Informazione
A dicembre 2016 il Comitato Nazionale ANPI approvava il documento “Il confine italo-sloveno. Analisi e riflessioni”, sintesi di un seminario interno organizzato per dipanare le questioni, nel quale però non si affronta la questione dei “premiati” né si contesta l’istituzione del GIORNO DEL RICORDO...
In tal senso la scesa in campo dell’alfiere dell’imperialismo francese (forte del Trattato di Aquisgrana tra la Merkel e Macron) attiva una dinamica da seguire con attenzione.
Francesco Santoianni, 22/01/2019
Proprio quando senti in giro dire “ma a che serve più la filosofia?”, ecco che arriva un arrogante intellettuale imperialista – uno che addirittura può raccontare di aver partecipato ad assemblee del ‘68 – a dimostrare che in effetti serve. Ed anche a molto. Ovviamente, non era questa la sua intenzione…
Bernard-Henri Lévy è così abituato a dare spettacolo di sé che, alla fine, ha messo su uno spettacolo vero e proprio con cui si appresta a girare per il Vecchio Continente, intitolato proprio «Looking for Europe» (In cerca dell’Europa). Scopo dichiarato: “ rinnovare un’idea romantica dell’Europa, un’idea che porta speranza”. Si vede che la realtà. In questi ultimi decenni, ne ha fatto vedere e toccare una molto diversa, e quindi vai con la propaganda “romantica” per stendere cerone sulle lacerazioni dovute all’austerità…
Ma che c’entra la filosofia con uno spettacolo? Per un verso andrebbe chiesto a lui, che si inserisce nella tendenza a “spacciare pillole filosofiche” in piazze più o meno improbabili, dove si volgarizza alla meglio il pensiero teorico che ha per sua natura bisogno di scrittura e dialogo, invece della modalità broadcasting…
Per un altro verso, invece, Bernard-Henri Lévy va quasi ringraziato per aver infilato, in un profluvio di parole abusate, un concetto di filosofia politica che nessun pensatore liberaldemocratico aveva fin qui osato proporre: “In Europa, il popolo non deve essere l’unico sovrano!”.
I pensatori reazionari dell’Ancien Régime settecentesco, ovviamente, erano stati assai più drastici (“il popolo non deve essere sovrano”), ma a partire dal 1789, relativa presa della Bastiglia e successiva decapitazione dei monarchi, e con la ben più contrastata affermazione della democrazia liberal-borghese moderna il popolo è diventato lentamente l’unico legittimo titolare della sovranità entro un determinato spazio geografico; nazionale, sovranazionale o internazionale che fosse.
Dunque, stupisce a prima vista un’affermazione del genere in bocca a un liberal-liberista che ha fatto della forma della democrazia parlamentare l’architrave fondamentale del suo discorso in pubblico. Un pensiero violento, interventista, imperiale da punto di vista culturale e antropologico, che arroga alle – appunto! – democrazie occidentali il potere di decidere se un certo assetto politico-istituzionale di un certo paese rientra nei parametri della “democrazia” oppure in quelli della “dittatura”. E, nel secondo caso, di intervenire militarmente per imporre un assetto diverso, magari anche altrettanto anti-democratico…
Posizione interventista diventata “pensiero unico” a partire dal crollo del Muro, infiocchettata nella definizione di “ingerenza umanitaria” con il corollario ossimorico della “guerra umanitaria”. Bosnia, Iraq (due volte), Libia, ecc. Henri Lévy non ha mancato mai un appuntamento di guerra, elaborando ogni volta un’apposita narrazione giustificativa. Allegrotta e sgangherata sul piano concettuale, ma utilissima al giornalista medio che ha bisogno di frasi precotte da infilare come mantra nei suoi “pezzi”.
Solo questa affermazione sulla sovranità che non deve appartenere solo al popolo è in effetti una vera novità. Per lo meno, lo è il fatto che venga detto con questa nettezza, davvero “quasi filosofica”… da Bignami, insomma. Wolfgang Schaeuble, ex ministro tedesco più portato per l’economia, l’aveva detto in modo più indiretto: “non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla” (con una certa enfasi su quell'”assolutamente”, che lascia spazio zero a qualsiasi ipotesi di “superamento dei trattati”).
Il giornalista di Le Temps, come spesso accade davanti a certi “mostriciattoli sacri” che non vanno contraddetti, non pone la domanda che sarebbe ovvia: ma se la sovranità – il potere politico di decidere – non deve appartenere solo al popolo, quali altri soggetti o istituti ne debbono essere titolari?
Non si tratta di una curiosità intellettuale, ma della questione fondamentale che distingue – appunto – le democrazie (comprese quelle popolari, presenti e passate, che Bernard-Henri invece odia) dalle dittature, dalle monarchie, e da altre forme ibride oligarchiche che non sono ancora classificate con chiarezza.
Bernard-Henri non ci dice dunque chi siano questi altri “condomini” della sovranità – e ci deve essere un motivo non nobile, diciamo – ma una cosa la dice proprio fuori dai denti: “smettiamo di sacralizzare la gente.. […] La democrazia ha bisogno della trascendenza”.
Ossia di un “ente” da rispettare quasi religiosamente perché sa “meglio del popolo” cosa è bene fare e cosa no (“ Se ripetiamo: il popolo, il popolo, il popolo… andiamo dritti a una crisi di civiltà”). E chi sarà mai questo fantozziano Megadirettore Galattico che deve sostituirsi alla sovranità del popolo? Ma l’Unione Europea, ovvio! L’unica struttura che contiene le competenzetecniche per esaudire la volontà dei “mercati”.
Non c’è molto altro da commentare, potere leggere l’intervista tramire il link.
C’è solo da ringraziarlo, ripetiamo, per la sua involontaria chiarificazione: chi tuona contro “i sovranismi” sta semplicemente dicendo che la democrazia deve finire, in Europa, perché ci sono poteri molto più potenti e “razionali” dei popoli. Che in fondo, si sa, sono “come un bambino…”.
Benvenuti nel piccolo mondo dell’intellettuale macroniano…
Johnathan Cook | globalresearch.ca
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
01/02/2019
Un gruppo di 30 rispettati intellettuali, scrittori e storici ha pubblicato un manifesto lamentando l'imminente collasso dell'Europa e dei suoi presunti valori illuministici di liberalismo e razionalismo. L'idea di Europa, avvertono, "sta cadendo a pezzi davanti ai nostri occhi", mentre la Gran Bretagna si prepara alla Brexit e i partiti "populisti e nazionalisti" sembrano pronti a incassare ampi successi nelle elezioni in tutto il continente.
Il breve manifesto è stato pubblicato nelle riviste europee dell'élite liberale, in giornali come The Guardian.
"Dobbiamo ora combattere per l'idea di Europa o perire sotto le ondate del populismo", si legge nel documento. Fallire significa che "il risentimento, l'odio e una pletora di infelici passioni ci circonderanno e sommergeranno".
A meno che non si possa cambiare la situazione, le elezioni in tutta l'Unione europea saranno "le più calamitose che abbiamo mai conosciuto: una vittoria per i sabotatori, la disgrazia per coloro che credono ancora nell'eredità di Erasmo, Dante, Goethe e Comenius; il disprezzo per l'intelligenza e la cultura; esplosioni di xenofobia e antisemitismo ovunque; il disastro".
Il manifesto è stato scritto da Bernard-Henri Levy, il filosofo francese devoto ad Alexis de Tocqueville, un teorico del liberalismo classico. Tra i firmatari figurano i romanzieri Ian McEwan, Milan Kundera e Salman Rushdie, lo storico Simon Shama e i premi Nobel come Svetlana Alexievitch, Herta Müller, Orhan Pamuk e Elfriede Jelinek.
Sebbene non nominati, i loro eroi politici europei sembrano essere l'Emmanuel Macron di Francia, attualmente impegnato nel tentativo di schiacciare le proteste popolari contro l'austerità dei Gilet gialli e la cancelliera tedesca Angela Merkel, a presidio delle barricate per l'élite liberale contro una rinascita dei nazionalisti in Germania.
Mettiamo da parte, in questa occasione, la strana ironia che molti dei firmatari del manifesto - non ultimo lo stesso Henri Levy - hanno una ben nota passione per Israele, uno stato che ha sempre respinto i principi universali apparentemente incarnati nell'ideologia liberale e che invece si schiera apertamente per un nazionalismo etnico simile a quello che ha squassato l'Europa nel secolo scorso.
Concentriamoci invece sulla loro affermazione secondo cui "il populismo e il nazionalismo" sono sul punto di uccidere la tradizione liberale democratica dell'Europa e gli stessi valori più cari a questo illustre gruppo. La loro speranza, plausibilmente, è che il loro manifesto serva come un campanello d'allarme prima che le cose prendano una svolta irreversibile in senso peggiorativo.
Il crollo del liberalismo
In un certo senso, la loro diagnosi è corretta: l'Europa e la tradizione liberale si stanno sgretolando. Ma non perché, come insinuano con forza, i politici europei assecondano gli istinti più bassi di una marmaglia insensata, vale a dire la gente comune verso la quale hanno così poca fede. Piuttosto perché il lungo esperimento nel liberalismo ha finalmente fatto il suo corso. Il liberalismo ha chiaramente fallito, e ha fallito catastroficamente.
Questi intellettuali si trovano, come ognuno di noi, su un precipizio dal quale stiamo per saltare o cadere. Ma l'abisso non si è aperto, come dicono loro, perché il liberalismo viene respinto. Piuttosto, l'abisso è l'inevitabile risultato della reiterazione del modello liberista come soluzione alla nostra attuale situazione, anche da parte di questa élite sempre più ristretta e contro ogni evidenza razionale. È la tenace trasformazione di un'ideologia profondamente viziata in religione. È l'idolatria verso un sistema di valori che ci distrugge.
Il liberalismo, come la maggior parte delle ideologie, ha aspetti positivi. Il suo rispetto per l'individuo e le sue libertà, il suo interesse nel coltivare la creatività umana e la promozione dei valori universali e dei diritti umani rispetto all'approccio tribale, con alcune conseguenze positive.
Ma l'ideologia liberale è stata molto efficace nel nascondere il suo lato oscuro o più precisamente, nel persuaderci che questo lato oscuro è la conseguenza della rinuncia del liberalismo piuttosto che un fattore inerente al progetto politico liberale.
La perdita dei tradizionali legami sociali - tribali, settari, geografici - ha lasciato le persone oggi più sole, più isolate di quanto fossero in qualsiasi precedente società umana. Possiamo sostenere a parole i valori universali, ma nelle nostre comunità atomizzate, ci sentiamo alla deriva, abbandonati e arrabbiati.
Sottrazione di risorse umanitarie
La professata preoccupazione liberale per il benessere degli altri e per i loro diritti ha, in realtà, fornito una copertura cinica per una serie di sottrazioni di risorse sempre più sfacciate. Lo sfoggio di credenziali umanitarie del liberalismo ha permesso alle nostre élite di lasciare una scia di massacri e macerie nel loro passaggio in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e presto, a quanto pare, in Venezuela. Abbiamo ucciso "con gentilezza" e poi rubato l'eredità delle nostre vittime.
L'inconfondibile creatività individuale ha forse favorito l'arte, seppur feticizzata, e anche i rapidi sviluppi meccanici e tecnologici. Ma ha anche incoraggiato la concorrenza sfrenata in ogni ambito della vita, sia utile all'umanità o meno, e comunque con un enorme spreco di risorse.
Nel peggiore dei casi, ha letteralmente scatenato una corsa agli armamenti, che - a causa di un mix della nostra libera creatività, della nostra mancanza di Dio e della logica economica del complesso militare-industriale - è culminata nello sviluppo di armi nucleari. Abbiamo escogitato i modi più completi ed efferati inimmaginabili per ucciderci a vicenda. Possiamo commettere un genocidio su scala globale.
Nel frattempo, la priorità assoluta dell'individuo ha sancito un'auto-concentrazione patologica, un egoismo che ha fornito terreno fertile non solo per il capitalismo, il materialismo e il consumismo, ma per fondere il tutto in un super-neoliberismo. Ciò ha permesso a una piccola élite di accumulare e sottrarre la maggior parte della ricchezza del pianeta e porla al di fuori della portata del resto dell'umanità.
Peggio ancora, la nostra creatività sfrenata, il nostro autocompiacimento e la nostra competitività ci hanno reso ciechi a tutte le cose più grandi e più piccole di noi stessi. Ci manca una connessione emotiva e spirituale con il nostro pianeta, con gli altri animali, con le generazioni future, con l'armonia caotica del nostro universo. Quello che non possiamo capire o controllare, lo ignoriamo o lo deridiamo.
E così l'impulso liberale ci ha portato sull'orlo di estinguere la nostra specie e forse tutta la vita sul nostro pianeta. La nostra spinta a esaurire i beni, ad accumulare risorse per il guadagno personale, a saccheggiare le ricchezze della natura senza rispettare le conseguenze è così travolgente, così folle che il pianeta dovrà trovare un modo per riequilibrarsi. E se continuiamo, quel nuovo equilibrio, che va sotto il nome di "cambiamenti climatici", richiederà di rinunciare al pianeta.
Nadir di una pericolosa arroganza
Si può plausibilmente asserire che è un po' che gli umani si trovano su questa sozza strada. La concorrenza, la creatività, l'egoismo, dopotutto, precedono il liberalismo. Ma il liberalismo ha rimosso le ultime restrizioni, ha schiacciato qualsiasi sentimento contrario come irrazionale, incivile, primitivo.
Il liberalismo non è la causa della nostra situazione. È il nadir di una pericolosa arroganza verso la quale noi, come specie, abbiamo indugiato per troppo tempo, dove il bene dell'individuo supera qualsiasi bene collettivo, definito nel senso più ampio possibile.
Il liberale ossequia il suo piccolo e parziale campo di conoscenze e competenze, eclissando le saggezze antiche e future, quelle radicate nei cicli naturali, nelle stagioni e nella meraviglia per l'ineffabile e sconosciuto. L'attenzione incessante ed esclusiva del liberale è sul "progresso", la crescita, l'accumulazione.
Per salvarci è necessario un cambiamento radicale. Non armeggiare, non riformare, ma una visione completamente nuova che rimuova l'individuo e la sua gratificazione personale dal centro della nostra organizzazione sociale.
Questo non è contemplato per le élite che pensano che la soluzione stia in una maggiore, e non minore, dose di liberalismo. Chiunque si allontani dalle loro prescrizioni, chiunque aspiri a essere più di un tecnocrate addetto a correggere i difetti minori dello status quo, viene presentato come una minaccia. Nonostante la modestia delle loro proposte, Jeremy Corbyn nel Regno Unito e Bernie Sanders negli Stati Uniti sono stati insultati da un'élite mediatica, politica e intellettuale pesantemente investita nel perseguire ciecamente il sentiero dell'autodistruzione.
Sostenitori dello status quo
Di conseguenza, ora abbiamo tre chiare tendenze politiche.
La prima è quella dei sostenitori dello status quo, quella degli scrittori europei del più recente - e ultimo? - manifesto sul liberalismo. In ogni passaggio del manifesto dimostrano quanto siano irrilevanti, quanto incapaci nel fornire risposte alla domanda su come dobbiamo andare avanti. Si rifiutano categoricamente di guardare all'interno del liberalismo per capire cosa è andato storto e di osservare l'esterno per comprendere come salvarci.
Irresponsabilmente, questi guardiani dello status quo raggruppano la seconda e la terza tendenza nella futile speranza di preservare la loro presa sul potere. Entrambe le altre due tendenze sono derise indiscriminatamente come "populismo", come politica dell'invidia, politica della folla. Queste due tendenze alternative e opposte sono considerate indistinguibili.
Ciò non salverà il liberalismo, ma aiuterà a promuovere il peggio delle due alternative.
Chi nelle élite ha capito che il liberalismo ha fatto il suo tempo, sfrutta la vecchia ideologia predatoria del capitalismo: mentre cercano di distogliere l'attenzione dalla loro avidità e dalla difesa dei loro privilegi, seminano discordia e insinuano minacce oscure.
Le critiche dell'élite liberale formulate dai nazionalisti etnici suonano convincenti perché poggiano sulle verità del fallimento del liberalismo. Ma sono ingannevoli, non offrono soluzioni a parte il loro avanzamento personale nel sistema esistente, fallito, destinato all'autodistruzione.
Il nuovo autoritarismo [la seconda tendenza] sta tornando ai vecchi e fidati modelli del nazionalismo xenofobo, offrendo gli altri come capro espiatorio per sostenere il proprio potere. Stanno abbandonando la sensibilità ostentata e coscienziosa del liberale per continuare il saccheggio sfrenato. Se la nave affonda, rimarranno al buffet finché le acque non raggiungeranno il soffitto della sala da pranzo.
Dove può risiedere la speranza
La terza tendenza è l'unico posto in cui risiede la speranza. Questa tendenza, dei "dissidenti", comprende che è necessario un nuovo pensiero radicale. Ma dato che questo gruppo è attivamente schiacciato dalla vecchia élite liberale e dai nuovi autoritarismi, ha poco spazio pubblico e politico per esplorare le sue idee, per sperimentare, per collaborare, come è urgentemente necessario.
I social media forniscono una piattaforma potenzialmente vitale per iniziare a criticare il vecchio sistema fallito, per sensibilizzare su ciò che è andato storto, per contemplare e condividere idee radicali e mobilitarsi. Ma i liberali e gli autoritari vivono la critica come una minaccia ai loro stessi privilegi. Sotto l'isteria delle "fake news", stanno rapidamente lavorando per spegnere anche questo piccolo spazio.
Abbiamo così poco tempo, ma la vecchia guardia vuole bloccare qualsiasi possibile via per la salvezza: anche se i mari sono pieni di plastica, se le popolazioni di insetti scompaiono in tutto il mondo e il pianeta si prepara a tossire un grumo di muco infetto.
Non dobbiamo essere ingannati da questi progressisti liberatori del manifesto: i filosofi, gli storici e gli scrittori - l'ala delle pubbliche relazioni - del nostro status quo suicida. Non ci hanno avvertito della bestia che giaceva in mezzo a noi. Non hanno visto il pericolo incombere e il loro narcisismo li acceca ancora.
Non dovremmo ascoltare i guardiani del vecchio, quelli che hanno trattenuto le nostre mani, che hanno indicato un sentiero che porta l'umanità sull'orlo della sua stessa estinzione. Dobbiamo evitarli, chiudere le orecchie al canto delle loro sirene.
Ci sono piccole voci che lottano per essere ascoltate al di sopra del ruggito delle elite liberali morenti e del barrito dei nuovi autoritarismi. Devono essere ascoltate, aiutate a condividere e collaborare per offrire visioni di un mondo diverso. Un mondo dove l'individuo non è sovrano. Dove impariamo modestia e umiltà e come fare ad amare nel nostro angolo infinitamente piccolo dell'universo.
* Jonathan Cook ha vinto il Premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. I suoi libri comprendono Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East (Pluto Press) e Disappearing Palestine: Israel Experiments in Human Despair (Zed Books). Il suo sito web è www.jonathan-cook.net. È un frequente collaboratore di Global Research.
(slovenščina / hrvatskosrpski / italiano)
Kritični odmevi v slovenski politiki
Spletno Uredništvo | Slovenija | 11. Feb. 2019
Objavljeno: 3. prosinac 2018.
U filmu nema ni riječi o rasnim zakonima, masakrima i nasilnoj talijanizaciji koju su provodili Mussolinijevi fašisti. Svu krivnju autor pripisuje Titovim partizanima kao simbolima najbestijalnijeg zla
Ovih dana Trstu se dogodila prva prava zimska bura. Da bismo se zaštitili od njenih refula, sakrili smo se u popularnu oštariju »Siora Rosa« na porciju vruće jote, listajući lokalni dnevnik. U njegovoj info rubrici zamijetili smo da se u kinu Fellini prikazuje komad bizarnog naziva »Rosso Istria« u režiji nama posve anonimnog sineaste Maximiliana Hernanda Bruna, čija imena ali i fizionomija prizivaju ljepuškastu vedetu meksičke sapunice.
Ne, nije to bio još jedan komad s notornim predikatom »cinema a luci rosse«. Iako u njemu ima dovoljno (političkog) hardcore porna. Da bi paradoks bio veći, dotična oštarija smještena je nasuprot institucije poznatije kao »Civico Museo della Civilta Istriana, Fiumana e Dalmata«. Umjesto deserta, odlučili smo ignorirati njegove muzejske artefakte i pogledati Brunov komad. I bolje da nismo. Jer pojedini kadrovi »Crvene Istre«, ali i autorov odbojni revizonizam, skoro su nas natjerali da povratimo na crvenu fotelju kina kompletni sastav netom konzumirane slasne jote.
Apsolutno zlo
Da bi paradoks bio veći, Bruno je dodijelio jednu od uloga i slavnoj Geraldine Chaplin. No programeri ovogodišnjeg ZFF-a koji su ugostili tu glumicu, očito nisu znali za njen opsukrni projekt. Ili su se pravili da ne znaju. Ostaje nepoznanica što je tu etabliranu glumicu natjeralo da se ukaže u »Crvenoj Istri«, iako je riječ o cameo ulozi. Jer, njen boravak u toj istoj »crvenoj Istri« (ovo je sada politička a ne filmska i geološka sintagma) dogodio se dolaskom na brijunski set komedije belgijskog tandema Brossens & Woodworth »The Barefoot Emperor« (Bosonogi car) koju je financirao i HAVC. Možda je sve to bio dio njena istarsko-frijulanskog itinerara, koji je uz Brijune uključio i tršćanski Magazzino 18. Na potonjoj lokaciji snimljena je sekvenca Brunova komada u kojoj ona kao odrasla Giuliana Visantrin vodi svog unuka na mjesto koje priziva esulske užase njene ratne prošlosti. Zato nam se na prvi pogled učinilo da je »Rosso Istria« nekakav lokalni remake Argentova »Profondo rosso«. Ubrzo smo shvatili da je njegov horor još jeziviji i morbidniji. Doduše, engleski naziv filma je »Red Land«, jer većina Amera očito nije u stanju na geografskoj karti locirati Croatiu, a kamoli Istriu.
Na sreću, HAVC ne stoji iza »Crvene Istre« kao akter u sferi manjinskih koprodukcija, iako nas sa obzirom na utjecaj koji u njemu trenutno imaju braniteljske udruge, ne bi čudilo da ih je napalila ta porno storija o talijanskom Bleiburgu. No Visantrin je u filmu samo jedna od žrtava »zločina« koje su »krvožedni« istarski partizani počinili u Brunovoj Vižinadi kao simboli apsolutnog zla. U fokusu je lik Giulianine prijateljice iz djetinjstva Norme Cossetto (glumi je Selene Gendini). A naziv filma odnosi se na njen diplomski rad koji se bavio istarskom crvenicom, dok je biciklom istraživala istarske arhive i crkve u potrazi za materijalom. Iako ta boja ima posve drukčije krvave konotacije. Nakon što su je Titovi partizani silovali u nepodnošljivo dugoj sekvenci, njeno će tijelo biti bačeno u fojbu blizu Ville Surani. Puno godina kasnije, sveučilište u Padovi koje je pohađala, uručit će joj počasnu titulu. A talijanski predsjednik Ciampi ju je 2005. odlikovao ordenom za građanske zasluge.
Fašist i revizionist
Iako ju je predsjednik Federacije esula Antonio Ballarin prilično neumjesno i bez relevantnih dokaza opisao kao »talijansku Annu Frank«, svedenu na ultimativnu mučenicu, talijanski antifašisti su je prikazali kao fanatičnu sljedbenicu fašističkog režima. Kao što je i Bruno u njihovim reakcijama žigosan kao »fašist i revizionist«, neka vrsta talijanskog Sedlara, što je itekako blizu istini. U filmu naime nema ni riječi o rasnim zakonima, masakrima i nasilnoj talijanizaciji koju su provodili Mussolinijevi fašisti. Svu krivnju autor pripisuje Titovim partizanima kao simbolima najbestijalnijeg zla. U čitavom filmu, režiser je odvojio tek 10 minuta za njemačku okupaciju Vižinade. U toj okupaciji nisu ispalili nijedan metak, ne računjaući na egzekuciju manje grupe. »Fascisti? Comunisti? Siamo tutti noi«, kazat će u jednoj sceni lik profesora kojeg u filmu glumi Franco Nero, uz Chaplin još jedan poznati glumac kojem sve ovo nije trebalo. Jer, tragična sudbina mlade Cossetto postala je prvorazredna tema političkih prepucavanja i skupljanja predizbornih bodova.
Zato na partizanska »zlodjela« inkarnirana u liku komandanta i krvnika Mate (glumi ga Slovenac Romeo Grebenšek) otpada barem 130 minuta tog predugog filma. Paradoks je tim veći da ga je producirao talijanski RAI, koji se s obzirom na trenutnu talijansku političku klimu, u kojoj konce vuče ministar Salvini, sve više približava HTV-u (film je očito zamišljen kao mini TV serija od tri epizode). Zato nije ni čudo da je na tršćanskoj svečanoj projekciji Brunova filma bio nazočan i gradonačelnik Dipiazza, inače pripadnik notorne Lege Nord. Iako je redatelj »Crvene Istre« trebao biti stanoviti Antonello Belluco, sin riječkih esula i autor revizionističkog filma »Il segreto d'Italia« u kojem on tematizira »masakr« koji su partizani počinili 1945. u Codevigu blizu Chioggie.
Dobra je vijest da su na nedavnom tršćanskom maršu Case Pound, njihovi antifašistički protivnici bili brojniji. Što je u »Ružnoj našoj« nezamislivo. Kao što su u nas nezamislivi antifašistički filmovi poput Gianikianova »I diari di Angela – Noi due cineasti« ili Trevesova doksa »1938 Diversi« prikazani na lanjskoj venecijanskoj Mostri (potonji govori o rasnim zakonima fašističkog režima u Italiji). Na marginama te iste Mostre prikazan je na Lidu i Brunov komad, koji s razlogom nije bio uvršten u službeni festivalski program, na čijoj »ekskluzivnoj« projekciji nije bio dopušten ulaz akreditiranim novinarima. »Poznata mi je tragedija esula i fojbi jer mi je baka, porijeklom iz Dalmacije, bila u nemilosti Titovih partizana kad je na jednom zidu u Goriziji napisala Viva l'Italia«, kazala je patetična Gendini. Ali bila je to »ekskluzivna projekcija« strogo rezervirana za producente i lokalne glavešine Lege Nord. Zato ostaje pitanje dana kad će Brunov komad osvanuti na platnima riječkog Euroherca ili trsatskog svetišta, poslovično naklonjenim Sedlarovom recentnom opusu.
Nema sumnje da će iste rastvoriti crveni tepih za »Crvenu Istru«.
https://www.facebook.com/anpinaz/posts/10156252596057903?__tn__=C-R
Foibe e fascismo, Anpi Parma: "Dalle destre rincorsa grottesta e comica a spararla più grossa"
10 FEBBRAIO 2019
Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della celebrazione del ‘Giorno del Ricordo’
Palazzo del Quirinale, 09/02/2019
Benvenuti al Quirinale. Rivolgo un saluto al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Corte costituzionale e al Vice Presidente del Senato.
Un ringraziamento a quanti sono intervenuti, contribuendo in maniera efficace a illustrare, a far rivivere e a comprendere il senso di questa giornata del Ricordo.
Celebrare il Giorno del Ricordo significa rivivere una grande tragedia italiana, vissuta allo snodo del passaggio tra la II guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda. Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente. Mentre, infatti, sul territorio italiano, in larga parte, la conclusione del conflitto contro i nazifascisti sanciva la fine dell’oppressione e il graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli Italiani nelle zone occupate dalle truppe jugoslave.
Un destino comune a molti popoli dell’Est Europeo: quello di passare, direttamente, dalla oppressione nazista a quella comunista. E di sperimentare, sulla propria vita, tutto il repertorio disumanizzante dei grandi totalitarismi del Novecento, diversi nell’ideologia, ma così simili nei metodi di persecuzione, controllo, repressione, eliminazione dei dissidenti.
Un destino crudele per gli italiani dell’Istria, della Dalmazia, della Venezia Giulia, attestato dalla presenza, contemporanea, nello stesso territorio, di due simboli dell’orrore: la Risiera di San Sabba e le Foibe.
La zona al confine orientale dell’Italia, già martoriata dai durissimi combattimenti della Prima Guerra mondiale, assoggettata alla brutalità del fascismo contro le minoranze slave e alla feroce occupazione tedesca, divenne, su iniziativa dei comunisti jugoslavi, un nuovo teatro di violenze, uccisioni, rappresaglie, vendette contro gli italiani, lì da sempre residenti. Non si trattò – come qualche storico negazionista o riduzionista ha voluto insinuare – di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni.
Tanti innocenti, colpevoli solo di essere italiani e di essere visti come un ostacolo al disegno di conquista territoriale e di egemonia rivoluzionaria del comunismo titoista. Impiegati, militari, sacerdoti, donne, insegnanti, partigiani, antifascisti, persino militanti comunisti conclusero tragicamente la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione, uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità delle foibe. Il catalogo degli orrori del ‘900 si arricchiva così del termine, spaventoso, di “infoibato”.
La tragedia delle popolazioni italiane non si esaurì in quei barbari eccidi, concentratisi, con eccezionale virulenza, nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945.
Alla fine del conflitto, l’Italia si presentava nella doppia veste di Paese sconfitto nella sciagurata guerra voluta dal fascismo e, insieme, di cobelligerante. Mentre il Nord Italia era governato dalla Repubblica di Salò, i territori a est di Trieste erano stati formalmente annessi al Reich tedesco e, successivamente, vennero direttamente occupati dai partigiani delle formazioni comuniste jugoslave.
Ma le mire territoriali di queste si estendevano anche su Trieste e Gorizia. Un progetto di annessione rispetto al quale gli Alleati mostravano una certa condiscendenza e che, per fortuna, venne sventato dall’impegno dei governi italiani.
Certo, non tutto andò secondo gli auspici e quanto richiesto e desiderato. Molti italiani rimasero oltre la cortina di ferro. L’aggressività del nuovo regime comunista li costrinse, con il terrore e la persecuzione, ad abbandonare le proprie case, le proprie aziende, le proprie terre. Chi resisteva, chi si opponeva, chi non si integrava nel nuovo ordine totalitario spariva, inghiottito nel nulla. Essere italiano, difendere le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria religione, la propria lingua era motivo di sospetto e di persecuzione. Cominciò il drammatico esodo verso l’Italia: uno stillicidio, durato un decennio. Paesi e città si spopolavano dalla secolare presenza italiana, sparivano lingua, dialetti e cultura millenaria, venivano smantellate reti familiari, sociali ed economiche.
Il braccio violento del regime comunista si abbatteva furiosamente cancellando storia, diversità, pluralismo, convivenza, sotto una cupa cappa di omologazione e di terrore.
Ma quei circa duecentocinquantamila italiani profughi, che tutto avevano perduto, e che guardavano alla madrepatria con speranza e fiducia non sempre trovarono in Italia la comprensione e il sostegno dovuti. Ci furono - è vero - grandi atti di solidarietà. Ma la macchina dell’accoglienza e dell’assistenza si mise in moto con lentezza, specialmente durante i primi anni, provocando agli esuli disagi e privazioni. Molti di loro presero la via dell’emigrazione, verso continenti lontani. E alle difficoltà materiali in Patria si univano, spesso, quelle morali: certa propaganda legata al comunismo internazionale dipingeva gli esuli come traditori, come nemici del popolo che rifiutavano l’avvento del regime comunista, come una massa indistinta di fascisti in fuga. Non era così, erano semplicemente italiani.
La guerra fredda, con le sue durissime contrapposizioni ideologiche e militari, fece prevalere, in quegli anni, la real-politik. L’Occidente finì per guardare con un certo favore al regime del maresciallo Tito, considerato come un contenimento della aggressività della Russia sovietica. Per una serie di coincidenti circostanze, interne ed esterne, sugli orrori commessi contro gli italiani istriani, dalmati e fiumani, cadde una ingiustificabile cortina di silenzio, aumentando le sofferenze degli esuli, cui veniva così precluso perfino il conforto della memoria.
Solo dopo la caduta del muro di Berlino – il più vistoso, ma purtroppo non l’unico simbolo della divisione europea - una paziente e coraggiosa opera di ricerca storiografica, non senza vani e inaccettabili tentativi di delegittimazione, ha fatto piena luce sulla tragedia delle foibe e sul successivo esodo, restituendo questa pagina strappata alla storia e all’identità della nazione.
L’istituzione, nel 2004, del Giorno del ricordo, votato a larghissima maggioranza dal Parlamento, dopo un dibattito approfondito e di alto livello, ha suggellato questa ricomposizione nelle istituzioni e nella coscienza popolare.
Ricomposizione che è avvenuta anche a livello internazionale, con i Paesi amici di Slovenia e Croazia, nel comune ripudio di ogni ideologia totalitaria, nella condivisa necessità di rispettare sempre i diritti della persona e di rifiutare l’estremismo nazionalista. Oggi, in quei territori, da sempre punto di incontro di etnie, lingue, culture, con secolari reciproche influenze, non ci sono più cortine, né frontiere, né guerre. Oggi la città di Gorizia non è più divisa in due dai reticolati.
Al loro posto c’è l’Europa, spazio comune di integrazione, di dialogo, di promozione dei diritti, che ha eliminato al suo interno muri e guerre. Oggi popoli amici e fratelli collaborano insieme nell’Unione Europea per la pace, il progresso, la difesa della democrazia, la prosperità.
Ringrazio gli ambasciatori di Slovenia, di Croazia e del Montenegro per la loro presenza qui, che attesta la grande amicizia che lega oggi i nostri popoli in un comune destino. Ringrazio l’on. Furio Radìn, Vice Presidente del Parlamento Croato, in cui è stato eletto come rappresentante della Comunità nazionale italiana di Croazia; e l’on. Felice Ziza, deputato all’Assemblea Nazionale Slovena, ove è stato eletto come rappresentante della Comunità nazionale italiana di Slovenia.
Desidero ricordare qui le parole di una dichiarazione congiunta tra il mio predecessore, il Presidente Giorgio Napolitano, che tanto ha fatto per ristabilire verità su quei tragici avvenimenti, e l’allora Presidente della Repubblica di Croazia Ivo Josipović del settembre 2011:
“Gli atroci crimini commessi non hanno giustificazione alcuna. Essi non potranno ripetersi nell'Europa unita, mai più. Condanniamo ancora una volta le ideologie totalitarie che hanno soppresso crudelmente la libertà e conculcato il diritto dell'individuo di essere diverso, per nascita o per scelta”.
L’ideale di Europa è nata tra le tragiche macerie della guerra, tra le stragi e le persecuzioni, tra i fili spinati dei campi della morte. Si è sviluppata in un continente diviso in blocchi contrapposti, nel costante pericolo di conflitti armati: per dire mai più guerra, mai più fanatismi nazionalistici, mai più volontà di dominio e di sopraffazione. L’ideale europeo, e la sua realizzazione nell’Unione, è stato - ed è tuttora - per tutto il mondo, un faro del diritto, delle libertà, del dialogo, della pace. Un modo di vivere e di concepire la democrazia che va incoraggiato, rafforzato e protetto dalle numerose insidie contemporanee, che vanno dalle guerre commerciali, spesso causa di altri conflitti, alle negazioni dei diritti universali, al pericoloso processo di riarmo nucleare, al terrorismo fondamentalista di matrice islamista, alle tentazioni di risolvere la complessità dei problemi attraverso scorciatoie autoritarie.
Molti tra i presenti, figli e discendenti di quegli italiani dolenti, perseguitati e fuggiaschi, portano nell’animo le cicatrici delle vicende storica che colpì i loro padri e le loro madri. Ma quella ferita, oggi, è ferita di tutto il popolo italiano, che guarda a quelle vicende con la sofferenza, il dolore, la solidarietà e il rispetto dovuti alle vittime innocenti di una tragedia nazionale, per troppo tempo accantonata.
Nel corso della cerimonia, aperta dalla proiezione di un video di Rai Storia, sono intervenuti: il Presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, Antonio Ballarin, lo Storico Giuseppe Parlato, il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Enzo Moavero Milanesi e il Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Marco Bussetti.
Il Prof. Giuseppe De Vergottini, esule di prima generazione, ha portato la sua testimonianza ed è stato successivamente intervistato da due ragazzi.
Due studenti hanno letto una pagina di "Addio alla Città di Pola" di Monsignor Antonio Santin e un brano tratto dal romanzo "Verde Acqua" di Marisa Madieri. Successivamente il Presidente Mattarella ha pronunciato un discorso.
Al termine il Capo dello Stato, coadiuvato dal Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, ha consegnato i premi alle scuole vincitrici del concorso nazionale "Fiume e l'Adriatico orientale. Identità, culture, autonomia e nuovi confini nel panorama europeo alla fine della Prima guerra mondiale".
Erano presenti alla cerimonia il Presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, il Presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi, il Vice Presidente del Senato della Repubblica, Ignazio La Russa, rappresentanti del Governo, del Parlamento, autorità civili ed esponenti delle Associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati.
In precedenza il Presidente del Consiglio dei Ministri, coadiuvato dal Capo del Dipartimento per il Coordinamento Amministrativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Paola Paduano e dal Presidente della Federesuli, aveva consegnato le medaglie commemorative del "Giorno del Ricordo".
Roma, 09/02/2019
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