlanden durchgefallene EU-Verfassung gegen den Willen der Bevölkerung doch noch auf den Weg zu bringen. Kleine Konzession Berlins an Paris: Über die Zukunft des auf Eis gelegten Verfassungsvertrages soll ab Mai – nach den französischen Präsidentschaftswahlen – beraten werden. 

In der Bild-Zeitung vom Freitag machte Merkel klar, wohin die EU-Reise geht. Ziel für die Zukunft der Europäischen Union sei der Aufbau einer eigenen Truppe. »Wir müssen einer gemeinsamen europäischen Armee näher kommen«, forderte die Bundeskanzlerin in dem einflußreichen Boulevardblatt. Diesen Klartext vermied Merkel in ihrer »Berliner Erklärung«. Darin fabuliert sie nachgerade pazifistisch: »Wir Bürgerinnen und Bürger der Europäischen Union sind zu unserem Glück vereint. Wir setzen uns dafür ein, daß Konflikte in der Welt friedlich gelöst und Menschen nicht Opfer von Krieg, Terrorismus und Gewalt werden.« 

Die EU und Konflikte friedlich lösen? Zur Erinnerung: Bis auf Malta und Zypern sind alle 27 Mitgliedsländer derzeit mit eigenen Truppen am US-geführten Krieg in Afghanistan beteiligt. Und im Irak stellt Großbritannien nach den USA das zweitgrößte Kontingent an Besatzungssoldaten. EU-Schwergewicht Deutschland wiederum ist für Wa­shington zur wichtigsten Drehscheibe für die Okkupation des Zweistromlandes geworden. Über US-Basen in der BRD wird Kriegsgerät in den Irak geflogen, auf ihrem Rückweg transportieren die Militärjets die Versehrten und Toten. 

In Serbien wird an diesem Samstag an die Opfer der NATO-Bomben erinnert. In Berlin wird gefeiert. Kanzlerin Merkel bekundete in Bild: »Die Idee der europäischen Einigung ist auch heute noch eine Frage von Krieg und Frieden.« 

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24.03.2007 / Inland / Seite 2

»Wir werden jeden Cent überbringen«


Berliner Heinrich-Heine-Preis: Peter Handke wird im Kosovo Opfern des NATO-Krieges mehr als 50000 Euro übergeben. Ein Gespräch mit Rolf Becker


* Rolf Becker ist Schauspieler und Mitglied der Initiative »Dialog von unten statt Bomben von oben – Gewerkschafterinnen und Gewerkschafter gegen den Krieg« sowie Mitinitiator des Berliner Heinrich-Heine-Preises für Peter Handke

An diesem Samstag jährt sich der Jahrestag des NATO-Angriffs auf Jugoslawien zum achten Mal. Ein Datum, das nicht mehr allzu vielen Menschen präsent ist ...


Das hat mit der Geschichte dieses Krieges zu tun. Er ist propagandistisch auf eine Weise vorbereitet worden, die bis heute auf das Bewußtsein der Menschen wirkt. Viele glauben immer noch, in Jugoslawien sei ein Diktator gestürzt worden. Sie glauben immer noch, der Krieg sei aus humanitären Gründen zur Errichtung von Rechtsstaat und Demokratie und für das Zusammenbringen der Völker geführt worden. Das Gegenteil ist eingetreten. Die Nationalitäten sind getrennt und das Land zerschlagen und zerstückelt worden, um es beherrschbar zu machen.


Dem völkerrechtswidrigen Angriffskrieg gegen Jugoslawien konnte kein Einhalt geboten werden. Sind die deutschen »Tornados« in Afghanistan die Folge?

Mit Jugoslawien wurde die Grundlage gelegt. Daran haben wir in den Gewerkschaften einen erheblichen Anteil. Der damalige DGB-Vorsitzende Dieter Schulte sagte ja zu diesem Krieg – ohne die Mitglieder gefragt zu haben. Trotz vielfacher Aufforderungen wurde dieses offizielle Ja des DGB nie revidiert. Die Debatte darüber wurde verhindert und damit die Mobilisierung der Kolleginnen und Kollegen. So beschränkt sich bei den »Tornado«einsätzen der Protest nahezu auf das mutige Nein des Oberstleutnant Jürgen Rose vom »Darmstädter Signal« ...


Es gibt auch das Nein von der Linksfraktion im Bundestag. Was halten Sie von deren Versuch, die »Tornados« juristisch zu stoppen?

Krieg ist juristisch nicht zu stoppen. Jeder Versuch, das zu machen, ist anerkennenswert, aber wir müssen die Menschen und vor allem die Kolleginnen und Kollegen in den Gewerkschaften erreichen. Nur wenn sie verstehen, können wir etwas verändern. In den USA begreifen immer mehr Menschen – leider erst durch die Zunahme der Zinksärge.


In zwei Wochen begleiten Sie den Schriftsteller Peter Handke in die serbische Provinz Kosovo, der dort sein Preisgeld für den alternativen Berliner Heinrich-Heine-Preises spenden will. Die offzielle Auszeichnung der Stadt Düsseldorf hatte er abgelehnt, nachdem eine denunziatorische Debatte gegen ihn stattgefunden hatte. Warum wird Handke in Deutschland so angefeindet?

Otto Köhler hat einmal gesagt, der Krieg gehört zum Gründungsmythos dieser Republik. Der darf nicht angetastet werden. Der Installation der Berliner Republik und der Regierungsübernahme durch SPD und Grüne folgte bald die Zustimmung zum Krieg. Unter deutscher Beteiligung, erstmals seit 1945. Das alles mit Hilfe der bürgerlichen Medien. Die Herren über Krieg und Frieden können nicht zulassen, daß ihr Gebilde erschüttert wird oder gar zusammenbricht. Entsprechend werden jene schikaniert, die versuchen, die Wahrheit zu verbreiten.


Ihr Ziel war es, 50000 Euro für den alternativen Heinrich-Heine-Preis zu sammeln. Wieviel haben Sie erreicht?

Wir liegen jetzt bei 51700 Euro. Wir haben große Beträge von 5000 Euro bekommen bis hin zu Spenden von 2,50 Euro von ALG-II-Empfängern. Allen ist gleichermaßen zu danken. Mit unserer Sammlung wollten wir, mit Peter Handkes Worten, »mehr als nur vorübergehend aufmerksam machen«. Die Spender haben gezeigt, daß sie begriffen haben. Sie haben nicht nur für einen Poeten gespendet, sondern für einen Poeten, der in der deutschen Literaturlandschaft zur Zeit der einzige ist, der konsequent Stellung bezieht und sich nicht beirren läßt. Er wird geschmäht und auch ästhetisch herabgewürdigt. Aber er läßt sich nicht beirren. Wie seinerzeit Heinrich Heine.


Wofür genau soll das Geld gespendet werden?

Darüber verfügt Peter Handke. Er hat Kontakte in die Enklave Orahovac. Hier wird der Preis im Rahmen des Osterfestes übergeben. Die Lage der Menschen in den Enklaven ist verheerend. Sie leben wie im Ghetto. Wir werden jeden Cent, der auch nach der Reise noch eingezahlt wird, überbringen.

Interview: Wera Richter


* Spenden gehen an: Rolf Becker/Berliner Heine-Preis, Hamburger Sparkasse, BLZ 20050550, Konto-Nr: 1001212180. Weitere Informationen: berliner-heinrich-heine-preis.de

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24.03.2007 / Wochenendbeilage / Seite 4 (Beilage)


Ruinen und Uranstaub


Welche Schäden entstanden durch den Beschuß mit DU-Munition? Eine Reise durch Serbien acht Jahre nach den Angriffen der NATO

Von Barbara Hug


PHOTO: Bomben auf Belgrad. Am 21. April 1999 schossen die NATO-Angreifer das Hochhaus in Brand, in dem sich u. a. drei Fernseh- und Radiostationen befanden
Foto: AP


Seit dem 24. März 1999 herrschte erstmals wieder nach 1945 Krieg in Europa. An diesem Tag gegen 20 Uhr erfolgten auf Befehl der NATO-Führung Luftangriffe auf die Bundesrepublik Jugoslawien. Betroffen waren zunächst Ziele in den Städten Belgrad, Pristina, Novi Sad. Eingesetzt wurden Marschflugkörper, abgefeuert von U-Booten in der Adria sowie B-52-Bombern, Kampfflugzeuge und später auch Tarnkappenbomber. Während des Krieges, der am 10. Juni beendet wurde, verschoß die NATO mindestens 35 000 Geschosse mit abgereichertem Uran. Die Opferzahlen auf serbischer Seite liegen bei 5500 getöteten serbischen Zivilisten und Soldaten.


Der achte Jahrestag des ­NATO-Krieges gegen Jugoslawien näherte sich, und wir machten uns auf die Reise Richtung Belgrad. Unser Anspruch, Eindrücke zu sammeln in einem Land, das schamlos von denen vernichtet wurde, die zu Kalte-Kriegs-Zeiten den Osten stets als Feind darstellten und ihm Angriffspläne unterstellten – und schließlich selbst aggressiv gegen jenes Vielvölker-Staatsgebilde gehandelt hatten. Wir sprachen mit Menschen in Belgrad, in Nis und auf dem Land. Wie war das eigentlich mit dem Krieg? Und: Wie sieht es heute aus?

Erster Eindruck: Noch stehen die zerbombten Hochhäuser als Ruinen, im Zentrum der ehemaligen jugoslawischen Hauptstadt, die in den Morgenstunden des 24. März 1999 erstmals seit den Bombardements der Hitler-Truppen nach dem 6. April 1941 wieder Luftangriffen ausgesetzt war. Nun also die Ruinen des Verteidigungsministeriums, des Radio- und Fernsehsenders und auch von ehemaligen Schulen, Krankenhäusern und Wohngebäuden. An vielen Stellen wird das Bild der Millionenmetropolole an Save und Donau nach wie vor von den Überresten der Zerstörungen durch die NATO-Schläge, durchgeführt aus großer Höhe, geprägt, die weder abgetragen noch wiederaufgebaut wurden.

Manche werden sicherlich dauerhaft als Mahnmale gegen den Krieg dienen. Bei anderen gibt es pragmatische Gründe, sie nicht abzutragen: Ob und wie stark die betreffenden Gelände verseucht sind, blieb bisher ungeklärt. Fest steht, daß die westlichen Angreifer Spezialmunition gegen Jugoslawien verschossen; den Einsatz von zehn Tonnen Munition mit abgereichertem Uran (DU – depleted uranium) in Raketen und anderen Geschossen gestehen sie selbst ein, doch dürfte die wirkliche Menge wesentlich höher liegen. 

»Möglicherweise«, so kommentierte Professor Dr. Siegwart-Horst Günther, der seit langem die medizinischen Folgen von DU-Munition erforscht, in einem Gespräch mit junge Welt, »atmen die Menschen also atomar verseuchte Staubpartikel ein, doch niemand kümmert sich darum. Es könnte sein, daß aus Furcht vor der Schockwirkung, die die Bestätigung einer Kontaminierung in der Bevölkerung auslösen würde, nichts unternommen wird.« Günthers Tip: Die kontaminierten Gebäudeüberreste müßten unverzüglich abgetragen und entsorgt werden. Dabei allerdings, so der Professor, handele es sich um eine gefährliche und heikle Aufgabe. »Es müßte sehr sorgfältig vorgegangen werden – und zwar von Spezialisten mit besonderen Gerätschaften.« Ohne internationale Unterstützung sei dies nicht möglich, und eigentlich sei die Beseitigung der Schäden ja Aufgabe der NATO. 

Auf weitere Gefahren, die von der aktuellen Situation ausgehen, verwiesen Radomir Kovacevic, Direktor des radiologischen Instituts in Belgrad, und Zoran Stankovic, ein Pathologe: Das Einatmen von Uranstab sei ungeheuer gefährlich. Und: Unter dem Strich habe Uranmunition eine krebsauslösende Wirkung, so Stankovioc, der als Arzt am medizinischen Zentrum des Militärs zu den Risiken geforscht hatte.

Auch in Nis, 250 Kilometer südöstlich von Begrad, stehen noch die Überreste der zerbombten Wohnhäuser. Dort war erst wenige Tage vor unserem Besuch eine Kassettenbombe auf einem Schulhausdach entdeckt und von Spezialisten aus Belgrad unschädlich gemacht worden. Diese Art von Waffe, die noch Jahre nach dem Krieg tötet, wird erst dann aktiviert, wenn Menschen mit ihr in Berührung kommen. In der Umgebung der 250000 Einwohner zählenden Stadt sterben nach wie vor Bauern durch Explosionen auf den Feldern. Zudem liegen in den Krankenhäusern viele Menschen, die einige Jahre nach dem Krieg an Krebs erkrankt sind. Die Statistik weist einen steilen Anstieg der Erkrankungen aus. Und im Kosovo sei die Rate noch höher, erklärte die Epidemiologin Natascha Lukic vom onkologischen Zentrum in Nis. Darüber werde geschwiegen. Ob auch die Nahrungskette von DU-Munition tangiert sei? Bis heute blieb diese sich aufdrängende Frage unbeantwortet. 

Die NATO hatte zielgenau – also bewußt – Infrastruktur, Fernsehstationen, Fabriken, Elektrizitätswerke, Brücken, Eisenbahnlinien und Flüchtlingskolonnen bombardiert. Und alle unsere Gesprächspartner gingen davon aus, daß große Teile der Umwelt in Serbien kontaminiert sind. Einig war man sich auch, daß die US-Air-Force Experimente mit neuen Waffen durchgeführt hat. Zumindest drängte sich ein fürchterlicher Verdacht auf: Bis heute findet sich keine schlüssige Erklärung für die Wahl eines der wichtigsten mit Uranmunition bombardierten Ziele. Warum die Attacken auf die Gegend um Urosevac im Süden des Landes, direkt im Quellgebiet von drei Flüssen. Dort befanden sich keine militärischen Einrichtungen, keine Städte, Fabriken, nichts, was von militärisch-strategischem Interesse hätte gewesen sein können. Nach serbischen Schätzungen wurden 15 Tonnen Munition mit abgereichertem Uran abgefeuert. Über die Gründe kursieren Spekulationen, die damit zu tun haben, daß von dort aus drei Flüsse ins Schwarze Meer, in die Ägäis und in die Adria fließen. Ob Tests zu den Folgen des DU-Waffeneinsatzes für diese Meere durchgeführt werden sollten, können nur die NATO-Verantwortlichen sagen. Doch die schweigen. 

Wie auch in Sachen eines anderen Vorgangs, von dem wir bei einem Treffen an der Fakultät für Arbeitssicherheit in Nis erfahren, wo wir mit Professor Srejko Nedeljkovic ins Gespräch kommen: Nicht nur DU-Geschosse, sondern andere Bomben seien in der Nähe der bulgarischen Grenze gefallen. Diese hätten die Nacht zum Tag gemacht – auch diesbezüglich könnte nur die NATO Auskunft geben, wird uns berichtet.

Doch Auskunft gibt es nicht. Im Gegenteil: Der Nordatlantikpakt betreibe, so unsere Gesprächspartner, ein gezieltes Lobbying unter Nichtregierungsorganisationen (NGO) in Serbien. Ziel sei es zu verhindern, daß sich eine im Bereich der Umwelt tätige Gruppe mit der Problematik der Uranmunition befasse. Die Einflußnahme läuft über verschiedene Kanäle. Einer davon seien natürlich die Finanzen, die nur für »passende« Projekte an serbische NGOs gegeben würden. Andererseits werde versucht, kleinere Gruppen durch Einordnung in Dachorganisationen zu vereinnahmen. 

Wir sind von unserer Reise sehr bedrückt zurückgekehrt. Wegschauen verbietet sich, und wichtige Fragen müssen einfach gestellt werden: Wer hilft? Gibt es endlich mehr Unterstützung für die überfüllten Krankenhäuser? Was wird aus der Landwirtschaft angesichts der Kontaminierung weiter Flächen? Und: Was ist mit dem Uranstaub?

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24.03.2007 / Wochenendbeilage / Seite 4 (Beilage)

Damals in Jugoslawien


Begegnungen in einem Land mitten in Europa, das mit deutscher Hilfe zerstört wurde

Von Gerd Schumann


PHOTO: Bomben auf Nis. Am 7. Mai 1999 verlor Milenko Petrovic sein gesamtes Hab und Gut
Foto: AP

Damals, noch vor dem Krieg, saßen wir in der weißgekalkten Küche mit Herd, Tisch und Bank, an der Wand die Gusle von Milans Bruder Nicola, eine einsaitige Kniegeige, etwas eingestaubt schon, ein serbisches Traditionsinstrument. Und Lluboje Krunic nahm es sich, ein kleiner, knorriger Mann, dessen Blick uns irritierte, weil eines seiner Augen weiß und blind war. Als junger Ziegenhirte hatte ihn ein explodierender Blindgänger aus dem Zweiten Weltkrieg schwer verletzt, deutsche Hinterlassenschaft. Holz brachte nun den Herd zum Bollern, wir saßen eng zusammen, Milan, Hannes, Neso, Cilenko, Daracenko, Dana und Bobica waren auch dabei; der alte Krunic fettete Bogen und Saite der Gusle, brachte die ersten Töne zustande, die andeutungsweise zu einer Melodie wurden, und schon setzte der Gesang ein, laut und ziemlich schräg und gewaltig. Dem selbstgebrannten Slibovitz wurde kräftig zugesprochen, und draußen garte der Hammel am Spieß. Raco von nebenan trat noch ein, brachte Pide mit Käse, ein Hüne um die zwei Meter wohl, Mitte zwanzig mit schon schlechten Zähnen, deren Lücken uns anstrahlten. Ihn begleitete seine Kusine Milica, eine Studentin aus Sarajevo, Bosniens Hauptstadt, in der es bereits an Heizstoff mangelte. Der Krieg warf erste Schatten, doch nahm sie niemand so recht wahr. Das fürchterliche Geschehen, das bevorstand, wurde erst vorstellbar, als es geschah. Vorher reichte die Phantasie dafür nicht aus.
 

Das war 1990 im Herbst, in dem bosnischen Dorf Bruzna. Eine kühle Nässe lag auf den sattgrünen Wiesen und machte die Gräser klamm. »Deutschland hat jedes Interesse daran, daß es möglichst viele sklavenfähige, auf die Wirtschaftsmacht Deutschland ausgerichtete Kleinstaaten gibt. Das wird immer klarer werden«, prophezeite der Schriftsteller Peter Handke – und es dauerte kein Jahrzehnt, da war der Vielvölkerstaat Jugslawien unter tatkräftiger deutscher Beteiligung zerschlagen, zunächst im mehrjährigen Bürgerkrieg, als die Protagonisten der Sezession seitens der Kohl-Genscher-Regierung kräftig gesponsert wurden; dann ab dem 24. März 1999 auch durch direkte militärische Angriffe der NATO auf die Bundesrepublik Jugoslawien. 

Im Jahr 2000 kehrte ich zurück nach Bruzna, und Milan begleitete mich auf den Friedhof, in der Ferne die schwarzen Berge Montenegros, vorne ein klappriges Holztor. Dann das Grab der beiden Brüder. »Simovic, Daracenko, geboren 1974, gefallen 1993, und Simovic, Cilenko, im selben Jahr geboren, zur selben Zeit zur Schule gegangen – sie verließen uns am selben Tag.« Erschossen aus dem Hinterhalt zur selben Stunde. Sie hatten ihre Familie und das Dorf gegen eine Gruppe marodierender Diebe und Mörder verteidigen wollen – und die Eltern Budomir und Jela und Schwester Zorica errichteten das »Denkmal«, wie der Grabstein im Serbischen genannt wird. »Wir werden euch ewig in unseren Herzen tragen«, steht darauf.

Als sei es gestern gewesen, erinnere ich mich an den Augenblick, als ich Lluboje Krunic wiedertraf, den Gusla-Spieler, und ich freute mich, daß er noch lebte und seine Frau auch. Er blieb zurückhaltend, wortkarg, wollte nichts über das Vergangene erzählen, und ich bekam hautnah eine Ahnung von der Dimension des Grauens, das auf Bruzna lastete – und auf dem ganzen Land. Von Raco, Llubojes im Schrecken des Krieges um mindestens zwei Jahrzehnte gealterten Nachbarn, erfuhr ich dann doch noch von den ungezählten Nächten, die die Dörfler in selbstgebauten Unterständen verbrachten – abends aus Angst vor Überfällen das eigene Haus verlassen, morgens zurückkehren – und wie dann das Grauen so richtig begann, als es hieß: »Mars greift an« (Peter Handke über die NATO-Attacken). 

Marsianer kommen von oben. Sie bombardierten die mächtige Betonbrücke im nicht weit von Bruzna entfernten Foca und wendeten direkt über Bruzna – ein Höllenlärm, der das Grauen tief in Knochen, Herz und Kopf fahren ließ. Auch Wohnhäuser wurden getroffen. Radivoj Stepanovic war mit Ehefrau und drei Kindern in den Keller geflüchtet, über der Erde gingen alle materiellen Werte zu Bruch, unter der Erde die Psyche der 15jährigen Tochter. »Die fällt in Ohnmacht eine halbe Stunde lang, schreit dann »Flugzeuge, Flugzeuge« und fällt wieder um. Wir sind alle geistige Invaliden geworden. Krieg ist Schrecken.«

Als Vertreter des Mars daran beteiligt: USA, Frankreich, Großbritannien, Niederlande, Dänemark, Norwegen, Italien, Kanada, Spanien, Portugal, Belgien – und Deutschland. Und obwohl ich wußte, daß unseren Freunden in Bruzna und anderswo im ehemaligen Jugoslawien bekannt war, daß auch Deutsche gegen den Krieg auf die Straße gegangen waren: Ich kam doch aus dem Land, das mitgebombt hatte, und ich fühlte Scham. Ich wußte, warum Lluboje Krunic, der Einäugige, uns nicht mehr zu sich einlud. 

Peter Handke, der den aufrechten Gang ging, sich direkt nach Kriegsbeginn nach Serbien traute und dafür von den Marsianern und deren Handlangern bis heute angefeindet wird, erlebte wenige Tage nach Kriegsbeginn zunächst einen scheinbar unverändert freundlichen Empfang: »Ein Tisch wird für uns ins Freie getragen, und wir bekommen eine Jause aufgetischt, wie sie gastfreundlicher nicht aussehen kann, samt montenegrinischem Krstac-Wein.« Und doch wächst in ihm stark wie nie zuvor eine »Fassungslosigkeit allein schon über den Mißbrauch der unvergleichlichen balkanischen Gastfreundschaft durch die gesamteuropäischen Zugereisten, im Kriegführen jetzt gleichsam tätlich geworden.« 

Als vor acht Jahren – im März und April 1999 – die Bomben und Raketen in Belgrad besonders dicht fielen, zogen Zehntausende auf die Donau- und Save-Brücken, sozusagen als »lebende Schutzschilde« gegen die Aggressoren aus der Luft, die unsichtbar aus ihren Tarnkappenfluggeräten den Tod abwarfen. »In Phase eins traten Schock und Angst auf«, berichtete mir damals die Psychologin Vesna Ognjenovic. Schreie in der Nacht, Schweißbäder, Horror und Zähneknirschen. »In Phase zwei spielten die Kleinen nicht wie 1941 während der deutschen Besetzung »Nazi und Partisan«, sie schlüpften generell nicht mehr in Personenrollen, sondern wurden zu »Bunker und Splitterbombe«. 

Die schwarzen Hakenkreuze an der deutschen Botschaft, gesprayte Graffitis, erinnerten an den penetranten Brandgeruch der Geschichte, als während des zweiten Weltkrieges allein in Belgrad 100 000 Menschen der Wehrmacht zum Opfer fielen. Am Eingangstor steht »Marko and Slavko are not dead«. Marko und Slavko, zwei Kinder, wurden als Metapher verstanden für den jugoslawischen Widerstand gegen deutsche Angriffe damals und heute. Die beiden jungen Partisanenkuriere waren von den Nazis hingerichtet worden. Als Comic-Helden kennt sie in Belgrad auch heute noch jedes Kind. 

Der knorrige Alte von Bruzna erzählte dann doch noch davon, daß die Obsternten nach dem Krieg schlecht ausfielen und Mißgeburten bei den Schafen auftraten, und fragte, ob das vielleicht mit den NATO-Fliegern und der Uranmunition zusammenhängt. Ich wußte es nicht und merkte, daß der 78-Tage-Krieg noch lange nicht zu Ende war.




Di seguito il testo del documento sulla questione delle foibe e sull'intervento di Napolitano del 10 febbraio u.s. approvato all'unanimità (nessun contrario, un astenuto) dalla Conferenza d'Organizzazione della Federazione PRC di Parma svoltasi nei giorni 24 e 25 marzo 2007, e fattoci pervenire da G. Caggiati. Dalla stessa fonte riceviamo anche la inquietante testimonianza sull'atteggiamento revisionista dei vertici locali dell'ANPI, riportata più sotto. 


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O.D.G. SULLA “QUESTIONE FOIBE”  E IL DISCORSO DEL PRESIDENTE NAPOLITANO DEL 10 FEBBRAIO APPROVATO ALL’UNANIMITA’ DALLA CONFERENZA D’ORGANIZZAZIONE DELLA FEDERAZIONE DI PARMA DEL P.R.C. SVOLTASI A PARMA NEI GIORNI 24,25 MARZO 2007 


«Vi fu un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di Pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica».

La Conferenza d’Organizzazione della Federazione di Parma del PRC considera queste parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Napolitano il 10 febbraio in occasione della celebrazione della  «Giornata del ricordo» assolutamente gravi e del tutto inaccettabili.
Esse si inscrivono nel generale quadro di mistificazione  e revisione della storia del secolo scorso in atto da anni e intrapreso dalle destre; in particolare fascisti e postfascisti strumentalizzano da sempre il dramma delle foibe e dell’esodo per attaccare l’antifascismo e la Resistenza, il movimento di Liberazione e i partigiani, i comunisti.

Non vi fu disegno annessionistico slavo, semmai vi fu una Conferenza di Pace alla quale l’Italia prese parte, nella persona di De Gasperi, come Paese sconfitto alleato della Germania. Non vi fu pulizia etnica da parte jugoslava, come dimostra il fatto stesso che ben limitato è stato il numero dei riconoscimenti conferiti a parenti delle vittime delle foibe da parte dello stesso Napolitano nella commemorazione del 10 febbraio. Un tentativo organizzato e programmato di pulizia etnica vi fu piuttosto da parte dell’Italia fascista. A cominciare dal violento discorso razzista di Mussolini del 1920 a Pola e dalle azioni squadriste, poi con l’“italianizzazione” realizzata durante il ventennio nero, infine con i crimini commessi durante l’occupazione militare di Slovenia e Croazia in seguito all’immotivata aggressione italiana della Jugoslavia del 1941. 

I fatti tragici delle foibe del settembre-ottobre ’43 e del maggio ’45 sono storicamente inseriti in questo contesto, non sono assimilabili ai crimini del fascismo e non mettono in discussione il valore fondamentale della Resistenza italiana e della Resistenza jugoslava, con la quale ultima, dopo l’8 settembre ’43, si schierarono e combatterono ben 40.000 soldati italiani abbandonati dai loro comandanti e dallo stato maggiore italiano.

I fatti delle foibe, per quanto tragici, sono di dimensioni molto più contenute (circa cinquecento vittime, per lo più militari, forze dell’ordine, funzionari dell’Italia fascista occupante la Jugoslavia), sono stati una reazione ai crimini fascisti più di giustizia sommaria da parte di partigiani jugoslavi che non violenza programmata dall’alto del vertice di Tito.

La Conferenza d’Organizzazione della Federazione di Parma del Partito della Rifondazione Comunista chiede:
-ai dirigenti nazionali del P.R.C. di prendere le distanze dalle parole del Presidente    Napolitano;
-al quotidiano del partito, «Liberazione», di dare più spazio e risalto alle varie iniziative in corso in Italia dirette a contrastare il disegno revisionistico della storia e di pubblicare interventi critici in relazione alle manifestazioni ufficiali della «Giornata del ricordo», istituita nel 2004 col voto contrario del PRC in Parlamento;
-al compagno Sandro Curzi, membro del Consiglio d’Amministrazione della RAI TV, di adoperarsi affinché la tv di Stato trasmetta il filmato della BBC «Fascist Legacy» che documenta i crimini di guerra commessi dall’Italia fascista in Africa e in Jugoslavia.   


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L'11 febbraio scorso abbiamo fatto a Parma la contromanifestazione sulle foibe (2^edizione) che ha visto la partecipazione di duecentocinquanta persone: l'ANPI cittadina e provinciale non vi ha aderito nè partecipato, nonostante la nostra richiesta. Perchè? Perchè qui l'ANPI nemmeno partecipa mentre altrove partecipa, aderisce o addirittura promuove? Fra i relatori avevamo il Presidente di un Comitato Provinciale dell'ANPI!  Non dell'Emilia Romagna però. Appunto...  Chiudo inserendo sotto la lettera che abbiamo preparato per l'ANPI provinciale di Parma, per la quale stiamo raccogliendo le firme, di compagni e antifascisti, iscritti o meno all'ANPI stessa.
Giovanni Caggiati  -  Parma


COMITATO    ANTIFASCISTA    DI       PARMA      PER     LA     VERITA' SULLA     "VICENDA     FOIBE"

Al Presidente del Comitato Provinciale di Parma dell'ANPI

p.c.   
al  Presidente Nazionale dell'ANPI
ai  segretari delle sezioni comunali parmensi dell'ANPI


Sig. Presidente,

                       la legge 92 del 2004, che istituisce per il 10 febbraio la «Giornata del ricordo delle foibe e dell'esodo degli italiani dalla Venezia Giulia e dall'Istria»  approvata dal Parlamento su proposta del deputato Roberto Menia (AN) sta producendo i  suoi frutti avvelenati, piuttosto che portare a una memoria condivisa sta alimentando polemiche, contrapposizioni, contestazioni, mistificazione della storia, rispetto ai tragici fatti  accaduti nel settembre-ottobre '43 e nel maggio '45 a Trieste, in  Istria e in Dalmazia.

                        In realtà la legge è stata  voluta dai postfascisti non per ricordare delle vittime e fare opera di approfondimento storico e di verità quanto per oscurare  i terribili crimini di cui si sono macchiati i fascisti e i nazisti nei territori della ex Jugoslavia. In questo modo si tenta ancora una volta, sulla scia di un revisionismo becero e manipolatore, di infangare la Resistenza antifascista, di stabilire un osceno paragone fra Risiera di San Sabba e foibe, di confondere cause ed effetti, di equiparare casi di giustizia sommaria a regimi criminali. Tanto più grave è questa operazione se si pensa ai tanti militari italiani che proprio in quelle regioni dopo l'8 settembre '43 si schierarono con i partigiani jugoslavi versando il loro sangue per la liberazione di quelle terre e per la generale sconfitta del nazifascismo. Meglio avrebbe fatto il Presidente della Repubblica Napolitano nel suo discorso del 10 febbraio a rendere onore a questi italiani, anziché parlare di «disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» e distribuire onorificenze almeno alcune delle quali alla memoria di ex criminali fascisti.

                        Riteniamo pertanto grave la mancata adesione e partecipazione dell'ANPI provinciale di Parma all'iniziativa promossa e realizzata l'11 febbraio scorso dal Comitato antifascista di Parma per la verità sulla "vicenda foibe" al fine di contrastare e contestare civilmente, sulla base di una analisi storica ineccepibile, questa operazione revisionista che sta dietro la Giornata del Ricordo. A questa iniziativa contributi significativi hanno dato sia  storici sia una figura limpida dell'antifascismo quale il Presidente dell'ANPI di Treviso Umberto Lorenzoni.

                        La relazione di Lorenzoni alleghiamo alla presente in quanto merita di essere letta  e diffusa poiché ricostruisce compiutamente la verità dei fatti e il contesto storico in cui si collocano gli stessi tragici eventi occorsi alle popolazioni italiane di Istria e Venezia Giulia.



(français / deutsch / english)

A. Lacroix-Riz : À l'origine de l'intégration européenne

1) Sous l'égide de l'ancien Reich 

22/03/2007 - german-foreign-policy.com a parlé avec Prof. Annie Lacroix-Riz sur l'origine de l'intégration européenne...

2)  Success Story

2007/03/22 - A "Berlin Declaration" will give the EU summit on Sunday (March 25) the "initial spark" for the ratification of a slightly modified EU Constitution... "France's Germany policy died, when the German-American post-war alliance began" - in the summer of 1945, judges the French historian, Prof. Annie Lacroix-Riz in a discussion with german-foreign-policy.com. In the conflict around the EU constitution, France again relents...


LINKS:



Ce documentaire tente de répondre à cette question : sommes-nous entrés dans une période comparable à celle qui a précédé les deux guerres mondiales ? Pour l'historienne Annie Lacroix-Riz, à chaque fois qu'il y a remise en cause du statu quo issu de la précédente guerre, en particulier dans la zone très disputée d'Europe de l'Est, une autre déflagration mondiale est à nouveau possible. 




PROPAGANDE DE GUERRE, PROPAGANDE DE PAIX

documentaire avec Annie Lacroix Riz, en téléchargement libre sur internet

http://video.google.fr/videoplay?docid=1838258269958293517

http://www.dailymotion.com/worldhistoria/video/xztbh_collabo

www.historiographie.info



Unter der Führung des Reiches 

22.03.2007 PARIS - Über die Ursprünge der sogenannten europäischen Einigung sprach german-foreign-policy.com mit Prof. Annie Lacroix-Riz. Frau Lacroix-Riz ist Professorin für Zeitgeschichte an der Université Paris VII...



Erfolgsgeschichte 

22.03.2007 - BERLIN/PARIS (Eigener Bericht) - Mit einer "Berliner Erklärung" wird der EU-Gipfel am kommenden Sonntag die "Initialzündung" für die Ratifizierung einer leicht modifizierten EU-Verfassung geben... "In Wahrheit wussten sämtliche Führungszirkel Westeuropas vor dem Ende des Zweiten Weltkrieges", sagt Annie Lacroix-Riz, "was die nicht-deutschen Eliten ihren eigenen Bevölkerungen verschwiegen": Die sogenannte europäische Einigung "würde man unter der Führung des ehemaligen Reiches verwirklichen, das unter der Vorherrschaft und der Obhut der Vereinigten Staaten seine Grenzen von 1937 (oder sogar nach 1937) wiedererlangen würde."...



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Sous l'égide de l'ancien Reich 

22/03/2007

PARIS german-foreign-policy.com a parlé avec Prof. Annie Lacroix-Riz sur l'origine de l'intégration européenne. Mme Lacroix-Riz est professeur d'histoire contemporaine à l'université Paris VII.

german-foreign-policy.com: A l'occasion des festivités pour l'anniversaire de l'Union Européenne, le ministère des affaires étrangères de Berlin parle d'un "succès sans précédent" de la communauté. Sous la présidence de de Gaulle, la France voulait diriger cette "œuvre d'union européenne", peut-on lire ensuite, mais pour des raisons inconnues, cela semblerait avoir échoué...

Prof. Annie Lacroix-Riz: "Succès sans précédent", assurément, puisque l'"union européenne" ouvertement revendiquée deux ou trois ans après la fin de la Deuxième Guerre mondiale (mais l'affaire remontait aux lendemains de la Première) visait à réaliser une complète liberté des capitaux et la déflation rigoureuse des salaires, et que ces deux objectifs fondamentaux - les seuls qui eussent vraiment intéressé les délégués du capital financier, français, allemands, etc., comme ils l'avouaient sans détour en privé dès 1948-1949 - ont été pleinement réalisés. Le verrouillage des revenus du travail (contrepartie de la liberté des profits) serait désormais d'autant plus rigoureux qu'il ne serait plus assuré seulement par les patronats et les États nationaux, forcément sensibles aux résistances de leurs peuples respectifs: la police des salaires unifiée serait conduite à plusieurs, chaque pays à bas salaires étant supposé exercer une pression déterminante sur le niveau des salaires des pays à salariés plus combatifs, mieux organisés, donc jusqu'alors mieux lotis. Voilà en quoi consista "l'Europe sociale", thème avec laquelle on allèche périodiquement les populations déjà incluses dans l'"union européenne": on leur expose que "le social" (les bons salaires) viendra plus tard, ou que c'est la seule chose qui manque à l'entreprise "européenne", mais qui reste à conquérir. Aux membres des nations orientales récemment incluses, on avait initialement pratiquement promis la Mercedes pour tous, après quoi, leur pays une fois "intégré", elles ont entendu l'argument présenté ci-dessus relatif à la future "Europe sociale".

"Succès sans précédent", surtout pour l'Allemagne, dont le ministre des Affaires étrangères se félicite en termes à peine polis du fiasco des prétentions françaises à "diriger cette 'œuvre d'union européenne'". De fait, tous les milieux dirigeants d'Europe occidentale surent avant la fin de la Deuxième Guerre mondiale ce que leurs fractions non-allemandes dissimulèrent soigneusement à leurs populations: c'est sous l'égide de l'ancien Reich appelé à retrouver, sous la tutelle et la protection des États-Unis, sa puissance et ses frontières de 1937 (voire d'après 1937) que cette entreprise serait menée à bien. Il est de bonne guerre pour un ministre allemand de se flatter auprès de sa population d'un succès récent, prétendument arraché de haute lutte. Tout comme il fut de bonne guerre, pour De Gaulle, démissionnaire du gouvernement en 1946, de faire croire au peuple français que "nous ten[i]ons le Rhin", alors qu'il fuyait précisément parce que la "politique allemande" de la France était vouée à la mort par l'alliance germano-américaine et parce qu'il s'estimait incapable de s'opposer à ce cours.

gfp.com: La présentation du ministère des affaires étrangères ne mentionne pas du tout le rôle qu'ont joué les Etats-Unis dans les luttes d'influence pour le pouvoir économique et politique en Europe. Quand et pourquoi les Etats-Unis ont-ils influencé le processus d'unification de l'Europe et quel était leur but?

Lacroix-Riz: Les États-Unis sont sortis de la Première Guerre mondiale avec des objectifs européens inclus dans les "14 points de Wilson": faire de l'Europe une zone ouverte à leurs capitaux et à leurs marchandises, métropoles et colonies: "l'exclusivité impériale" bénéficiait aux impérialismes européens rivaux et soustrayait aux capitaux américains les matières premières à bas prix dont ils avaient besoin. Ils ont œuvré à la réalisation de ces buts dans l'entre-deux-guerres, grâce à leur énorme poids financier, d'une part, de créanciers de l'Entente franco-anglaise depuis la guerre puis, à partir des années vingt, du Reich qui finança son réarmement à marches forcées par l'emprunt extérieur et, d'autre part, d'investisseurs de capitaux (particulièrement en Allemagne). Mais ils connurent des échecs sous l'effet de la crise, qui conduisit les concurrents européens à se protéger d'eux, tout comme ils l'avaient fait depuis eux-mêmes depuis la naissance de leur propre capitalisme: selon certains historiens, tel Gabriel Kolko, le plus sérieux revers subi par Washington dans l'entre-deux-guerres fut la décision de "préférence impériale" prise en 1932 par la Grande-Bretagne à la conférence d'Ottawa du Commonwealth.

La Deuxième Guerre mondiale remit aux États-Unis victorieux et considérablement enrichis des atouts décisifs dans la création d'un vaste bloc européen d'accès entièrement libre: gigantesque endettement britannique suivi de l'endettement de toute l'"Europe occidentale" (qui conduisit les intéressés à accepter toutes les conditions financières et commerciales américaines, abandon des empires coloniaux compris); équivalence or du dollar et multilatéralisme menant toujours à Washington décrétés à la conférence de Bretton-Woods de juillet 1944 (et perspective d'abandon des tarifs douaniers et contingentements); maîtrise directe dès le printemps 1945 et peu après pour les deux autres "zones occidentales" de la partie la plus riche de l'Allemagne, incluant la Ruhr, base de son économie de guerre; promesse de maîtrise à assez court terme, notamment via l'Église romaine toute puissante, des zones d'Europe orientale pour l'heure incluses dans la sphère d'influence soviétique; tutelle directe (AMGOT en Italie) ou indirecte d'une zone d'influence ouest-européenne dont les dirigeants économiques et politiques nationaux n'avaient pas grand chose à refuser aux États-Unis: sauveteurs des coffres-forts, ils assuraient la sécurité et l'avenir des élites compromises par leur comportement depuis les années trente et surtout l'Occupation.

L'URSS étant réduite à la paralysie sur les projets de "reconstitution prioritaire" du Reich, les États-Unis, après avoir vaincu les résistances des autres pays de leur sphère d'influence européenne à la "reconstruction prioritaire de l'Allemagne", purent faire de celle-ci le pivot de l'union européenne: après l'abdication définitive par la France en 1948 de ses objectifs officiels en Allemagne et l'agrégation de sa zone d'occupation à la Bizone anglo-américaine, la voie fut ouverte à "l'union douanière" préparée à Washington pendant la guerre, dont l'Allemagne occidentale prendrait la tête.

gfp.com: Quels intérêts économiques la France poursuivait-elle après la fin de la Seconde Guerre mondiale face à l'Allemagne de l'Ouest?

Lacroix-Riz: La France de 1918 était victorieuse et avait défini elle-même sa "politique allemande", celle du traité de Versailles, que d'ailleurs elle n'appliqua pas. La "politique allemande" de la France de 1945, qui avait connu l'ignominieuse défaite de juin 1940, se ressentit de cette accablante réalité: c'est Washington désormais qui en définit les bornes. Les dirigeants français affichèrent leur revendication de "réparations", mais cet objectif fièrement énoncé à leur population était incompatible avec la volonté des Anglais (maîtres provisoires de la Ruhr) et des Américains de ne pas faire revivre trop tôt les mines de la Ruhr (concurrentes des leurs), de vendre en dollars le peu de charbon qui sortait des mines et, du côté américain, d'éviter que les Ouest-Européens ne reçussent trop de charbon - excellent et deux fois moins cher que l'américain. Les États-Unis voulaient en effet placer sur le marché européen leur propre charbon, dont l'après-guerre rendit à nouveau la production excédentaire. Ils laissèrent un moment à la France, outre la petite zone d'occupation prélevée sur la leur et sur celle des Anglais, "l'os de la Sarre". Cette concession provisoire servit d'ailleurs de prétexte à la rupture de Bidault avec l'URSS à la conférence de Moscou d'avril-mai 1947: le ministre des Affaires étrangères français prétendit que Staline avait "refusé à la France le bénéfice de la Sarre", ce qui avait obligé Paris à choisir la voie "occidentale"; mais il cacha soigneusement aux Français que les Anglo-Américains lui refusaient l'envoi du charbon de la Ruhr, même payé en dollars. Le gros mensonge de la responsabilité de Staline dans la "rupture" fut avalisé par la grande presse, qui fut muette sur le second aspect des choses.

Pour le reste, la politique française consista à "gagner du temps" contre le retour du Reich à la Gleichberechtigung et à la puissance (dimension militaire incluse). Les étapes de ce retour se succédèrent inexorablement depuis l'annonce du Plan Marshall (juin 1947) et l'abandon officiel (en juillet) par les Anglais et les Américains des limitations de production industrielle fixées entre Yalta et Potsdam. En 1950, peu après le discours du 9 mai de Robert Schuman annonçant la création de la Communauté européenne du charbon et de l'acier, prétendue "œuvre de paix et de réconciliation" franco-allemande qui reconstituait le cartel de l'acier, Adenauer put se vanter auprès des Allemands d'avoir balayé tous les interdits et contrôles nés de la défaite.

gfp.com: La France avait-elle déjà perdu la lutte d'influence lorsque la CEE fut créée avec les Traités de Rome?

Lacroix-Riz: L'issue de la lutte d'influence était admise avec résignation par les dirigeants français dès l'été 1945 et c'est une des raisons, je l'ai dit plus haut, pour lesquelles de Gaulle, qui ne voulait pas assumer la réduction de la France à une impuissance totale en Allemagne, quitta le pouvoir. Les dirigeants français qui lui succédèrent se mirent en colère en privé, parfois même encore devant les Américains: Bidault tempêta contre eux à l'été 1947, mais il rendit vaines ses récriminations en réunissant sagement à Paris la conférence des Seize (fondatrice de l'Europe d'aujourd'hui), en promettant à sa population l'"Eldorado" du Plan Marshall et en accusant l'URSS de nourrir les pires intentions à l'égard de l'Europe occidentale et d'avoir empêché les malheureuses nations esclaves de l'Est (comme la Pologne et la Tchécoslovaquie) de recevoir le pactole américain.

Mais il ne voulut pas endosser les accords de Londres du printemps et de l'été 1948 qui liquidaient toute "politique allemande", et il céda la place au très docile Robert Schuman, homme du Comité des Forges et féal de la dynastie Wendel depuis l'avant-guerre. Du temps de ce "père de l'Europe" - ministre des Affaires étrangères favori de Washington et de Bonn -, les dirigeants français cessèrent de se mettre en colère: ils se rallièrent aux vues à la fois des États-Unis et des puissants intérêts français du cartel de l'acier, disposés au compromis avec l'Allemagne comme dans les années vingt et trente. Mais les responsables de l'appareil d'État avouaient sans détour que la France comptait pour rien depuis le début de 1947 et plus encore en 1948, année de l'adhésion française à la "Trizone", dans leur correspondance (mais pas à la population). Le Service de documentation extérieure et de contre-espionnage (SDECE) reconnut en janvier 1947 que le Département d'État "considér[ait] l'Allemagne et non la France, comme la clé de voûte du système européen". Le secrétaire général du Quai d'Orsay, Jean Chauvel, qui passait le plus clair de son activité publique à exalter le Plan Marshall et ses glorieuses perspectives si favorables à une France "leader" de la future Europe unifiée, constata tristement en janvier 1948, "devant l'ambassadeur américain à Paris Jefferson Caffery [, que] le Gouvernement français [était] traité [par Washington] exactement comme le Gouvernement soviétique", c'est à dire en quantité négligeable.

gfp.com: Comment qualifieriez-vous les conditions dans lesquelles a commencé la croissance politique de l'Allemagne de l'Ouest après 1957 ? Est-ce qu'en 1957 on a jeté les fondations pour le rôle hégémonique qu'exerce l'Allemagne en Europe actuellement?

Lacroix-Riz: Ce que je vous ai dit plus haut suggère que les choses étaient en 1957 jouées depuis plus d'une décennie. L'exigence américaine de la simultanéité du retour à la puissance industrielle de l'Allemagne et de la proclamation de son droit à réarmement au sein du Pacte atlantique (contre le "péril rouge" allégué) retarda quelque peu les choses: en lançant à l'automne 1950 la Communauté européenne de Défense, destinée à différer l'entrée officielle de la République fédérale d'Allemagne dans l'OTAN, la France pratiqua cette tactique de retardement qu'elle avait érigée en "politique allemande". André François-Poncet, l'homme du Comité des Forges d'avant, pendant et après-guerre, avait symbolisé l'adaptation française à la double tutelle des États-Unis et de l'Allemagne - après avoir consenti à la tutelle unique du Reich entre 1930 et la Deuxième Guerre mondiale. Il fit en 1953 mine de croire que l'hégémonie allemande sur le bloc européen ouvert aux États-Unis n'était qu'un risque futur: "Le jour où l'industrie française serait condamnée à la stagnation et ne pourrait plus faire contrepoids à la Ruhr, l'équilibre de forces sur quoi repose en définitive la Communauté se trouverait rompu. Luxembourg [siège de la CECA] cesserait, à plus ou moins lointaine échéance d'être la capitale européenne du charbon et de l'acier sous direction française. C'est à Düsseldorf que, de toute l'Europe occidentale, les dirigeants de l'industrie lourde se verraient contraints de venir se présenter aux ordres."

On avait alors résolument dépassé le stade du risque. L'éclatante victoire américaine de 1945 avait permis à l'Allemagne occidentale de gommer les conséquences de sa défaite.


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Success Story 

2007/03/22

BERLIN/PARIS (Own report) - A "Berlin Declaration" will give the EU summit on Sunday (March 25) the "initial spark" for the ratification of a slightly modified EU Constitution. As confirmed by the chairman of the relevant working group of the conservative CDU/CSU parliamentary (Bundestag) group, Michael Stuebgen, the declaration negotiated secretly, will, for tactical reasons, not mention the word "constitution," but will contain its "political substance." The German chancellor reserves for herself the final formulation of the document. The "Berlin Declaration" is supposed to be the crowning moment of the festivities on the weekend celebrating the 50th anniversary of the Treaties of Rome. The festive event is to celebrate the "unprecedented success story" (Foreign Ministry), in the course of which Germany, with the help of the Washington, successfully nullified conceptions of Europe held by the French resistance to the Nazis. "France's Germany policy died, when the German-American post-war alliance began" - in the summer of 1945, judges the French historian, Prof. Annie Lacroix-Riz in a discussion with german-foreign-policy.com. In the conflict around the EU constitution, France again relents. Both of the principal contenders in the French presidential race plan to have the draft treaty ratified, in spite of the May 2005 referendum defeat.

Final Touches

The German government made known already a week ago, that in spite of hefty objections on the part of several member states, the focus of the "Berlin Declaration" will be "future oriented." This refers to Berlin's insistence upon the ratification of the EU Draft Constitution. The CDU parliamentarian, Michael Stuebgen explained that , to avoid "unnecessary complications," the term "constitution" will not appear in the declaration.[1] To the populations of several EU nations, using the term "constitution," evoking the draft constitution that had been voted down in popular referendums or shown to be unpopular in opinion polls, would be a direct provocation. As far as Stuebgen is concerned, "essential" for the "Berlin Declaration" is not the term "constitution" but the "contents, the political substance, to which we adhere." The EU policy maker maintains that it was necessary to establish the document through secret negotiations and not permit a democratic debate. Otherwise the risk was of long-winded negotiations ("lasting months, at best") ending in a less than esthetic result ("an unreadable compendium"). The final formulations of the EU declaration are reserved for the German Chancellor, said Stuebgen. "Angela Merkel will apply the final touches."

Isolation

Stuebgen also confirmed that Berlin is setting the guidelines for the EU constitution. The wording, according to him, should be "very close to the current text."[2] At the beginning of the week, the President of the EU Commission, José Manuel Barroso, made known in the German press that he wants to allow "this or that correction" for the sake of "negotiation leeway."[3] But then all of the member states must "do everything within their power, to avoid another setback." Berlin refuses to make any serious concessions on content, particularly in regards to Poland, who is still resisting the planned strengthening of the German proportion of ballots within EU bodies.[4] Warsaw's objections have to be dealt with through "psychology," according to the CDU politician, Stuebgen.[5] Last weekend Chancellor Merkel succeeded in urging the Polish government to approve the "Berlin Declaration." In the German capital, one hears from reliable sources that Poland cannot afford to be isolated in the EU.

Investment Focus

The "Berlin Declaration," and with it, the "initial spark" for the final ratification of the slightly modified EU constitution, is a step further in the European unification process, that was - rightfully - apostrophized by the Foreign Ministry as an "unprecedented success story."[6] "The USA's commanding victory in 1945," explains the French historian, Annie Lacroix-Riz (professor at the Université Paris VII) in a discussion with german-foreign-policy.com, "made it possible for Germany to rid itself of the consequences of its defeat."[7] As Ms. Lacroix-Riz has proven in several publications, in the aftermath of the Second World War, the United States attributed a greater importance to "the economic resurrection of Germany than to that of France," because in Europe, it was the German Reich that, since the 1920s, had been "the most important recipient of US-American capital."[8] "In truth, before the end of the Second World War, the entire West European leadership knew" says Annie Lacroix-Riz, "what the non-German elites kept secret from their own populations:" The so-called European unification "would take place under the leadership of the former German Reich that, under the aegis of the United States, will have regained its 1937 (or even post 1937) borders."[9]

Fiasco

The German "success story" corresponds to the comprehensive fiasco for France's post-war Germany policy. Paris had already come to the conclusion, in the summer of 1945, that, in the struggle for influence in determining the restructuring of Western Europe, it was hopelessly outgunned by the United States (and indirectly also post-war Germany). In January 1946, Charles de Gaulle resigned as Prime Minister of France, because "he did not want to accept responsibility for France's depreciation into total impotence in occupied Germany," recalls Ms. Lacroix-Riz.[10] Paris was left solely with the option of resisting, as much as possible,"the Reich's achieving equal rights and power (including military)." The project of the so-called integration began, under pressure of the USA, which sought to create a unified European market for its expanding economy, with Germany as the economic nucleus and military frontline state against the Warsaw Treaty Organization.

Barter Currency

Paris sees itself induced, also in the current dissention concerning the EU constitution, to submit to the German plans. The two principal presidential candidates announced that they will ratify the treaty in a slightly modified form, despite the May 2005 referendum defeat. Nicolas Sarkozy alleges that in France "no one contested" the planned restructuring of EU institutions and therefore the treaty could be ratified by the parliament. Ségolène Royal says she is prepared for a new referendum. Her comrade in arms, the well-known former minister and former critic of German hegemonic efforts, Jean-Pierre Chevènement, declared that a few promises on the social level will be the necessary concessions. He also demands corrections in economic policy and in the statutes of the European Central Bank. For this, writes Chevènement, Paris' consent to the EU's restructuring, demanded by Berlin, would be the appropriate "barter currency."[11]


Please read our interview with Prof. Annie Lacroix-Riz in French or in German.

[1], [2] "Das macht Merkel selbst"; n-tv 20.03.2007
[3] So wenig Änderungen wie möglich". Kommissionspräsident Barroso drängt auf Ratifizierung der EU-Verfassung; Berliner Zeitung 19.03.2007
[5] "Das macht Merkel selbst"; n-tv 20.03.2007
[6] 50 Jahre Römische Verträge; www.eu2007.de
[8] Annie Lacroix-Riz: Frankreich und die europäische Integration. Das Gewicht der Beziehungen mit den Vereinigten Staaten und Deutschland 1920-1955, in: Thomas Sandkühler (Hg.): Europäische Integration. Deutsche Hegemonialpolitik gegenüber Westeuropa 1920-1960. Beiträge zur Geschichte des Nationalsozialismus Band 18, Göttingen 2002 (Wallstein Verlag)
[11] Sarkozy et l'Europe: une politique de Gribouille; www.chevenement.fr 19.03.2007