Quando Mattarella dara' un riconoscimento al martire goriziano Lojze Bratuž? Per aver diretto in chiesa canti sloveni gli venne fatto bere dai fascisti olio di macchina misto a benzina e frammenti di vetro. Mori' dopo lunga agonia a soli 36 anni.
Nella notte di Natale del 1936, a Podgora di Gorizia, i fascisti volevano impedire che la messa fosse cantata in sloveno. La sorveglianza della polizia permise che la messa si concludesse senza incidenti, ma all’uscita dalla chiesa una squadra di fascisti sequestrò l’organista Lojze Bratuž ed altri quattro coristi, che furono costretti a bere una considerevole quantità di olio di macchina al quale era stato aggiunto del benzolo. I coristi riuscirono a salvarsi ma Bratuž morì dopo sei settimane di terribile agonia. Le autorità obbligarono i medici a firmare un certificato di morte per polmonite e nel corso del processo, che si svolse a Gorizia nel novembre 1937, fu impedito alla vedova, Ljubomira (Ljubka) Šorli, di mostrare alla Corte il certificato di un medico di Padova che aveva visitato Bratuž e diagnosticato il grave avvelenamento. Il processo si concluse con due sole condanne a dieci mesi di arresto, gli altri imputati vennero assolti.
Dopo la morte del marito, Ljubka Šorli era tornata a vivere a Gorizia e viveva affittando camere a studenti: tra questi, nel 1943, c’erano due fratelli di Janko Premrl (il leggendario comandante Vojko, proclamato eroe nazionale) e Franc Mervič di Santa Lucia di Tolmino (Most na Soči). Nel 1976, quando iniziò a Trieste il processo per i crimini della Risiera, Ljubka Šorli inviò una propria testimonianza al presidente del Tribunale di Trieste, testimonianza che fu pubblicata in un articolo nel numero 6, anno 2001, del periodico sloveno “Rodoljub”, e che riassumiamo.
Il 1° aprile 1943 (un mese dopo che la madre e la sorella di Ljubka erano state arrestate ed internate nel campo di Fraschette di Alatri) alle due di notte, un camion di agenti dell’Ispettorato Speciale di PS circondò la casa e vi fece irruzione, probabilmente perché pensavano di trovare dei partigiani e forse lo stesso Janko Premrl, che però non aveva mai abitato lì.. I poliziotti perquisirono la casa e trovarono un sacco contenente armi che erano state lasciate da Mervič, presumibilmente per essere usate per un attentato alla ferrovia presso Trbiž, ma della cui presenza gli altri abitanti della casa erano del tutto ignari. Ljubka Šorli fu arrestata assieme alla domestica Cecilia Kovač e condotta a Trieste in via Bellosguardo (la sede dell’Ispettorato), mentre i suoi due bambini, Lojžka e Andrej, di 7 e 9 anni, rimasero nella casa con i poliziotti. Furono poi accolti da alcuni parenti.
Nella Villa Triste di via Bellosguardo Ljubka Šorli trovò due conoscenti che erano già state torturate, Silvia Bait e Dora Filli Ahametova (attivista del Fronte di Liberazione – Osvobodilna Fronta della zona di Tolmino). Poi fu il suo turno, fu picchiata e torturata per una settimana e nel corso della detenzione vide che i prigionieri venivano torturati gli uni davanti agli altri per terrorizzarli e quando venne portata nelle soffitte, le trovò piene di partigiani ridotti in fin di vita dalle torture e dei quali non seppe mai chi fosse sopravvissuto.
Il commissario Gaetano Collotti voleva farle confessare cose che non sapeva: dove fosse Janko Premrl, chi avesse portato le armi ed a cosa fossero destinate. Visto che la donna non parlava, dopo una settimana di torture fisiche Collotti tentò con la tortura psicologica: telefonò a Gorizia per farsi mandare a Trieste i due bambini per torturarli davanti alla madre per farla parlare.
Fortunatamente la cosa non gli riuscì, perché il piccolo Andrej era malato e non poteva essere trasportato. Di conseguenza Collotti si accanì ancora di più contro Ljubka, e la picchiò selvaggiamente, al punto da romperle sette costole.
Dopo tre settimane di detenzione e torture in Villa Triste, Ljubka Šorli fu portata al carcere dei Gesuiti, dove trovò la sorella Marica, che era stata riportata a Trieste dal campo di Alatri.
Successivamente le due donne furono internate: Ljubka nel campo di Zdravščina (Poggio Terza Armata) e Marica in quello di Kostanjevica, dove rimasero fino all’8 settembre, quando i campi furono svuotati.
FOTO: http://www.storiastoriepn.it/wp-content/uploads/2019/02/Segretario-Provinciale-della-Democrazia-Cristiana-Pupo-Raoul.png ]
Trasmissione nella quale appaiono solo sullo sfondo – Pupo è ambiguo e strumentale, ma non stupido, ed è antifascista – i crimini del nazionalismo italiano, ivi incluse en passant due guerre mondiali, vent’anni di snazionalizzazione fascista e la sanguinosa occupazione della Jugoslavia nel 1941-1945 (1945! non 1943: tanto è vero che tra le “vittime” delle “foibe” si commemorano anche i soldati e poliziotti italiani che hanno continuato a reprimere la Resistenza jugoslava sotto Salò e l’occupazione nazista, manco stessero lì per caso).
Trasmissione dove i due protagonisti fanno confusione mischiando le ondate di profughi istriano-dalmati (ovviamente “costretti”, come non ci fosse stata la terrorizzante propaganda nazifascista e poi la tranquillizzante propaganda democristiana; tanto che, a fianco di chi è fuggito terrorizzato od invogliato dalle promesse, non è inconsueto trovarsi di fronte a profughi che affermano con orgoglio di “aver scelto” l’Italia) con vicende altre e diverse, come quella del “controesodo” comunista di migliaia di operai monfalconesi, e di tanti altri operai italiani andati – clandestinamente – in Jugoslavia a lavorare in anni di fame in Italia.
Per cui si arriva a due paradossi: di far apparire come vittime dell’esodo persone che erano andate in Jugoslavia per scelta politica, e che poi furono coinvolte nello scisma comunista di Tito da Stalin. E di far apparire come uno dei peggiori campi di concentramento del Novecento l’isola di Goli Otok, manco fosse un campo di sterminio. Dimenticando però di dire che in quel campo di concentramento (orrendo come tutti i campi di concentramento) ci stavano i sostenitori dell’Unione Sovietica di Stalin, e che chi li opprimeva era un comunismo autonomo, alleato degli occidentali della Nato. Come se, dal punto di vista occidentale, potessero aver ragione – al di là della compassione umana – quegli operai stalinisti che, se avessero prevalso, avrebbero esteso anche alla Jugoslavia le sanguinose repressioni sovietiche. Piccoli particolari, obviouly…
Confusione deliberata, tanto che, quando uno dei giovani “secchioni” chiamati a fare da corifei alla trasmissione (lui, pure erede di profughi) si è azzardato a dire una cosa controcorrente – ovverossia che la vicenda delle foibe è stata strumentalizzata politicamente fin dalle origini, cioè dai nazisti in Istria nel 1943 in funzione antipartigiana – è stato immediatamente zittito da Mieli.
Ma, in cauda venenum, il massimo è stato tirare per i capelli nella trasmissione il leader comunista triestino Vittorio Vidali, senza neanche precisare che lui fu il dirigente politico che sfidò i comunisti jugoslavi nel porto giuliano nel 1948, emarginandoli e fissando un punto fermo nel destino di italianità della città. Con un’aggiunta nelle conclusioni da parte di Paolo Mieli: ovverossia che Vidali sarebbe stato il “grande vecchio” delle Brigate Rosse. Affermazione che, come altre del giornalista – uso ad infamare gratuitamente: vedasi il caso di un anarchico divenuto collaboratore di Vidali: Ezio Taddei – è basata su informazioni non documentate. Mentre recentemente è stato documentato che semmai, proprio nell’ambito delle politiche occidentali di contenimento del blocco orientale, Vidali lavorò per i servizi segreti britannici.
E questa sarebbe l’informazione pubblica…
Non c’è da stupirsi se poi, in calce all’articolo di uno storico, pure lui esule istriano, ci troviamo commenti che confondono l’approfondimento storico con il negazionismo, mischiati a cifre buttate lì senza verificare, e l’affermazione, tanto per legittimarsi, che chi commenta è pure del Pd! Come se un’excusatio non petita possa mascherare l’analfabetismo.
Gian Luigi Bettoli
Post scriptum: Il titolo, lo confesso, non è originale: rinvia senza ombra di dubbio al titolo di un mitico libro di Giulietto Chiesa e Vauro. Testo satirico dedicato ad un pugno di ex esponenti del Pci e della sinistra extraparlamentare, passati tranquillamente nelle file del centro e della destra italiani, a partire dagli anni in cui il Psi craxiano rompeva gli ormeggi, abbandonando quasi ogni rapporto con la tradizione della sinistra. Tra i biografati e quelli elencati come loro simili, non figura, chissà perché, il Mieli.
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https://www.facebook.com/notes/la-nuova-alabarda/chi-torturava-ed-infoibava-ai-tempi-delladriatisches-küstenland/864712993699268/?__tn__=C-R
Chi torturava ed infoibava ai tempi dell’Adriatisches Küstenland
La Nuova Alabarda, domenica 10 Febbraio 2019
Una nota del SAP, il sindacato di PS noto anche perché alcuni suoi dirigenti sono stati condannati per avere ripetutamente insultato ed offeso la famiglia di Stefano Cucchi, stigmatizza, in occasione del Giorno del Ricordo che «le recenti iniziative intraprese in alcune parti d’Italia da “associazioni negazioniste” di una pagina così tragica e buia della nostra storia, offendono la memoria di queste vittime innocenti, tra queste anche Poliziotti, Carabinieri e Finanzieri, che pagarono con la vita, il solo fatto di rappresentare i valori dell’Italia indossando una divisa a servizio degli italiani».
Nel periodo fascista i poliziotti ed i carabinieri si distinsero per la brutalità dei mezzi di repressione usati contro gli antifascisti, in tutta Italia, e nella Venezia Giulia non furono da meno; sotto l’occupazione nazista, quando il corpo dei Carabinieri venne sciolto (e quindi alla fine della guerra nessun “carabiniere”, a meno che fosse passato sotto altre formazioni collaborazioniste, fu “infoibato”) e la PS passò direttamente sotto gli ordini di Hitler, come tutte le forze armate dell’Adriatisches Kustenland annesso al Reich, le repressioni violente, con “orribili persecuzioni, torture ed infoibamenti” furono messe in atto proprio da corpi collaborazionisti come l’Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia, comandato dal vicecommissario Gaetano Collotti.
Leggiamo ora alcune testimonianze.
«Collotti (…) odiava con ferocia i partigiani italiani e slavi, ma per gli slavi nutriva un odio particolare. Infatti mentre sottoponeva gli italiani ad una serie di torture che andavano dalle busse alla (…) introduzione di decine di litri di acqua calda ed allo schiacciamento delle dita, per gli sloveni riservava dei tormenti inenarrabili (…) che costituiscono il tragico ricordo di uomini e donne della nostra città che sono passati dalle celle di Villa Triste alle camere di tortura e da qui ai campi di concentramento… »[1].
«Siccome le sevizie nei confronti dei Prodan [2] continuavano, la suocera disse al Collotti di avere pietà, al che egli rispose: “Vi distruggerò tutti, maledetta razza s’ciava!”»[3].
«Il teste [4] (…) specifica che il più accanito era il Miano che soleva dire alle sue vittime: “Ricordatevi di Miano che non lo dimenticherete mai più” tanto che le vittime ritenevano si trattasse di uno pseudonimo, sembrando impossibile che l’aguzzino desse il suo vero nome»[5].
«Il dottor Toncic racconta (…) che il Mazzuccato violentò diverse donne, fra cui alcune minorenni, per quanto fosse notoriamente affetto da sifilide»[6].
Un giorno che si era recato presso l’Ispettorato Speciale, Diego de Henriquez sentì le urla, sempre più forti di una donna; gli dissero che la stavano interrogando e lo invitarono ad uscire. De Henriquez fece in tempo a vedere un pesante scudiscio ed a udire una frase: “Se non parli ti spacco la testa”. Lo studioso annotò che tali metodi erano ben noti in città[7].
«L’apparecchio di tortura elettrico è stato portato nella sede dell’Ispettorato da Collotti al quale venne regalato dalle SS secondo quanto sentivo dire dagli agenti. L’apparecchio elettrico stava nella stanza di Collotti ma qualche volta ho sentito dire che passava nell’ufficio di Perris (…)»[8].
L’ispettore De Giorgi della Polizia Scientifica firmò in data 18/1/46 una «perizia sui metodi di tortura dell’Ispettorato Speciale». Tale perizia, richiesta dal Procuratore Generale Colonna per conto della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste [9] descrive, tra le altre cose, i metodi di tortura della “cassetta” e della “sedia elettrica”. Leggiamone le descrizioni: «stando alle deposizioni testimoniali, allorquando la vittima non confessava (nonostante il dolore provocato dalla distensione forzata di tutto il corpo mediante trazione delle corde fissate agli arti e fatte scorrere negli anelli infissi al pavimento, che spesso provocavano la lussazione delle spalle), era costretta a subire l’introduzione nell’esofago del tubo dell’acqua, che le veniva fatta ingoiare fino a riempimento totale dello stomaco; indi per azione di compressione esercitata da un segugio sul torace, le veniva fatta rigurgitare a mo’ di fontana, che, stante la posizione supina, spesso doveva minacciare di soffocamento la vittima stessa; ed allorquando entrambe le azioni combinate non bastavano a farli confessare, gli interrogati vi venivano costretti, mediante l’azione termica di un fornello elettrico collocato sotto la pianta dei piedi denudati (…) la sedia elettrica consisteva in una sedia-poltrona, a spalliera alta, con leggera imbottitura in cuoio, a bracciuoli, su cui venivano legati gli avambracci della vittima ad uno dei quali veniva fissato un bracciale metallico unito al polo negativo di un apparecchio conduttore elettrico regolabile, a reostato. Al polo positivo era collegato una specie di pennello con manico isolato, e frangia metallica che serviva per chiudere il circuito su qualsiasi parte non isolata del corpo della vittima il quale veniva così attraversato dagli impulsi della frequenza della corrente elettrica. Questo metodo, apparentemente molto impressionante, non poteva produrre lesioni organiche o conseguenze dannose sul corpo umano. Tuttavia è noto che anche volgarissimi pregiudicati rotti a tutte le astuzie e raffinatezze per sfuggire agli interrogatori, si abbandonarono ad esaurientissime confessioni, che trovarono conferma nei fatti, alla sola visione dell’apparato, senza essere stati sottoposti alla sua azione ».
Probabilmente lo stesso estensore del rapporto si sarebbe “abbandonato ad esaurientissime confessioni” se messo nella prospettiva di dover subire la tortura della “sedia elettrica”. D’altra parte è per noi una novità che un corpo umano sottoposto a continue e potenti scariche elettriche non subisca alcuna conseguenza da questo trattamento: basterebbe chiedere a qualcuno che è stato torturato in questo modo, come Jordan Zahar, ad esempio.
L’ispettore De Giorgi dichiarò inoltre in una intervista: «Trovammo anche altri cadaveri, che la banda Collotti buttava in cespugli e anfratti dopo le torture, girando la notte con un furgoncino che aveva sequestrato alla ditta Zimolo». E tra gli “anfratti” (cioè le “foibe”) un teste ha indicato anche il pozzo della miniera di Basovizza: «Nell’estate del ‘44 pascolavamo il bestiame nei pressi del pozzo della miniera di Basovizza ed abbiamo visto più volte venire su due appartenenti alla Guardia Civica (riconosciuti per le loro buffe uniformi di colore blu e verde) che portavano con sé dei civili che, uno alla volta, gettavano dentro il pozzo. Abbiamo notato che spingevano giù sia maschi che femmine. Li vedemmo arrivare un giorno con un furgone della ditta Zimolo»[10].
Giuseppina Rovan, che fu anch’essa picchiata e torturata con la “cassetta”, denunciò fra i torturatori il brigadiere Fera e l’agente Mercadanti. Venne condotta ai Gesuiti «in condizioni disastrose di salute (…) sono stata visitata dal medico militare delle carceri (…) al quale ho narrato le torture subite perché perdevo sangue in gran copia dai genitali (…) era dipeso dal fatto che quando sono stata percossa nell’ufficio di Collotti, questi, mentre ero a terra abbattuta e nuda, è montato col peso della persona sul mio ventre (…) il medico ha detto che non poteva fare niente contro gli agenti di via Bellosguardo (…) ai primi di giugno durante la mia detenzione ai Gesuiti una donna proveniente da via Bellosguardo, in seguito a sevizie è stata trasportata all’Ospedale con la CRI, dove, secondo quanto si è narrato in carcere fra noi, è deceduta. Durante tale epoca è morto anche un uomo ai Gesuiti, sempre in seguito alle torture subite in via Bellosguardo (…)»[11].
Rosa Kandus testimoniò al processo contro il “collottiano” Lucio Ribaudo, che «portava i baffetti alla Hitler» e che tra i metodi di tortura pare privilegiasse quello del tubo di gomma, oltre alle sevizie sessuali sulle donne.
«La donna istriana è stata identificata per Angeluccia Paoletti (1893) (…) in data 18/8/44 ore 20.45 giungeva morta alla locale astanteria Ospedale Maggiore (…) in seguito a commozione cerebrale, frattura del braccio destro, frattura del femore sinistro, ferita lacero-contusa al ginocchio destro, gomito sinistro, probabili lesioni interne. La Paoletti era accompagnata dal commissario di polizia Tedeschi dell’ex Ispettorato di Polizia il quale dichiarava all’agente di polizia colà in servizio che detta donna poco prima si era gettata a scopo suicida da una finestra sita al primo piano del palazzo ove aveva sede l’Ispettorato stesso»[12].
Maria Merlach, incarcerata ai Gesuiti, «raccontò a tutte le detenute della cella n. 40 le sevizie che aveva subito (…) aveva il viso stravolto ed era talmente terrorizzata che ad ogni piccolo rumore sussultava». Era stata torturata con la “macchina elettrica” e disse che «preferiva darsi la morte anziché avere a che fare con quella gente. Il giorno in cui vennero gli agenti per prenderla di nuovo e condurla all’Ispettorato, la Merlach in preda ad una convulsione nervosa, si mise a piangere fortemente e diceva povera me, pregate perché io muoio»[13].
«Risulta che Maria Merlach nata a Trieste nel 1911 ebbe a suicidarsi il gennaio 1945 gettandosi in strada dagli uffici della polizia di via Cologna in Trieste, nei quali era stata accompagnata onde essere interrogata quale sospetta di appartenenza alle file partigiane e per sfuggire agli interrogatori stessi»[14].
Umberta Giacomini (nata Francescani), quando fu arrestata il 9/3/44, era incinta di quattro mesi. Il 15 marzo venne “interrogata” da Collotti, che la picchiò selvaggiamente assieme agli agenti Brugnerotto, Sica e Mignacca. A causa di questo abortì ed ebbe una forte emorragia, perciò fu trasportata all’ospedale. Successivamente Mignacca e Ribaudo vennero per riportarla all’Ispettorato, ma date le sue condizioni fisiche (non riusciva neanche a tenersi in piedi), come testimoniò lei stessa «soprassedettero dal tradurmi dal Collotti ed il Ribaudo mi disse pensate che abbiamo avuto pietà di voi perché eravate madre…»[15].
«In seguito venni inviata alle carceri dei Gesuiti, poi al Coroneo ed infine ad Auschwitz e mio marito in quello di Dachau, dove rimanemmo 18 mesi (…) Ritornammo dai campi di concentramento ammalati. Mio marito non si ristabilì più e tuttora è invalido»[16].
Marija Fontanot, nata nel 1928, fu arrestata da agenti dell’Ispettorato nella sua abitazione di via Cellini 2, perché «figlia di Bernobic Giuseppe, partigiano». Assieme a loro fu arrestata anche la sublocatrice del loro appartamento, Giuseppina Krismann. Furono portati in via Bellosguardo, dove rimasero per 8 giorni. Marija Fontanot fu ripetutamente violentata in presenza del padre. Le due donne furono poi condotte in carcere ed in seguito deportate ad Auschwitz, da dove furono liberate con l’arrivo dell’Armata Rossa. Quanto a Giuseppe Bernobic, una certa Danila, che era detenuta in via Bellosguardo, disse a Marjia che il padre era stato ucciso in Risiera[17].
Ci ha colpito il testo del comunicato del SAP, perché attribuisce ai partigiani esattamente gli stessi comportamenti criminosi dei poliziotti collaborazionisti nel corso della repressione degli antifascisti, agli ordini dell’occupatore germanico.
Ma siamo francamente stufi di tutte queste menzogne e mistificazioni diffuse sulla stampa e sui social, ancora più gravi se fatte da chi dovrebbe essere al servizio della democrazia e non della memoria nostalgica di chi ha tuttora un debole per certe idee e metodi dei tempi bui del secolo scorso.
Claudia Cernigoi, 10 febbraio 2019
[1] Il Lavoratore, 29/11/59.
[2] Nerina Prodan ed il fratello Pietro.
[3] Corriere di Trieste, 3/2/47, resoconto del processo Gueli.
[4] Il dottor Bruno Pincherle nel corso del processo Gueli.
[5] Corriere di Trieste” 3/2/47, resoconto del processo Gueli.
[6] Corriere di Trieste, 4/2/47, resoconto del processo Gueli.
[7] Diario n. 15, p. 2.438, conservato presso i Civici Musei di Trieste, nota raccolta da Vincenzo Cerceo.
[8] Testimonianza di Giuseppe Giacomini nel “Carteggio processuale Gueli” (archivio IRSMLT n. 914).
[9] Copia di tale perizia è conservata presso l’archivio IRSMLT, doc. 913, corredata dagli schizzi che illustrano i metodi di tortura.
[10] Sul Piccolo” del 3/11/99, dichiarazioni citate in una lettera scritta da Primož Sancin. Che Collotti usasse i carri della ditta di pompe funebri Zimolo è confermato dalla testimonianza della prof. Niny Rocco del CLN triestino (archivio IRSMLT n. 874). Quanto alle divise da Guardia civica, va detto che molti membri della Guardia civica erano stati inquadrati dell’Ispettorato Speciale.
[11] “Carteggio processuale Gueli”, cit.
[12] “Carteggio processuale Gueli”, cit.
[13] Testimonianza di Ada Benvenuti datata 6/2/45, in “Carteggio processuale Gueli”, cit..
[14] Attestazione del Procuratore Generale del 14/11/45, in “Carteggio processuale Gueli”, cit.
[15] Testimonianza di Umberta Francescani Giacomini, moglie di Guido Giacomini, in “Carteggio processuale Gueli”, cit.
[16] Il Lavoratore, 29/11/54.
[17] Testimonianza di Marija Fontanot Crevatin, archivio IRSMLT 917bis.
La foto (Archivio IRSMLT 912) [https://i2.wp.com/images.bora.la/wp-content/uploads/2013/03/La-Banda-Collotti.jpg] raffigura la squadra volante dell’Ispettorato Speciale, comandata da Collotti, prima di un rastrellamento a Boršt nel gennaio 1945. Questi i nomi degli agenti identificati: 1: Iadecola Antonio, autista; 2: “Seliska”, fiduciario di Collotti (Rado Seliskar); 3: altro fiduciario di Collotti, “Pap”, triestino (forse Mauro Padovan); 4: un ufficiale delle SS non identificato; 5: Collotti; 6: Andrian Dario, vicecommissario ausiliario, triestino; 7: altro fiduciario di Collotti, triestino, del quale Giacomini non ricorda il nome ma che negli appunti di Galliano Fogar viene indicato come Gustavo Giovannini; 8: Paccosi Bruno, guardia; 9: Simonich Mirko, ausiliario; 10: Greco Matteo, guardia; 11: Romano Gaetano, guardia; 12: “Guardia Alessandro” (dovrebbe trattarsi di Alessandro Nicola); 13: Giuffrida Salvatore
Dai vari documenti da noi consultati ci risultano scomparsi durante l’amministrazione jugoslava i seguenti 67 agenti (anche ausiliari) dell’Ispettorato Speciale di PS (su un totale di 140 poliziotti scomparsi. Li elenchiamo di seguito, con l’annotazione di ciò che abbiamo saputo di loro.
Andrian Dario (n. 6 nella foto [ https://i2.wp.com/images.bora.la/wp-content/uploads/2013/03/La-Banda-Collotti.jpg ]) arrestato 2/5/45; Aurino Avelardo, arrestato 2/5/45 [1]; Barezza Salvatore, cuoco presso l’Ispettorato, arrestato 1/5/45; Bilato Massimo, arrestato 1/5/45; Binetti Corrado, come PS risulta in servizio a Lubiana ed ucciso dai partigiani il 14/1/45, come Guardia civica risulta arrestato il 24/5/45 a Trieste e fatto uscire dal carcere di Lubiana il 6/1/46 [2]; Boato Argante, arrestato 4/5/45; Bottiglieri Domenico, anche membro del Sicherheit Dienst, arrestato 1/5/45; Braccini Augusto, arrestato 21/5/45; Bruneo Antonio, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana 6/1/46; Burzachechi Giovanni, già CC, poi anche SS, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 6/1/46; Camminiti Santo, riesumato dall’abisso Plutone (data morte presunta 23/5/45); Carbonini Antonio, arrestato e fatto uscire dal carcere di Lubiana il 6/1/46; Castagna Antonio, squadrista “squadra manganellatori” [3], arrestato 31/5/45; Cattai Mario, arrestato 1/5/45; Cattani Roberto, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana 6/1/46; Cipolli Aldo, anche membro del SI.DI., arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 30/12/45; Conte Mario, , fatto uscire dal carcere di Lubiana il 30/12/45; De Simone Mario, arrestato 1/5/45; Del Papa Filippo, anche agente di custodia, a Gorizia risulta scomparso (d.m.p.) nel gennaio 1945, mentre a Trieste risulta riesumato dall’abisso Plutone (d.m.p. 23/5/45); Della Favera Ferruccio, arrestato 1/5/45; Esposito Carmine, riesumato dalla Grotta del Cane di Gropada; Fabaz Aurelio, arrestato 1/5/45; Fabian Mario, infoibato nel Pozzo della Miniera di Basovizza (4/5/45); Fidanza Giordano, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 23/12/45; Fregnan Emilio, arrestato 2/5/45; Gatta Vittorio, squadrista sciarpa littoria, membro del Direttivo del Fascio, rastrellatore, risulta infoibato presso Basovizza; Geraci Giovanni, già comandante della tenenza dei Carabinieri di Sesana, poi di quella di via Cologna, dopo lo scioglimento dell’Arma entrò nell’Ispettorato, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 30/12/45; Giuffrida Francesco, “uno dei più temuti torturatori della banda Collotti” [4], arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 30/12/45; Greco Matteo (n. 10 nella foto [ https://i2.wp.com/images.bora.la/wp-content/uploads/2013/03/La-Banda-Collotti.jpg ]), riesumato dall’abisso Plutone (d.m.p. 23/5/45); Grieco Pasquale, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 6/1/46; Ingravalle Mauro, risulta anche milite dell’MDT, BN, arrestato il 30/4/45 nella caserma di via Rossetti [5], condotto a Villa Decani e disperso; Krisa (o Crisa) Ottocaro, squadrista, informatore dell’Ispettorato ed interprete della SS, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 23/12/45; Leban Vittorio, arrestato 1/5/45; Luciani Bruno (secondo il Pubblico accusatore di Ajdovščina responsabile degli arresti Wilma Varich, torturata e poi deportata in Germania e di Kavčič Bruno, fucilato dalle SS, Kavčič Antonia e Kavčič Josip, internati in Germania, dei quali Josip non rientrato [6]), arrestato il 21/5/45; Mignacca Alessio, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 30/12/45; Milano Gaetano, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 6/1/46; Minetti Giuseppe, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 6/1/46; Nelli Lanciotto, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 23/12/45; Nicoletti Cesidio, arrestato 2/5/45; Nussak Silvano, arrestato 1/5/45 (secondo il Pubblico accusatore di Ajdovščina responsabile degli arresti di Kavčič Bruno, fucilato dalle SS, Kavčič Antonia e Kavčič Josip, internati in Germania, dei quali Josip non rientrato [7]), Padovan Mauro (forse il n. 3 nella foto [ https://i2.wp.com/images.bora.la/wp-content/uploads/2013/03/La-Banda-Collotti.jpg ]), delatore infiltrato nel movimento di liberazione, scomparso non si sa se a Monfalcone o a Trieste; Pastore Paolo, arrestato 2/5/45, internato a Prestranek e disperso; Pasutto Giovanni, anche informatore della SS, arrestato 6/5/45, morto in carcere a Lubiana 30/8/45; Piani Mario, arrestato 1/5/45 [8]; Piccinini Pietro, riesumato dall’abisso Plutone (d.m.p. 23/5/45); Picozza Antonio, riesumato dall’abisso Plutone (d.m.p. 23/5/45); Pisciotta Salvatore, arrestato 1/5/45; Pisetta Luigi, arrestato 5/5/45; Polidoro Edmondo, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 6/1/46 [9]; Raelli Pietro, morto in carcere a Lubiana; Runce Giuseppe, arrestato 1/5/45; Sabbatini Bruno, squadrista, saccheggiatore di negozi ebraici, anche BN, rastrellatore, arrestato 6/5/45, fucilato ad Ospo; Sangiorgi Leopoldo, arrestato 2/5/45; Santini Bruno, arrestato 1/5/45; Santini Mario, arrestato 1/5/45, disperso a Hrpelje; Scimone Francesco, arrestato 1/5/45; Scionti Giuseppe, arrestato 1/5/45; Sciscioli Gasparo, riesumato dall’abisso Plutone (d.m.p. 23/5/45); Selvaggi Raimondo, riesumato dall’abisso Plutone (d.m.p. 23/5/45); Sfregola Cosimo Damiano, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 6/1/46; Soranzio Ferruccio, detto Crock, infiltrato nei gruppi partigiani, arrestato nel maggio 1945, secondo gli elenchi di Ferenc “fatto uscire”, ma ancora detenuto nella primavera del 1947, come visto precedentemente; Spinella Giovanni, riesumato dall’abisso Plutone (d.m.p. 23/5/45); Stolfa Ezechiele, arrestato 2/5/45; Suppani Mario, uno dei responsabili degli arresti del CLN di febbraio 1945, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 23/12/45; Terranino Pietro, arrestato 3/5/45; Tomicich Giorgio, già sottotenente Esercito Repubblicano, arrestato 1/5/45; Vescera Vincenzo, arrestato 2/5/45; Zarotti Adriano, arrestato 1/5/45, riesumato dalla foiba di Gropada Orlek (d.m.p. 12/5/45); Zian Gustavo, arrestato, fatto uscire dal carcere di Lubiana il 23/12/45 [10].
[1] Il 10/12/45 si svolse a Trieste, presso la Corte d’Assise Straordinaria, un processo a carico di Migliorini Renzo, Siderini Giuseppe, Buttinaz Giordano, Monacelli Salvatore ed Aurino Avelardo (quest’ultimo contumace) imputati di avere, nel gennaio 1945, «in correità tra loro e Fregnan Fulvio >, tentato di oltrepassare la linea del confine occidentale tedesco per entrare nell’Italia liberata ed organizzare «una resistenza nazifascista >.
[2] La dicitura “forse fucilato a Lubiana” deriva dalla ricerca di Ferenc, “Kdaj so bili usmrčeni”, pubblicata nel “Primorski Dnevnik” del 7/8/90 .
[3] Nota in AS zks 1584 ae 459.
[4] Nota in AS zks 1584 ae 459.
[5] Nella caserma di via Rossetti era di stanza un gruppo della Guardia civica.
[6] SI AS 1827 fascicolo 34.
[7] SI AS 1827 fascicolo 34.
[8] Altra fonte lo dà come ucciso a Carbonera (TV) con Collotti.
[9] In una nota dell’Ufficio del Pubblico Accusatore leggiamo che nel 1946 Polidoro risultava in servizio presso la Questura di Venezia (nota in AS zks 1584 ae 459).
[10] Nelle citate note del Pubblico accusatore di Ajdovščina troviamo un fascicolo a nome di Ziani Guido, “segretario fascista di Trieste”, responsabile degli arresti di Josip e Ivan Pregarc di Ricmanje. SI AS 1827, fascicolo 34.
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Foibe e internati: è necessario ristabilire la verità storica
di Livio Braida
su Il Messaggero Veneto del 7.2.2019, p.41
C'era una volta un caro zio, Bruno (deceduto nel 1998), militare della Finanza e combattente in Grecia e Istria durante la Seconda guerra mondiale. Raccontava, con l'ironia di chi ha visto l'impossibile, come alla calata dei titini a Trieste, l'1 maggio 1945, prestasse servizio alla caserma di campo Marzio. "Particolarmente tragica fu la sorte di 86 militari di cui 3 ufficiali, rastrellati nella caserma di campo Marzio e poi spariti nel nulla. Secondo alcune testimonianze tutti i finanzieri furono trucidati e gettati nelle foibe del Carso triestino"(http://www.gdf.gov.it). Così si legge nel sito ufficiale della Gdf sulla tragedia che accadde ai finanzieri in servizio.
L'ALTRA VERSIONE. Lo zio ne forniva una versione diversa: non "tutti" ma una parte furono "selezionati", per un destino ignoto. C'era anche lui, infatti, ed ebbe la "fortuna" di essere deportato in un campo di prigionia titino, non si sa se presso Aidussina, o addirittura Borvnica, più addentro in Slovenia. Su questo argomento preferiva sorvolare. Alcune cose sono certe: mio padre Albino, suo fratello, come ex-patriota garibaldino - reclutato a fine febbraio 1945 nel raggruppamento del Collio, inquadrato nella Brigata Garibaldi Natisone (come molti coetanei 18-20enni di San Giovanni al Natisone) - prese inutilmente contatto con autorità titine a Trieste, durante i 40 giorni, per perorare la causa del fratello. Inutilmente (la reputazione dei garibaldini non contava a sufficienza per i parenti). Ma la sua forte tempra salvò lo zio. Tornò a casa sui 35-40 chili, non si sa quando, credo entro la fine del 1945.A noi nipoti accennava ai prigionieri del suo campo: qualcuno moriva di fame, altri catturavano ratti. Non si soffermava più di tanto sulla prigionia. Poi, reintegrato nella Gdf della nuova Repubblica, dopo il 2 giugno 1946, percorse con il consueto spirito di servizio e patriottismo la sua carriera, conclusa a Cividale. In seguito fu a lungo segretario della associazione Combattenti di San Giovanni al Natisone.
CROCIATA ANTI-GARIBALDINA. Mio padre, ex-patriota garibaldino, subì la crociata democristiana anti-garibaldina in Friuli, che ha strumentalizzato Porzus in una logica manichea (bianco-verdi buoni, rossi cattivi), e fu addirittura tacciato di "spia titina". Qualcuno, una spia autentica filo fascista, aveva interesse a farlo fuori, per la sua militanza partigiana convinta, ma non idolatrica. Era partigiano in Italia, non oltre l'Isonzo. Comunque, per non sbagliare, gli venne stroncata la carriera di pilota aeronautico effettivo, decorato con l'argento al valor militare. Non fu reintegrato per filo-titoismo. Ma papà lasciò perdere, malgrado l'enorme menzogna e l'ingiustizia subita. Diceva: "Dei vermi si occuperà la Provvidenza...".
IL CLIMA DEL DOPOGUERRA. Accennato così ai due destini incrociati dei fratelli, la cosa che alla luce delle polemiche sulla "Giornata del ricordo", risulta incomprensibile come i fratelli, figure moralmente integerrime, non sembrassero assolutamente a conoscenza dei campi di prigionia per internati sloveni, per esempio, quelli a loro vicini, non più di 10 chilometri, come Gonars, Visco; o in Istria, nell'isola di Raab (Arbe). A mio avviso non potevano non sapere. Allora? Purtroppo non ci sono più, prima non ne hanno parlato: possiamo formulare delle ipotesi. A nostro avviso, il clima del dopoguerra non predisponeva nessuno dei due a farne menzione, per ragioni diverse. Primo: il Friuli, di destra o di sinistra, non tollerava il nazionalismo sloveno; nè poi conveniva parlarne allo zio, in quanto pubblico ufficiale della Gdf; né a papà che, da potenziale pilota militare e poi Alitalia, si era riciclato nelle Ferrovie dello Stato, dove fece di tutto, inutilmente, per apparire democristiano, visto il clima di persecuzione antigaribaldino costruito dalla "Osoppo" nel dopoguerra, insieme a tutta la propaganda nazionalista di frontiera.
LAVARSI LE MANI. Ecco perché appare quanto mai opportuno indagare su quei crimini fascisti con cui l'Italia di De Gasperi e di Togliatti (che fece l'amnistia ai criminali fascisti italiani) si lavò le mani, in nome dell'Atlantismo (piano Marshall, Nato). E, in nome della collaborazione politica economica con la Germania Ovest, si lavò le mani anche dai crimini nazisti (tranne Kappler - Fosse Ardeatine, poi lasciato libero nel 1977, fingendo una fuga; e Walter Reder - Marzabotto). E gli altri? Ufficiali dell'esercito italiano (Borghese della X Mas, Graziani, Roatta: "Si uccide troppo poco in Slovenia"), o criminali nazisti (Wolff capo delle SS, Dollmann, Eichmann, passato in Sud-America tramite l'Italia)? E quelli di Palmanova o di Torlano? È necessario ristabilire la verità storica sui crimini italiani fascisti da sempre taciuti. Perciò, siccome non la fanno parlare in Friuli, cercate le lezioni della storica Alessandra Kersevan su youtube. Per i docenti e gli storici, un punto di vista convincente, soffocato dalla retorica ufficiale.
=== 8 ===
Sulla pagina FB "Dieci Febbraio", Claudia Cernigoi l'11 luglio 2018 ha scritto:
Il nonno di Panizzut "scampato alla foiba" era Ermanno Mattioli,
e sul libro da lui pubblicato scrivemmo una recensione nel lontano 2006.. La riproponiamo, visto che il nipote persevera nel cercare di mettere il bavaglio a chi non la pensa come lui (ricordiamo che nel 2008 si schierò contro lo svolgimento del convegno “Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico” organizzato a Sesto San Giovanni, invitando a manifestare contro).
Claudia Cernigoi
Ermanno Mattioli: “ISTRIA ‘45-‘46-Diario di prigionia”, Edizioni della Laguna.
Nonostante l’indicazione di copertina, questo libro, proposto come il diario di Ermanno Mattioli, “deportato da Tito”, sarebbe in realtà opera del nipote di Mattioli, Massimiliano Panizzut, il quale, intervenendo nel forum sul sito della Lega Nazionale, ha così scritto: “finalmente sono riuscito a far stampare il diario di prigionia di mio nonno, il polesano Ermanno Mattioli. Italiano, fascista prigioniero dei partigiani yugoslavi (sic) di Tito, alla fine della seconda guerra mondiale”
Questo libro viene naturalmente spacciato come il “diario” (scritto però diversi anni dopo) di un “prigioniero dei titini”, deportato “sol perché italiano”. Invece, leggendo il testo, si comprende perchè Mattioli sia stato arrestato: è egli stesso ad affermare, ad un certo punto, di sperare che non conoscano (sottinteso i “titini”) tutto il suo curriculum, perché a Pola ha fatto la carriera completa nel fascio, escludendo solo la carica di “federale” (carica ricoperta da Bilucaglia, col quale Mattioli era comunque imparentato per parte della moglie).
Degno di nota quanto scrive il presentatore del libro, Gaetano Valenti (già sindaco di Gorizia): “mi ha molto colpito la data del suo arresto, 2 maggio, data che unisce in una lunga striscia rossa di sangue Gorizia e Pola per l’efferatezza delle deportazioni e uccisioni”. Affermazione molto melodrammatica ma non congrua: Mattioli infatti, leggiamo, non fu arrestato il 2 maggio, ma si presentò spontaneamente ai “titini” il 14 maggio 1945.
Tra i “maltrattamenti” inflittigli, Mattioli cita il fatto di essere stato obbligato a fare la vaccinazione contro il tifo, fatto che a molti (non a lui) provocò una forte reazione con febbre (cosa normale per una antitifica). D’altra parte, se la perfidia dei dirigenti dei campi di prigionia si misurasse col fatto di vaccinare i detenuti, potremmo pensare che i lager nazisti erano il massimo della pietà e della solidarietà umana.
Mattioli è indicato tra gli “scomparsi” nel “Martirologio” di Gianni Bartoli, nonostante sia rientrato nel ‘46, ed abbia vissuto a Gorizia fino al 1980 facendo l’insegnante. Strano che Bartoli non ne sia stato al corrente.
Panizzut presenterà il suo (o di suo nonno?) libro a Licata il 18 dicembre, in occasione, leggiamo nel sito News Italia Press, dell’intitolazione di una piazza ai “Martiri delle Foibe” (tra i quali, fortunatamente, il nonno non va compreso, essendo sopravvissuto). Assieme a Panizzut un altro “studioso” (così definito nel sito), il triestino Giorgio Rustia. Chissà se Rustia, tanto preciso nel cercare il pelo nell’uovo nei testi che non condivide, sa del rientro di Mattioli oppure lo commemorerà nell’occasione come “infoibato”?
L'intervento di Massimiliano Panizzut alla Camera dei Deputati
=== 9 ===
Inizio messaggio inoltrato:
Da: Fabio Muzzolon
Oggetto: Zevio e la strage di Lipa
Data: 23 maggio 2018 22:20:30 CEST
A Zevio (Verona) si era detto di voler dedicare una via -oltre alla già esistente Via Martiri delle Foibe- a un tal Ino Mercanti, "eroe e martire" dell'italianità gettato nelle foibe.
[
http://www.larena.it/territori/est/zevio/ino-martire-delle-foibeuna-via-avrà-il-suo-nome-1.5440042 ]
Chi era costui? Fu sicuramente un fascista militante che andò a combattere prima nella guerra civile in Spagna a fianco del Generalissimo Franco.
Dopo il suo ritorno, intorno al 1940, se ne ripartì "per lavoro" (raccontano le cronache) questa volta in direzione opposta, nella odierna Ilirska Bistrica, verso il fronte orientale e quella Jugoslavia a cui l'Italia dichiarò guerra nell'aprile 1941. Il nostro Ino fu in seguito trucidato dai feroci slavo-comunisti.
Questo sito sotto ricostruisce però in modo diverso come andarono le cose da quelle parti in quegli anni:
http://www.memoriaeimpegno.org/storia-e-memoria/2d-guerra-mondiale/rappresaglie-nazi-fasciste/50-la-strage-di-lipa Grazie Fabio Muzzolon
SGLupatoto
Dopo il 18 settembre 1943, il territorio di Fiume (Rijeka), l'Istria e la Venezia Giulia sono annesse al Terzo Reich. Gli oppositori politici (già attivatisi durante l'occupazione italiana) e i perseguitati dal nazismo sono deportati da questi territori a Trieste, dove sarà attivata la tristemente famosa della Risiera di San Sabba.
Da lì migliaia di persone saranno trasportate verso i campi di concentramento e di sterminio nell'Europa centro-settentrionale sotto il controllo nazista, ma molti vi verranno uccisi e cremati dopo atroci torture.
Infatti, circa la metà delle vittime del forno crematorio di Trieste erano di origine slava, in particolare croata.
La strada che collega direttamente Fiume a Trieste è strategica per i collegamenti dell'esercito tedesco, che ha anche una caserma molto importante a Ilirska Bistrica (oggi in Slovenia, da dove la strada si biforcava in direzione Lubiana o Trieste) ed attraverso essa vengono deportati i civili imprigionati e si spostano i rifornimenti ed i mezzi militari nazisti. Accanto ai nazisti operano milizie fasciste e militari italiani fedeli al Duce.
Lungo questa strada, a Rupa, un piccolo paese dell'altipiano sovrastante Fiume, nella ex-scuola ha sede un drappello fascista, composto da circa venti uomini, che aveva proprio funzioni di controllo di questa importante arteria.Nonostante questo presidio i partigiani continuano da mesi a ostacolare ed attaccare i convogli tedeschi che passano; a questo punto i fascisti si mettono a controllare assiduamente la popolazione di Lipa, un villaggio a circa 2 km da Rupa e di un suo sobborgo, Novo cracina. Gli abitanti del paese vengono avvertiti di prestare attenzione da una ragazza che è fidanzata con un carabiniere di stanza a Rupa, il quale l'ha informata che le cose potrebbero finire male, ma gli abitanti di questi villaggi sono anche familiari dei partigiani e anch’essi profondamente anti nazifascisti, per cui non collaborano.Il 30 aprile del 1944 i partigiani preparano un attacco contro il presidio di Rupa ed all'alba aprono il fuoco; qualcuno dal presidio riesce a raggiungere una colonna di soldati tedeschi che transita lungo l'arteria principale; mentre il comandante della colonna, composta da circa 30 soldati, decide che azioni prendere, una granata colpisce la colonna stessa uccidendo quattro soldati tedeschi. I tedeschi chiamano subito rinforzi da Ilirska Bistrica e quando questi arrivano, sotto la guida del drappello fascista, si dirigono verso il villaggio di Lipa che viene circondato. Il terrore è immediato perchè i primi abitanti che si fanno incontro vengono fucilati all'istante. Tra questi, Ivan Ivancich che, ferito, si finge morto e rimarrà uno dei pochi testimoni della strage. Nelle case sono rimasti quasi solamnete le donne i bambini e gli anziani. E contro di essi la violenza dei nazisti si sviluppa feroce. In poco meno di due ore. Le case vengono saccheggiate, molte persone sono uccise con violenza inaudita, alcune decine vengono radunate e stipate in un piccolo edificio all'entrata del paese e intanto le case vengono bruciate una per una. E l'atrocità estrema, dopo un pomeriggio di orrori, si compie con gli ostaggi rinchiusi in quella piccola casa: all'interno, su di essi viene gettata della benzina e vengono bruciati vivi! Chi cerca di scappare dall'edificio viene ucciso a colpi di mitra. Alcuni bambini riusciti a scappare vengono rigettati all'interno della casa in fiamme. Alla fine, i nazisti aiutati dai fascisti cercano di nascondere il massacro facendo saltare l'edificio con la dinamite; ma vengono visti da alcuni ragazzi di Lipa, che avevano portato il bestiame al pascolo, scampati alla strage perchè nascosti nei boschi circostanti il villaggio. I morti furono 269, fra cui tre bambine che non avevano neanche un anno.
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Sullo stesso tema si veda anche:
GUERRA GELIDA A BELGRADO. LE DEPORTAZIONI IN JUGOSLAVIA DALLA VENEZIA GIULIA NEL SECONDO DOPOGUERRA. LA QUESTIONE DEGLI ELENCHI E NUOVE FONTI (di Urška Lampe – su Acta Histriae, 2018 – Doi: 10.19233/AH.2018.28)
Abstract: ... The author reveals also an important investigation, conducted in the second part of the 50-ies by the Italian Institute for National Statistics (Istituto Centrale di Statistica). The secret investigation, which was conducted by the General Commission of the Government for the territory of Trieste (Commissariato generale del Governo per il territorio di Trieste), chaired by the former major of Gorizia Giovanni Palamara, ended in 1959 proposing the following results for the region of Trieste, Gorizia and Udine: death for several reasons after the arrest – 645; deported and repatriated – 1239; deportees who have not returned – 1982...
DOWNLOAD:
https://www.academia.edu/38341575/GUERRA_GELIDA_A_BELGRADO._LE_DEPORTAZIONI_IN_JUGOSLAVIA_DALLA_VENEZIA_GIULIA_NEL_SECONDO_DOPOGUERRA._LA_QUESTIONE_DEGLI_ELENCHI_E_NUOVE_FONTI
ELENCO DEGLI INTERNATI IN JUGOSLAVIA ALLA DATA DEL 17/12/45
QUANTI FURONO GLI ARRESTATI DAGLI JUGOSLAVI NEL MAGGIO 1945?
Da quando è stata istituita la data del Giorno del Ricordo (10 febbraio) sembra che la ricerca storica sugli eventi al confine orientale d’Italia alla fine della seconda guerra mondiale sia diventata del tutto inutile, perché al posto degli storici prendono la parola solo i propagandisti, i politici neoirredentisti, i neofascisti, o semplici persone che pur non avendo alcuna cognizione dei fatti, si ritengono autorizzati a prendere una posizione, il più delle volte del tutto fallace.
Un paio di settimane fa abbiamo letto le parole di un critico d’arte della Biennale di Venezia Daniele Radini Tedeschi: “Tito che aveva invaso Trieste nel 1944, deportando e trucidando 11.000 italiani, causando quel tragico eccidio di massa conosciuto col nome di foibe”.
Affermazioni che dimostrano la totale ignoranza dei fatti da parte di Radini Tedeschi (quantomeno dovrebbe sapere che nel 1944 Trieste era sì invasa, ma dai nazisti), e purtroppo riprese da tanti altri “commentatori” dei social e della carta stampata.
Abbiamo perciò pensato di pubblicare un documento, curato dall’Ufficio del Pubblico Accusatore di Trieste in data 17/12/45, che riprende l’elenco dei nomi degli arrestati dagli Jugoslavi nel maggio 1945 redatto dal “comitato per la ricerca degli internati in Jugoslavia”, arrestati dei quali, secondo i richiedenti, non si aveva notizia. Nella premessa leggiamo che l’elenco è formato di 939 nomi, “molti di meno quindi di quanti parla la propaganda avversaria. Di questi, inoltre, alcuni sono stati giudicati dalla Corte Straordinaria d’Assise, altri si trovano in libertà a Trieste o in altri posti, altri, infine, sono Partigiani Giuliani di cui le famiglie chiedono notizie. Da mettere in rilievo il fatto che molti nominativi risultano essere stati arrestati o fatti prigionieri durante azioni belliche e altri spariti durante ancora la dominazione tedesca e la cui sparizione dovrebbe imputarsi alle forze armate tedesche e non a quelle jugoslave”.
L’elenco è diviso in sezioni: la prima (p. 1-12) comprende 139 nominativi di persone che non risultavano internate e di cui non si avevano notizie (con le accuse che però erano state rivolte nei loro confronti); seguono altri elenchi di 80 internati con le informazioni che erano in possesso dell’Ufficio. Sono segnalati anche nominativi che risultavano rientrati dalla prigionia.
Il documento è interessante soprattutto perché vengono descritte le figure degli arrestati, militi, collaborazionisti, torturatori, rastrellatori e via di seguito, tanto per sfatare il mito degli “arrestati solo perché italiani” o perché si opponevano all’annessione di Trieste alla Jugoslavia.
La posizione presso l’Archivio di Stato di Lubiana (Arhiv Slovenije) è AS 1584 a.e. 141.
ELENCO DEGLI INTERNATI IN JUGOSLAVIA ALLA DATA DEL 17/12/45
Claudia Cernigoi, 5 settembre 2018