Informazione
La «sospensione» del Trattato Inf, annunciata ieri dal segretario di stato Pompeo, avvia il conto alla rovescia che in sei mesi porterà gli Usa a uscire dal Trattato. Già da oggi, comunque, gli Usa si ritengono liberi di testare e schierare armi della categoria proibita dal Trattato.
Si tratta di missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km), con base a terra. Appartenevano a tale categoria i missili nucleari schierati in Europa negli anni Ottanta: i missili balistici Pershing 2, schierati dagli Stati uniti in Germania Occidentale, e quelli da crociera lanciati da terra, schierati dagli Stati uniti in Gran Bretagna, Italia, Germania Occidentale, Belgio e Olanda, con la motivazione di difendere gli alleati europei dai missili balistici SS-20, schierati dall’Unione sovietica sul proprio territorio.
Il Trattato sulle Forze nucleari intermedie, firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, eliminava tutti i missili di tale categoria, compresi quelli schierati a Comiso. Il Trattato Inf è stato messo in discussione da Washington quando gli Stati uniti hanno visto diminuire il loro vantaggio strategico su Russia e Cina. Nel 2014, l’amministrazione Obama accusava la Russia, senza portare alcuna prova, di aver sperimentato un missile da crociera (sigla 9M729) della categoria proibita dal Trattato e, nel 2015, annunciava che «di fronte alla violazione del Trattato Inf da parte della Russia, gli Stati uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra».
Il piano è stato confermato dall’amministrazione Trump: nel 2018 il Congresso ha autorizzato il finanziamento di «un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada». Da parte sua, Mosca negava che il suo missile da crociera violasse il Trattato e, a sua volta, accusava Washington di aver installato in Polonia e Romania rampe di lancio di missili intercettori (quelli dello «scudo»), che possono essere usate per lanciare missili da crociera a testata nucleare. In tale quadro va tenuto presente il fattore geografico: mentre un missile nucleare Usa a raggio intermedio, schierato in Europa, può colpire Mosca, un analogo missile schierato dalla Russia sul proprio territorio può colpire le capitali europee, ma non Washington.
Rovesciando lo scenario, è come se la Russia schierasse in Messico i suoi missili nucleari a raggio intermedio..
Il piano degli Usa di affossare il Trattato Inf è stato pienamente sostenuto dagli alleati europei della Nato. Il Consiglio Nord Atlantico ha dichiarato, il 4 dicembre 2018, che «il Trattato Inf è in pericolo a causa delle azioni della Russia», accusata di schierare «un sistema missilistico destabilizzante». Lo stesso Consiglio Nord Atlantico ha dichiarato ieri il suo «pieno appoggio all’azione degli Stati uniti di sospendere i suoi obblighi rispetto al Trattato Inf» e intimato alla Russia di «usare i restanti sei mesi per ritornare alla piena osservanza del Trattato»..
All’affossamento del Trattato Inf ha contribuito anche l’Unione europea che, all’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 21 dicembre 2018, ha votato contro la risoluzione presentata dalla Russia sulla «Preservazione e osservanza del Trattato Inf», respinta con 46 voti contro 43 e 78 astensioni. L‘Unione europea – di cui 21 dei 27 membri fanno parte della Nato (come ne fa parte la Gran Bretagna in uscita dalla Ue) – si è uniformata così totalmente alla posizione della Nato, che a sua volta si è uniformata a quella degli Stati uniti.
Nella sostanza, quindi, anche l’Unione europea ha dato luce verde alla possibile installazione di nuovi missili nucleari Usa in Europa, Italia compresa. Su una questione di tale importanza il governo Conte, come i precedenti, si è accodato sia alla Nato che alla Ue. E dall’intero arco politico non si è levata una voce per richiedere che fosse il Parlamento a decidere come votare all’Onu sul Trattato Inf.
Né in Parlamento si è levata alcuna voce per richiedere che l’Italia osservi il Trattato di non-proliferazione e aderisca a quello Onu sulla proibizione delle armi nucleari, imponendo agli Usa di rimuovere dal nostro territorio nazionale le bombe nucleari B61 e di non installarvi, a partire dalla prima metà del 2020, le ancora più pericolose B61-12.
Avendo sul proprio territorio armi nucleari e installazioni strategiche Usa, come il Muos e il Jtags in Sicilia, l’Italia è esposta a crescenti pericoli quale base avanzata delle forze nucleari Usa e quindi quale bersaglio di quelle russe.
Un missile balistico nucleare a raggio intermedio, per raggiungere l’obiettivo, impiega 6-11 minuti. Un bell’esempio di difesa della nostra sovranità, sancita dalla Costituzione, e della nostra sicurezza che il Governo garantisce sbarrando la porta ai migranti ma spalancandola alle armi nucleari Usa.
Gli Stati Uniti hanno ufficialmente sospeso per sei mesi gli obblighi derivanti dal Trattato INF (per i russi DRSMD: Accordo sui missili a media e corta distanza, cioè da 1.000 a 5.500 km e da 500 a 1.000 km) e si ritengono liberi di installarne a proprio piacimento dove e quando vogliono. Durante questi 6 mesi, come ha dichiarato il Segretario di stato Mike Pompeo, “se la Russia non tornerà al rispetto del Trattato, gli USA si ritireranno ufficialmente da esso”.
Al tempo stesso, Donald Trump ha dichiarato di sperare che “sapremo riunire tutti in una grande e bella sala per stipulare un nuovo accordo. Questo accordo sarà molto migliore e io lo vorrei vedere”.. Il riferimento a “tutti” è chiaramente riferito, oltre che a USA e Russia, alla Cina e ai suoi nuovi complessi missilistici DF-26, rientranti nella categoria della media distanza e che, quando nel 1987 URSS e USA firmarono il Trattato, non erano (quantomeno ufficialmente) nemmeno all’orizzonte. Se poi Trump, ancora con quei “tutti”, intende riferirsi anche all’Iran, è da vedere quanta fiducia Teheran gli possa accordare, dopo la mossa unilaterale americana del ritiro dal cosiddetto “accordo sul nucleare iraniano” nei mesi scorsi.
Riassumendo, osserva topwar.ru, attendiamo una risposta concreta alla semplice domanda: se veramente il problema consiste nel voler ampliare il numero dei partecipanti al Trattato, allora a che scopo si è messa in piedi tutta questa sceneggiata sulle violazioni russe dell’accordo? Da tempo Mosca aveva proposto a Washington di cercare il modo per allargare la cerchia dei partecipanti al DRSMD, senza nel frattempo arrestarne l’efficacia: proposta sempre respinta dagli USA, che ora, al contrario, prima sospendono i propri obblighi e poi parlano di una “grande e bella sala” per i colloqui.
E’ così che Mosca non ha potuto far altro che denunciare i trucchi propagandistici yankee a proposito del non rispetto russo degli obblighi derivanti dal Trattato e il Ministero degli esteri già ieri aveva espresso indignazione per il fatto che per gli USA è diventata una tradizione quella di ricorrere “deliberatamente alla maniera divulgativa di redigere e presentare le proprie congetture”. La Russia “adempie costantemente, coerentemente e incondizionatamente ai propri obblighi”; l’atteggiamento USA, sostiene Mosca, è un “trucco puramente propagandistico” e il vero motivo delle dichiarazioni di Washington è il grave indebolimento delle posizioni statunitensi nell’arena internazionale.
Ma qual è la “materia del contendere”?
L’annuncio del ritiro USA dal Trattato era stato anticipato nella riunione dei Ministri degli esteri NATO del 4 dicembre scorso, quando lo stesso Pompeo aveva detto che Washington concedeva a Mosca 60 giorni per tornare all’esecuzione del trattato, e il Segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg aveva affermato che “la NATO dà alla Russia l’ultima possibilità di salvare” l’accordo. “La Russia ha messo a rischio gli interessi di sicurezza degli Stati Uniti, non possiamo più essere limitati da un trattato finché la Russia lo violerà spudoratamente”, ha detto ora Pompeo; e ha aggiunto che se “la Russia non tornerà al pieno e verificabile rispetto del trattato entro sei mesi, distruggendo in modo verificabile i missili che violano il Trattato INF, i loro lanciatori e le relative attrezzature, il trattato cesserà di sussistere”.
Dall’altro lato la TASS ricorda come già dopo tre anni dalla firma del Trattato, entrato in funzione nel giugno 1988, Mosca avesse distrutto 1.846 missili delle categorie previste, contro gli 846 di Washington, quasi tre volte più lanciatori (825 e 289) e quasi sette volte più basi missilistiche (69 e 9). Ora, trenta anni dopo la conclusione del trattato, entrambi si accusano a vicenda di violare l’INF.
Mosca ritiene che il sistema antimissilistico USA “Aegis-Aegis Ashore” (già installato in Romania e in procinto di essere installato anche in Polonia e Giappone) sia in grado, all’occorrenza, di venir utilizzato come sistema di lancio per missili da crociera a medio raggio, il che costituirebbe una violazione diretta del trattato. Gli USA negano tale possibilità. La Russia si dice preoccupata anche per i droni da combattimento americani, il cui raggio operativo supera i mille km e le cui capacità e caratteristiche si avvicinano a quelle dei missili da crociera.
Sull’altro versante, la stampa americana parla dello sviluppo del “Novator 9-M 969”, missile da crociera basato a terra, presumibilmente destinato al complesso tattico-operativo (OTRK) “Iskander-M”, con portata di almeno 3.000 km. I russi assicurano tuttavia che la loro portata sia inferiore ai 500 km.
E via di questo passo.
In risposta alla mossa americana, oggi anche Mosca ha sospeso la partecipazione al Trattato INF: “Procederemo in questo modo” ha dichiarato Vladimir Putin nel corso di una seduta coi Ministri degli esteri e della difesa, Sergej Lavròv e Sergej Shojgù, “la nostra risposta sarà speculare: i partner americani hanno annunciato che stanno sospendendo la loro partecipazione al Trattato e anche noi la sospendiamo”.
Putin ha anche disposto che non si intraprendano per ora nuovi negoziati sul Trattato e ha sottolineato che Mosca, dopo la sospensione della partecipazione al trattato INF, non cesserà di sperimentare nuove armi, senza però aumentare il bilancio della difesa: “Non dobbiamo e non verremo coinvolti in una costosa corsa agli armamenti”, ha detto, sottintendendo quella che aveva aggravato la situazione economica dell’ultimo periodo di esistenza dell’Unione Sovietica.
Forse la Russia riuscirà a non farsi coinvolgere in tale corsa; ma è certo che lo farà anche il nostro paese, quale destinatario delle armi USA? Come reagirà il “governo del cambiamento” agli ordini di Washington e di Bruxelles, che certamente da tempo hanno già programmato il destino delle basi americane e NATO in Italia? Come reagirà quello che resta del movimento contro i missili USA sul nostro territorio?
=== 3 ===
Presso il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a New York, c’è una scultura metallica intitolata «il Bene sconfigge il Male», raffigurante San Giorgio che trafigge un drago con la sua lancia. Fu donata dall’Unione sovietica nel 1990 per celebrare il Trattato Inf stipulato con gli Stati uniti nel 1987, che eliminava i missili nucleari a gittata corta e intermedia (tra 500 e 5500 km) con base a terra. Il corpo del drago è infatti realizzato, simbolicamente, con pezzi di missili balistici statunitensi Pershing-2 (prima schierati in Germania Occidentale) e SS-20 sovietici (prima schierati in Urss).
Ora però il drago nucleare, che nella scultura è raffigurato agonizzante, sta tornando in vita. Grazie anche all’Italia e agli altri paesi dell’Unione europea che, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, hanno votato contro la risoluzione presentata dalla Russia sulla «Preservazione e osservanza del Trattato Inf», respinta con 46 voti contro 43 e 78 astensioni.
L‘Unione europea – di cui 21 dei 27 membri fanno parte della Nato (come ne fa parte la Gran Bretagna in uscita dalla Ue) – si è così totalmente uniformata alla posizione della Nato, che a sua volta si è totalmente uniformata a quella degli Stati uniti. Prima l’amministrazione Obama, quindi l’amministrazione Trump hanno accusato la Russia, senza alcuna prova, di aver sperimentato un missile della categoria proibita e hanno annunciato l’intenzione di ritirarsi dal Trattato Inf.
Hanno contemporaneamente avviato un programma mirante a installare di nuovo in Europa contro la Russia missili nucleari, che sarebbero schierati anche nella regione Asia-Pacifico contro la Cina. Il rappresentante russo all’Onu ha avvertito che «ciò costituisce l’inizio di una corsa agli armamenti a tutti gli effetti».
In altre parole ha avvertito che, se gli Usa installassero di nuovo in Europa missili nucleari puntati sulla Russia (come erano anche i Cruise schierati a Comiso negli anni Ottanta), la Russia installerebbe di nuovo sul proprio territorio missili analoghi puntati su obiettivi in Europa (ma non in grado di raggiungere gli Stati uniti)..
Ignorando tutto questo, il rappresentante dell’Unione europea alle Nazioni unite ha espressamente accusato la Russia di minare il Trattato Inf e ha annunciato il voto contrario di tutti i paesi dell’Unione perché «la risoluzione presentata dalla Russia devia dalla questione che si sta discutendo».
Nella sostanza, quindi, l’Unione europea ha dato luce verde alla possibile installazione di nuovi missili nucleari Usa in Europa, Italia compresa. Su una questione di tale importanza, il governo Giuseppe Conte, rinunciando come i precedenti a esercitare la sovranità nazionale, si è accodato alla Ue che a sua volta si è accodata alla Nato sotto comando statunitense.
E dall’intero arco politico non si è levata una voce per richiedere che fosse il Parlamento a decidere come votare all’Onu.
Né in Parlamento si leva alcuna voce per richiedere che l’Italia osservi il Trattato di non-proliferazione, imponendo agli Usa di rimuovere dal nostro territorio nazionale le bombe nucleari B61 e di non installarvi, a partire dalla prima metà del 2020, le nuove e ancora più pericolose B61-12. Viene così di nuovo violato il fondamentale principio costituzionale che «la sovranità appartiene al popolo». E poiché l’apparato politico-mediatico tiene gli italiani volutamente all’oscuro su tali questioni di vitale importanza, viene violato il diritto all’informazione, nel senso non solo di libertà di informare ma di diritto ad essere informati. O si fa ora o domani non ci sarà tempo per decidere: un missile balistico a raggio intermedio, per raggiungere e distruggere l’obiettivo con la sua testata nucleare, impiega 6-11 minuti.
https://www.german-foreign-policy.com/news/detail/7836/
di Italo Nobile (Rete dei Comunisti), 28 dicembre 2018
Nel 1941 Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati dal fascismo nell’isola di Ventotene, scrivono un documento per la promozione dell’unità europea che verrà poi pubblicato da Eugenio Colorni e viene oggi considerato uno dei testi fondanti dell’Unione Europea. A dire il vero, in ambito liberal-socialista spesso si è soliti dire che l’Europa abbia disatteso le idealità di questo scritto e un procedimento retorico di questo genere viene paradossalmente usato anche in uno dei tanti articoli polemici del “filosofo” rossobruno Diego Fusaro.
Tale manifesto di Ventotene era stato preceduto dal progetto di Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi che dopo la prima guerra mondiale aveva coinvolto numerosi uomini politici (Adenauer e poi Churchill) letterati (Rilke, Valery e Mann) scienziati (Einstein, Freud, Keynes) nel progetto paneuropeo, di ispirazione tecnocratica, che voleva l’unificazione economica e politica dell’Europa sotto forma di Confederazione con tutta una serie di istituti (Corte federale europea, un esercito europeo, una unificazione doganale progressiva, una moneta unica) e con una impostazione rispettosa delle diverse culture presenti in Europa e delle minoranze nazionali.
Tuttavia la natura imperialista di tale costruzione è evidente laddove Kalergi parla di sfruttamento a livello unificato delle colonie (confermando in parte la previsione di Lenin secondo cui “In regime capitalistico gli Stati Uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie”). Inoltre Kalergi, in altre sue opere, accennava ad un modello di uomo, ricco di spirito ma privo di carattere che costituisse il materiale ideale per sviluppare una società cosmopolita, a dimostrazione della ispirazione elitaria del suo progetto che voleva la contaminazione tra razze e culture non per potenziare le capacità degli individui ma per indirizzarle all’ossequio mediocre dell’ordine costruito da una minoranza di competenti (dunque una contaminazione a presupposto razzista).
Per quanto riguarda il Manifesto di Ventotene c’è da dire che nell’introduzione si avverte il lettore dicendo che “Le circostanze anormali in cui tutto questo materiale fu prodotto, l’evolversi degli avvenimenti la cui precisa valutazione non poteva essere data dal confino, han fatto si che oggi si possono notare varie lacune, ed alcune parti possono anche considerarsi superate. Sarebbe forse bene riscrivere tutto da capo in modo da presentare cose completamente aggiornate. Ciò implicherebbe però un lavoro di mesi. Ma la vita politica italiana è stata ridotta dal fascismo come un arido deserto, e chi può dare un qualsiasi contributo che l’aiuti a rifiorire non deve perdere un minuto di tempo, specialmente nell’attuale tragica situazione. Meglio perciò pubblicare questi scritti quali sono, affidando agli studi successivi il compito di correggere e di aggiornare, meglio anche correre il rischio di dire qualcosa di sbagliato ma indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno nelle sue grandi linee, la via da seguire, anziché tacere per un eccessivo desiderio di adeguatezza alla realtà attuale”.
E tuttavia pure in questa premessa la natura elitaria del progetto si avverte nel passo “ … indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno nelle sue grandi linee, la via da seguire …”. Inoltre questo elitarismo si avverte anche nella rinuncia a formare un partito federalista e nel dire che “Il compito dei federalisti nelle attuali circostanze della nostra vita politica italiana deve essere invece quello di indicare ai partiti progressisti, i quali attirano su di sé le simpatie popolari, ma sono ancora più ricchi di fervore che di idee e propositi precisi, quali debbano effettivamente essere questi propositi e come ci si debba concretamente preparare a risolvere i problemi politici attuali. Non si tratta più di formare un partito federalista., ma di aiutare i partiti progressisti italiani a diventare federalisti”.
Nella Prefazione di Eugenio Colorni si dice che “Fu così che si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes”.
Qui possiamo individuare l’illusione che la contraddizione sia essenzialmente culturale e politica. Non si va nella dimensione in cui questi processi politici si formano e si consolidano, quella dimensione dove processi di accumulazione capitalistica ridisegnano attorno a sé la società e i territori, ma ci si ferma all’apparenza e si propongono soluzioni che tengono conto solo dell’apparenza.
Nella Prefazione, Colorni critica l’opzione internazionalista dicendo che “benché le analogie di regime interno possano facilitare i rapporti di amicizia e di collaborazione fra stato e stato, non è affatto detto che portino automaticamente e neppure progressivamente alla unificazione, finché esistano interessi e sentimenti collettivi legati al mantenimento di una unità chiusa all’interno delle frontiere”, ma si illude che l’ipotesi federalista sia un modo alternativo di costruire un ordine internazionale, quando esso va incontro agli stessi problemi e forse a problemi ancora maggiori visto che si vuole applicare a paesi con regimi diversi e sistemi sociali diversi (i quali, a detta proprio di Colorni, non sarebbero sufficienti nemmeno se fossero identici).
Colorni asserisce che “Tutti i problemi, da quello delle libertà costituzionali a quello della lotta di classe, da quello della pianificazione a quello della presa del potere e dell’uso di esso, ricevono una nuova luce se vengono posti partendo dalla premessa che la prima mèta da raggiungere è quella di un ordinamento unitario nel campo internazionale”. Egli però non motiva questo modo di vedere né si chiede se, per l’instaurazione di tale ordinamento, non si debba passare per uno o più dei problemi che invece con questo ordinamento si vorrebbero risolvere.
Egli poi aggiunge “Un altro motivo ancora — e forse il più importante — era costituito dal fatto che l’ideale di una Federazione Europea, preludio di una Federazione Mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e quasi a portata di mano”.. E questo abbiamo visto come fosse in realtà un pio desiderio.
Ancora Colorni afferma che “Il nostro Movimento non è e non vuol essere un partito politico. Così come si è venuto sempre più nettamente caratterizzando, esso vuole operare sui vari partiti politici e nell’interno di essi, non solo affinché l’istanza internazionalista venga accentuata, ma anche e principalmente affinché tutti i problemi della sua vita politica vengano impostati partendo da questo nuovo angolo visuale, a cui finora sono stati così poco avvezzi”. Ecco che quindi ricompare la minoranza illuminata che opera sui e nei partiti politici.
Nel Manifesto vero e proprio (analizziamo in questo contesto anche una prima versione del Manifesto del 1943, perché a nostro parere essa rivela l’ideologia sottesa dei suoi estensori meglio di quella successiva e definitiva del 1944) si dice “L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali”.
Qui possiamo vedere come gli autori attribuiscano la nascita degli imperialismi ai nazionalismi, mentre l’analisi materialistica ipotizza che l’accumulazione di capitale ad un determinato livello condiziona il perimetro all’interno del quale il nazionalismo attecchisce e si sviluppa.
Inoltre si reitera l’atteggiamento paternalista tra culture quando si dice “ha fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili” (forse per giustificare la soggezione nella quale era tenuto il Meridione d’Italia?).
Nella seconda e definitiva versione del Manifesto non a caso non si parla più di nazionalismoimperialista ma di imperialismo capitalista, quasi a voler sfumare un presupposto teorico sbagliato.
Si parla anche di “spazio vitale” (l’espressione fatta propria dal nazifascismo per giustificare l’innesco del conflitto mondiale), quasi fosse una sorta di desiderio irrazionale di espansione (e quindi derubricandolo ad espressione di mera volontà politica), quando si tratta dell’espressione ideologica che si collega all’esigenza imperialistica che è interna alle contraddizioni del capitale, per il quale anche l’ambito della nazione diventa angusto ed oppressivo. Perciò la libera circolazione delle merci, che essi vedono solo come “fattore progressivo”, è allo stesso tempo uno dei momenti della dinamica imperialista nel momento in cui ad essa (post hoc e propter hoc) segue quella dei capitali.
Gli autori hanno buon gioco ad evidenziare come anche nei periodi di pace il funzionamento degli ordinamenti che loro definiscono “liberi” (e cioè scuola, scienza e produzione) sia indirizzato totalmente alla guerra. Essi però, come in altre parti dell’elaborato, si fermano alla superficie delle cose. Non vedono che la proiezione bellica è proprio insita nella dinamica imperialistica (e quindi economica) che vede capitalismi in competizione tra loro che trascinano le nazioni con sé (e non nazioni che subordinano la produzione alla guerra).
La guerra è nella sua accezione moderna un momento della fisiologia (che è dialetticamente una patologia) capitalistica. E la produzione non è affatto un ordinamento libero. Anzi, le modalità con cui si produce sono modalità militari, in quanto la fabbrica sin dal suo inizio (sin da quando si costringeva in Inghilterra a lavorare nelle fabbriche) è una istituzione totale.
E’ sintomatico come gli estensori del Manifesto attribuiscano tutti i mali all’iperbole politica, invece di guardare alla struttura economica: “Le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e all’odio verso gli stranieri, le libertà individuali si riducono a nulla, dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestare servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi, ed a sacrificare la vita stessa per obbiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore; in poche giornate vengono distrutti i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo”.
Le madri sono fattrici di lavoratori e devono essere prolifiche per riprodurre “l’esercito” industriale di riserva. I bambini sono dalla più tenera età posti sul mercato del lavoro. Le libertà individuali sono nulla appena varcato l’ingresso della fabbrica. La produzione costringe ad abbandonare la famiglia ed a sacrificare spesso la vita per obbiettivi di cui nessuno capisce il valore. La guerra è l’immagine un po’ più brutta della matrice che la genera e cioè il modo di produzione capitalistico. Ma il Manifesto di Ventotene questa paternità la nega e anzi retoricamente ci disegna l’opposizione tra una produzione pacifica e una politica belligerante.
Anche quando si riferisce alla Germania, il quadro che fa il Manifesto riproduce uno stereotipo dove le considerazioni, fatte anche all’interno degli ideologi liberali (si pensi a Keynes), circa le responsabilità dei vincitori della Prima Guerra Mondiale nel determinare il trionfo del nazismo in Germania sono del tutto sottaciute.
Nella prima parte (“Crisi della società moderna”) ci sono anche analisi che si ricollegano alla tradizione socialista e che cercano di ricollegare il totalitarismo nazifascista alla oppressione delle classi diseredate, ma la tendenza elitaria ricompare quando si dice, all’inizio della seconda parte “Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti …”
Troviamo poi anche un principio ambiguo (perché utilizzabile in molti modi) quando si dice “Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei”.
Questo principio, ripreso dall’antifascismo, è stato poi uno dei fattori ideologici che ha permesso le guerre Usa contro l’Iraq, la Serbia e la Libia. Non a caso questo principio è stato fatto proprio dal fondamentalismo neoliberista dei Radicali Italiani, che sono stati sempre in prima fila nel sostegno ideologico e politico alle guerre condotte da Usa ed Europa dopo il crollo del socialismo reale.
Singolare poi è la teoria sostenuta in questo passo dove si dice “Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc:, che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie”.
Infatti si pensa che l’unificazione europea contribuirebbe a risolvere i problemi interni a vari Stati, mentre la questione catalana è la dimostrazione che la tendenza alla concentrazione dei fattori produttivi – resa possibile dalla libera circolazione degli stessi a livello europeo (senza meccanismi di compensazione) – lacera ancora di più il circuito di solidarietà interno ai singoli Stati, a meno che qualcuno non riesumi il patriottismo nazionalista, per cui il processo di unificazione si configura come una sorta di fuga in avanti.
Fa sorridere ed inquietare l’atteggiamento degli estensori verso la democrazia. Essi combinano la critica al totalitarismo nazionalistico ad un atteggiamento minoritario ed illuministico che non può che mostrarsi scettico verso le possibilità dei popoli di autodeterminarsi. Infatti dicono “I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sugli i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono solo essere ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi. In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro”.
Il popolo per questi signori è sempre confuso. I milioni di teste li ossessionano ed hanno dunque bisogno di ridurre la complessità democratica con l’accetta.
Infine in questo passo si intravede la tendenza (in altre parti meno accentuata) di assimilare l’Urss alla situazione spagnola e tedesca, quasi rimpiangendo che il socialismo rivoluzionario russo non abbia avuto miglior sorte. E la critica alla burocrazia sovietica fa intravedere un’altra matrice astrattamente internazionalista, oltre quella del liberalismo ispirato dalla concezioni massoniche (si pensi a Briand e allo stesso Kalergi).
Non finisce qui. Il Manifesto aggiunge “Nel momento in cui occorre la massima decisione ed audacia, i democratici si sentono smarriti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare” e ancora “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria”.
Giunti a questo punto, gli estensori del Manifesto si preparano a criticare il concetto marxista di lotta di classe ed affermano: “Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi. Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine a cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l’utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano a tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario”.
Dunque, per gli estensori del Manifesto, gli operai ispirati al principio della lotta di classe non farebbero una politica delle alleanze e quindi non riuscirebbero a raggiungere il potere. Questo assunto falso (l’alleanza tra operai e contadini nella rivoluzione russa come si dovrebbe considerare?) serve per introdurre un più sostanziale interclassismo funzionale alla ideologia elitaria degli autori. Anche questo passo non a caso viene in buona parte espunto nella versione definitiva, ma rimane il passo in cui si dice “Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche”, in cui compare un astratto politicismo che derubrica la lotta di classe a rissa.
Essi aggiungono “Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie – col predicare che la loro «vera» rivoluzione è ancora da venire – costituiscono nei momento decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto”.
Non sapendo quali siano queste altre forze rivoluzionarie, ci meravigliamo di come gli estensori del Manifesto credano in una rivoluzione di qua da venire e critichino quelli che prudentemente parlano di una rivoluzione di là da venire. L’anticomunismo del Manifesto si rende evidente quando si dice “Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto d’ora, convogliare masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paese. Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo”.
Anche questo passo viene omesso nella versione definitiva (probabilmente si sceglie un atteggiamento più sfumato verso il partito comunista italiano per quanto Altiero Spinelli fosse stato espulso dal Pci nel 1937).
Tuttavia la crescente inclinazione di Spinelli verso il liberismo (complice la lettura di Luigi Einaudi, che già dal 1893 parlava di Stati Uniti d’Europa e che, con lo pseudonimo Junius, nel 1920 aveva scritto delle lettere sull’unificazione europea) è evidente quando si dice “Le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica routinière per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni nei salari, e con gli altri provvedimenti del genere; quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo e di impiego, e contemporaneamente vanno consolidati e perfezionati gli argini che le convogliano verso gli obbiettivi di maggiore vantaggio per tutta la collettività”
Gli autori sognano un’alleanza tra la classe operaia e gli intellettuali, che eviti agli intellettuali una sorta di impotenza sociale e agli operai di appiattirsi sul classismo dottrinario, senza notare che la classe operaia aveva già nei suoi gruppi dirigenti intellettuali di alto livello e che, nel frattempo, Antonio Gramsci aveva già delineato un modello di intellettuale collettivo (proprio quel partito che gli elitari del Manifesto trattavano con ingiustificata supponenza).
Questa parodia di un bolscevismo in giacca e cravatta così conclude: “Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate. Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato ed attorno ad esso la nuova democrazia. Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere”.
Nella versione definitiva a “questo partito” si sostituisce “questo movimento”, aumentando nel lettore l’impressione di un pasticcio. Non si vuole fare il partito per velleità di entrismo, ma al tempo stesso si pretende di dirigere senza imporsi a propria volta una organizzazione. Il Manifesto di Ventotene, contrariamente a quello di Marx, invece di abbandonare la dissimulazione, intende perpetrarla rifiutando un contatto diretto con le masse e nascondendosi nelle istituzioni che pure considera compromesse dalla guerra.
Perché tale ingenua e presuntuosa visione delle cose potesse avere il suo infelice successo, si è dovuto aspettare che essa si piegasse alla Forche Caudine del nascente imperialismo europeo, quell’imperialismo che essa vedeva solo nei cosiddetti totalitarismi e che invece si fa presente anche nelle democrazie liberali sempre meno democratiche e sempre meno liberali.
[[ https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8993 ]]
Imaginons qu’à la frontière entre la France et l’ Allemagne, celle-ci décide de baptiser Alsace du nord, la partie allemande du Bade-Wurtemberg de Fribourg à Karlsruhe.
On pourrait supputer sans être paranoïaque quelque pensée irrédentiste.
Or c’est exactement ce qui se passe avec la “République de la Macédoine du Nord” avec la complicité du gouvernement de Tsipras devenu la serpillère de l’Union Européenne c’est-à-dire de l’ Allemagne tout particulièrement dominante dans les Balkans.
L’irrédentisme slavo-macédonien de Skopje, avec ses aspirations sur les territoires prétendument slaves en Grèce (Macédoine historique) et aussi en Bulgarie (Macédoine du Pirin) existe depuis fort longtemps au moins depuis que Tito essaya d’obtenir une sortie dans la méditerranée (dans le cadre d’une Fédération balkanique) en créant une République socialiste de Macédoine qui avait des revendications sur le territoire grec. Les nationalistes de Skopje, après la mort de Tito, firent la promotion des visées expansionnistes territoriales sur la Grèce (élaboration de cartes, manuels scolaires, livres d’histoire, etc., illustrant des territoires grecs sur le territoire d’une “grande” République Yougoslave de Macédoine). Sur le plan symbolique, les emblèmes de la Macédoine hellénique de l’ Antiquité comme le soleil de Vergina de Philippe et Alexandre le Grand (dix siècles avant l’arrivée des Slaves dans cette région) furent récupérés par les nationalistes de Skopje.
Le Grèce ne pouvait pas accepter une telle situation potentiellement extrêmement dangereuse.
Mais la perspective d’une adhésion de Skopje à l’UE et à l’OTAN, que l’ Allemagne soutient, a amené Tsipras, une fois de plus, à capituler. L’Allemagne, après avoir fait exploser et dépecer la Yougoslavie en soutenant les nationalistes croates, slovènes et après avoir avec les autres pays impérialistes et l’OTAN, écrasé la Serbie sous les bombardements, s’est emparé de la région qu’elle domine totalement. La France ayant servie de marche-pied à cette hégémonie en trahissant la Serbie, son allié historique dans les Balkans.
Reste que la “République de Macédoine du Nord” est une menace contre l’intégrité territoriale de la Grèce et une menace de déstabilisation de la région. En effet d’autres puissances régionales pourraient manipuler l’irrédentisme macédonien. On pense évidement d’abord à la Turquie qui a par ailleurs des exigences totalement contraires au droit international sur les eaux territoriales et l’espace aérien en mer Égée. On ne s’étonnera pas que les Grecs soient à 70% contre l’accord que le parlement grec vient d’approuver. Les Grecs ne sont pas effrayés en soi par Skopje et ses ambitions irrédentistes, mais par les forces étrangères qui pourraient utiliser ce nouvel État pour asseoir leur pouvoir sur la région et en particulier l’OTAN qui pourrait redessiner la carte de la région en fonction des intérêts impérialistes.
La Grèce a trop souffert, a été trop envahie, trop occupée pour que la moindre naïveté soit autorisée.
En revanche il faut dire clairement que c’est la droite (ND) et l’extrême-droite (AD) qui se sont engouffrées dans la brèche. La social-démocratie (Syriza) ayant une fois encore trahi le patriotisme populaire. Le nationalisme grec utilise cette situation pour préparer son retour aux affaires, les élections étant prévues en septembre 2019. Mobiliser entre 60.000 et 100.000 personnes à Athènes est incontestablement un signe d’adhésion que les sondages confirment.
Sous-estimer la question nationale dans un pays comme la Grèce qui fut occupée quatre siècles par l’empire ottoman et, depuis son indépendance (1820-1930), dominée par différentes puissances impérialistes et où le patriotisme est, par réaction, extrêmement puissant, serait une erreur historique.
Les forces progressistes grecques doivent se souvenir et helléniser la phrase célèbre du marxiste irlandais James Connolly : “La cause de l’Irlande est la cause du Travail, la cause du Travail est la cause de l’Irlande.”
Le KKE l’a bien compris qui a voté contre l’accord de Prespa qui vise l’expansion sans encombre de l’OTAN dans les Balkans occidentaux, la montée de la pression sur la Serbie pour adhérer à l’OTAN et à l’UE, et à la promotion du gouvernement de Tsipras en “appui politique et militaire des Etats-Unis le plus stable de l’arc géopolitique allant de la Pologne à Israël” selon les déclarations de l’ambassadeur américain à Athènes Geoffrey Pyat.
Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
15/01/2019
Nel suo bollettino sugli sviluppi politici, l'ufficio stampa del CC del KKE afferma quanto segue:
«La contrattazione dei giorni passati tra Tsipras (SYRIZA) - Kammenos (ANEL) si è conclusa con la ricerca di un voto di fiducia in Parlamento. Si tratta di un esito conveniente per entrambe le parti coinvolte, poiché offre da un lato la possibilità al Sig. Tsipras di salvare il suo governo con voti dei deputati di ANEL in parlamento, e d'altro canto, consente al Sig. Kammenos di mantenere il suo gruppo parlamentare, apparendo in contrasto con una politica che ha sostenuto durante tutto il recente passato.
Inoltre, l'accordo di Prespa, che ha costituito il catalizzatore di questi sviluppi politici, è un aspetto chiave del piano globale USA-NATO per la regione, che sia il signor Tsipras che il signor Kammenos hanno servito con grande coerenza, al punto di trasformare la Grecia in una vasta base militare USA-NATO.
Il KKE vota contro il governo e indipendentemente da qualsiasi sviluppo si verifichi nel Parlamento tra i potenziali collaboratori di Tsipras, la questione cruciale è che il popolo respinga questo governo perché continuerà le stesse barbare e pericolose politiche anti-popolari in continuazione ai precedenti..
È un governo che ha assunto impegni concreti con gli Stati Uniti, la NATO, la Germania, nei confronti delle classi dirigenti nazionali ed europee. Questi impegni - la ristrutturazione anti-popolare e il sostegno dei piani euro-atlantici - devono essere completati entro le elezioni, e per questo motivo tutti i soggetti sopraccitati sono i primi a dare un "voto di fiducia" al governo SYRIZA, come aveva fatto Trump in precedenza e ora la cancelliera Merkel.
Per quanto il governo definisca l'accordo Prespa come "progressista", la realtà è completamente diversa.
Gli Stati Uniti, la NATO e l'UE hanno voluto imporre l'Accordo di Prespa a ogni costo per promuovere l'integrazione euro-atlantica nei Balcani occidentali e indebolire l'influenza di altri centri, come la Russia, ecc.
Queste forze e le alleanze criminali imperialiste che hanno sparso sangue nei Balcani ed esacerbato le divisioni etniche, ridefinendo i confini con il sangue dei popoli, non possono essere garanti della pace e della sicurezza. Né possono essere protettori dei diritti sovrani del paese, come mostra la storia delle differenze greco-turche. Per questo motivo, anche all'interno dell'Accordo Prespa, vengono preservati i germi dell'irredentismo, al fine di costituire una "fonte" continua di destabilizzazione a seconda degli interessi di volta in volta espressi dalle potenze.
Per questi motivi il KKE vota contro l'accordo di Tsipras-Zaev e difende la solidarietà e la lotta comune dei popoli contro i disegni degli Stati Uniti e della NATO.
Questi piani non vengono contestati dalla ND (Nuova Democrazia, partito conservatore, ndt), né da coloro che pescano nelle torbide acque del nazionalismo e del fascismo, giocando il gioco degli imperialisti sia in Grecia che nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia.
La propaganda governativa sulle "misure positive" che devono ancora essere attuate nel restante periodo di governo, ossia le "briciole caritatevoli", vengono gettate come polvere negli occhi della gente. Anche quelle non verrebbero distribuite se non fosse per le lotte dei lavoratori e dei movimenti popolari, con il contributo decisivo del KKE. Queste misure, tuttavia, non guariscono le ferite inflitte dai memorandum, come sostiene il governo, né impediscono l'ulteriore approfondimento di queste ferite. Non si tratta di altro se non della restituzione in minima parte dell'immenso furto a spese del popolo, che continua ad aumentare. La prova di ciò è la conservazione delle leggi sui memorandum, i profitti estratti sul sangue versato dai lavoratori, l'intensificazione di una imposizione fiscale da rapina, la generalizzazione del lavoro part-time, la restrizione delle tutele sulla prima casa e l'accelerazione dei processi di pignoramento, i nuovi privilegi consegnati al grande capitale, ecc. Per questo motivo le chiamiamo briciole: perché scompaiono prima ancora che vengano distribuite.
Il governo SYRIZA così come ND e gli altri partiti servono costantemente questa politica. Il comune denominatore è la dedizione all'obiettivo della redditività capitalista che richiede il sacrificio del lavoro e dei diritti popolari. Cercano di nascondere la loro convergenza strategica, facendo mostra di vecchie dualità e superate dicotomie, come "progresso - conservazione", dal momento che il presunto fronte "progressista" di Tsipras include persone che negli anni passati si sono distinte come ministri e funzionari nei governi della ND e del PASOK, con significative esperienze di "successo" in politiche antipopolari. Mentre altri dirigenti del partito (SYN/SYRIZA), hanno attraversato il PASOK, POTAMI e DIMAR, per finire ancora una volta in SYRIZA. SYRIZA è un partito amorale, avventurista, dedito alle politiche dei memorandum.
I recenti sviluppi, con trasferimenti di deputati del parlamento da un partito all'altro e il rimescolamento della scena politica, rivelano, al di là dell'avventurismo di alcuni, che le differenze tra i partiti borghesi sono minime e le loro convergenze così forti, che saltare da un partito all'altro è a questo punto estremamente facile.
Se si guarda alla composizione del Parlamento con i suoi 300 deputati nel corso di questi 4 anni, si conferma che l'unico partito stabile è il KKE. E questo è un ulteriore criterio che le persone devono tenere in considerazione nelle prossime elezioni.
Il vero dilemma dal punto di vista del popolo greco e dei suoi interessi è: perseverare sulla stessa strada, che ha dimostrato di portare sempre nuova sofferenza e distruzione, o intraprendere una lotta di massa e decisiva, ovunque, in modo che questo marcio sistema di sfruttamento cambi radicalmente una volta per tutte?
Il popolo greco non deve cercare le sottili differenze tra partiti fatti della stessa stoffa, ma fare veramente la "differenza", con un KKE più potente. Per rafforzare la lotta, la speranza, l'obiettivo del rovesciamento radicale».
Partito Comunista di Grecia (KKE) | kke.gr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
25/01/2019
I lavoratori, i giovani e i pensionati che si sono radunati nelle manifestazioni del KKE giovedì 24 gennaio hanno espresso il loro "NO" all'accordo Tsipras-Zaev, ai piani USA-NATO-UE, all'irredentismo e al nazionalismo, ma anche il loro "SI" all'amicizia, alla solidarietà e alla lotta comune dei popoli.
Foto: https://inter.kke.gr/export/sites/inter/.content/images/news/sugkentrosh-kke-56.jpg_2126691551.jpg
Il Segretario Generale del Comitato Centrale del KKE Dimitris Koutsoumpas è intervenuto durante la manifestazione ad Atene; immediatamente dopo i manifestanti hanno marciato in corteo verso l'ambasciata americana. Quando la testa del corteo ha raggiunto l'ambasciata, i manifestanti hanno bruciato le bandiere della NATO, degli Stati Uniti e dell'UE.
Video: https://youtu.be/O_DXpI9onRk
Sotiris Zarianopoulos, rappresentante del KKE al Parlamento europeo e candidato sindaco di Salonicco, ha parlato alla manifestazione a Salonicco, a cui è seguito un corteo verso il consolato americano.
Mobilitazioni simili si sono svolte a Larissa.
Video: https://youtu.be/JWAi_QHFtNo
Rafforziamo con il KKE l'opposizione del popolo ai disegni imperialisti, alla NATO, all'UE
"Siamo qui per dichiarare il nostro" NO "all'accordo Tsipras-Zaev e ai disegni antipopolari euro-atlantici. Siamo qui per affermare il nostro" SI" alla pace, all'amicizia, alla solidarietà del popolo greco con i popoli vicini. Dall'Acropoli, eterno simbolo della cultura greca e mondiale, sono state riprese questa mattina le immagini che hanno fatto il giro del mondo e che esprimono ora il vero "NO" e il vero "SI", ha dichiarato il Segretario Generale del KKE.
Koutsoumpas ha sottolineato anche che "il governo SYRIZA si appresta a votare per l'accordo di Prespa, progettato, attuato e firmato con il governo della FYROM su richiesta della NATO, degli USA e dell'UE, dei grandi capitali, per consentire loro di fare affari nei Balcani".
In conclusione ha sottolineato: "Chiediamo ai lavoratori, ai disoccupati, al popolo degli strati popolari di intensificare l'opposizione ai piani imperialisti, alla NATO, all'UE. Chiediamo di lottare per la rimozione delle basi NATO dalla Grecia, per il disimpegno del nostro paese dalle organizzazioni imperialiste, in modo che nessun'altro popolo possa entrare in questa prigione.
Di prendere il posto di combattimento accanto ai comunisti, al fine di rafforzare la solidarietà e la lotta comune dei popoli, per seguire la nostra via per assumere il potere, il potere dei lavoratori".
L’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, ex-procuratore di Donald Trump, indicò la West Bank occupata illegalmente come “Giudea e Samaria”, uno scappellamento ai coloni ebrei illegali che vogliono che Israele annulli la Cisgiordania e diventi uno Stato dell’apartheid in piena regola, coi palestinesi trattati da “untermenschen”. “Ci sono notizie che dopo aver spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, l’amministrazione Trump sia lanciata a riconoscere tutta Gerusalemme, inclusa Gerusalemme Est occupata illegalmente, capitale d’Israele, e l’annessione delle alture del Golan siriane. Ciò lascerebbe il ghetto palestinese a cielo aperto di Gaza quale obiettivo per la ri-annessione israeliana. Minacciosamente, l’amministrazione Trump già chiama Gaza “Israele meridionale”. Ci sono altre proposte di cambiamento di nomi. Nel 2017, il ministro delle arti e della cultura sudafricano Nathi Mthethwa accese il dibattito quando suggerì che il Sudafrica dovrebbe diventare “Azania”, nome con origini greche. La proposta fu messa da parte rapidamente da un governo che non voleva mal di testa autoinflitti oltre a tutti gli altri problemi. Allo stesso modo, c’è poco interesse nella Repubblica Centrafricana a tornare al nome coloniale francese di Ubangi-Shari, i due fiumi che convergono nel Paese. I sudafricani potrebbero pensarci due volte su Azania. Il Sud Sudan considerava l’uso dello stesso nome dall’indipendenza dal Sudan nel 2011. Il mondo potrebbe sopravvivere a due Azania? Perché no? Ci sono stati due Congo indipendenti dagli anni ’60, l’ex- Repubblica francese del Congo e l’ex-Repubblica Democratica del Congo (RDC) belga. La RDC cambiò nome in Zaire durante la dittatura di Mobutu Sese Seko, ma cambiò di nuovo dopo la sua estromissione con una ribellione popolare. Il Sud Sudan sembrava aver apprezzato il nome Sud Sudan, dopo aver respinto, insieme ad Azania, i nomi Repubblica del Nile, del Kush e Juwama. Alcuni sud sudanesi vogliono ancora cambiare nome, favorendo Tochland o Savannah. Se gli attivisti favorevoli all’indipendenza si faranno strada nello Yemen devastato dalla guerra civile, lo Yemen del Sud riemergerà come nazione indipendente e ciò potrebbe dare sollievo a Sud Sudan e Sudafrica, ma non alla Corea del Sud che, dopo il riconoscimento di Trump del Nord come Repubblica Popolare Democratica di Corea, o RPDC, insisterà ad essere chiamata Repubblica di Corea o “RoK”. In occasione del 50esimo compleanno, il re dello Swaziland, re Mswati III, che ha 15 mogli, 12 in meno del numero noto di ex-mogli di Trump, proclamava che il nome del suo Paese sia d’ora in poi eSwatini.
Il Kazakistan non è più Kazakistan. Il presidente della nazione, Nursultan Nazarbaev, decretava che la lingua kazaka non sarà più scritta nell’alfabeto cirillico, ma in latino. “Qazaqstan” ora raggiungerà il Qatar come unici Paesi nella sezione “Q” dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Anche Nazarbaev non apprezza l’appendice “stan” al nome del suo Paese, è sarebbe favorevole ad abbandonare “stan” e chiamare il Paese Qazaq Yeli, o “Terra dei kazaki”. Alcuni politici in Kirghizistan vogliono abbandonare il loro “stan” dal nome del Paese, ufficialmente riconoscendosi come Kirghizilandia o Kyrgyz Zher, il nome in kirghiso. Questi politici si lamentano che la loro nazione sia spesso confusa col Kurdistan che, grazie alle pressioni turca e irachena, non è un Paese indipendente rappresentato alle Nazioni Unite. I kirghisi hanno ragione. I cechi, nel sostenere il nome Czechia, non sembravano preoccuparsi che alcuni lo confondano con la Cecenia, repubblica autonoma russa. Nel 2013, la piccola nazione sull’isola di Timor Est annunciato che cambiava nome in Timor-Leste, un capolavoro della propria storia di colonia portoghese. Per non lasciare fuori la nostalgia portoghese, Capo Verde cambiò nome in Cabo Verde, lo stesso anno. Il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha balenato la possibilità di cambiare il nome del Paese in qualcosa che non onori più i colonialisti spagnoli e il loro monarca re Filippo II. Ci furono passi al Congresso delle Filippine per stabilire una commissione geografica per il nuovo nome. Un’idea avanzata è il nome tagalog Haring Bayan.
Il cambio dei nomi dei Paesi sono difficili per alcuni commercianti. Nel 1997, l’American Safety Razor Company reintrodusse il marchio del sapone da barba Burma-Shave. Ma la Birmania era diventata Myanmar nove anni prima e “Myanmar-Shave” mancava di fascino. Tutti gli addetti al marketing del tè di Ceylon erano inorriditi, nel 1971, quando la nazione insulare cambiò nome in Sri Lanka. Se il referendum sull’indipendenza in Nuova Caledonia, a novembre di quest’anno, si tradurrà nel voto a maggioranza per la rottura dei legami coloniali con la Francia e l’indipendenza, il nome del Paese sarà Kanaky. Il nome è un omaggio ai nativi Kanak. Se la Groenlandia opta per l’indipendenza dalla Danimarca, addio Groenlandia e ciao Kalaallit Nunaat, nome Inuit del Paese. Il nazionalismo risorto in tutto il mondo tiene occupati cartografi e diplomatici. Cambiare il nome del Paese è l’attuale moda e non ci sono segni che finisca presto.
Traduzione di Alessandro Lattanzio
RSS Feed
CNJ FeedVOCE JUGOSLAVA JUGOSLAVENSKI GLAS
L'annuncio ed alcune registrazioni nella vecchia sezione del nostro sito