Informazione

L'offensiva del revisionismo e del neoirredentismo

1) NEGAZIONISTA! (C. Cernigoi)
2) FOIBE E CENTROSINISTRA: UNA VERGOGNA (G. Aragno)
3) STUPIDAGGINI (J. Tkalec)
4) B. e T. Bellone sul revisionismo e su Carlo Oliva a Bussoleno
5) Memoria e polpette avvelenate (M. Sarfatti)
6) La scomodità di Giacomo Scotti (D. Grubiša, Novi List, 12 marzo 2007)


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NEGAZIONISTA!

Negazionista, ecco la parola chiave. Il nuovo diavolo, il nuovo fantasma che corre l’Europa, il mondo; altro che nichilista, bolscevico, anarco-insurrezionalista: ora la reazione ha trovato un nuovo termine per criminalizzare chi non si omologa alla “vulgata di regime”.
Negazionista delle foibe, mi hanno definita (non solo me, peraltro, sono in poca, ma buona compagnia). Ma io, cosa avrei negato, alla fine dei conti?
Non ho negato che vi siano stati “infoibamenti” in Istria nel settembre 1943. No, ho semplicemente citato i documenti che dimostrano che gli “infoibati” non sono stati “migliaia” ma circa trecento e non più di cinquecento. Le fonti? Il rapporto del maresciallo Harzarich, che operò i recuperi, una lettera del federale fascista dell’Istria Bilucaglia dell’aprile 1945.
Ho “negato”, questo sì, che vi siano le prove delle efferate torture e violenze carnali che vengono attribuite ai partigiani nei confronti degli “infoibati”. Ho negato che il capo di don Tarticchio sia stato circondato da una corona di spine e che i suoi genitali gli siano stati messi in bocca, perché il rapporto del recupero della sua salma non fa parola di tutto ciò: ma non ho mai “negato” che don Tarticchio sia stato gettato in una foiba.
Non ho neppure negato che Norma Cossetto sia stata gettata in una foiba, ho solo detto che il rapporto del recupero della sua salma non parla di alcuna traccia di violenza, come quelle che vengono descritte dai libri (non ultimo quello di Frediano Sessi).
Ho negato, questo sì, che i racconti di Udovisi e Radeticchio, che sostengono di essere sopravvissuti alla foiba, siano attendibili: anche perché ambedue descrivono la stessa vicenda, praticamente con le stesse parole, però Udovisi racconta di avere salvato Radeticchio, mentre Radeticchio dichiara che Udovisi è morto nella foiba. Ho negato che siano attendibili: mi si dimostri il contrario e tornerò sulle mie opinioni.
Ho negato che a Basovizza siano state “infoibate” centinaia o migliaia di persone: l’ho negato perché dai documenti (fonte militare angloamericana e archivio del Comune di Trieste) risulta che la foiba è stata più volte svuotata, però negli archivi dei cimiteri cittadini non c’è traccia di questi recuperi e delle relative inumazioni. Ho posto dei dubbi, ho chiesto che si esplorasse il pozzo: nessuno lo vuole fare perché le cose devono restare così come sono, non c’è posto per le obiezioni.
Allora si dice che io non rispetto i morti, solo perché sostengo (prove alla mano) che non sono morte tante persone come si dice. Perché ho trovato che negli elenchi degli “infoibati” sono stati inseriti anche caduti partigiani o persone che proprio non erano morte, indipendentemente dal ruolo che avevano ricoperto sotto il nazifascismo. Marco Pirina, che ha inserito tra gli “infoibati” tanti vivi eo tanti martiri della Resistenza, o il compianto Gaetano La Perna, che ha indicato come “ucciso dagli jugoslavi” anche il questore di Fiume Palatucci, morto in un lager nazista, loro li rispettano i morti, invece? 
Ma io sono “negazionista” perché mi permetto di dire che sulla questione delle foibe sono state dette tante falsità e che queste falsità sono diventate una “leggenda metropolitana”, un “mito”, che viene usato a scopo anticomunista, antipartigiano e soprattutto in funzione razzista contro i popoli della ex Jugoslavia, soprattutto Sloveni e Croati.
E dato che dico questo, mi si vuole impedire di parlare, attribuendomi affermazioni che non ho fatto e stravolgendo le cose che ho detto.
“Calunniare, insudiciare, ammazzare sono i metodi del fascismo”, ha scritto il cattolico Robert Merle. Spero caldamente che non siamo ancora arrivati al fascismo completo, perché i primi due metodi li stiamo vivendo del tutto, in questi giorni del “ricordo” di febbraio 2007.
Ma, come diceva a suo tempo un alto funzionario dello Stato, c’è un’unica cosa da fare: Resistere, Resistere, Resistere.

Claudia Cernigoi (Trieste)
9 febbraio 2007


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From:   Giuseppe Aragno
Subject: Foibe e centrosinistra: una vergogna.
Date: February 10, 2007 11:21:40 PM GMT+01:00
To:   jugocoord 

Poche parole, perché si sappia. Il fatto si commenta da solo.
L'amministrazione comunale di Napoli, nella persona dell'assessore all'Educazione, Giuseppe Gambale, in occasione del giorno della "memoria" per le foibe, ha organizzato una manifestazione annunciata alla stampa, cui ha invitato studenti, docenti e rappresentanti dei profughi istriani.
Presentando i relatori, l'assessore ha comunicato l'assenza della sindaca Rosa Russo Iervolino, ed ha poi dato la parola a Francesco Soverina, dell'Istituto Campano per la Storia della Resistenza, che  ha posto l'accento sulle gravissime responsabilità del fascismo nella tragedia istriana. Dopo l'intervento del prof. Soverina, il presidente della locale sezione dell'Anpi, Antonio Amoretti, combattente delle Quattro Giornate, ha chiesto di leggere un documento ufficiale dell'associazione che esprimeva solidarietà per i profughi, ma anche ferma condanna del sempre più evidente uso politico di una drammatica vicenda storica. Aveva appena iniziato a leggere, quando alcuni rappresentanti dei profughi hanno inscenato una inspiegabile protesta, minacciando di andarsene: ciò che chiedevano era un'acritica condanna della resistenza jugoslava. L'assessore Gambale, che si era nel frattempo allontanato, e che non aveva ascoltato nemmeno una parola del comunicato, è tornato al suo posto, ha arbitrariamente tolto la parola al vecchio partigiano, strappandogli letteralmente il microfono dalle mani, e come fosse il padrone di casa, ha dichiarato arbitrariamente chiusa la manifestazione. Suo malgrado, però, ha dovuto poi lasciarmi parlare, dal momento che mi aveva invitato ufficialmente alla manifestazione. Più volte interrotto da alcuni estremisti di destra, fiancheggiati dall'assessore che interveniva di continuo per invitarmi a "non parlare di politica", ho condotto a termine il mio intervento con pacata amarezza, senza lasciarmi intimidire. Appena ho terminato, la manifestazione si è chiusa e l'assessore Gambale è andato via infuriato e senza salutare.
Napoli, medaglia d'oro al valor militare per l'eroica lotta condotta strada per strada contro gli occupanti nazisti e i loro complici fascisti, ha un'amministrazione di centrosinistra di cui fa parte la sedicente "sinistra estrema". Giuseppe Gambale è un esponente della "Margherita". Penso che basti. Vi chiedo solo di far circolare questa mia mail.

Giuseppe Aragno (Napoli)


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STUPIDAGGINI

Anche se disgustata dal clamore delle TV e dalle parole dell'attuale presidente della Repubblica Italiana sulle foibe, che hanno tanto anzi tantissimo rallegrato Fini, devo dire che gli schiamazzi oramai sono diventati noiosi, cacofonici, e si sentono tante bufale e stupidaggini che ormai non vale forse la pena di reagire. Il guaio è che i giovani non capiscono nulla di tutto ciò che è successo.  
Io sono poco convinta che l'Istria fosse un pezzo di madrepatria strappato alla Croazia o alla Slovenia o alla prima Jugoslavia: per la semplice ragione che se la popolazione delle città era italiana, le campagne - il retroterra, l'hinterland come dicono oggi - erano slave. Che la dittatura fascista abbia esarcebato il nazionalismo slavo può anche darsi, ma comunque non dovevano andar via tutti questi italiani, ne' quella era la politica del Partito Comunista jugoslavo. 
Di nuovo devo appellarmi ai libri di Fulvio Tomizza così poco ricordato e così presto dimenticato ma che secondo me fu un grande scrittore, un uomo di cuore ed uno che amò entrambe le patrie: l'Istria, nell'allora Jugoslavia, e Trieste e l'Italia. L'esodo degli italiani fu causato anche dalle nazionalizzazioni e forse da qualche durezza ed impertinenza da parte delle autorità locali (atteggiamenti che sempre furono considerati errati anche dal Partito jugoslavo); ma per lo più la causa dell'esodo fu la propaganda vaticana e democristiana, di parte italiana, che fece pressione contro la permanenza di italiani in Jugoslavia. E la gente optò e se ne andò non nel 1945, ma nel 1947 e nel 1948, quando fu chiaro che queste terre sarebbero rimaste alla Jugoslavia e che la Jugoslavia era un paese comunista. Si dovrebbe comunque chiedere agli italiani rimasti se se la sono passata tanto male. 
Non ci fu alcun "ordine di Tito", come sostiene lo storico Petacco più volte intervistato dalla TV italiana, dicendo che questo sarebbe ciò gli ha detto o scritto Milovan Djilas - che però nel 1945 aveva avuto incarichi ben più importanti che non di andare in Istria a cacciare via gli italiani... Ho visto un intervento di Missoni in una trasmissione con Magalli su RaiDue: un vero spasso. Missoni è stato annunciato come "profugo istriano" da Magalli. Allora lo ha corretto, dicendo di essere nato a Ragusa - oggi Dubrovnik - e poi di aver vissuto a Zara. Magalli non ha capito niente ed ha detto: Magalli è nato a Dubrovnik che oggi si chiama Zara... Allora ecco di nuovo Missoni a correggerlo, e cosi via per minuti interi. Comunque, in parole povere: secondo Missoni Zara avrebbe subito 54 bombardamenti e sarebbero morte sotto le bombe 4mila persone, e ancora 2mila durante la guerra, e quando lui tornò dalla prigionia inglese dopo 4 anni di guerra in Africa trovò i familiari a Trieste che gli raccontarono di tutti questi orrori e che la città dove aveva vissuto praticamente era oramai distrutta e non esisteva più. Poi ha terminato il suo discorso dicendo che "una cosa è essere liberati dagli Alleati ed un'altra dai comunisti titini". Ed allora, chi ha distrutto Zara? I comunisti titini che non avevano neanche i fucili, ma dovevano rubarli al nemico? O questi splendidi liberatori che furono gli Alleati e che con 54 bombardamenti hanno completamente distrutto la sua città? Certamente, nella confusione e nell'ignoranza, Magalli ed i giovani presenti alla trasmissione avranno capito che furono i partigiani titini a distruggere Zara con le bombe che piovevano dal cielo...
Poi, oggi uno dei tanti storici-foibologi ha detto che questa tragedia che hanno subito gli italiani in Istria e Dalmazia è uguale all'eccidio degli Armeni in Turchia nel 1915... Un altro ha detto che la tesi che questa fu la risposta della rabbia popolare ai delitti dei fascisti non regge, perchè i fascisti hanno si o no fatto qualche blanda fucilazione, mentre le bande partigiane slave avrebbero commesso delitti efferati. 
Non solo si parla di "delitti efferati" degli antifascisti, ma i partigiani sono oramai chiamati "bande partigiane", dunque essi sono semplicemente "banditi" - ed eccoci tornati dopo quasi settant'anni alla terminologia nazifascista. Gli antifascisti sarebbero banditi ed i fascisti "vittime innocenti". La cosa si commenta da se.
Ma, come dice il nostro popolo: "Što mač zasiječe - zaraste, što vatra spali - zazeleni. Što kleveta i laž nagrdi nikad se ne povrati...".
Cioè: le piaghe possono rinchiudersi e ciò che è bruciato può rinverdire, ma i danni causati dalle calunnie e dalle menzogne permangono. Cosa dire di più se non che "vae victis!" - e noi, jugoslavi, siamo i vinti, già da più di sedici anni. 

Jasna Tkalec (Zagabria)


=== 4 ===

Quello che segue è il testo di una lettera che Tamara Bellone, del nostro Coordinamento, ha inviato a Luna Nuova, periodico della Val di Susa. La lettera non è stata pubblicata. Nel frattempo, l'8 febbraio al Liceo scientifico di Bussoleno interveniva Gianni Oliva, autore di un pessimo libro sulla "questione foibe"...

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Gentile Redazione,

Alcune osservazioni in merito al giorno della memoria.
Il processo di denazistificazione, dopo la II Guerra Mondiale, si è attuato
soprattutto in Germania, dove c¹è stata una ricerca profonda, a svariati
livelli, dei significati dei vari aspetti del nazi-fascismo. Ciò purtroppo
non è avvenuto, per esempio, in Giappone, dove di recente sono stati
riabilitati alcuni criminali di guerra, né tanto meno in Italia.
Infatti in Italia è opinione della gente comune, ma anche di illustri
intellettuali, che l¹esercito italiano sia indenne da crimini: il mito degli
³Italiani brava gente² è duro a morire, e il coraggioso prof. Del Boca ha
spesso avuto grossi problemi.

Gli orrori perpetrati dagli Italiani in Jugoslavia, in Grecia, in Africa,
sono stati quasi del tutto rimossi. Eppure, anche se non eseguiti con rigore
teutonico, essi furono agghiaccianti: torture, rappresaglie sui civili,
fucilazioni in massa: le coste dalmate sono piene di lapidi di cittadini
jugoslavi fucilati dall¹esercito italiano; numerosi furono poi i campi di
concentramento per cittadini jugoslavi, da quello famigerato di Rab (Arbe),
dove morirono decine di migliaia di esseri umani, tra cui persino neonati,
di fame, sete, freddo, sporcizia. Forse non tutti sanno che numerosi furono
anche i campi di concentramento creati nell¹Albania, allora facente parte
dell¹Impero, per jugoslavi, soprattutto montenegrini, e la cui memoria
purtroppo non sempre è stata custodita.
A Kragujevac, in Serbia, i Tedeschi fucilarono, nel 1941, settemila persone,
in risposta a venti Tedeschi uccisi in regolare combattimento dai partigiani
(il cambio atroce era 1:100, poi nell¹orgia della strage si passò da 2000 a
7000 esecuzioni!). Gli Italiani nelle loro malefatte non raggiunsero queste
cifre enormi, ma il significato dell¹oppressione, del razzismo, del
disprezzo della popolazione civile, in una parola della ferocia e del
terrorismo, sono uguali.
Una foto mi rimane sempre impressa: un prigioniero jugoslavo, a cui erano
addirittura stati cavati gli occhi, in piedi in mezzo a una decina di
soldati Italiani (soldati, non camicie nere!) che gli fanno le corna, a mo¹
di foto-ricordo.
È vero che molti Italiani si riscattarono, entrando nelle file della
resistenza, organizzata da Tito e dal Partito Comunista Jugoslavo: ma certe
ferite hanno stentato a rimarginarsi. Nonostante questo la rappresaglia,
alla caduta dell¹Italia nel ¹43, fu estremamente blanda: gli jugoslavi
fucilarono soprattutto carnefici e spie. Talvolta la popolazione, esasperata
da decenni di sevizie dell¹occupante, si vendicò in modo eccessivo, ma fu
spesso frenata dai partigiani jugoslavi, come testimonia il bellissimo film
di Lordan Zafranovic ³La caduta dell¹Italia², proiettato l¹anno scorso
dall¹Archivio Cinematografico della Resistenza, a Torino (ben più pesante fu
la vendetta su Tedeschi e collaborazionisti di Vichy, attuata dai partigiani
francesi, dopo la fine della guerra).
Lo stesso tipo di comportamento si verificò in Grecia: a parte torture e
fucilazioni, ricordo ancora che molti neppure sanno che i morti per fame in
Grecia, durante l¹occupazione italiana, furono trecentomila (tutto il grano
raccolto veniva requisito dall¹esercito italiano)!
Di recente ci si è scandalizzati perché il leader di un paese, che peraltro
non fece mai male agli Ebrei, sembra aver negato le dimensioni
dell¹Olocausto. Ma perché non ci si scandalizza se da noi, qui nella
civilissima Europa, si sono da sempre negati i nostri crimini, e siamo
arrivati al punto, grottesco se non fosse ignobile, di celebrare non le
vittime fatte da noi, ma in fondo i loro carnefici: perché in quelle foibe
in Istria, la maggior parte delle vittime furono fascisti regolarmente
processati e poi fucilati. Uno di loro, capo di una banda di camicie nere
d¹assalto, riuscì a scamparla per sua fortuna, e fu gettato nella caverna
per sbaglio quando era ancora vivo. Ora è diventato un eroe, e protagonista
perfino di fortunate fiction televisive! Forse si dimentica che non fu
l¹Esercito jugoslavo ad invader l¹Italia, non ci sono infatti lapidi sparse
per l¹Italia di civili uccisi per rappresaglia, non fu la Jugoslavia ad
impedire per decenni agli Italiani di parlare la propria lingua: forse manca
la consapevolezza che invadere un altro Paese è un male.
Probabilmente ci furono anche colpe, eccessi, ma l¹operazione di una
giornata della memoria delle vittime istriane come quella del 10 febbraio, è
puramente revisionista, molto più delle parole dette dal presidente
dell¹Iran, probabilmente tra l¹altro a fini politici, vista la delicata
situazione in cui si trova attualmente l¹Iran, confondendo gli Ebrei con lo
stato di Israele. Non mi pare che i tedeschi celebrino con questo nostro
spirito nazionalista, revisionista e revanchista i ben più consistenti morti
di Dresda, o i Giapponesi l¹orrore di Hiroshima.

Cordiali saluti
Tamara Bellone DITAG Politecnico di Torino


-----Messaggio originale-----
Da: Boris Bellone 
Inviato: venerdì 9 febbraio 2007 20.09
Oggetto: lettera a luna nuova

Gentile giornalista,
non ho potuto ascoltare la conferenza di Oliva per ragioni di lavoro.
Dalle prime testimonianze mi risulta abbia avuto successo.
Sono certo che Oliva avrà ampiamente parlato dei crimini italiani in Jugoslavija, in Grecia e in Africa, condannandoli ecc. ecc.
In questo modo ha potuto in seguito parlare della vicenda delle foibe, protetto dalle precedenti condanne.
Che si parli delle foibe è corretto e necessario, ma se ne può parlare ogni giorno. Non è necessario, anzi è aberrante, istituire una giornata per ricordare un episodio della guerra purtroppo difficilmente evitabile. Il parallelo poi con l'Olocausto ebraico è quasi automatico e questo è una enormità, un falso storico grottesco.
La scelta del giorno è poi una evidente provocazione rivolta, non agli italiani che non conoscono la Storia, ma ai nostri vicini jugoslavi. Infatti il 10 febbraio 1947 fu siglato l'accordo dei confini tra Italia e Jugoslavia. La scelta di questa data suggerisce infatti che l'Italia non riconosca più quegli accordi (anche perché non esiste più la Jugoslavija...).
Razzismo e nazionalismo si mescolano pericolosamente, mascherati da un viscido "buonismo" e io non casco certamente in questo tranello. Mi spiace invece per gli studenti che a 16 -18 anni possono facilmente credere che al di là del confine abitano barbari dal lungo coltello.

Boris Bellone


-----Messaggio originale-----
Da: Boris Bellone
Inviato: venerdì 9 febbraio 2007 20.08
Oggetto: grottesco revisionismo storico

Leggo oggi su luna nuova l'articolo di Paola Meinardi sulla conferenza dello storico Oliva, invitato dal liceo di Susa, per la discussa giornata del "ricordo", del 10 febbraio (ricordo che il 10 febbraio 1947 l'Italia sconfitta firmava l'accordo con la Jugoslavija sui confini, si tratta quindi di un chiaro messaggio a Slovenja e Croazia: poiché non c'è più la Jugoslavja l'accordo del 10 febbraio non è più valido, con tutto quello che può seguire, altro che condanna del fascismo, qui si cerca il conflitto).
Si molto discussa, perché a parere di persona ragionevole si tratta di una ricorrenza grottesca.
All'apparenza la "lezione di foibe", come leggo dal titolo su luna nuova, sembra più che ragionevole: la condanna del nazionalismo fascista, del terrorismo sempre fascista in Istria, le popolazioni slave oppresse, l'obbligo dell'italiano a scuola, la proibizione di parlare slavo perfino in casa, ecc, ecc, potrebbero far pensare a una critica del colonialismo italiano. Ma poi leggo sempre su luna nuova, come conferma di quello che già supponevo, che le esecuzioni di criminali fascisti (decisamente limitate) sono considerate dallo storico Oliva come manifestazione della volontà di Tito e degli jugoslavi di annettere il nord-est dell'Italia. Oliva confonde volutamente e abilmente, si fa per dire perché davanti a adolescenti, la liberazione di Trieste con presunte ambizioni di annessione. Tito, per Oliva, avrebbe dovuto aspettare che gli angloamericani liberassero Trieste.
Sembra sentire il generale Alexander scocciato perché Torino è stata liberata dai partigiani italiani! Orrore, scusate la parola forte che può turbare animi sensibili, leggo ancora: "gli infoibati così come i campi di concentramento sono figli del fascismo e della guerra che il fascismo ha voluto". Apparentemente è una affermazione bellissima. Si dichiara che il fascismo lo ha voluto. Ma allora condanniamo il fascismo, non i partigiani di Tito. Invece la conclusione è abnorme: si condannano i partigiani di Tito, il più grande movimento di liberazione dell'Europa occupata, che ha contribuito in maniera determinante anche alla nostra liberazione. Davanti all'esercito di Tito i nostri partigiani fanno decisamente tenerezza (mi permetto di dirlo perché figlio di partigiano).
Che Tito abbia rivendicato territorio non vi è dubbio, voleva anche Trieste. Ma è così disdicevole questa richiesta? Ripeto fino alla noia che gli aggressori sono stati gli italiani, non gli Jugoslavi, ma non c'è verso, non si vuole capire. Invece quando l'Austria fu sconfitta nel primo conflitto mondiale era naturale la spartizione del suo territorio?
L'Italiano non vuole capire, è una testa dura. In Jugoslavija, pardon, in Slovenja e Croazia, sono stupiti e offesi di questa giornata, anche se non più comunisti.
Penso che si possa capire, all'estero, non in Italia, qui non si capisce un bel niente.
Oliva ha fatto sicuramente una bellissima lezione di Storia, ha certamente affascinato anche l'amico Gigi Richetto, ma la scelta della data e le conclusioni sono in evidente contraddizione con quanto dice. 
Tito, insieme a Nasser e Nehru ha fondato il movimento dei paesi non allineati e ha dato una speranza al Mondo. Ridurre Tito ad un bandito assetato di territorio è un falso storico che rivela malafede. Io non stimo persone che partendo da analisi lucide, ottengono facilmente consenso ma poi manipolano questo consenso per arrivare a conclusioni abnormi e infondate.

Smrt fasizmu, sloboda narodu (morte al fascismo, libertà ai popoli)
è fuori moda, ma non seguo la moda.

Cordialmente
Boris Bellone


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Memoria e polpette avvelenate

Michele Sarfatti

La legge italiana sul 10 febbraio «Giorno del Ricordo» è una polpetta avvelenata. Il suo primo, evidente veleno risiede nel fatto stesso che, sin da queste prime righe, mi sento nella necessità di ribadire la mia condanna totale di uccisioni ed espulsioni, e di invitare a separare questa condanna da un ragionamento pacato sulla legge, su «questa» legge. Ma veniamo a quest'ultima. E iniziamo da una classificazione di ordine generale. Le leggi di rimembranza di fatti storici fortemente luttuosi si suddividono in tre grandi gruppi. Del primo fanno parte quelle dedicate a «ciò che noi abbiamo fatto agli altri». Il suo esempio più chiaro è quella tedesca per il 27 gennaio. In tal giorno la Germania odierna ricorda le stragi e i massacri sistematici che la Germania nazista compì soprattutto fuori del proprio territorio. Si tratta di una assunzione di responsabilità simbolica e progettuale, degna di un popolo adulto e di uno stato democratico, di fronte a sé stessi e agli altri popoli e stati.
È un esempio che anche l'Italia odierna potrebbe seguire, con riferimento alle uccisioni e alle stragi dell'Italia colonialista. Anche 


Il torto marcio di Napolitano, l'opportunismo di Mesic

1) In materia di opzioni

2) Napolitano e le foibe (di Damir Grubisa, 12 febbraio 2007, Novi List)

3) Perché Napolitano non ha ragione (OB 13.02.2007:  scrive Franco Juri)

4) Neorevisionismo, foibe e imperialismo fascista (di Eros Barone)

5) Foibe, perché il caso è tutt'altro che chiuso (Tommaso Di Francesco)

6) Lettera aperta a Napolitano (di Nikola Duper, 5 marzo 2007)

7) Franco Juri interviene su "Resistenza Partigiana" (12/3/2007)

8) Retromarcia di Mesic: i commenti


Sulle gravissime dichiarazioni di Napolitano e sulla reazione di Mesic si veda:


=== 1 ===

In materia di opzioni


Trattato di pace, art. 19 D.lgs C.P.S. 28-11-1947 n. 1430, sez II: Nazionalità e diritti politici

Comma 2:  “Il Governo dello Stato al quale il territorio è trasferito, dovrà disporre mediante appropriata legislazione entro tre mesi dall’entrata in vigore del presente Trattato, perchè tutte le persone di cui al paragrafo 1 (cittadini italiani residenti al 10 giugno 1940 nel territori ceduti dall’Italia), di età superiore ai 18 anni... (omissis) e la cui lingua usuale è l’italiano abbiano la facoltà di OPTARE per la cittadinanza italiana... (omissis)"

Comma 3: “Lo Stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere CHE COLORO CHE SI VALGONO DELL’OPZIONE, si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l’opzione venne esercitata”

Sezione II – Beni italiani  situati nei territori delle potenze alleate e associate - Art. 79

Comma 1 
Ciascuna delle potenze Alleate e Associale avrà il diritto di requisire, detenere, liquidare o prendere ogni altra azione nei confronti di tutti i beni, diritti e interessi, che alla data dell’entrata in vigore del presente Trattato si trovino entro il suo territorio, che appartengano all’Italia o a cittadini italiani e avrà inoltre ilo diritto di utilizzare tali beni e proventi della loro liquidazione per quei fini che riterrà opportuni, entro i limiti dell’ammontare delle sue domande o di quelle dei suoi cittadini contro l’Italia o i cittadini italiani, ivi compresi i crediti che non siano stati interamente regolati in base ad altri articoli del presente trattato. Tutti i beni italiani od i proventi della loro liquidazione, che eccedano l’ammontare di dette domande, saranno restituiti

Comma 2 
(omissis) ... Per quanto riguarda detti beni, il proprietario italiani non avrà altri diritti che quelli che a lui possa concedere la legislazione suddetta (quella delle potenze alleate o associate interessate)

Comma 3 
Il governo italiano si impegna a indennizzare i cittadini italiani, i cui beni saranno confiscati ai sensi del presente articolo e non saranno loro restituiti


Come vedete, parlare di optanti non è fuori luogo ma TERMINE DI UN TRATTATO INTERNAZIONALE (come tale neppure sottoponibile a referendum) e dire che il debito non compete alla Croazia è CORRETTISSIMO. Come dice Mesic PACTA SUNT SERVANDA. 

Questo trattato, sottoscritto a fine di una guerra infame dichiarata dall’Italia, l’Italia può modificarlo solo DICHIARANDO NUOVAMENTE GUERRA. 

È questo che vogliamo permettere succeda?

(a cura di PB per il CNJ)


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Napolitano e le foibe

12.02.2007   


Apprezzato in patria, meno oltre Adriatico. In un editoriale di “Novi List”, quotidiano fiumano, si accusa il Presidente Napolitano di revisionismo. Lo spunto è dato dal discorso fatto al Quirinale in occasione del “Giorno del ricordo”. Nostra traduzione

Di Damir Grubisa, 12 febbraio 2007, Novi List (tit. orig. Napolitanov revizionistički govor ) 

Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Ivana Telebak 


Nonostante in Italia il tema principale sia il campionato di calcio e le polemiche dei magnati del calcio con il Governo e con il suo decreto con il quale si prevede di giocare le partite di calcio soltanto negli stadi che rispettano le severe condizioni di sicurezza, c'è comunque un tema che ha superato i dibattiti calcistici. 

E' il tema al quale è dedicato “Il giorno del ricordo”, proclamato dal Governo Berlusconi il 10 febbraio come giorno della memoria per le vittime delle foibe e le uccisioni dopo la Seconda guerra mondiale. Questa volta il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non ha soltanto proseguito con la prassi adottata anche dall'ex presidente italiano Ciampi, ma ha anche dato un certo contributo all'escalation del revisionismo storico. 

Parlando alla cerimonia al Quirinale, dove ha consegnato l'onorificenza e le medaglie alla memoria a trenta cugini italiani uccisi “durante la persecuzione etnica avviata dalla milizia titina (si riferisce a Tito) alla fine della guerra” come scrive “La repubblica” di Roma, Napolitano ha parlato in modo insolitamente severo e non critico dei crimini che hanno avuto come esito le foibe, esecuzioni sommarie nelle fosse carsiche dell'Istria e della costa slovena, dove hanno incontrato la morte fra il 1943 e il 1945 molti collaboratori fascisti, criminali nazisti in cerca di vendetta, ma anche molte vittime innocenti. 

Invece, Napolitano ha presentato questa tragedia in modo unilaterale, sottolineando che il “dramma del popolo giuliano-dalmata è stato creato da un moto d'odio e furia sanguinaria, e dal piano slavo annessionista che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”. In nessun modo Napolitano ha detto che il problema delle foibe è molto più complesso, e che nonostante il fatto che i crimini e le uccisioni degli innocenti non si possano giustificare con alcuna vendetta, con “l'ira giusta” o la bestialità criminale, il sottacere l'insieme del problema porta necessariamente alla sua riduzione e consente la manipolazione politica. 

La coscienza sporca 

Con nessuna parola Napolitano ha nominato la pulizia etnica che il fascismo italiano iniziò dai primi giorni in cui salì al potere, e che fu annunciato nel discorso di Mussolini nel 1919 a Pola. Dal 1922 l'Italia fascista ha fatto la pulizia etnica della popolazione slava, slovena e croata, e dopo che la guerra fu iniziata il governo del terrore si trasformò in terrore contro la popolazione innocente, spesso senza alcun motivo, soltanto per spaventare e per terrorizzare. Con il sottacere ciò che ha preceduto le foibe, si sottace una parte della verità storica, anche se quello che è successo durante il terrore fascista in Istria, sulla costa slovena e croata e in Dalmazia, non può in nessun modo giustificare i crimini commessi dopo la guerra. Certamente in queste esecuzioni sommarie nelle foibe ci sono stati elementi anche della mal interpretata “lotta di classe” ed elementi della pulizia etnica, delle liquidazioni politiche, ma ci sono state anche le rese dei conti individuali, criminali, le vendette classiche e i vandalismi dei vincitori. 

Le parole di Napolitano sono forse la resa dei conti anche con la coscienza sporca, perché il Partito comunista italiano, dove Napolitano ha giocato uno dei ruoli fondamentali per molto tempo, ha sottaciuto i crimini commessi nelle foibe, come anche la politica jugoslava che ha negato in modo decisivo fatti evidenti. In ogni caso, le parole di Napolitano hanno avuto il consenso fra le file dell'estrema destra, ma anche dall'altra parte della barriera politica. E' comprensibile che il postfascista Gianfranco Fini abbia lodato Napolitano, perché questa è la conferma della sua politica revisionista, che spinse anche il governo Berlusconi sulle tracce del revisionismo storico. E' comprensibile anche la reazione dei democristiani, i quali secondo Lorenzo Cesa sostengono il “coraggio e l'onesta intellettuale” di Napolitano che fanno luce su uno “dei periodi più bui della storia moderna”. 

Il nuovo conformismo 

Ma è meno comprensibile l'entusiasmo fra le fila del governo. Così il vice premier Rutelli ha salutato le parole del Presidente della Repubblica, affermando che è un bene che il sostegno arrivi dalle fila sia del governo che dell'opposizione. Anche Pecoraro Scanio, il leader dei Verdi e Formisano del Partito l'Italia dei Valori hanno sostenuto Napolitano. Le uniche osservazioni sono giunte dalle file dell'estrema sinistra. Così Jacopo Venier del Partito dei Comunisti Italiani ha avvertito che bisogna avere la forza di opporsi al nuovo conformismo che oggi impone la lettura parziale e strumentale della drammatica storia del confine orientale. Il fenomeno delle foibe non può essere analizzato, senza parlare anche della bestiale crudeltà fascista verso la popolazione slava. 

Giovanni Russo Spena del Partito della Rifondazione Comunista aggiunge che gli avvenimenti storici devono essere ricostruiti nella loro complessità, e non si devono dimenticare le uccisioni di massa fasciste nei “villaggi balcanici”. Ma queste sono soltanto le rare voci dissonanti. Il discorso di Napolitano ha avuto una grande risposta anche nella regione Friuli Venezia Giulia, dove il governo ha organizzato numerose manifestazioni, anch'esse passate senza menzionare i crimini fascisti. Anche nelle altre città dell'Italia è successo lo stesso, soltanto a Firenze e a Carrara si sono scontrati gli organizzatori ufficiali, principalmente della postfascista Alleanza nazionale, con i manifestanti che volevano sentire anche la condanna del fascismo. Il discorso di Napolitano non rimarrà senza conseguenze anche per il rapporto croato- italiano. E' triste che Napolitano con il suo atteggiamento unilaterale abbia aggiunto benzina sul fuoco e abbia accettato la manipolazione politica dei fatti storici, il che non può contribuire a quella “riconciliazione” per la quale i politici italiani si impegnano a parole. Adesso si vede che il seme del berlusconismo ha dato anche dei frutti molto pericolosi, e che hanno abboccato anche i membri del centro sinistra, entrati facilmente nello schema del revisionismo storico che gli ha imposto l'ex governo Berlusconi. Questo clima non farà che rimandare la riconciliazione storica fra Croazia e Italia e contribuirà all'escalation di reciproche accuse e risentimenti, da entrambe le parti. 


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Perché Napolitano non ha ragione

13.02.2007    scrive Franco Juri

Bruciano come benzina le dichiarazioni del presidente italiano Giorgio Napolitano e le repliche di quello croato Stipe Mesić e rischiano di destabilizzare politicamente l'alto Adriatico. Un commento del nostro corrispondente Franco Juri

Bruciano come la benzina le dichiarazioni del presidente italiano Giorgio Napolitano e le repliche di quello croato Stipe Mesić e rischiano di destabilizzare politicamente l'alto Adriatico. Sono accuse e repliche ineluttabili e giustificate? E che cosa in realtà le motiva? Calcoli politici, crisi interne nei due paesi con tanto bisogno di nemico esterno? Sensi di colpa e svolte storiche? 

A farne le spese saranno nuovamente tutti coloro che da anni si adoperano per sciogliere il nodo scorsoio dei contenziosi storici, più o meno motivati e corroborati dai fatti, lungo il confine orientale d'Italia e quello occidentale dell'ex Jugoslavia, della Slovenia e della Croazia. 

A farne le spese è purtroppo anche questa volta la verità storica, svilita proprio dai tanti inni retorici alla "verità" e alla "memoria".Personalmente sono dell'avviso che nè i toni e le parole scelte da Napolitano, nè quelli di Mesić siano particolarmente degni di due presidenti democratici ed europei. 

Certo, il presidente croato è sanguigno e da presidente si è permesso una serie di valutazioni (prima sulle foibe e ora in dura polemica con l'omologo italiano) poco consone ad un capo di stato, ma che allo stesso tempo, intese storicamente, potrebbero avere più di qualche ragione. 

La retorica della memoria scelta da Napolitano nel suo discorso a Roma si è invece articolata seguendo degli stereotipi con evidenti sfumature antislave tipici ed esclusivi fino a qualche anno fa dell'estrema destra nazionalista, soprattutto di quella lungo il confine orientale. Una retorica e degli stereotipi di cui si poteva prevedere l'effetto e che invece vede tutto l'arco costituzionale fare quadrato bipartisan attorno al presidente. Siamo all'omologazione nazionale e patriottarda di risorgimentale memoria? 

Ma andiamo per ordine. Napolitano aveva parlato, riferendosi alle vittime delle foibe, di "un moto di odio, di furia sanguinaria" e di "barbarie" e di un "disegno annessionistico slavo che prevalse nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica". Queste parole hanno suscitato la reazione del presidente croato che ha colto in esse elementi di "razzismo e revanscismo". Mesić sbaglia? La tesi di un "espansionismo slavo" tende effettivamente ad etnicizzare, tra l'altro con la tipica smania di omologare il mondo slavo ad un concetto prenazionale, quindi involuto rispetto alla propria civiltà nazionale, un fenomeno storico ben più complesso. 

Quella sull' "odio e la furia sanguinaria" attribuita a questo "espansionismo slavo" tende ad attribuire a tale fenomeno un alone di barbarie che avalla la percezione di un moto meno civile che arriva dall' est. Purtroppo tutt'oggi il grosso della stampa e della televisione italiane continuano a riprodurre lo stereotipo fondamentalmente etnicista di un mondo slavo di non meglio identificabili connotazioni nazionali. Basti leggere la cronaca nera; i malavitosi extracomunitari sono di sovente "slavi". In questa categoria etnica e dai connotati un pò razzisti vengono inclusi un pò tutti quanti provengono dal Balcani occidentali ovvero dall' ex Jugoslavia; serbi, bosniaci, croati, macedoni, rom, persino kosovari di etnia albanese.Con il termine veneto di slavi, cioé "s'ciavi", vengono invece indicati con disprezzo dai nazionalisti italiani, soprattutto nei circoli dell'estrema destra, anche gli sloveni del Friuli Venezia Giulia. 

Ma Napolitano fa uso anche del lemma "milizie titine", riferendosi all'esercito jugoslavo e partigiano del maresciallo Tito. Anche qui tradisce una certa insofferenza che è paradossalmente ideologica, visto che il presidente italiano fu in quegli anni di piombo fedele compagno di partito di Palmiro Togliatti. Inoltre Napolitano allude piuttosto chiaramente ad una presunta illegittimità del Trattato di pace del 1947, con cui si pose fine agli strascichi della seconda guerra mondiale, castigando, tutto sommato moderatamente, l'Italia cui rimasero sia Trieste che Gorizia, per il suo imperialismo e razzismo fascista e la sua alleanza, fino al 1943, con la Germania di Hitler. 

Pensare che tali affermazioni, fatte da un presidente europeo, non provocassero la reazione dei diretti interessati, era un'ingenuità. Mesić non e' stato "politicamente corretto" e ha scelto di dire senza tatto diplomatico quanto pensano in molti oltre confine. Ma l'elemento di maggior ipocrisia in questa vicenda è il richiamo ossessivo alla "memoria" e alla "verità storica" nei discorsi ufficiali di coloro che invece ignorano sistematicamente quanto l'indagine storica documentata ha prodotto fin' ora anche sul tema delle foibe e dell'esodo. 

Ricordiamo che nel 1993, su iniziativa delle diplomazie italiana e slovena (Andreatta-Peterle) venne costituita una commissione storico-culturale mista, composta da eminenti nomi di provata competenza e autonomia accademica, di entrambi i paesi. La commissione lavorò per 7 anni, con alcune interruzioni durante il primo governo Berlusconi e nel 2001 elaborò, non senza lunghi dibattiti che percorsero la traccia di una ricerca documentata, una relazione storica in cui, sinteticamente ma in termini molto qualificati, venivano descritti e spiegati i fatti ed i fenomeni salienti nei rapporti tra italiani e sloveni dalla fine dell' Ottocento al 1954, anno del Memorandum di Londra e della conclusione, grosso modo, dell'esodo istriano-dalmata. 

La relazione di una quarantina di pagine toccava tutti di fatti dolorosi a cavallo del confine, compresi il ventennio fascista, la "bonifica etnica" mussoliniana a danno di sloveni e croati, la guerra con i suoi massacri, i campi di concentramento nazifascisti, la repressione comunista, le foibe e l'esodo. Il tutto, com'è giusto e ovvio in un'analisi storica, contestualizzato, senza estrapolazioni strumentali. 

Ma quella relazione, pubblicata ufficialmente solo a Lubiana, venne ignorata o persino censurata dalla Farnesina. Solo Il Piccolo di Trieste la pubblicò in anticipo, bruciandone un pò la valenza politica. Il governo italiano non ne volle sapere invece nulla. Perché? Perché nel centrosinistra italiano era già avviata la metamorfosi politica dell'ex PCI, ovvero dei Democratici di sinistra che, ispirati prima dal triestino Stelio Spadaro, poi da Luciano Violante e da Piero Fassino, vedevano nel revisionismo storico uno strumento efficace non solo di "espiazione" e "purificazione", ma anche e soprattutto di allontanamento simbolico dai postulati comunisti, che la destra continuava a attribuirgli. 

In questo dilagare del revisionismo e anche di un certo negazionismo delle responsabilità dell'Italia fascista nelle tragedie lungo il confine orientale, c'è stata una corsa alla "memoria" in cui una certa sinistra ha tentato di scavalcare pure l'estrema destra, assumendone i toni e le interpretazioni, spesso e volentieri improntate ad un disprezzo per il mondo slavo ed il suo "odio sanguinario". E così, nonostante l'indagine storica non confermi la tesi del genocidio e delle pulizia etnica "titina", ma documenta una violenza reattiva e una repressione politica di cui fecero le spese, oltre a nazisti e collaborazionisti, anche civili innocenti e oppositori politici di diversa etnia, si avalla il mito dei 20 mila infoibati "solo perché italiani". La relazione storica parla di "alcune centinaia di infoibati", mentre le ricerche della storica Nevenka Troha, indubbiamente una dei più onesti e coraggiosi esperti di massacri del dopoguerra, portano la cifra approssimativa dele vittime delle foibe ad un massimo di 1600. E poi si continua a parlare di 350 mila esuli istriani e dalmati, ignorando che la ricerca storica documenta circa 204 mila persone che lasciarono con l'esodo i territori ex italiani. 

Roma continua a ignorare lo sforzo degli storici di offrire un quadro il più possibilmente obiettivo di quanto avvenne attorno al confine orientale durante e dopo la seconda guerra mondiale. Il mito avallato e istituzionalizzato con particolare enfasi retorica e calcolo politico viene assurto ora a religione di stato. La proposta, fatta a più riprese da alcuni storici e politici, di aprire la tristemente famosa foiba di Basovizza per verificare cosa e quanto contenga in verità, anche per dare un'identità e degna sepoltura ai resti umani lì rinchiusi, è stata sempre energicamente censurata dai sostenitori delle tesi di un genocidio antiitaliano. Strano, la pietas viene in verità sepolta dai timori di veder apparire una realtà diversa? Chi ha in verità timore della verità storica? Chi perpetua in verità la "congiura del silenzio"?


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Foibe. Neorevisionismo, foibe e imperialismo fascista

Una lettera di Eros Barone

Egregio direttore,
non vi è peggior fanatico di un apostata. Questa è la considerazione che mi viene di getto nell’assistere, con crescente stupore e non poca vergogna, ad esternazioni presidenziali, riguardanti le ‘foibe’, i cui toni sono così veementi e le cui modalità sono talmente “irrituali” (trovo, in questo caso, assai calzante l’aggettivo di cui si è servito il ministro della difesa Parisi per definire la grossolana ingerenza nella politica estera italiana compiuta con la famosa ‘lettera degli ambasciatori’) da aprire una crisi internazionale fra il nostro paese e la Croazia e la Slovenia.
Mi sia permesso, dunque, esprimere quattro considerazioni:
a) tali prese di posizione di carattere neorevisionista, di stampo revanscista e di sapore imperialista, ieri sulla falsa equiparazione fra antisionismo e antisemitismo e oggi sul presunto sterminio delle popolazioni italiane dell’Istria e della Dalmazia, non hanno natura storiografica, ma soltanto politica: in altri termini, tendono, da un lato, a legittimare la bestiale politica israeliana verso i palestinesi e, dall’altro, a rimettere in discussione il trattato di Osimo del 1975 e, quindi, i confini tra l’Italia, la Slovenia e la Croazia;
b) l’accertamento della verità sulle origini, sulle cause, sulle dimensioni e sul significato del presunto sterminio degli italiani dell’Istria e della Dalmazia compete agli storici ed è degno dei peggiori regimi autoritari voler imporre come ‘verità di Stato’ quello che è unicamente un giudizio politico-ideologico: ciò significa che la rappresentazione demonizzante dei comunisti jugoslavi che sadicamente uccidono gl’innocenti ‘patrioti’ italiani non ha maggior credibilità dell’aberrante propaganda democristiana sui comunisti che “mangiano i bambini”;
c) in realtà, la criminalizzazione dei comunisti jugoslavi come responsabili delle ‘foibe’ mira a cancellare i crimini commessi dall’imperialismo fascista nei Balcani e, segnatamente, in Jugoslavia;
d) sarei curioso di sapere che cosa pensi lo storico marxista Eric Hobsbawm, che ha firmato assieme al premio Nobel Harold Pinter il recente manifesto degli ebrei antisionisti e che a suo tempo pubblicò per la casa editrice Laterza un’intervista a Giorgio Napolitano sul socialismo europeo, circa la conversione del suo intervistato da “comunista migliorista” in “liberale nazionalista e anticomunista”.


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Foibe, perché il caso è tutt'altro che chiuso

Tommaso Di Francesco

All'improvviso, con la stessa apparente nettezza con la quale si era espressa, la protesta del presidente croato Stipe Mesic è rientrata, con la dichiarazione che nelle parole del presidente italiano Giorgio Napolitano «non c'era nessun attacco alla Croazia» né «al Trattato di pace del 1947 e gli accordi di Osimo e di Roma» e che «non conteneva ispirazioni revansciste e storico revisioniste» . E' quello per cui la Farnesina per quasi una settimana ha attivamente «lavorato». Dietrofront di Mesic dunque. Soprattutto dopo la retromarcia, vera, del presidente Napolitano che per primo aveva ridimensionato le sue affermazioni unilaterali. Il caso dunque è chiuso?
No. Almeno per due ordini di motivi, internazionale e interno. Dal punto di vista dei nuovi governi balcanici, tutt'altro che eredi della ex Jugoslavia, il caso resta sensibilmente aperto. Mesic fa marcia indietro per obbligo alla diplomazia europea e italiana (e alla questione dei diritti di proprietà rivendicati da Roma), ma non certo per essere stato isolato. La Commissione europea che pure ha criticato Mesic, non ha in realtà mai messo in discussione l'adesione di Zagabria alla Ue. In patria poi il presidente croato ha avuto vasta solidarietà, tra le popolazioni di Istria e Dalmazia dove non c'è famiglia che non abbia una vittima del nazifascismo, e dal governo Sanader di destra pronto a cavalcare ogni «croaticità», perfino la liberazione dal nazifascismo. E' l'ambiguità sostanziale dell'esperienza croata, rappresentata da Franjo Tudjman (uno dei generali di Tito prima di diventare presidente xenofobo, negazionista e ultranazionalista) , e poi dallo stesso Stipe Mesic, ex comunista, neonazionalista e sponsor dell'indipendenza croata su base etnica e della «guerra patriottica», vale a dire i massacri nella Krajna serba e nella Mostar musulmana. Che volete che sia la memoria per Mesic, pronto nel giro di pochi mesi a proclamare l'anniversario della «nazione croata» degli ustascia di Ante Pavelic e la guerra di liberazione partigiana?! Ma soprattutto poche ore prima del dietrofront di Mesic c'è stata la lettera di richiesta di chiarimenti, più formale ma destinata a pesare di più, del presidente sloveno Janez Drnovsek, esponente di quella Slovenia assai più integrata in Europa e anche più legata all'Italia. Al quale è stato risposto. Come a dire che le preoccupazioni per le parole di Napolitano, formalmente rientrate, sono più che reali e diffuse.
A questo punto però, se era facile immaginare che, di fronte a pressioni e ricatti, le ribellioni a parole delle piccole patrie etniche sarebbero formalmente rientrare, il nodo da sciogliere resta. E riguarda le responsabilità dell'Italia che non possono essere certo delegate ad altri. 
Insieme a quello dei contenuti e dei modi con cui l'Italia di Berlusconi - che ha sdoganato l'estrema destra postfascista e quella neo-nazifascista di Forza nuova e Fiamma tricolore - ha prima rappresentato quell'infernale e delicato periodo storico che va dal 1941 al 1945 nel sud-est europeo e in particolare nel «Litorale adriatico», e poi lo ha legittimato con un voto bipartisan in Parlamento nella legge del «Giorno del Ricordo». Un atto di memoria revisionata decretata per legge al quale ha partecipato una sinistra inconsapevole e reticente. Le parole di Napolitano che ha ridotto la tragica vicenda delle foibe a un episodio di «pulizia etnica contro gli italiani» ideologicamente rimosso, restano una pesante testimonianza di reticenza sulle responsabilità primarie del nazifascismo contro le popolazioni balcaniche. L'Italia ha il diritto di denunciare le foibe come sanguinosa pagina di vendette, ma non a prescindere dal contesto storico dei crimini del nazifascimo che occupava militarmente quelle terre balcaniche. Perché il presidente della repubblica, come chiedono molti storici italiani, non va a pregare sui sacrari slavi delle vittime civili e dei partigiani massacrati da fascisti, nazisti e generali pluridecorati e celebrati? Perché la celebrazione non diventa occasione di memoria anche sui crimini di guerra italiani, correggendo l'improbabile numero di vittime come chiede lo storico Jorge Pjerevec e decidendo almeno il senso dello spot televisivo, bugiardo e senza firma nell'ultima edizione.
Il caso è tutt'altro che chiuso. Ce lo ritroveremo tra un anno, alla quarta celebrazione, voluta come le altre non a caso a due settimane di distanza dalla giornata della Memoria della Shoah - ha ricordato lo storico Enzo Collotti. Tanto per permettere, con improponibili paragoni e sulla pelle della verità storica, la riconciliazione nazionale e la cosiddetta «unità politica» degli italiani che sta a cuore al presidente Napolitano. Sì, il caso è tutt'altro che chiuso.


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Dal sito 
http://www.nexusita lia.com/nexus_ new/index. php

UNO SLAVO E IL SUO PRESIDENTE 

di Nikola Duper 
lunedì 05 marzo 2007 

Lettera aperta a Giorgio Napolitano

Egregio Signor Presidente,
Il prossimo novembre saranno 20 anni che sono arrivato in Italia. 20 fortunati e bellissimi anni per molti versi anche perché non mi sono mai sentito uno straniero. Mai nessuno mi ha fatto pesare il fatto di essere jugoslavo, croato o semplicemente slavo. Qualche piccolo dispiacere per l'ignoranza in relazione al mio popolo, solo un po' di manipolazioni politiche riguardo i peggiori momenti della nostra recente storia. Tutto sommato episodi marginali e sopportabili che non mi hanno disturbato, ma solo sottolineato le parole di Niccolò Tommaseo: "Non vi han conosciuti Croazia". È passato più di un secolo da quando queste parole sono state scritte, ma ancora non è cambiato nulla.
Recentemente, con mio grande dispiacere e stupore, ho seguito un Suo discorso che vorrei contestare per alcune definizioni riguardanti non solo il mio popolo, ma addirittura un'intera stirpe, quella slava.

Durante la guerra dei primi anni Novanta, che ha duramente colpito la mia terra natia, spesse volte mi sono chiesto che cosa vuol dire essere croato. Che cosa è che ti muove quando agisci per il "tuo" popolo? Nascere croato (e slavo) è un caso, così come nascere italiano, ma vivere un territorio, un popolo, una tradizione e una cultura te li fa amare così profondamente da pensare che, in certi ed estremi casi, varrebbe la pena anche morire difendendoli. Credo che questi sentimenti, se autentici e non strumentalizzati, possano estendersi anche oltre i confini delle proprie terre. In fondo si tratta di un sentimento nobile, mirato a proteggere i più grandi valori di una civiltà: la famiglia, la cultura, l'arte, insomma tutto quello che ti fa essere orgoglioso di essere una piccola parte dell'Umanità, quell'Umanità che non può avere confini nazionali e/o etnici. Quello che ci unisce sono Leonardo e Vrancic, Goldoni e Držic, Marconi e Tesla, Tommaseo e Boškovic e molti, moltissimi altri. Quello che ci divide sono alcuni criminali nella storia antica e recente e che ripudiamo tutti, me compreso e, badi bene, sono slavo.

(Message over 64 KB, truncated)


Il 17 marzo 2007 per le strade di Roma è nato un nuovo soggetto politico:
un Movimento contro la guerra autonomo ed indipendente.

 

Il fronte internazionale del no alla guerra ha raggiunto il suo obiettivo anche in Italia.
La grande ed articolata partecipazione alla manifestazione nazionale del 17 marzo, smentendo tutte le previsioni, ha nei fatti rinviato al mittente accuse di presunta minorità ed estremismo lanciate contro l’appello formulato dalle organizzazioni riunitesi intorno al “Comitato 17 marzo”.

 

Nelle settimane  precedenti alla manifestazione la sottile macchina bellica della “governance” ha lavorato alacremente contro questo appuntamento, attraverso silenzi stampa, deformazioni, capziosi distinguo e forti pressioni dall’alto per impedire la partecipazione ad una scadenza che, pur inserendosi nella giornata mondiale contro la guerra, assumeva in Italia una connotazione fortemente antigovernativa.

 

I cosiddetto partiti “radicali”, le ex organizzazioni pacifiste: ARCI, tavola per la Pace, CGIL, “Un ponte per…” e OnG di riferimento, saliti anima e corpo sul carro del governo di guerra Prodi, hanno avuto il benservito da chi non intende recedere di un passo dal “NO alla guerra senza se e senza ma”: 30.000 militanti nowar, molti dei quali giovani e giovanissimi, hanno risposto all’appello e sono scesi in piazza, mettendo alla gogna le scelte belliciste di un ceto politico oramai lontano anni luce dai sentimenti e dagli obiettivi dei movimenti politici e sociali, ben presenti ed attivi nel paese.

 

Lo scarto tra la prima fase del movimento pacifista - espressione di un genuino ma generico no alla guerra strumentalizzato in chiave elettoralistica dai deputati “pacifinti” – e quella apertasi con la manifestazione di sabato 17.3.07 sta nella attuale chiarezza di intenti, nella capacità di autonomia ed indipendenza dal quadro politico in una non facile congiuntura, nella quale anche i pochissimi deputati e senatori che hanno segnato una differenza dall’omologazione governista, astenendosi sulla relazione guerrafondaia del ministro D’Alema il 21 febbraio,  esprimono poi tutta la loro debolezza votando i 12 punti del Prodi bis.

 

Obiettivo centrale dei prossimi mesi dovrà essere quello di radicare e rafforzare il movimento, trasformando una disponibilità verificata nelle piazze in organizzazione sui territori, attrezzandoci così per una fase che si annuncia di resistenza attiva contro le politiche di guerra, a partire dalla sfida della base USA al Dal Molin.

 

La costituzione della Rete Disarmiamoli è una tra le forme che il movimento si sta dando per coordinare le lotte contro le basi della guerra, la militarizzazione dei territori e della vita sociale del paese.
Eravamo presenti nel corteo romano con lo striscione e le bandiere “Disarmiamoli! “ e durante il tragitto siamo stati contattati da tante e tanti pacifisti, da militanti nowar ed antimperialisti provenienti da Sud al Nord del paese, determinati a mettersi in rete per le battaglie dei prossimi mesi.
L’agenda è fitta di scadenze ed appuntamenti, da Vicenza a Novara, Lentini, Lecce, camp Darby, La Spezia, Ravenna, Napoli, Massa Carrara e tante altre città nelle quali agiscono Associazioni, Comitati, Forum, tessuto connettivo “resistente” del nuovo movimento contro la guerra.

 

Abbiamo appena cominciato, resisteremo un minuto di più dei governi di guerra.

 

 

Rete nazionale Disarmiamoli!

 

www.disarmiamoli.org     info@...     3389255514    3381028120   



John Laughland
Travesty: The Trial of Slobodan Milosevic and the Corruption of International Justice

1) a Review by A. Daniels (The Spectator)
2) a Review by E. Herman (ZMag)
3) J. Laughland: "The Srebrenica ruling punctures the false claims that underpin the doctrine of intervention" (The Guardian) 


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Virtually a kangaroo court

Anthony Daniels

Travesty: The Trial of Slobodan Milosevic and the Corruption of International Justice
John Laughland
Pluto Press, 214pp, £14.99, ISBN 0745326368 

When Slobodan Milosevic died, more than four years into his trial for war crimes, newspapers around the world said that he had cheated justice. It would have been more accurate to say that he had cheated injustice. Had he lived, the judges would have been faced with an unpleasant dilemma: either to find him not guilty, thus casting a lurid light upon the past activities of their employers, the powers that had brought the tribunal into being in the first place, or to find him guilty and to sentence him to a long prison term on evidence that would not have justified a fine for illegal parking.

As John Laughland shows in this short, lucid and well-written book, the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia in The Hague was little more than a kangaroo court, though without the very real advantages of that kind of legal establishment, namely speed and economy. The trial of Milosevic cost about $60 million, and the transcript ran to 50,000 pages. These facts alone irresistibly bring to mind Einstein’s remark when he was told that 100 Aryan scientists had signed a letter condemning his theory of relativity: if they were right, he said, one would have been enough.

The tribunal made up its own rules as it went along, and then broke them if they proved inconvenient to the prosecution. The judges were men plucked from well-merited obscurity into the world limelight. It allowed the merest tittle-tattle, of the I-heard-it-from-Smith-who-had-it-from-Jones variety, as evidence. When the presiding judge, Sir Richard May, fell ill and resigned four years after the trial started (he may not even have been compos mentis at the end of his reign), the trial was not stopped, as the court’s procedure required, but another judge was drafted in who could not possibly have mastered the evidence, if for no other reason that, in the adversarial system, it is not only the verbal, but the non-verbal communication of the witnesses that is taken into account.

Milosevic was, at a very late date, refused the right, fundamental according to conventions on human rights, to defend himself, though he had a degree in law and had demonstrated, with an intelligence and grasp of the issues far superior to that of his accusers, that he was well able to do so. To force counsel upon him towards the end of the trial was little short of denying him the right to a defence, again in violation of the court’s own rules.

I think Laughland is mistaken when he says that the ‘joint criminal enterprise’, part of the indictment against Milosevic, was an inherently trumped-up charge. A man who orders another to murder and supplies him with the gun to do it cannot hide behind the fact that he did not himself pull the trigger. However, the tribunal played fast and loose with the concept of joint criminal enterprise.

For the charge to stick, there must be evidence of the quality that would convict on any other charge, and the court played fast and loose with the very concept of joint criminal enterprise. This is the basic point of the book: no evidence worthy of the name was ever produced against Milosevic, despite huge expenditure and despite the arbitrary extensions of time the prosecution was granted in the hope that something really damning would turn up to prove its case. Nothing ever did. Does anyone doubt that, had there been knock-down evidence against Milosevic, it would not have been trumpeted around the world? In the event, many of the prosecution’s star witnesses gave evidence that exculpated Milosevic entirely.

I think this is a very important book — far more important than its immediate subject matter might suggest — because it exposes the very odd, unpleasant, combination of unctuous self-righteousness on the one hand and lack of scruple on the other of the current Western political classes, of all political stripes, which itself is a reflection of a deep malaise in society. It is a spiritual sickness that extends far beyond The Hague tribunal: it has entered the fabric of our daily lives.


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Travesty

EDWARD HERMAN

Review of 
John Laughland, Travesty: The Trial of Slobodan Milosevic and the Corruption of International Justice (London/Ann Arbor: Pluto Press, 2007).

[Z Magazine, forthcoming, April 2007]

John Laughland's superb new book , Travesty: The Trial of Slobodan Milosevic and the Corruption of International Justice, is the fourth important critical study of the issues pertaining to the Balkans wars that I have reviewed in Z Magazine. The earlier three were Diana Johnstone's Fools' Crusade (2002), Michael Mandel's How America Gets Away With Murder (2004), and Peter Brock's Media Cleansing: Dirty Reporting (2005). It is an interesting and distressing fact that none of the three earlier books has been reviewed in any major U.S. paper or journal, nor, with the exception of Z Magazine (and Swans and Monthly Review, which later ran a fuller version of the Johnstone review), in any liberal or left journal in this country (including The Nation, In These Times, The Progressive, or Mother Jones). This is testimony to the power of the established narrative on the recent history of the Balkans, according to which Clinton, Blair and NATO fought the good fight, though coming in late and reluctantly, to halt Serb ethnic cleansing and genocide managed by Milosevic, with the bad man properly brought before a legitimate court to be tried in the interest of justice.

This narrative was quickly institutionalized, with the help of an intense propaganda campaign carried out by the Croatian and Bosnian Muslim governments (assisted by U.S. PR firms), the U.S. and other NATO governments, the NATO-organized and NATO-servicing International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia's (ICTY, or Tribunal), and the Western media, which quickly became co-belligerents in this struggle. This informal collective focused on numerous stories and pictures of suffering victims, on one side only and devoid of context. In commenting on the parade of witness victims, Laughland notes that "Indictments [by the ICTY] are drawn up with little or no reference to the fact that the acts in question were committed in battle: one often has the surreal sensation one would have reading a description of one man beating another man unconscious which omitted to mention that the violence was being inflicted in the course of a boxing match." But this stream of witnesses, that the defense could duplicate in its turn if given the opportunity--and Milosevic did with a video presentation of badly abused Serbs for several hours toward the beginning of his trial--is effective in demonization and helped mass-produce true believers who viewed any contesting argument or evidence as "apologetics for Milosevic."

This consolidation of a party line has been reinforced by a virtual lobby of institutions and dedicated individuals ready to pounce on both the deviants who challenge the new orthodoxy as well as the media institutions that on rare occasion allow a questioning of the "truth." The refusal to review these dissenting books and to deal with the issues they raise is also testimony to the cowardice and self-imposed ignorance of the media, and especially the liberal-left media, unwilling to challenge a narrative that is false at every level, as is spelled out convincingly in the three books reviewed earlier and once again in Travesty.

Laughland's Travesty focuses on "The Corruption of International Justice" displayed in the ICTY's performance in the seizure and trial of Milosevic, but in the process the book covers most of the issues central to evaluating the Balkan wars and the role of the various participants. The institutionalized lies are dismantled one after the next. On the matter of "international justice," Laughland stresses the fact that the ICTY is a political court with explicit political objectives that run counter to the requirements of any lawful justice.

This political court was organized mainly by the United States and Britain, countries that now freely attack others, but seek the fiction that will give their aggressions a de jure as well as quasi-moral cover. For this reason the rules of the ICTY stood Nuremberg on its head. The Nuremberg Tribunal tried the Nazi leaders for their planning and carrying out the "supreme international crime" of aggression. But the ICTY Statute doesn't even mention crimes against peace (although with Kafkaesque hypocrisy it claims to be aiming at protecting the peace). Thus, Laughland notes, "instead of applying existing international law, the ICTY has effectively overturned it." The dominant powers now wanting to be able to intervene anywhere, the new principles to be applied were a throwback to the Nazis in disrespect for international borders. Laughland says that "the commitment to non-interference in the internal affairs of states, reaffirmed as part of the Nuremberg Principles in the United Nations Charter, is an attempt to institutionalize an anti-fascist theory of international relations. It is this theory which the allies destroyed in attacking Yugoslavia in 1999." And it is this anti-fascist theory that the ICTY and humanitarian interventionists have abandoned, opening the door to a more aggressive imperialism.

The ICTY was established not by passage of any law or signing of an international agreement (as in the case of the International Court of Justice) but by the decision of a few governments dominating the Security Council, and Laughland shows that this was beyond the authority of the Security Council (also shown in another outstanding but politically incorrect and neglected work, Hans Kochler's Global Justice or Global Revenge? [Springer-Verlag Wien, 2003]). It was also established with the open objective of using it to pursue one party in a conflict, presumed guilty in advance of any trial. The political objectives were allegedly to bring peace by punishing villains and thus serving as a deterrent, but also to serve the victims by what Laughland calls "the therapeutic power of obtaining convictions." But how can you deter without a bias against acquittal? Laughland also notes that "The heavy emphasis on the rights of victims implies that 'justice' is equivalent to a guilty verdict, and it comes perilously close to justifying precisely the vengeance which supporters of criminal law say they reject." "Meanwhile, the notion that such trials have a politically educational function is itself reminiscent of the 'agitation trials' conducted for the edification of the proletariat in early Soviet Russia."

Laughland features the many-leveled lawlessness of the ICTY. It was not created by law and there is no higher body that reviews its decisions and to whom appeals can be made. The judges, often political appointees and without judicial experience, judge themselves. Laughland points out that the judges have changed their rules scores of times, but none of these changes have ever been challenged by any higher authority. And their rules are made "flexible," to give efficient results; the judges proudly noting that the ICTY "disregards legal formalities" and that it does not need "to shackle itself to restrictive rules which have developed out of the ancient trial-by-jury system." The rule changes have steadily reduced defendants' rights, but from the beginning those rights were shriveled: Laughland quotes a U.S. lawyer who helped draft the rules of evidence of the ICTY, who acknowledges that they were "to minimize the possibility of a charge being dismissed for lack of evidence."

Laughland notes that the ICTY is a "prosecutorial organization" whose "whole philosophy and structure is accusatory." This is why its judges gradually accepted a stream of rulings damaging to the defense and to the possibility of a fair trial--including the acceptance of hearsay evidence, secret witnesses, and closed sessions (the latter two categories applicable in the case of 40 percent of the witnesses in the Milosevic trial). ICTY rules even allow an appeal and retrial of an acquitted defendant--"in other words, the ICTY can imprison a person whom it has just found innocent."

Laughland's devastating analysis of the Milosevic indictment and trial is a study in abuse of power in a politically-motivated show trial, incompetence, and faux-judiciary malpractice. The first indictment, issued in the midst of the NATO bombing war, on May 27, 1999, was put up in close coordination between the ICTY and U.S. and British officials, and its immediate political role was crystal clear--to eliminate the possibility of a negotiated settlement of the war and to deflect attention from NATO's turn to bombing civilian infrastructure (a legal war crime, adding to the "supreme international crime," both here protected by this body supposedly connected to "law" and protecting the peace!). The later kidnapping and transfer of Milosevic to the Hague was a violation of Yugoslav law and rulings of its courts. The ICTY's NATO service and contempt for the rule of law was manifest.

The original indictment of Milosevic dealt only with his responsibility for alleged war crimes in Kosovo. But as Laughland points out, the wild claims of mass killing and genocide in Kosovo were not sustainable by evidence, and NATO bombing may have killed as many Kosovo civilians as the Yugoslav
army. This accentuated the problem that if the Milosevic indictment was limited to Kosovo it would be hard to justify trying him for Kosovo crimes but not NATO leaders, a point even acknowledged by the ICTY prosecutor. So two years after the first indictment, but after Milosevic's kidnapping and transfer to The Hague, the indictment was extended to cover Bosnia and Croatia. A bit awkward, given that back in 1995 when Mladic and Karadzic were indicted for crimes in Bosnia, Milosevic was exempted. There was also the problem that the Bosnian and Croatian Serbs were not under Serb and Milosevic authority after the declared independence of Bosnia and Croatia, and Milosevic fought with them continuously in an effort to get them to accept various peace plans 1992-1995 (documented in Sir David Owen's Balkan Odyssey, another important book neglected perhaps because of its contra-party line evidence).

So the prosecution sought to make the case for "genocide" by belatedly making Milosevic the boss in a "joint criminal enterprise" (JCE) to get rid of Croats and Muslims in a "Greater Serbia." The initial indictments that confined his alleged crimes to Kosovo never mentioned any participation in a JCE or drive for a "Greater Serbia." So the prosecution had to start over in collecting evidence for the crimes, JCE, and Greater Serbia aims in Bosnia and Croatia and tying them to Milosevic. Guilt decision first, then go for the evidence, was the rule for this political court. The trial moved ahead while the "evidence" was still being assembled. Most of it was the testimony of scores of alleged witnesses to alleged crimes, a large majority with hearsay evidence, and almost none of it bearing on Milosevic's decision-making or differentiating it from what could have been brought against Izetbegovic, Tudjman or Bill Clinton. Laughland shows very persuasively that the inordinate length of the trial was in no way related to Milosevic's performance--a lie beloved by Marlise Simons and the mainstream media in general--it was based on the fact that this was a political trial that inherently demanded massive evidence, and the prosecution, unprepared and struggling to make a concocted charge plausible, poured it on, trying to make up for lack of any documentation of their charges of a Milosevic-based plan and orders with sheer volume of irrelevant witnesses to civil warfare and Kosovo-war crimes and pain.

A key element in the prosecution case was the belated charge that Milosevic was involved in a "joint criminal enterprise" with Serbs in Croatia and Bosnia to get rid of non-Serbs by violence, looking toward that Greater Serbia. The concept of a JCE is not to be found in prior law or even in the ICTY Statute. It was improvised to allow the finding of guilt anywhere and anytime. You are part of a JCE if you are doing something bad along with somebody else, or are attacking the same parties with somebody who does something bad. With that common end you don't even have to know about what that somebody else is doing to be part of a JCE. Laughland has a devastating analysis of this wonderfully expansive and opportunistic doctrine, and his chapter dealing with it is entitled "Just convict everyone," based on a quote from a lawyer-supporter of the ICTY who finds the JCE a bit much. Milosevic probably would have been convicted based on this catch-all, or catch anyone, doctrine. Of course it fits much better the joint and purposeful Clinton, Blair, NATO attack on Yugoslavia, or the Croats U.S.-supported ethnic cleansing of Serbs from Croatian Krajina in August 1995, but there is nobody to enforce the JCE against them, whereas we have the ICTY to take care of U.S. and NATO targets!

Laughland has a fine chapter on Greater Serbia, which shows that Milosevic didn't start the breakup wars (even quoting prosecutor Nice admitting this), that he was no extreme nationalist and that accusations about his speeches of 1987 and 1989 are false, that his support of the Serbs in Croatia and Bosnia was fitful and largely defensive, and that he was not working toward a Greater Serbia but at most trying to enable Serbs in a disintegrating Yugoslavia to stay together. During Milosevic's trial defense, Serb Nationalist Party leader Vojislav Seselj claimed that only his party sought a "Greater Serbia," as the Croats and Bosnian Muslims were really Serbs with a different religion and his party fought to bring them all within Serbia--Milosevic only wanted the Serbs stranded in the breakaway states to be able to join Serbia. At that point the prosecutor Geoffrey Nice acknowledged that Milosevic was not aiming for a Greater Serbia, but, in Nice's words, only had the "pragmatic" goal of "ensuring that all the Serbs who had lived in the former Yugoslavia should be allowed... to live in the same unit." This caused some consternation among the trial judges, as Milosevic's aggressive drive for a Greater Serbia was at the heart of the ICTY case. You never heard about this? Understandably, as the New York Times and mainstream media never reported it, just as they never tried to reconcile Milosevic's support of serial peace moves with his alleged role as the aggressor seeking that Greater Serbia.

There is much more of value in Travesty and I can't do it justice even on the issues discussed here. This is a wonderful book that should be on the reading list of everyone looking for enlightenment on the confused and confusing issues involving the Balkan wars and "humanitarian intervention." It helps shred the notion that the NATO attacks were based on a morality that justified over-riding sovereignty and international law, and it shows decisively that the ICTY is a completely politicized rogue court that is a "corruption of international justice."

As Laughland emphasizes (and Johnstone and Mandel do as well), the NATO war and the work of the ICTY in running interference for that war, were very helpful in setting the stage for George Bush's wars in Afghanistan and Iraq and possibly also, Iran. It was treated then, and remains treated today, as a "good war," a "humanitarian intervention." So those who swallowed the standard narrative, built on lies, at best failed to see the continuity between Clinton and Bush, and the service of the former and the publicists of the "good war" in removing the protection of the "anti-fascist theory of international relations" that protected small countries from Great Power aggression and unleashing the rule of the jungle.


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The Srebrenica ruling punctures the false claims that underpin the doctrine of intervention 

John Laughland
Wednesday February 28, 2007


Slobodan Milosevic was posthumously exonerated on Monday when the international court of justice ruled that Serbia was not responsible for the 1995 massacre at Srebrenica. The former president of Serbia had always argued that neither Yugoslavia nor Serbia had command of the Bosnian Serb army, and this has now been upheld by the world court in The Hague. By implication, Serbia cannot be held responsible for any other war crimes attributed to the Bosnian Serbs.


The allegations against Milosevic over Bosnia and Croatia were cooked up in 2001, two years after an earlier indictment had been issued against him by the separate international criminal tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) at the height of Nato's attack on Yugoslavia in 1999. Notwithstanding the atrocities on all sides in Kosovo, Nato claims that Serbia was pursuing genocide turned out to be war propaganda, so the ICTY prosecutor decided to bolster a weak case by trying to "get" Milosevic for Bosnia as well. It took two years and 300 witnesses, but the prosecution never managed to produce conclusive evidence against its star defendant, and its central case has now been conclusively blown out of the water.

The international court of justice (ICJ) did condemn Serbia on Monday for failing to act to prevent Srebrenica, on the basis that Belgrade failed to use its influence over the Bosnian Serb army. But this is small beer compared to the original allegations. Serbia's innocence of the central charge is reflected in the court's ruling that Serbia should not pay Bosnia any reparations - supplying an armed force is not the same as controlling it. Yugoslavia had no troops in Bosnia and greater guilt over the killings surely lies with those countries that did, notably the Dutch battalion in Srebrenica itself. Moreover, during the Bosnian war, senior western figures famously fraternised with the Bosnian Serb leaders now indicted for genocide, including the US general Wesley Clark and our own John Reid. Should they also be condemned for failing to use their influence?

However, Monday's ruling is about far more than Milosevic. Ever since the end of the cold war, the US and its allies have acted like vigilantes, claiming the right to bomb other countries in the name of humanity. The Kosovo war was the most important action taken on this basis and, as such, the curtain-raiser for Iraq. Fought, like the Iraq war, without UN approval, it was waged partly because the international community felt it should have intervened more robustly against Yugoslavia over Bosnia. It now turns out that Serbia was not in control in Bosnia after all. The ruling therefore punctures a decade-and-a-half of lies in support of the doctrine of military and judicial interventionism.

The ICJ, indeed, operates on a radically different philosophy of international relations than that which inspires the ICTY. Unlike the ICTY, the ICJ is not a criminal court and claims no power of constraint over states. Its jurisprudence is based on the anti-war sovereignty-based philosophy of the Nuremberg trial and the UN charter. In the international system, born out of the second world war, war is illegal except in a very restricted cases. States have no right to attack other states, not even on human rights abuse claims. This position is based on the understanding that there are no war crimes without war, and that war always makes things worse.

Mere anarchy was loosed upon the world when the cold war ended and the US sought to create a unipolar world system by destroying the old one. After the 1991 Iraq war, the US and Britain claimed the right to bomb Iraq to protect the Kurds and Shias, which they did for 12 years. Nato bombed the Bosnian Serbs in 1995 and Yugoslavia in 1999. The ICTY, created in 1993, operates on the basis of this doctrine of interventionism, which has come to its ghastly conclusion in the bloodbaths of Iraq and Afghanistan.

Created and controlled by the Great Powers, the ICTY, like its sister courts for Rwanda and the new international criminal court, corrupts the judicial process for political ends, the most important of which is to support the US's supposed right to act as the world's policeman. The new ICC, created by Britain, also seems to operate on the basis that white men do not commit war crimes: its prosecutors are currently investigating two local wars in Africa while turning a blind eye to Iraq. Only when that hideous strength which flows from the hypocrisy of interventionism is sapped, will the world stand any chance of returning to lawfulness and peace.


· John Laughland is the author of Travesty: the Trial of Slobodan Milosevic and the Corruption of International Justice