Informazione

CRONACA DI UN VIAGGIO IN KOSOVO

(Fonte:
http://www.santamariareginaterni.it/viaggio_in_kosovo.asp
Sull'atteggiamento della Chiesa Cattolica nelle persecuzioni contro i
cristiani ortodossi in Kosovo vedi anche ad es.
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3552
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2271
ed i link ivi contenuti.
Si noti che in occasione della attribuzione del "Premio San Valentino"
ad Ibrahim Rugova, quest'ultimo ha affermato: ''Noi kosovari dobbiamo
ringraziare Dio per l'intervento della Nato che e' servito a salvare un
popolo e una civilta''' - vedi:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2298 )

Venerdì 22 novembre 

Siamo in partenza io, Don Sandro, con Nadia Armeni e Laura Pesciaioli
dall’aeroporto di Fiumicino per Skopje, dove ci sta ad aspettare Ali
Nikolla per trasferirci poi a Ferizaj dove ci attende il parroco don
Albert Krista. Il coro dei grandi e dei piccoli celebrano la Festa di
S. Cecilia e dopo la S. Messa in canto – bellissimi canti eseguiti con
maestria, direttrice del coro la signora Aurora – c’è una festa di
accoglienza per conoscerci, ma sembra che ci conosciamo da sempre, e
presentare anche i doni che abbiamo voluto portare a nome della
Parrocchia a questa parrocchia dei SS. Angeli custodi: un servizio di
altare di ceramica di Deruta e un assegno di € 5.000,00. Alla fine poi
si aggiungeranno – brevi manu – altri € 2.500,00. C’è grande clima di
festa e di allegria, anche se si sentono i gravi problemi che
attanagliano questa popolazione fortemente provata dalla guerra i cui
sintomi sono manifesti in tante situazioni. C’è soprattutto l’incontro
con la famiglia di Ali che è stata ospite presso di noi durante la loro
fuga dalla guerra, con Zahide, la sposa e le due figlie Antigona e
Marigona. Dopo la festa andiamo in una pizzeria davanti alla chiesa per
mangiare insieme alla famiglia di Ali e Don Albert un pizza italiana. 

Sabato 23 novembre.

Dopo la S. Messa partiamo con Don Albert e Ali alla volta di Prizren
per incontrare il Vescovo del Kosovo – unica diocesi con 26 parrocchie
e 60.000 cattolici su una popolazione di circa 2.000.000 di abitanti –
Mons. Mark Sopi, al quale portiamo una lettera e una offerta da parte
di Mons. Paglia e in dono un servizio di altare in ceramica di Deruta.
Una grande cordialità e un invito a pranzare con lui, dopo una visita
molto interessante a questa città che è la più bella di tutti il
Kosovo e nella quale abbiamo incontrato i carabinieri italiani, che
sono le forze armate più amate dal kosovari. Durante questa permanenza
dal Vescovo abbiamo ascoltato la grave situazione  che attanaglia la
popolazione e come anche la Chiesa cattolica sia un segno di speranza e
i sacerdoti cattolici sono molto stimati perché durante la guerra sono
rimasti sul posto e hanno salvato molta gente dalla furia della guerra.
Da Prizren siamo partiti alla volta di Pristina, per strade veramente
infernali anche se hanno una parvenza di pavimentazione col catrame. 

A Pristina, la capitale del Kosovo un agglomerato disordinato di case e
di gente, circa 1.000.000 di abitanti - incontriamo prima davanti alla
Chiesa di S. Antonio di Padova – a proposito e diffusissima la
devozione al Santo – della famiglia Sphend, Primavera e Beki che poi ci
invitato nella loro casa, poi ritorniamo a Ferizaj. 

24 novembre 2002

Solennità di Cristo Re – concelebro con Don Albert e tengo l’omelia che
Don Albert traduce ai presenti: alle ore 8.30 la S. Messa è per i
piccoli, che vengono anche da lontano – a proposito a piedi - e guidata
nel canto dal coro dei piccoli istruito dal figlio di Aurora ,
partecipata con tanta fede. Dopo la S. Messa un incontro con i
fanciulli e le suore – caramelle e grande festa per un torrone alla
cioccolata e mandorle – e in una saletta l’incontro con Don Albert e i
collaboratori più stretti della parrocchia.

Alle 11 la S. Messa degli adulti – gli uomini a destra e le donne a
sinistra, ma Nadia e Laura, inconsapevoli, si mettono sulla destra –
bei canti del coro degli adulti e molta partecipazione. Purtroppo non è
ancora entrata nella mentalità di partecipare con più assiduità alla
Comunione. Dopo la S. Messa tanta bella accoglienza sul davanti della
Chiesa. Dopo pranzo andiamo a visitare le “Grotti di marmo” dove ci
incontriamo con tutta la famiglia Sphend e dopo la visita andiamo al
Santuario della Madonna Nera a Letnica, vicino a Viti il paese di Don
Albert, Ali e Don Krista, il rettore del Santuario. Bel Santuario che
accoglie tantissimi pellegrini dalla regione ma anche da fuori. Qui
venne Madre Teresa a chiedere lumi alla Madonna per la scelta della sua
vita, dato che era indecisa se fare il medico, l’insegnate pittrice o
la suora e dopo il pellegrinaggio disse: “La Madonna mi ha detto che
devo farmi suora”. Il ritorno un po’ difficoltoso, passando anche in
paesi a maggioranza serba e blindati a vista dalle forze della NATO e
di fianco alla grande base americana – Km. 10 x 8 – che gli americani
hanno comprato come territorio. 

25 novembre 2002

Andiamo a Pristina dove dobbiamo incontrare il Presidente Ibraim
Rugova, per invitarlo a Terni, a nome di Mons. Paglia, in occasione
della Festa di S. Valentino, per ritirare il Premio S. Valentino per
chi opera per la pace e la giustizia. Una persona veramente squisita
per l’accoglienza semplice e cordiale, un uomo che è l’unica speranza
per il popolo kosovaro. Ci ha offerto, questo è sua abitudine, dei
minerali essendo egli un ricercatore e cultore di minerali.

Dopo la vista dal Presidente siamo andati a pranzo in un ristorante di
Pristina – poca gente perché c’era ancora il Ramadan – e poi ci siamo
concessi una passeggiata nel parco di Pristina, bellissimo, circondato
da boschi nei quali non è consigliato camminare ancora per il pericolo
di mine.

Ritornati a Ferizaj siamo stati ospiti nella casa di Ali, nella quale
erano convenuti tutti i parenti di Ali – un’infinità – per la cena a
lume di candela perché ci siamo trovati nel momento in cui viene tolta
la luce: quest’anno la situazione è migliorata, perché l’anno scorso vi
era la luce per due ore e poi quattro ore senza, quest’anno si sono
invertiti i tempi, quattro ore di luce e due senza.

Siano tornati in Parrocchia dove siamo stati ospiti per tutto il tempo
e abbiamo preparato, purtroppo i bagagli per la partenza.

26 novembre 2002

Giorno della partenza: al mattino “l’incontro traumatico” con
Valentina…. poi la partenza per Skopje con “l’autista don Albert”;
visita di corsa alla città e alla Cattedrale, dove vi è una statua del
Sacro Cuore che si è salvata dal terremoto che ha distrutto Skopje –
ricostruita molto bene e ordinata – e davanti alla quale pregava
lungamente una piccola fanciulla che poi diventerà Madre Teresa.

All’aeroporto di Skopie e si intraprende il viaggio di ritorno verso
Fiumicino, attraverso lo scalo di Budapest, dove ci stanno ad attendere
Vanda e Livio.

Alcune annotazioni: i kosovari vivono in grande e dignitosa povertà –
un insegnante o un impiegato della municipalità, gente che sta
relativamente bene, hanno uno stipendio che si aggira sui 150,00 €; il
sussidio sociale, c’è la fila fuori dell’ufficio, è di € 28,00; non c’è
assistenza malattia e l’economia stenta a decollare perché c’è la paura
del ritorno dei serbi, che nella guerra avevano distrutto tutto,
compiendo anche efferati eccidi – infatti il viaggio lungo le strade
del Kosovo è pieno di notizie di campi profughi o fosse comuni.

Dal punto di vista religioso, la comunità cattolica, piccola minoranza
è però molto vivace e apprezzata per cui, con i musulmani, c’è una
convivenza molto pacifica. E’ una Chiesa però che vive ancora molto
delle conseguenze del regime comunista e che ancora deve iniziare il
rinnovamento conciliare; però ci sono buoni e confortanti sviluppi, in
quanto ci sono molte vocazioni sacerdotali e religiose femminili, tanto
che ogni parrocchia è ben servita e ci sono anche molti sacerdoti
kosovari che sono all’estero.

I musulmani: i soli vecchi frequentano la preghiera del venerdì, ai
giovani poco interessa: l’ateismo di stato li ha segnati. Seguono molte
iniziative della Chiesa cattolica per vivere momenti di aggregazione.

Gli ortodossi, di origine serba, niente, oltre la Messa della domenica,
chiusi in se stessi e contro tutti. Non abbiamo potuto visitare una
Chiesa ortodossa in quanto tutte sono presidiate dalle Forze NATO.

 Dal nostro viaggio, costatata la povertà, è nata una bellissima
iniziativa: le famiglie di S. Maria Regina che per un anno adottano,
con un contributo di € 50,00 al mese, una famiglia povera di Ferizaj
che ci è stata segnalata dal Parroco Don Albert. E’ scoppiata una gara
di solidarietà ispirata certamente dal Signore tanto che sono più le
famiglie che adottano che quelle da adottare, grazie a Dio e alla
carità dei parrocchiani.

TESTIMONIANZA  DI  NADIA  ARMENI  E  LAURA  PESCIAIOLI 

Nadia così ricorda:

Il Kosovo, una delle tante regioni della ex Jugoslavia, paese devastato
da una cruenta e inutile guerra con la Serbia alla fine degli anni
novanta.

Questo è quanto io sapevo del Kosovo.

Novembre 2002, Don Sandro mi invita a fare un viaggio con lui e Laura
in questo paese per ritrovare alcuni amici che da profughi vennero
accolti nella nostra parrocchia. Rimasi alquanto titubante... ma alla
fine decisi per il sì.

Il 22 novembre si parte e l’accoglienza è davvero entusiasmante, in un
clima di festa e di allegria che non fa certo trasparire i grandi
problemi che tutti hanno dopo questa terribile guerra.

Con il fuoristrada della “Caritas” e Alì come interprete iniziamo a
girare per il Kosovo. Visitiamo città villaggi, paesi un po’ sperduti;
facciamo foto come dei normali turisti. Dico a me stessa: in fondo
questo posto non è poi così malandato, povero e così tanto provato
dalla guerra come dicono.

I giorni passano in modo piacevole, conosciamo tanta gente più o meno
importante.

Arriva la mattina della Partenza. Mentre con Laura percorriamo il
cortile della chiesa per arrivare all’auto della Caritas che ci avrebbe
portato all’aeroporto, vediamo  venire verso di noi una minuta bambina
bionda con un mano un foglio tutto stropicciato. Ci fermiamo a parlare
con lei e Suor Floriana e ci dice che si chiama Valentina e che sta
andando a catechismo. Avvicinandoci a lei ci accorgiamo che è vestita
in modo molto dimesso e come gesto affettuoso le offriamo delle
caramelle – è quanto avevamo in quel momento – lei cerca di metterle in
tasca, ma le caramelle cadono a terra; quella giacca che portava aveva
solo la federa e le tasche non c’erano più.

Con Laura ci guardiamo negli occhi e pensiamo: cosa può fare Valentina
con queste caramelle, ha bisogno di ben altro... e ci mettiamo di corsa
alla ricerca di un negozio e una bancarella. La troviamo e compriamo
una giacca a vento rossa, un po’ grandina, ma non importa,, almeno
Valentina quest’inverno starà un po’ calda.

Veniamo poi a sapere che Valentina ha tre fratelli e la sua famiglia è
povera e il papà cieco e la mamma ammalata e non hanno quasi niente per
vivere, se non l’aiuto che le mandiamo mensilmente, a parte la dignità
che contraddistingue questa popolazione.

Attraverso l’incontro con Valentina posiamo gli occhi e soprattutto il
cuore sulla vera e dolorosa realtà kosovara, che finora c’era, forse,
stata volutamente nascosta.

A questo punto il Kosovo diventa per noi un altro paese, dove s’è
bisogno di tutto e la nostra buona volontà e il nostro cuore sono tutto
per loro e ringraziando il Signore inizia una catena di solidarietà che
ogni giorno diventa sempre più grande, grazie alla generosità di tanta
gente che continua con noi questa meravigliosa avventura.

(P:S: questa annotazione da parte di Don Sandro sulla famiglia di
Valentina. Nel secondo viaggio sono andato personalmente a visitare
questa famiglia portandole l’aiuto della Parrocchia. Il papà e la mamma
di Valentina ci hanno fatto accomodare nella loro “casa”, se tale si
può chiamare, e la mamma si è scusata che non aveva da offrirci nemmeno
un bicchiere d’acqua. Non l’avevano l’acqua perché non hanno un pozzo
dove attingerla).

Questo il ricordo di Laura.

Tornata dal Kosovo, sarei ripartita subito, il giorno dopo. Avevo
sentito parlare di “mal d’Africa” da coloro che avevano fatto
esperienza missionaria, ma io che ho si fede ma so essere anche
razionale, pensavo di esserne immune. Non trovavo pace, non riuscivo a
trovare il giusto equilibrio, non riuscivo a rientrare nel solito tran
tran di tutti i giorni.

Ho cominciato a scrivere un diario per fissare meglio l’esperienza
vissuta. Mi sono posta questa domanda: cosa è stato per me il Viaggio
in Kosovo?

L’ho vissuta come un avventura? Andare per la prima volta in aereo e
vincere la paura del volo! Ma la paura è restata.

Come turista? Andavo alla ricerca di opere d’arte, ma non esiste la
cultura artistica, non l’ho trovata.

Poi l’ultimo giorno, poche ore prima di partire l’incontro “traumatico”
con Valentina ha dato il vero senso al viaggio. Mi ha fatto vedere la
povertà, tenuta fino allora in ombra dai vari appuntamenti
programmatici da Don Albert e Ali.

Camminare fra questa gente e scoprire cattolici e musulmani insieme, su
tutti una serenità inspiegabile per noi occidentali, in mezzo a tanta
povertà. Tutti accoglienti, gentili, ospitali; hanno offerto a noi
tutto il loro avere e non hanno molte volte di che vivere.

Ho visto che cosa è la vera carità, ho visto che cosa è la fede;
credono nella preghiera e vi sui affidano completamente; si sentono
dimenticati da tutti, ma non da Dio. E a questo proposito questo è
stato il dono per l’aiuto che abbiamo portato loro: “Pregherò per te e
la tua famiglia il Signore Dio nostro”. Quale migliore ricompensa mi
potevano offrire?

Ho visto la speranza sul volto di Valentina, dove ho visto Gesù Bambino.

Ho capito che nella povertà materiale c’è una ricchezza spirituale che
nessuna dittatura, nessuna guerra potrà mai togliere.

Il viaggio in Kosovo è stato un camminare incontro a Cristo; è stato
come un pellegrinaggio che mi ha rinnovato e fortificato nello spirito.
Grazie, Signore.

http://www.santamariareginaterni.it/viaggio_in_kosovo.asp

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Sul Consiglio Mondiale per la Pace recentemente svoltosi ad Atene vedi
anche:
Relazione di E. Vigna
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World Peace Council (Athens, May 2004)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3523
World Peace Council on Milosevic, Kosovo and the Hague Tribunal
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http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3524 ]


www.resistenze.org - osservatorio - lotta per la pace - 21-05-04
fonte WPC
traduzione dall'inglese di Bf


Dichiarazione dell’Assemblea della WPC


Atene, 6/9 Maggio 2004

L’Assemblea del Consiglio della Pace del Mondo è stata tenuta con
successo tra il 6 e il 9 Maggio 2004 in Atene, con la partecipazione di
134 delegati di 62 Organizzazioni da 47 paesi. Dopo una discussione
ricca e molto fruttuosa, i partecipanti della riunione hanno concluso
con la dichiarazione seguente ai popoli del mondo:

Gli sviluppi che hanno avuto luogo nell'ultima Assemblea del WPC del
Maggio del 2000 sono stati di particolare significato essendosi
generata una situazione cruciale per umanità, per l'aumentata intensità
dell’aggressività della strategia degli Stati Uniti che si sforzano di
imporre e consolidare un ordine nuovo al mondo, di guerra ed
oppressione. Allo stesso tempo affrontano di giorno in giorno l’aumento
dell’isolamento politico che deriva dai loro atti arbitrari ed
unilaterali in violazione dei diritti umani e dei popoli.

L’umanità è allarmata dagli sviluppi riguardo alla pace e alla
sicurezza del mondo negli ultimi anni. Mai nella recente storia i
popoli si sono levati in piedi a protestare così forte ed organizzare
un movimento anti-guerra come quello contro la guerra imperialista
degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Iraq. C'è un trend mondiale
crescente verso la pace. Il WPC è stato coinvolto fortemente in questo
movimento attraverso i suoi membri e le organizzazioni amiche, insieme
con milioni di persone in tutti i continenti ed in tutti gli angoli del
mondo.

L’attacco terrorista sulle Torri Gemelle a New York e sul Pentagono
l’11 Settembre 2001 venne usato come un pretesto per un indire
un’offensiva da lanciare su popoli e paesi del mondo in tutti i
continenti. L'annuncio della così detta campagna anti-terrorista degli
Stati Uniti, con l'appoggio dei suoi alleati, è servito a molti scopi
ed è stato usato per fare due  nuove guerre contro Afganistan ed Iraq,
e designare come bersaglio molti paesi che resistono alla dominazione
degli Stati Uniti o non si allineano con loro.

Il WPC condanna gli atti terroristici, inclusi gli atti di terrorismo
di stato. Quelli che sono da biasimare per questi atti dovrebbero
essere consegnati alla giustizia. L'ipocrisia e l’approccio
militaristico degli Stati Uniti e degli alleati su questo problema non
possono eliminare le cause di tale fenomeno. Cause come la povertà e il
sottosviluppo della maggioranza della popolazione del mondo, lo
sfruttamento e saccheggio delle risorse naturali del terzo mondo da
parte di società per azioni multinazionali, l'ingiustizia accumulata e
l’oppressione di popoli per decenni, sono fattori che sono stati usati
spesso da elementi criminali che gli Stati Uniti hanno arruolato,
addestrato e finanziato, per azioni che umiliano la lotta del popoli
per la loro libertà e sovranità nazionale ( che noi fermamente
difendiamo).

Allo stesso tempo principi fondamentali della legge internazionale e la
Fondazione Charter dell'ONU, sono stati violanti flagrantemente. La
dottrina nuova è "la forza fa la legge". Attraverso la nuova dottrina
la Nato si riserva il diritto di intervenire ovunque, su scala globale,
i suoi interessi siano presumibilmente in gioco.

In questo quadro una serie di convenzioni internazionali e positive e
di accordi firmati negli ultimi anni passati sono stati abrogati. La
meta è, da un lato, accelerare l'ulteriore militarizzazione delle
relazioni internazionali, approntare forze di intervento nuove e
sviluppare sistemi di arma nuovi, e dall'altro, intensificare
autoritarismo e repressione nei paesi poveri e varare nuove leggi che
restringano o aboliscano diritti democratici individuali e collettivi.
Diviene perciò un compito più importante lottare contro l’"ordine nuovo
del mondo", difendendo i diritti dei popoli a determinare il loro
proprio destino e per creare nel mondo un ordine della pace basato sui
principi dell'ONU

La gobalizzazione neo-liberale è stata utilizzata dal capitale
internazionale, di giorno in giorno, come uno strumento senza
precedenti di controllo e di sfruttamento su popoli e nazioni. I
conflitti stanno aumentando; la distanza tra paesi in via si sviluppo e
paesi industrializzati, tra ricco e povero, sta aumentando ad una
percentuale tremenda.

Secondo un rapporto dell’ONU, nel 2001 cento mila persone per giorno
stavano morendo a causa della fame, tre volte più di sei anni prima.
Cinque milioni di persone sono morte negli ultimi dieci anni in Africa
in dozzine di scontri e guerre. Tre grandi guerre (in Iugoslavia,
Afganistan e Iraq) sono costate la vita a migliaia di persone e hanno
provocato una distruzione tremenda. Pressoché la metà della popolazione
del mondo vive con meno di due euro per giorno.
                                                                        
                
Questa situazione, accompagnata da rivalità fra i poteri principali per
assicurarsi l’egemonia del controllo e la divisione in sfere influenza
dei mercati, crea pericoli tremendi di intensificazione delle guerre e
inoltre la probabilità di conflitti generalizzati che hanno per scopo
un impatto globale.
 
L'amministrazione degli Stati Uniti ha proclamato la nuova dottrina
della guerra di preventiva che va contro la legge Internazionale. Ha
elencato apertamente gli stati facenti parte dell’"asse del male",
determinando così i suoi prossimi obiettivi.  Molti paesi sono stati
messi nell'elenco che rimane aperto, pronto ad includere quei paesi,
popoli e  movimenti che non assentono con la dominazione degli Stati
Uniti ed i suoi alleati.

Gli Stati Uniti hanno adottato la strategia del primo colpo nucleare,
mentre abbandonano l'impegno fatto da tutti gli stati nucleari di non
avvalersi per primi di armi nucleari. Gli Stati Uniti e la Francia
stanno progettando di sviluppare anche nuovi tipi di armi nucleari per
uso in campi di battaglia urbani, mentre tutte le potenze nucleari
dovrebbero perfezionare i loro impegni per l'eliminazione delle armi
nucleari (NPT Revisione Conferenza nel 2000, articolo 6). Comunque, il
movimento per la pace nel mondo ha levato la sua voce in favore di fare
l'anno 2005 - 60° anniversario del bombardamento di Hiroshima e
Nagasaki ed un anno dalla conferenza di Revisione di NPT a New York -
una svolta per l'abolizione delle armi nucleari.  

Allo stesso tempo la situazione in Palestina  si è deteriorata, mentre
in America Latina è stato annunciato un piano per intervenire in
Colombia, la pressione sul Venezuela è stata intensificata, così come
quella esercitata su Cuba. Eventi in Asia, per sottoporre a tensione
diverse aree, sono stati provocati dagli Stati Uniti. Un ulteriore
allargamento della Nato è stato deciso per l’Europa.

Come la Jugoslavia è stata il primo terreno per l’applicazione della
nuova dottrina Nato, l'Afganistan e specialmente Iraq sono le prime
vittime della nuova e orribile dottrina di guerra preventiva.

La politica delle alleanze militari, (la Nato, il trattato di
sicurezza Giappone - US, ed altri) è stata intensificata ulteriormente
per coinvolgere di più gli alleati nella strategia degli Stati Uniti e
anche lungo questa linea, basi militari degli Stati Uniti all'estero
sono rinforzate e riorganizzate in tutto il mondo. Così i movimenti
contro le alleanze militari degli Stati Uniti, la Nato e le basi
militari straniere stanno crescendo nel mondo. In questo contesto i WPC
sosterrà le mobilitazioni popolari contro la Nato in un vertice ad
Istanbul, nel Giugno 2004.

Tutte queste decisioni, particolarmente gli attacchi strategici
preventivi degli Stati Uniti, rovesciano i principi statutari dell'ONU,
così come i principi della legge internazionale come furono formulati
dopo la Seconda Guerra mondiale. 

Il WPC esige il decolonizzazione di tutti i territori che rimangono
sotto regime coloniale. Il WPC esprime la sua solidarietà con i popoli
indigeni per i loro inalienabili ed indivisibili diritti, incluso il
loro diritto all’ autodeterminazione.

Un anno dopo l'invasione imperialista portata dagli Stati Uniti
l’occupazione dell'Iraq e la tragedia delle persone irachene continua.
In solidarietà con la resistenza delle persone dell'Iraq contro
l'occupazione, noi esigiamo l'immediata e completa ritirata di tutte le
forze occupanti per permettere alle persone dell’Iraq di determinare il
loro destino da soli.

L’Assemblea esprime la sua condanna veemente alla tortura brutale dei
prigionieri perpetrata dalle forze di occupazione in Iraq, Afganistan e
nella base di Guantanamo.

Noi denunciamo l'occupazione della Nato in corso nell'Afganistan, un
"esperimento" sul continente asiatico che è stato usato come un modello
dagli Stati Uniti per i suoi piani futuri di genocidio in Iraq.

Il genocidio delle persone palestinesi continua, mentre nuove inumane
misure reazionarie sono prese dal governo israeliano, come la
costruzione del muro. La sofferenza dei Palestinesi non conta per le
forze potenti che stanno dietro l’alleanza di Israele.

In accordo con le decisioni dell’ONU, il WPC richiede il ritiro
immediato dell’occupazione israeliana da tutti i territori occupati nel
1967, incluse le alture del Golan della Siria e l’istituzione dello
stato indipendente della Palestina con Gerusalemme Est come il sua
capitale, di fianco ad Israele. Similmente noi sosteniamo il diritto di
ritorno del rifugiati palestinesi.

Il WPC condanna l'occupazione dei 37% della Repubblica di Cipro che
continua dal 1974 così come la divisione de facto del paese. Il WPC
saluta la lotta sia dei greco-ciprioti sia dei turco-ciprioti perché
finisca l'occupazione e sostiene gli sforzi di giungere presto ad una
soluzione che conduca alla riunificazione del paese.

Il WPC prende nota delle recenti iniziative di India e Pakistan verso
la normalizzazione delle relazioni bilaterali, ed esprime sostegno per
le attività volte a promuovere un'atmosfera di pace e armonia sul
subcontinente indiano.

Il WPC esprime la sua preoccupazione per la pressione degli Stati
Uniti sul Bangladesh per un accordo militare e bilaterale e
l’installazione di una base militare statunitense nella Baia del
Bengala.

 Il WPC esprime la sua solidarietà con le persone della Corea che
stanno lottando contro l’egemonia degli Stati Uniti e la politica
ostile alla pace sulla penisola coreana. Il WPC sostiene la soluzione
pacifica del problema nucleare tra la DPRK e gli Stati Uniti attraverso
negoziazioni. Esige il ritiro completo delle truppe degli Stati Uniti
dalla penisola coreana.

Il WPC esprime la sua comprensione e ferma solidarietà con i milioni
di vittime dell’Agente chimico Orange, tossico usato dagli Stati Uniti
durante la Guerra in Vietnam, e invoca azioni per aiutare ad alleviare
la loro sofferenza.

Il WPC esprime la sua solidarietà con i popoli della Jugoslavia nella
loro lotta contro le conseguenze dell'aggressione barbara della Nato,
che condusse all'occupazione di parte di territorio serbo, il Kossovo,
e alla sua trasformazione in un protettorato Nato. Il così detto
Tribunale dell’Aia è un esempio della manipolazione della verità ed è
un tentativo per legittimare l'aggressione e gli altri crimini degli
Stati Uniti e della NATO.

Il WPC denuncia l'imprigionamento dei cinque prigionieri politici
cubani che lottarono contro i piani terroristici negli Stati Uniti,
mentre terroristi nativi di Cuba condannati girano a piede libero nello
stesso paese. Noi esprimiamo il nostro fermo appoggio e solidarietà con
le persone cubane che stanno lottando in condizioni difficili per
difendere la loro dignità e sovranità ed esigiamo la fine del blocco
criminale degli Stati Uniti contro Cuba, che è durato per quattro
decadi.

Il WPC esige il ritiro immediato di tutte le truppe straniere da Haiti.

Noi condanniamo gli atti delle forze reazionarie dell'oligarchia
locale per il rovesciamento della rivoluzione di Bolivar in Venezuela,
in cooperazione con gli Stati Uniti ed i suoi alleati in Europa. Noi
sosteniamo gli sforzi per costruire una società della giustizia, della
pace, e della solidarietà in concordanza con gli auspici del suo popolo.

Noi salutiamo la lotta dei popoli dell'America contro la Free Trade
Area of Americas (FTAA), contro il pagamento dei debiti esteri così
come contro il Plan Colombia. Due sono le componenti della politica
degli Stati Uniti di dominazione sulle risorse e sulle ricchezze
dell’America Latina ed i Caraibi: da un lato la minaccia militare e
dall'altro e le interferenze nella regione per garantire e proteggere i
loro interessi. In questo contesto noi salutiamo l'Alternativa
Bolivariana per l'America (ALBA) come una proposta suprema contro i
piani neo-liberisti dell’imperialismo.

L’Africa sta pagando il costo pesante degli interventi imperialisti
neo-coloniali e, combinata con politiche economiche e sociali qualche
volta inefficienti, la violazione dei diritti umani e dei principi
democratici e varie altre forme di esclusione sociale, politica e
culturale. Invece di portare loro più pace e migliori prospettive di
uno sviluppo giusto e sostenibile, la povertà del popolo africano sta
aumentando, mentre sono minacciate pericolosamente  milioni di vite
ogni giorno ed è aggravata l'instabilità dei loro paesi. Risorse
preziose spesso sono sprecate in armamenti invece di essere usate per
combattere efficientemente malattie endemiche come AIDS e malaria e per
l'istruzione e la salute del popolo. Il WPC sostiene fortemente la
realizzazione effettiva delle decisioni dell’ONU sulla circolazione
delle armi e la bonifica della disseminazione delle mine sul
continente, così come sul suo complessivo  disarmo.

Il WPC denuncia l’interferenza straniera negli affari interni di paesi
africani e condanna in particolare l'imposizione di sanzioni allo
Zimbabwe da parte dei governi britannico e statunitense.

Sfidati dall’imperialismo degli Stati Uniti, che tenta di dominare il
mondo insieme ai suoi alleati, noi delegati delll’Assemblea del WPC,
esprimiamo la nostra fiducia nell’umanità per il suo futuro. Attraverso
la lotta massiccia e coordinata dei popoli noi possiamo realizzare i
nostri obiettivi. Il 21° secolo è appena incominciato. Come non mai i
popoli del mondo sono divenuti consapevoli di fronte ai nuovi pericoli,
milioni di persone hanno marciato nelle strade chiedendo pace e 
giustizia. Ci saranno nuove sollevazioni di popoli e lotte per le
trasformazioni sociali. Il secolo nuovo riserverà molte sorprese per i
nemici delle richieste dei diritti dei popoli.

Nell'occasione del 55° Anniversario dalla fondazione del WPC,
l’Assemblea fa appello a tutte le organizzazioni e i movimenti a
livello nazionale, regionale ed internazionale che sono pronti lavorare
e lottare per difendere la pace contro il progetto imperialista, per
unire le nostre voci ed azioni per un mondo di pace, uguaglianza,
giustizia e solidarietà.

( Sullo stesso argomento vedi anche:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3543
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3541
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3521
http://www.salvaimonasteri.org/ )

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http://www.salvaimonasteri.org/stampa_06.htm

L’arte bizantina in Serbia tra ‘200 e ‘300: notizie brevi tra storia e
cultura

ROSA D’AMICO
(tratto con revisioni e aggiunte dal testo pubblicato nel catalogo
della mostra ‘Paolo Veneziano…’ di Rimini)

Al confine tra Oriente e Occidente, le terre balcaniche hanno sempre
avuto un difficile ruolo di ‘ponte’: ‘cerniera’ tra luoghi e culture, e
insieme punto d’attrito tra civiltà. Nel Medioevo le rotte dei
commerci, che vedevano le due rive dell’Adriatico in continuo rapporto,
penetravano dalle ricche città del Litorale nell’interno, incontrando,
nel cuore dell'antica Serbia, la via romana che, attraverso l’attuale
Macedonia, raggiungeva la seconda capitale bizantina, Salonicco, e poi
Costantinopoli, la ‘città imperiale’- il maggior centro di riferimento
per il mondo allora conosciuto.
Negli ultimi decenni del XII secolo era sorto all’interno dei Balcani,
accanto ad altre realtà, come la potente Bulgaria, il primo embrione di
quello che sarebbe divenuto lo Stato serbo: dominato dalla dinastia dei
Nemanjic’, questo si sarebbe in breve ampliato, raggiungendo il
Litorale, e divenendo una delle più significative presenze politiche e
sociali di quei territori. Suo primo centro propulsore fu la regione
della Raska che, con il vicino Kosovo, rappresentava un importante
crocevia per comunicazioni, scambi, traffici commerciali, in una terra
ricca dal punto di vista agricolo e minerario.
Già sotto il fondatore Nemanja si manifestò la ‘dualità’ politica,
culturale e religiosa dello Stato in formazione, al confine tra
cattolicesimo e ortodossia, tra Impero bizantino e potentati
d’Occidente. Tra la fine del 1100 e i primi del ‘200 la Serbia, come
gli altri Stati dei Balcani, approfittò abilmente dell’indebolimento e
della decadenza del vicino Impero per la propria crescita, in
particolare a seguito degli eventi del 1204. In quell’anno la stessa
capitale Costantinopoli era caduta in mano ai crociati ‘latini’, in
particolare veneziani e francesi, che avrebbero mantenuto il potere
sulla grande e ricca città fino al 1261, quando il potere sarebbe
tornato in mano greca con la dinastia dei Paleologhi. Alla nuova
politica dello Stato serbo contribuì l’accorta politica matrimoniale
dei Nemanjic’, che già in passato avevano stretto parentele con
famiglie d’Occidente oltre che con gli Stati confinanti e con i ‘romei’
di Bisanzio. Già nel 1207- 1208 il figlio di Nemanja, Stefano – poi re
‘primo coronato’- ripudiò la moglie bizantina Eudossia, e sposò la
veneziana Anna, nipote di Enrico Dandolo, tra i principali protagonisti
della conquista latina di Costantinopoli. Anna, proveniente dallo Stato
più potente tra Occidente e Oriente, fu presente alla formazione del
regno- sancita definitivamente nel 1217, quando Stefano ricevette la
corona dallo stesso papa Onorio- e vi mantenne una propria influenza,
accanto al marito e ai suoi successori, per tutta la vita: arrivata in
Serbia quando Venezia era la maggiore potenza dell’Impero ‘latino’,
morì intorno al 1250, durante il regno del figlio Uros I, il più abile
e ‘illuminato’ tra i discendenti di Stefano. Proprio in quegli anni- a
seguire una ‘politica’ matrimoniale volta di nuovo in senso
‘occidentale’- Uros aveva sposato la francese Elena d’Angiò, figlia di
Baldovino, l’ultimo imperatore occidentale di Bisanzio, detronizzato
nel 1261 dall’avvento dei Paleologhi. Cattolica, legata ai potenti
Angioini che governavano l’Italia meridionale con forti mire sui
Balcani e sull’Ungheria, Elena fu, più di Anna, figura influente nella
politica serba e nella ‘mediazione’ tra est e ovest. Prima accanto ad
Uros, poi quale ‘consigliera’ dei figli, i re Dragutin e Milutin, ella
percorse tutta la seconda metà del ‘200, fino al 1314, data della sua
morte.
La presenza presso la corte serba di queste figure femminili conferma
una tendenza non estranea al ‘passaggio’ di idee e modelli tra le rive
adriatiche. Elena, ‘cara consanguinea’ degli angioini, fu riconosciuta
dai papi ‘fedele figlia della chiesa’, malgrado l’unione con una
dinastia ortodossa. Dopo la detronizzazione di Uros nel 1276 ad opera
del figlio Dragutin, questi, a parziale ‘ricompensa’ per l’offesa verso
il padre, concesse ad Elena i territori del Litorale, ed alcuni
possessi nell’interno, fino a Brnjac, dove l’ex regina istituì la sua
corte. Importante fu, sullo scorcio del ‘200, il suo rapporto con la
costa, dove - nelle città litoranee da lei governate- a Kotor, Bar,
Skadar- tornò a proteggere le fondazioni cattoliche- specie
francescane- e promosse- soprattutto dal 1288- la costruzione di nuovi
monasteri dell’Ordine. Significativo fu il suo rapporto con Niccolò IV,
l’illuminato francescano che, dopo aver conosciuto in gioventù la
cultura di Costantinopoli, di cui sentì sempre la forte suggestione, fu
papa proprio dal 1288 al 1292.
Grande sviluppo ebbe lo Stato in particolare sotto il secondo figlio di
Elena e Uros, Milutin: l’intera Macedonia passò allora sotto il
controllo del re serbo. Nel 1999, poi, arrivando alla rottura con il
fratello Dragutin, che governava allora la zona nord della Serbia ed
era legato all’Ungheria, egli riannodò i rapporti con i Paleologhi di
Bisanzio, ancora una volta per via matrimoniale, unendosi alla
giovanissima Simonida, principessa reale. Da allora prevalse
definitivamente in Serbia l’influsso politico, culturale e religioso
dell’Oriente bizantino. Attraverso scontri, conflitti, nuove alleanze,
dopo il regno del figlio di Milutin, Stefano Decanski, si arrivò alla
metà del ‘300, momento della massima espansione dello Stato sotto il
re- imperatore- Dusan, e poi alla sua rapida disgregazione e
indebolimento, fino alla conquista ottomana del 1459.
La storia di questo territorio trova estrinsecazione nell’arte:
espressione principale ne fu la grande fioritura di monasteri, di
fondazione reale o monastica, le cui chiese, nel corso di più di due
secoli, furono affrescate da grandi maestri provenienti probabilmente
dalle capitali bizantine, Costantinopoli e Salonicco. Nel corso del
‘200, quando la Serbia divenne uno dei punti di riferimento per i
contatti tra est e ovest, vi si manifestarono alcuni dei più
significativi episodi della cultura europea del tempo, importante
tramite per l’irraggiamento della più nobile arte bizantina.
Architettura e pittura, come naturale in una terra di passaggio tra
civiltà e religioni, vi produssero monumenti di grande suggestione,
testimoni materiali dell’incontro tra le tradizioni del cristianesimo
orientale e il ‘romanico’ occidentale- tra culto della chiesa ortodossa
e forme costruttive ‘italiane’. Risultato ne furono già i primi edifici
della ‘scuola Raska’, così detta dalla regione dove era stato fondato
lo Stato e dove più ampiamente si diffuse: nelle chiese allora
costruite, ad una forma esterna che ricorda le cattedrali romaniche
della Puglia o della Lombardia corrisponde una distribuzione interna
legata anche nella decorazione pittorica ai modi più nobili
dell’Oriente bizantino. Dagli ultimi decenni del XII secolo, quando
furono fondati i monasteri di Kursumlja e Studenica, fino al ‘300,
epoca in cui l’architetto francescano di Kotor Vita realizzò, dopo il
1321, la monumentale chiesa di Decani in Kosovo, fu tutta una grande
fioritura di edifici che ripropongono con variazioni modelli simili.
Poco dopo l’arrivo in Serbia di Anna Dandolo, alla fine del primo
decennio del ‘200, era stato decorato di splendidi affreschi il ‘primo’
tra i monasteri, Studenica, fondato nel 1196: lì era stato seppellito
lo stesso Nemanja, il fondatore della dinastia che, fattosi monaco alla
fine della vita con il nome di Simeone, divenne il primo e più
importante tra i santi serbi.
Molto significativa accanto a quella del re Stefano è in quel periodo
la figura dell’altro suo figlio, monaco con il nome di Sava- pure
santificato dopo la morte- che nel 1219 fondò e fu primo arcivescovo
della Chiesa serba indipendente. Frequentatore di Costantinopoli,
Salonicco e delle capitali d’Oriente, ne riportò in patria tesori e
artisti illustri che, nei ricchi centri della nuova realtà politica,
come al di là dell’Adriatico, cercavano occasioni di lavoro migliori
che non nell’antica capitale depredata e impoverita. A loro-
espressione della cultura più aggiornata allora esistente- fu affidata
la decorazione di molti dei più antichi monasteri: dalla stessa
Studenica a Hilandar, fondazione serba sul monte Athos.
Tra 1222 e 1228 il secondo figlio di Stefano Primo coronato, Vladislav,
costruì e decorò la propria fondazione- mausoleo, Mileseva, il più
importante monastero del regno dopo Studenica: nel cuore della Raska,
era vicino all’antica città mercantile di Prijepolje, non lontano dalle
vie che portavano da un lato al Litorale, dall’altro a Salonicco. Pur
danneggiati, splendono sulle pareti gli affreschi che, nelle zone più
importanti della chiesa, avevano luminosi fondi d’oro ad imitare il
prezioso mosaico, di cui gli esecutori bizantini, forse di Salonicco,
conoscevano perfettamente la tecnica. Non dovette essere estranea alla
concezione e alla presenza dei più aggiornati pittori dell’epoca
l’influente posizione dello zio di Vladislav, il ricordato Sava,
vissuto fino al 1236. Nella grave perdita di testimonianze originali
nelle capitali d’Oriente, cicli come quello di Mileseva rappresentano
un punto fermo per la conoscenza dell’arte di Bisanzio nel suo momento
più alto, adattamento degli schemi importati alle necessità e alla
filosofia del nuovo Stato. Sempre nuovi tasselli ne confermano il
legame con opere del ‘200 in Italia. Gli influssi ‘balcanici’,
riconosciuti a Venezia, a Roma, in Toscana e nelle città del ‘nostro’
litorale adriatico, fanno pensare a rapporti diretti, sulla base di
alleanze politiche e commerciali. Del resto i pittori bizantini che
avevano lasciato le grandi capitali d’Oriente erano abituati ad
aggiornare le loro precedenti conoscenze a contatto con le novità
iconografiche e stilistiche proposte nei luoghi dove operavano, come
l’emergente regno dei Nemanja o Venezia.
Uros’ I, fratellastro e successore di Vladislav, aveva fondato un altro
tra i massimi monasteri della Serbia, Sopocani. Le pitture del maggiore
artista e dei suoi più alti collaboratori lì attivi, di qualche
decennio successive rispetto a Mileseva, costituiscono uno dei vertici
dell’intera arte europea del ‘200: vera e propria ‘rinascenza’ degli
antichi modelli ellenistici, in rapporto con i maggiori centri
culturali bizantini, ma difficilmente comparabili con testimonianze
sopravvissute, la loro suggestione incontra, in modo diverso rispetto a
Mileseva, l’arte contemporanea della penisola italiana, confermando la
‘dualità’ dei Nemanja tra Oriente e Occidente. L’affresco nel nartece
interno della chiesa, che rappresenta la Morte di Anna Dandolo, con la
presenza di personaggi storici, contribuisce a datare il complesso tra
1263 e 1265: intorno alla defunta, tra i familiari e i nobili della
corte, sono il re suo figlio, Uros, il fratellastro, l’ex re Vladislav,
l’altro fratello, l’arcivescovo Sava II, e i figli Dragutin e Milutin
‘giovani principi’. Sull’altro lato, in ginocchio, bacia la mano della
defunta la nuova regina, Elena. Accanto a Dragutin non compare
Katalina, figlia del futuro re d’Ungheria che, seguendo la politica di
alleanze matrimoniali dei Nemanja, egli sposò nel 1368- data che
diventa così un termine ante quem per il ciclo.
Al papa Niccolò IV, di cui si sono ricordati i rapporti con Elena
d’Angiò, si deve, sullo scorcio del ‘200, la promozione di cantieri
artistici che, a Roma e ad Assisi, presentano suggestioni dalla
maggiore arte d’Oriente, con possibili echi proprio di Sopocani. Anche
Jacopo Torriti, pure francescano, sembra averne avuto conoscenza nei
mosaici per Santa Maria Maggiore, nelle Basiliche romane e ad Assisi. E
Pietro Cavallini mostra consonanze con simili modelli nel celebre ciclo
a mosaico con Storie della Vergine per Santa Maria in Trastevere. Nel
Bagno del Bambino (a)- diffuso tema bizantino, collegato alla Natività-
troviamo lì forse la versione iconografica più vicina a quella,
sublime, della parete nord della Chiesa di Sopocani.
Unica tra le regine serbe, Elena, insieme ad Uros, aveva fondato nel
1276, secondo le regole ortodosse, il proprio monastero- mausoleo, in
cui fu sepolta nel 1314. Nella chiesa principale, la cui costruzione
presenta- non casualmente- anche suggestioni del gotico francese, gli
affreschi sopravvissuti ricordano ancora il grande modello di Sopocani.
Il monastero che era stato la prima sede dell’Arcivescovado serbo sotto
San Sava, Zica, era stato gravemente danneggiato da incursioni già alla
metà del ‘200, con perdita di molte pitture. Verso la fine del secolo
vi furono affrescati nuovi cicli da artisti che, con quelli attivi ad
Arilje, monastero sorto nella zona sottoposta al potere di Dragutin,
segnano l’importante passaggio tra il classicismo di Sopocani e le
diverse tendenze che si svilupperanno nel nuovo secolo.
I gravi danni subiti da Zica alla metà del ‘200 avevano portato a
spostare la sede dell’Arcivescovado a Pec’ nel Kosovo, nel cuore più
protetto della vecchia Serbia. Lì tra il sesto decennio del ‘200 e i
primi del ‘300 sorse uno dei complessi più importanti della regione,
poi restato punto di riferimento anche nei secoli della presenza turca.
Tre chiese unite tra loro, la più antica delle quali è quella dei Santi
Apostoli. Di grande importanza, gli affreschi interni raccontano le
vicende dell’arte in Serbia dal tempo di Sopocani alle novità della
matura pittura paleologa, entro forme architettoniche non più legate
alla scuola raska, ma a una lettura dell’edificio a cupola tipico
dell’Oriente cristiano.
In effetti, con la fine del ‘200 e i primi decenni del ‘300, quando il
centro dello Stato, con le conquiste di Milutin, si spostò verso il
Sud, le nuove costruzioni e i nuovi cicli pittorici interessarono
soprattutto le zone del Kosovo e della Macedonia. Una suggestione più
ampiamente orientale si riconosce nelle grandi fondazioni promosse da
lui, dalla Chiesa e dall’aristocrazia: fondazioni la cui architettura
interpreta in modo originale gli schemi costruttivi bizantini. Alcuni
esempi, il monastero di Staro Nagoricino in Macedonia, e le grandi
chiese del Kosovo, dalla Madonna di Ljevisa a Prizren a Gracanica, che
custodiscono al loro interno importanti ed uniche testimonianze
pittoriche legate agli sviluppi dell’arte paleologa- ultima fioritura
di grande rilievo dell’arte bizantina. In alcuni casi ci restano anche
i nomi degli artisti che decorarono gli edifici con splendidi e
complessi cicli, tra cui Michele Astrapa ed Eutichio, pittori di
Salonicco, attivi in diversi momenti nelle maggiori chiese del periodo.
La fioritura proseguì sotto Stefano Decanski e sotto Dusan, re e
imperatore. Ad essi va tra l’altro riferita l’ultima grande costruzione
legata allo stile ‘misto’ della scuola Raska, la chiesa del monastero
di Decani.
Sotto la pressione turca, che si fece costante negli ultimi decenni del
‘300, il centro dello Stato serbo, indebolito e frammentato, si
trasferì più a nord, nella regione del fiume Morava, ove, tra la fine
del secolo XIV e la prima metà del ‘400, si produsse una diversa
fioritura architettonica e pittorica, basata su nuove idee e nuovi
modelli, le cui principali testimonianze sono ancora visibili nei
monasteri di Manasija- Resava, Ljubostinja, Kalenic’.
Fitte fino al ‘600 sono le notizie sulle regioni interne balcaniche, e
sulla Serbia, tramandateci dai viaggiatori che le attraversarono:
l’interruzione degli scambi non fu quasi mai totale e nemmeno i
drammatici eventi verificatisi durante il lungo dominio ottomano
bloccarono le storiche vie di comunicazione, né le espressioni di vita
e cultura. Un più forte iato alla conoscenza si ebbe a seguito delle
guerre austro - turche di fine ‘600 e del ‘700, quando la migrazione di
molti residenti nelle regioni danubiane dell’Ungheria portò allo
sradicamento della memoria, con parziale o totale perdita di monumenti
e testimonianze. Solo nel secolo XIX, con il nuovo interesse nei
riguardi dei popoli che si liberavano dalle antiche dominazioni, e con
il desiderio degli intellettuali balcanici di riallacciarsi alle
proprie radici, si tornò a proteggere quanto sopravvissuto di un
patrimonio che manteneva un tessuto fitto e diramato. Sulle mura dei
monasteri ortodossi costruiti tra la fine del XII e la metà del XV
secolo restavano, pur danneggiati, complessi pittorici di altissimo
rilievo, più fitti che in altri centri dell’antico Impero. Specialmente
a partire dagli anni venti del ‘900 si arrivò al ripristino di edifici
diroccati e al recupero delle pitture in essi contenute. Studiosi come
il francese Gabriel Millet o il russo Okunev, insieme a ricercatori
balcanici, si dedicarono all’indagine sui cicli; e cominciarono a
circolare fotografie di complessi che spesso continuavano a
deteriorarsi.
Difficile era il riconoscimento degli antichi contatti: l’intera
cultura bizantina, salvo pochi vertici, era allora conosciuta per lo
più tramite opere tarde, o periferiche e ‘provinciali’, che non
rendevano giustizia alla sua grandezza; e così ‘bizantino’ diveniva
termine negativo, legato agli aspetti deteriori dell’arte d’occidente.
La riscoperta delle opere realizzate nell’antica Serbia può ancora oggi
aiutare ad affrontare confini culturali spesso divenuti anche confini
sociali e politici; a meglio capire la nostra stessa cultura che, nel
suo antico sviluppo, trovò, nel reciproco scambio, uno degli elementi
fondanti. Gli eventi bellici che hanno drammaticamente coinvolto quelle
regioni sia nel corso delle due guerre mondiali, che nei più recenti e
recentissimi eventi, devono farci riflettere sulla necessità di
considerare il grande patrimonio culturale di quelle regioni come
eredità comune di tutti noi, aiutandone la sopravvivenza e il tramando
alle future generazioni.

Riferimenti bibliografici:

G. Millet, L’Art chretien d’Orient du milieu du XII au milieu du XVI
siecle, La peinture- Peintures russes et serbes, Paris 1908
G. Millet, L’ancien art serbe. Les eglises, Paris 1919
N. Okunev, Monumenta Artis Serbicae, Praga 1928- 32
A. Deroko, in ‘ L’art Byzantin chez les slaves, Les Balkans’, tomo I,
Paris 1930
G. Millet, in ‘l’Art byzantin chez les Slaves, Les Balkans’, tomo I,
Paris 1930
C. Diehl, ‘La peinture byzantine’, Paris 1933
V. Petkovic’, ‘La peinture serbe du Moyen Age’, I- II, Beograd 1930- 34
V. Lazarev, ‘Storia della pittura bizantina’, edizione originale 1947;
(ed. it. Milano 1967)
‘L’Art medieval yougoslave’, catalogo della mostra, Parigi 1950 ( S.
Radojcic’, ‘Les fresques dans les eglises du Moyen Age en Serbie, au
Montenegro et en Macedoine’, ibidem) .
G. Millet, ‘La peinture du Moyen Age en Yougoslavie: Serbie, Macedoine
et Montenegro’, Paris 1957
S. Radojcic’, Mileseva, Beograd 1963, pp. 40- 59 ( con sunto in inglese)
A.Deroko, ‘Malo nekog davnog secanja’, in ‘Zograf’, n. 3, Beograd 1969,
pp. 53- 55
G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, I edizione, Roma 1966, II
edizione, con commento di G. Gandolfo, Roma 1988
V. Djuric’, Sopocani, Beograd 1991, pp. 173- 175 ( in lingua originale,
con breve sunto in inglese).
S. Cirkovic’, I serbi nel Medioevo, edizione italiana, Milano 1992.
B. Todic’, ‘Srpsko slikarstvo u doba Kralja Milutina’, Beograd 1998
AA.VV., Tra le due sponde dell’Adriatico- la pittura nella Serbia del
XIII secolo e l’Italia, cat. della mostra (Bologna, Ferrara, Bari),
Ferrara 1999
V. Pace, Mosaici e pittura romana del Medio Evo: pregiudizi e
omissioni, e Dieci secoli di affreschi e mosaici romani, in ‘Arte a
Roma nel Medioevo’, Napoli 2000, p. 287 segg., in part. pp. 294- 302; e
p. 305 segg. , in part. p. 312-14
R.D’Amico, Quel ‘filo’ da Mileseva a Bologna’, in Strenna storica
bolognese, 1997
‘Tra Oriente e Occidente attraverso l’Adriatico- due regine della
Serbia del ‘200 a Bologna’, in Strenna storica bolognese, 1998
‘Ponti distrutti- ponti da ricostruire- ancora il ‘filo’ tra Bologna e
Belgrado’, in ‘Strenna storica bolognese’, 2000
‘Alla confluenza tra fiumi e culture- Per la costruzione di nuovi
ponti’, in ‘ Strenna storica bolognese’ 2001
Per la salvaguardia dei beni culturali della Serbia, in
‘Mediterraneum’(in corso)

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MEMORIA STORICA E TUTELA: PER LA CONOSCENZA E LA SALVAGUARDIA DEL
PATRIMONIO CULTURALE DELLA SERBIA

Rosa D’Amico
(da ‘Mediterraneum/Tutela e valorizzazione dei beni culturali e
ambientali. Volume II,). La tutela del patrimonio culturale in caso di
conflitto’, a cura di Fabio Maniscalco, Napoli 2002 pp. 127- 133)

Nei Balcani e nella Serbia , da sempre ‘terra di passaggio’ e di
confronto tra grandi potenze, dove , tra Oriente e Occidente, sorsero e
tramontarono regni e imperi, i monumenti costituirono spesso l’unico
‘segno’ ‘materiale’ di intere identità nazionali e culturali, restando
simbolo di ‘resistenza’ anche nei periodi più duri. Le testimonianze
sulle loro frequenti distruzioni e ricostruzioni confermano che il
radicamento nella storia collettiva ne ha aiutato la conservazione,
mentre, dall’angolatura contraria, il fatto di ‘rappresentare’
‘visibilmente’ l’identità ‘nemica’ ha creato i presupposti per il loro
‘annullamento’ ideale e materiale.
Drammatici sono i ‘passaggi’ che , nei secoli, hanno visto tanti
complessi della ‘Vecchia Serbia’ abbandonati, danneggiati o distrutti.
Ricordiamo ad esempio , in Kosovo, il romitorio di San Pietro a Korisa
, di cui restano parti dell’architettura e degli affreschi, per lo più
perduti già in epoca antica ; o la chiesa dei Santi Arcangeli presso
Prizren, costruita nel ‘300 dal re- imperatore Dusan, che conserva in
loco solo le fondamenta e alcuni blocchi del parato murario- in marmo
come nella più antica Studenica- mentre la maggior parte dei materiali
fu riutilizzata, dopo l’abbandono , nella costruzione della moschea di
Sidan Pasa a Prizren, tra i più rilevanti edifici islamici del secolo
XVI nella regione.
Malgrado il frequente ‘uso’ dei monumenti come segno positivo o
negativo di identità, è utile ricordare i contatti mantenuti in questi
territori nei momenti di scontro meno aperto. La tolleranza della
legislazione ottomana consentì a lungo la sopravvivenza dei privilegi
goduti da alcuni monasteri , una limitata libertà di culto e la
conseguente espressione di un’autonoma cultura di tradizione ortodossa
, che mantenne il legame con le proprie radici. Anche nella ‘ripresa’
artistica dei secoli XVI e XVII, al tempo del rinnovato Patriarcato di
Pec’- che, sede dell’antico Arcivescovado medievale, era stato riaperto
nel 1549 col sostegno dell’allora Gran Vizir, sotto la guida di suo
fratello, Makarije Sokolovic’- le ‘nuove’ costruzioni e pitture serbe
non cercheranno ‘nuovi modelli’, ma , per non perdere il contatto con
la propria storia, si rifaranno, ‘restaurandoli’, o ‘ricostruendoli’, a
quelli delle antiche fondazioni

Varietà e ricchezza del patrimonio presente nel territorio sono
confermate dalle tante emergenze. Ecco i più antichi monasteri
costruiti tra XII e XIII secolo nella Raska, regione nel sud della
Serbia e culla dei primi Nemanja: da Djurdjevi Stupovi, a Kursumlija ,
a Studenica, da Mileseva, a Sopocani e Gradac , sono espressione di una
cultura che, tipica del momento e della zona, univa suggestioni da
Oriente e Occidente. Ecco , poco più a nord, i complessi nella regione
della Morava, sede degli ultimi despoti dove, prima della definitiva
caduta dello Stato serbo sotto gli Ottomani nel 1459, si espressero, in
fondazioni come Manasija- Resava, Ravanica, Kalenic’, nuove tendenze
artistiche..
Nel Kosovo , Gracanica , fondata da re Milutin nel 1315, è tra le più
significative costruzioni dell’architettura bizantina paleologa, mentre
la chiesa di Decani , progettata nel 1321 per suo figlio Stefano
‘Decanski’ da Vitus, architetto francescano di Kotor- Cattaro, ha
ancora le forme esterne del ‘romanico’ occidentale, tipiche dell’antica
scuola ‘ raska’. All’interno entrambi gli edifici conservano cicli di
grande rilievo per la storia dell’arte bizantina, come la chiesa della
Vergine di Ljevisa a Prizren, con affreschi firmati dai maggiori
esponenti della ‘scuola di re Milutin’, i pittori di Salonicco Michele
Astrapa ed Eutichio. Le chiese del Patriarcato di Pec’- dai Santi
Apostoli a San Demetrio a Santa Maria- realizzate dalla metà del 200 ai
primi del 300, sono legate non solo alle memorie medievali, ma anche
alla ‘rinascenza’ cinque- seicentesca , quando la rinnovata autonomia
incentivò il sogno di una rinascita.
Non dimentichiamo la cultura formatasi in Vojvodina specie dopo la
‘grande migrazione’ del 1689, quando i serbi trovarono rifugio nelle
zone danubiane dell’Ungheria, legate all’Impero asburgico :
significativi i complessi della zona di Fruska Gora, vicino a Novi Sad,
monasteri come Vojlovica presso Pancevo, o interi centri
dall’interessante tessuto urbano- Novi Sad , Pancevo , Sombor , Sremski
Karlovski, Vrsac, in cui si uniscono la tradizione ungherese e quella
balcanica . In questa regione, pur nelle recenti difficoltà, non si è
interrotto il rapporto tra i gruppi etnici che nel tempo vi si sono
stabiliti .
Un cenno meritano sia il patrimonio dell’artigianato e delle tradizioni
popolari, che gli interessanti edifici otto- novecenteschi, base
urbanistica delle nuove città- e di Belgrado- dopo la fondazione del
nuovo Regno indipendente .
I monasteri sono allora solo le emergenze più rilevanti in una terra
ricca di edifici ‘minori’ di varia epoca, che specie nelle zone a sud ,
fino al Kosovo– più a lungo sotto l’influenza ottomana- dialogano
spesso con il tessuto islamico, rappresentato da interessanti moschee e
da strutture di pubblica utilità. Punto di riferimento per tutti è
l’importante patrimonio archeologico, databile dal paleolitico
all’epoca romana e al primo Mediovo .

Alcune testimonianze su due dei monasteri citati della Raska, Sopocani
e Mileseva- espressioni altissime dell’arte bizantina nell’antico Regno
dei Nemanja – possono aiutarci a ‘ripercorrere’ le esperienze vissute
nei secoli da un patrimonio, fino a date recenti quasi ignoto per
difficoltà di informazione , più che per diffidenze strumentali.
L’approfondimento dell’indagine sugli antichi scambi, la volontà di
riallacciare i capi del ‘filo’ che lega due mondi vicini pur nelle
differenze, può aiutare anche la tutela di opere senza le quali non
conosceremo fino in fondo neppure la nostra stessa civiltà.
Esse appartengono a un territorio, ma sono insieme patrimonio comune.

Ricordiamo anzitutto i contatti della dinastia serba con l’Occidente,
sviluppati specie nel secolo XIII, spesso in funzione antibizantina, e
testimoniati anche dall’importante ruolo lì svolto da due regine: la
veneziana Anna Dandolo, nipote di Enrico Dandolo- tra i conquistatori
di Costantinopoli nella IV crociata del 1204, che sancì per
sessant’anni il governo ‘latino’ dell’antica Bisanzio- sposò Stefano,
‘Primocoronato’- il più antico dei Nemanja ad aver assunto il titolo
reale- e dal primo decennio alla metà del ‘200 fu protagonista della
vita del Regno accanto a Stefano e ai figli Radoslav, stanislav e Uros
. Intorno al 1250 quest’ultimo – il fondatore di Sopocani – prese in
moglie la francese Elena D’Angiò, figlia dell’ ultimo Imperatore
occidentale di Costantinopoli , Baldovino, cacciato nel 1262
dall’avvento dei Paleologhi. Legata alla dinastia angioina, in rapporto
con la politica guelfa italiana e col papato, Elena avrà grande
influenza in Serbia, prima, fino al 1269, accanto al marito, e poi fino
alla morte, nel 1314, sotto il regno dei figli, Dragutin e Milutin.
Notevole fu la sua importanza per il rapporto tra le due culture e le
due interpretazioni religiose cui era personalmente legata.

Vicino all’attuale città di Novi Pazar, nel cuore dell’antica Raska- la
cui prima capitale, Ras, è forse stata individuata nelle vicinanze- il
monastero di Sopocani è espressione di quell’ importante momento
politico e culturale. L’assegnazione dei dipinti più significativi
della chiesa al periodo tra 1263 e 1265 è importante anche per gli
scambi con l’arte italiana, nelle forme che assunse negli ultimi
decenni del secolo XIII a Roma, Siena, Assisi, Venezia e lungo
l’Adriatico. La loro datazione - convalidata dagli studi successivi - è
partita proprio dall’identificazione dei personaggi presenti nella
Morte di Anna Dandolo, episodio storico dipinto nel nartece: accanto al
fondatore Uros, due suoi fratelli- l’ex re Vladislav e il futuro
arcivescovo Sava II- gli allora giovani figli Dragutin e Milutin e, ai
piedi del letto, la nuova regina, Elena.
La drammatica vicenda conservativa di Sopocani ebbe inizio alla fine
del ‘300.
Il patriarca Pajsje- importante esponente della Chiesa serba dopo la
ricostituzione del Patriarcato di Pec’- ricordava ancora nel 1628- 29
le distruzioni subite dal monastero nel 1389, al momento della più
antica conquista turca della Serbia del Sud, e quando, sotto la spinta
ottomana, il centro dello Stato ormai frammentato si era spostato nella
regione intorno alla Morava, con parziale abbandono degli antichi
territori .
Dopo un silenzio di 150 anni, interrotto da qualche sporadica notizia,
Sopocani si ‘risvegliò’ nel periodo del Patriarcato riaperto, fino alla
seconda metà del ‘600, epoca delle guerre austro- turche. Nel 1688,
spinte dal sogno di una nuova indipendenza sotto gli Asburgo, le
popolazioni serbe si ribellarono e seguirono con speranza l’avanzata
austriaca, e la ‘riconquista’ di territori ai turchi. Antichi storici
ricordano che in quell’anno molti complessi, da Mileseva a Djurdjevi
Stupovi, da Sopocani a Studenica, furono dati alle fiamme e
saccheggiati durante la ritirata ottomana verso sud . Quando furono poi
gli Austriaci a ritirarsi sconfitti, molti serbi, guidati dal
patriarca, li seguirono fino alle regioni danubiane della Vojvodina
nella ‘grande migrazione’ del 1689, portando con sè le antiche reliquie
dei monasteri, ma lasciando gli edifici al deterioramento.
Varie iscrizioni documentano il dolore di testimoni per i monumenti
danneggiati da scontri, vendette, eventi naturali, ma soprattutto
dall’abbandono della popolazione che, sradicata e lontana, non poteva
più ‘curare’ quei ‘segni’ privilegiati della propria identità.
Nel 1724 , a Sopocani, il metropolita della Raska, Arsenije IV, pur
ritenendone ancora possibile il recupero, incideva nel portale di marmo
tra nartece e nave principale parole di rimpianto per il degrado del
monastero. Sullo stesso portale , Gavril, metropolita di Bosnia,
lasciava nel 1750 una ‘invocazione’ sulla necessità di rinnovare quel
tempio- simbolo. L’impossibilità di attuare il progetto è documentata
da una scritta del 1759, in cui si descrive la bellezza del monastero e
delle sue pitture e se ne piange lo stato.

Accanto a Sopocani, Mileseva è uno dei complessi più significativi del
‘200 in Serbia. Il re Vladislav, fratello e predecessore di Uros I,
eresse il monastero quale suo mausoleo all’inizio del regno, e restò
suo ‘mecenate’ per tutto il periodo in cui fu re, e anche dopo il
ritiro nelle terre del Litorale. Si datano intorno al 1236 le più
importanti pitture murali commissionate ad artisti delle maggiori
scuole bizantine . Per la fortunata collocazione geografica , lungo la
strada mai interrotta che conduceva dalla costa, attraverso la vicina
città mercantile di Prijepolje- ‘grande centro dei serbi cristiani’,
come la descriveva nel 1573 il francese Pierre Lascopier- fino
all’interno dei Balcani, e verso Costantinopoli, Mileseva – custode di
importanti reliquie, e dei sepolcri di prestigiosi esponenti della
storia serba, come San Sava, fondatore, nel 1219, della Chiesa
indipendente - restò spesso presente nei documenti. Molte sono le
descrizioni lasciatene da viaggiatori, di nazionalità soprattutto
francese , veneziana e tedesca.
Dopo le devastazioni tardo trecentesche le attività non vi si
interruppero, anche per l’appoggio del governo ottomano, che ne
mantenne antichi privilegi. Anzi, secondo le fonti, contributi le erano
spesso elargiti da turchi ed ebrei come da cristiani. Vi si ricorda
spesso l’importante attività tipografica, che nel 1536- 37 portò i
monaci- tipografi Teodosio e Gherardo a Venezia, nella stamperia serba
di Bozidar Vukovic’- Dionisio della Vechia.
Nel 1550 l’Ambasciatore veneziano Catarino Zen citava nella chiesa la
presenza - confermata nove anni dopo da Melchior Saidliz- di oro e
argento. L’ oro era in effetti protagonista anche delle pitture, non
solo in particolari decorativi, ma perfino- come anche a Sopocani- nei
fondali degli episodi affrescati nelle zone più visibili . Anche se
oggi ne rimangono solo tracce, esse documentano la volontà di rendere
l’interno delle chiese scrigni preziosi, con dipinti ispirati alla
ricchezza delle tecniche musive.
Un momento drammatico per Mileseva si ebbe dopo il 1583, quando morì il
suo protettore, Mehmed Sokolovic’. Allora, a seguito di una rivolta
antiturca, il corpo di San Sava, segno di identità per il popolo serbo,
venne prelevato dal sepolcro, trasportato a Belgrado- castello
fortificato turco- e bruciato. Seguirono anni difficili, con più di un
invito al papa e ai sovrani occidentali perché intervenissero a
liberare quelle terre dal governo ottomano.
Sotto il patriarca Pajsje, tra 1614 e 1647, e nei due decenni
successivi, si ha anche a Mileseva una rinnovata fioritura: nel 1657
furono commissionate nuove pitture, che, eseguite a risarcimento di
zone mancanti , protessero gli originali fino alle più recenti
‘riscoperte’. Dopo il 1689, con la dispersione dei monaci, anche questo
monastero, oggetto di nuovi saccheggi ed incendi, fu gradualmente
abbandonato.

Notizie sui monasteri riprendono a diffondersi , dopo un periodo di
silenzio, con la ‘riscoperta’ ottocentesca delle ‘antichità serbe’,
promossa a livello culturale e politico mentre cresceva in Europa, con
il Romanticismo, l’interesse per l’identità dei popoli; era il momento
in cui, nelle terre legate agli Imperi ottomano e asburgico, si
prendeva coscienza della propria storia , e si rivendicava la propria
autonomia – un momento che in Serbia coincise con la formazione del
Regno indipendente, ancora una volta fondato sui valori della ‘memoria’.

‘Sopocani, monastero nella Vecchia Serbia, di cui oggi restano le
mura’: così, nel 1818, Vuk Karadzic’, letterato e rinnovatore della
lingua serbocroata , descriveva l’illustre monumento. Acquarelli e
disegni del secolo XIX confermano quanto viaggiatori e amatori
annotavano circa lo stato dell’edificio, privo delle volte su quasi
tutta la navata, anche se la cupola e parte dell’abside erano ancora
integre. Le descrizioni vi testimoniano i problemi degli affreschi,
causati da incendi antichi, come dall’abbandono e dall’esposizione agli
agenti atmosferici.
Console in Bosnia dal 1857 al 1858, il diplomatico russo Giliferning,
che visitò numerosi monasteri della Vecchia Serbia, sentendosi ‘in un
territorio storico’, giudicò Sopocani -‘uno dei più importanti
monumenti’ della regione’- ancora facilmente recuperabile. ‘Per la
prima volta, trattando degli affreschi del nartece esterno’ (poi
ulteriormente danneggiati , e ancora oggi conservati ‘all’aperto’, non
essendo mai stata ricostruita questa zona dell’edificio) , egli
ipotizzava ‘la possibilità di trarne copie per salvaguardarne la
memoria quali testimonianze della storia della pittura ad affresco
slava’( Komnenovic’). Il complesso di Mileseva viene invece da lui
descritto ancora come ‘rovina’. Poco dopo – tra 1863 e 1868- la chiesa
avrebbe subito un ‘restauro’ non rispettoso delle forme originali- con
l’uniforme intonacatura che dette al suo esterno l’aspetto attuale.
Nuovo impulso allo studio delle ‘antichità serbe’ venne dopo la guerra
serbo- turca del 1876- 88, quando nuovi territori vennero annessi al
Regno. Gli sforzi di catalogazione proseguirono, con note di viaggio,
descrizioni , disegni, spesso carenti a livello scientifico, ma validi
come documenti su un patrimonio che continuava a subire danni.
I conflitti dei primi del ‘900, e soprattutto la guerra 1915- 1918,
portarono infatti nuove distruzioni a edifici difficilmente
difendibili, sia per la dispersione su un vasto territorio- con
conseguenti problemi di accesso - che per l’uso ‘militare’ attribuito
ad alcuni di essi, come Djurdjevi Stupovi. Fondato nel secolo XII, agli
inizi della dinastia Nemanja, questo monastero domina la valle di Novi
Pazar- centro dell’antica Raska- fino al Kosovo. Ancora i viaggiatori
ottocenteschi ne ricordavano integra parte della muratura e degli
affreschi. Ma, usato - per la sua posizione strategica- come deposito
di armi dagli austriaci, fu da questi fatto saltare al momento della
ritirata , riducendosi allo stato di ‘rovina’ in cui in parte ancora si
trova.
La necessità di una ‘ricostruzione’- anche della conoscenza - allargata
oltre i confini balcanici- si sviluppò negli anni tra le due guerre
mondiali, mentre si continuava a scrivere e a visitare le chiese mezzo
distrutte, occupandosi più ampiamente anche delle necessità di recupero.
Di grande significato fu l’impegno del celebre bizantinologo francese
Gabriel Millet, che sistematizzò in anni di lavoro quanto noto sui
monumenti bizantini serbi , descrivendone anche il drammatico stato
conservativo. Ancora nel 1920 A. Deroko ricordava l’isolamento di
Sopocani, privo di facili accessi e di luoghi di sosta. Solo dopo il
1926, quando fu ricostruita la parte mancante, ma documentabile, della
chiesa, si diffuse meglio anche la conoscenza delle sue pitture ,
finalmente protette dalle intemperie.
Tra gli ‘amatori’ e storici di quel periodo , il russo Nikolaj Okunjev
fu importante per la riscoperta di percorsi perduti. Alla fine degli
anni venti, quando la cultura bizantina era nota – a parte le tracce
sublimi conservate nell’antica Costantinopoli e nei ‘centri’
dell’antico Oriente cristiano- quasi solo attraverso interpretazioni
provinciali o testimonianze di più tardi ‘madonneri’, Paolo Muratoff,
nel volume ‘La pittura bizantina’, citava le ricerche, ancora non
pubblicate, dello studioso russo. Questi, ‘lasciandosi guidare da
considerazioni molto sagaci di ordine teorico…rivolse l’attenzione
…sulle più antiche tra le pitture murali della Vecchia Serbia e della
Macedonia. Finora era relativamente poco nota l’esistenza stessa di
questi affreschi anteriori al secolo XIV. Il Millet e il Diehl fanno
menzione di affreschi antichissimi a Studeniza (sic) (della fine del
XII secolo), nonché degli affreschi di Zica e Gradac (della prima metà
del secolo XIII)….Sono in primo luogo questi affreschi preziosi di
Nerez ( Nerezi in Macedonia) , poi quelli di Milescevo ( sic) ( dal
1236) e di Sopociany (sic) ( al 1250) che l’Okunjev ha esplorato e in
parte con le mani liberato da posteriori ridipinture…’
‘…I successivi anelli della catena … che speriamo tra pochi anni di
veder compiutamente saldata, si devono ancora ai lavori dell’Okunjev ….
Gli affreschi del monastero di Milescevo (sic)…Una serie di affreschi
ancora più notevoli … è stata scoperta… nel monastero di Sopociany…’.
In queste frasi scopriamo la passione per la ricerca e il desiderio di
liberare con le proprie mani i dipinti per ritrovarne l’aspetto
originario.
Anche fuori dai confini balcanici nasce la consapevolezza di un
patrimonio a lungo ignorato, che porta a rivedere , attraverso il
dialogo con le ricomparse pitture dei monasteri serbi, gli stessi
angoli di lettura dell’arte ‘bizantina’ e dei suoi rapporti di dare-
avere con le culture occidentali.

Con l’uscita dal secondo conflitto mondiale, quando l’ Europa prendeva
coscienza della necessità di salvaguardare il suo passato, anche in
Jugoslavia si avviarono nuove campagne di restauro e ricostruzione dei
monumenti sulla base delle forme antiche, campagne spesso proseguite
fino ad oggi, quando non in corso, o interrotte per i recenti eventi
bellici, ‘proiezione’ di un tormentato percorso storico.
Nei primi anni cinquanta fu fondato l’Istituto per la protezione dei
monumenti della Repubblica di Serbia- con sedi principali a Belgrado e
a Pristina. Fu un periodo importante per la ricerca come per
l’accelerazione degli interventi .
Purtroppo la grande dimensione dei cicli , la conservazione spesso
compromessa, la difficoltà di raggiungere luoghi isolati, non
consentirono sempre recuperi rapidi e diramati . Mentre in Italia, nel
caso di gravi danni alla pittura murale, si procedeva a ‘stacchi’ e
‘strappi’- usando metodi collaudati dall’esperienza- anche se non
sempre ‘sicuri’ a livello conservativo- nella Jugoslavia che si
risollevava dalla guerra si cercò un modo alternativo per ‘tramandare’
un patrimonio quasi perduto alla memoria delle generazioni future.
Sull’esempio di quanto realizzato a Parigi dal Museo dei Monumenti
francesi, a Belgrado si formò una scuola specializzata nella ‘copia’
degli affreschi, di cui venivano riproposte dimensioni, colori e
iconografie , ma anche irregolarità, mancanze, danni, sovrapposizioni,
che potevano documentarne lo stato in un determinato momento. I
copisti, in contatto con l’originale, ne studiavano anche le tecniche.
Così le indagini sui colori, sugli effetti degli agenti esterni, sulla
costruzione degli strati pittorici, hanno visto spesso la loro
partecipazione. Molti particolari da pitture ‘conservate nelle chiese
in rovina’- dalla stessa Sopocani, a Mileseva, a Studenica, alle chiese
del Kosovo e alle fondazioni della ‘scuola della Morava’- furono
riprodotti su tela, a tempera, consentendo la salvaguardia almeno del
‘ricordo’ di tante testimonianze.
Fortunatamente furono anche possibili interventi di restauro ‘in loco’;
oltre alla pulitura, al consolidamento e allo studio del già noto,
nuove superfici furono liberate dalle ridipinture- come a Studenica;
altre furono riscoperte sotto scialbature: ad esempio, nella Madonna di
Ljevisa presso Prizren tornarono allora in luce gli affreschi
trecenteschi ricoperti di calce quando il complesso era stato
trasformato in moschea ; nel monastero di Manasja- Resava nella Morava
si recuperarono importanti pitture quattrocentesche. L’attività dei
restauratori non tolse spazio ai copisti; ogni volta che comparivano
nuove pitture, o che un dipinto subiva un intervento, essi venivano
chiamati a testimoniare un altro ‘passaggio’ nell’esistenza dell’opera.
E il fenomeno della ‘copia’ è restato connesso fino ad oggi alla
volontà di sopravvivenza, di conservazione della propria cultura. Si
ricorderà che, fino allo scoppio della guerra del ‘99 , in Kosovo si
continuava ad andare: e che ancora nell’estate del ’98 i ‘copisti’
belgradesi erano a Pec’, a ‘testimoniare’ lo stato delle pitture.
Le copie, facilmente trasportabili, divennero anche ‘messaggere’ per la
conoscenza della pittura bizantina di Serbia al di là dei confini,
quando, a partire dal 1950, furono al centro di mostre ‘itineranti’.
Mentre negli stessi anni in Occidente si presentavano affreschi
originali staccati, le pitture dei monasteri serbi furono rese note a
un pubblico più vasto proprio tramite le ‘copie’- la ‘migliore
possibilità di conoscere un’opera dopo quella consentita dalla visione
dell’originale’ (Zivkovic’).
Dalla prima esposizione a Parigi, si passò, tra gli anni cinquanta e
sessanta, a iniziative su singoli temi, in sedi italiane, europee e
americane, fino ad arrivare - nel 1999, in concomitanza con il nuovo
tragico conflitto- alla realizzazione a Bologna e Ferrara, poi a Bari e
l’anno seguente a Venezia, della mostra ‘Tra le due sponde
dell’Adriatico’, destinata ad illustrare tramite una cinquantina di
copie i più significativi cicli dei monasteri duecenteschi di Serbia,
‘a confronto’ con opere del Duecento italiano che nello ‘scambio’ con
quella terra trovano più di un riferimento.
In quel periodo difficile la volontà d’incontro ha mantenuto i contatti
, cercando, al di là delle strumentalizzazioni, di far conoscere la
grandezza di una cultura che ha avuto tanti rapporti con la nostra.
Quei legami hanno permesso tra l’altro di avere notizie dirette sugli
eventi, specie sui danni al patrimonio. E’ naturale che quanto allora
raccolto subisse gli effetti del clima instaurato dal conflitto. Ma la
comunicazione ha consentito di ricevere nel corso dei tre tragici mesi
di bombardamenti informazioni di prima mano su quanto avveniva , mentre
notizie ufficiali venivano diffuse dal sito Internet dell’Istituto per
la Protezione dei monumenti , ancora consultabile.
Ogni danno, ma anche ogni ‘mancanza di attenzione’ nei riguardi di
obiettivi sensibili per la storia collettiva di intere comunità , ha
portato- accanto a perdite ‘materiali’- profonde ferite all’identità,
al rapporto di intere generazioni con il ‘luogo’, testimoniato anche
dal lungo, difficile recupero dei monumenti, troppo spesso liquidato
come ‘non antico’ e di conseguenza ‘non interessante’.

Nell’ottobre del 1998, quando la prospettiva di una nuova guerra nei
Balcani era sempre più vicina, l’ecologo Franz Weber inoltrava una
richiesta al Parlamento europeo perché il complesso dei monumenti del
Kosovo- di cui 1800 di rilevante valore- fosse protetto dall’Unesco .
In un appello ai leaders delle grandi potenze, chiedeva poi di
scongiurare interventi aerei che difficilmente avrebbero risparmiato il
tessuto urbanistico e monumentale della regione. L’Istituto per la
protezione dei monumenti di Belgrado, che elencava in Serbia e
Montenegro 3000 complessi già considerati dalla stessa UNESCO, e altri
13.000 degni di interesse, inviò in quel periodo varie richieste al
Direttore generale di quell’organismo , perché nella sua funzione
‘sovranazionale’ consentisse di risparmiare un patrimonio di valore
universale.
Furono anche la scarsa informazione sull’importanza di quei complessi e
la loro collocazione al di là di un confine lungamente isolato a
stendere un velo di silenzio sulle conseguenze di un attacco dall’alto-
sia pur ‘intelligente’ e ‘selettivo’. Alcuni si opposero a quel
silenzio; e questo permise, se non di impedire un’azione pianificata a
livello troppo alto, almeno di non interrompere la comunicazione, di
far ‘sentire’ alla società civile dell’altra parte – per lo più
scarsamente compromessa con le attività che venivano attribuite non a
un gruppo, ma a un intero popolo- che la sua identità poteva essere
rispettata e non violentata, che l’embargo culturale non era da tutti
applicato, che la grandezza di una storia tanto legata alla nostra non
poteva essere dimenticata per strumentalizzazioni contingenti.
Quell’embargo- mantenuto per una parte degli anni novanta , e
proseguito idealmente fino a date recenti, aveva portato addirittura -
per una curiosa commistione tra vicende contemporanee e cultura
storica- all’interruzione di percorsi conoscitivi: ad esempio
importanti mostre internazionali sull’arte bizantina hanno allora
‘ignorato’ fin l’esistenza del grande momento in cui la Serbia era
stata importante centro di quella cultura.
Lo stesso embargo escludeva la Jugoslavia dai consessi internazionali,
anche quando si trattava della salvaguardia dei beni culturali in caso
di conflitto. Non avendo voce ‘riconosciuta’, gli appelli lanciati per
la tutela del patrimonio nei momenti più gravi dell’intero decennio di
guerra- ‘percorso’ da ripetute minacce di interventi aerei contro la
Serbia - hanno avuto qualche risposta di comprensione , quando non sono
caduti nel nulla. I rappresentanti culturali jugoslavi non hanno potuto
nemmeno presenziare alla discussione sulla convenzione dell’Aja nel
marzo del 1999, quando l’intervento era deciso, e sarebbe stato
opportuno affrontare in modo non generico la situazione del patrimonio
che in quel momento era il più minacciato.

Su questo delicato tessuto di comunità umane e di monumenti si è
abbattuta dalla fine di marzo alla metà di giugno del 1999 la guerra
aerea, e nel Kosovo, centro della tragedia, anche lo scontro tra due
identità sempre più contrapposte, proseguito anche dopo la ‘pace’. Già
pochi giorni dopo l’inizio dell’attacco arrivava notizia della caduta
di ordigni presso Gracanica, con possibile compromissione statica delle
pareti- danno causato agli antichi edifici dal dissesto dovuto alle
forti deflagrazioni che, pur non colpendoli , avevano l’effetto di
continui, forti terremoti.
Danni strutturali diretti hanno coinvolto tra l’altro il monastero di
Kursumljia, i complessi della zona di Fruska Gora, particolarmente
bersagliata, il settecentesco monastero di Vojlovica , di cui è caduto
il tetto, la chiesa della Trasfigurazione a Pancevo, con il crollo di
una delle volte dipinte.
Significativi i danni riportati, nella Serbia centrale, dai monasteri
della zona di Ovcar- Kablar, mentre lesioni e crepe si denunciavano nel
monastero di Kovilj- del secolo XVI- presso Novi Sad, e in quello di
Rakovica, presso Belgrado. Pericoli alla stabilità delle strutture
coinvolgevano anche le chiese nella zona di Novi Pazar- da San Pietro a
Ras alla stessa Djurdjevi Stupovi, con possibile coinvolgimento della
non lontana Sopocani . Danni gravi hanno subito a Belgrado e nelle
altre città- gli edifici otto- novecenteschi, sedi di Ministeri e di
strutture governative e di conseguenza diretto ‘obiettivo’ degli
attacchi aerei.
I problemi del Kosovo saranno da altri trattati. Ma va qui fatto cenno
alla difficoltà di stabilire - in mancanza di attendibili testimonianze
delle diverse parti in conflitto- le cause di alcune perdite: in parte
imputabili alle bombe, ma anche alla volontà di ‘annullare’ l’identità
culturale del ‘nemico’- rischio cui un così delicato patrimonio è
sempre esposto. Da un lato sono stati danneggiati o distrutti edifici
legati all’identità islamica, in particolare moschee- a Djakovica,
Prizren, Pristina, Pec’. Le testimonianze di delegazioni lì presenti
confermano tante perdite- ferita profonda all’intera realtà del
territorio. D’altra parte- non durante il conflitto, ma dopo la ‘pace’,
alla presenza delle truppe internazionali- sono stati abbattuti o
gravemente deturpati numerosi monasteri ortodossi: forse non i
principali, meglio difesi, ma buona parte del tessuto connettivo che
arricchiva questa terra di episodi di varia epoca e storia- spesso
liquidati come ‘artisticamente poco interessanti’ (ma quando si tratta
del ‘nostro’ patrimonio, ogni chiesa di montagna è giustamente
sottoposta a tutela, perchè , pur in forme ‘provinciali’, è patrimonio
della comunità). Già nel luglio del ‘99- a pochi giorni dalla
‘conclusione’ degli attacchi, e dall’arrivo delle ‘truppe di pace’-
almeno trenta tra chiese e monasteri erano stati incendiati, violati o
fatti saltare. Non si sono sentite molte voci scandalizzate per queste
azioni, giudicate come ‘naturale risposta’ alle violenze subite. Così,
ogni casella finisce per andare al suo posto! E le coscienze
addormentate sono tranquille. Ma alcuni hanno anche allora dichiarato
il proprio sgomento e la necessità della tutela . Ricordiamo gli
articoli di Lionello Puppi sui danni che la scarsa attenzione ha
provocato all’identità di un popolo e della sua cultura . E gli appelli
lanciati sulla necessità di recuperare resti e documenti materiali dei
monasteri distrutti, prima di perdere anche le tracce della ‘memoria’.

Oggi tante cose sono cambiate in quella terra. Anche chi non si era
avvicinato alla sua cultura e alla sua società civile nel periodo della
separazione sente la necessità di riaprire i contatti. Si parla del
recupero del patrimonio di Serbia e Kosovo, finalmente come patrimonio
dell’umanità. Importanti iniziative ‘pubbliche’ sono state dedicate al
problema. Ho partecipato a due di questi momenti: al convegno
organizzato nel marzo 2000 a Venezia dal Dipartimento di Architettura -
sui beni culturali in rapporto alla guerra, e alla giornata dedicata un
anno dopo dalla Scuola Normale di Pisa ai problemi del patrimonio del
Kosovo. Più di recente sono state effettuate missioni, che ci si augura
siano momenti di dialogo tra parti che, entrambe, hanno qualcosa da
dire. La storia dei recuperi in quelle regioni non può essere
dimenticata, né liquidata perché non sempre ‘in linea’ con le teorie
proposte altrove. Si può crescere ‘insieme’ attraverso il confronto ,
anche se questo raramente si realizza nei fatti. Le occasioni che hanno
avuto- e continuano ad avere- concreta attuazione dimostrano che si può
almeno continuare su questa strada.

Il patrimonio ‘dell’umanità’ è in primo luogo patrimonio ‘del luogo’ e
ogni negazione o ‘sostituzione’ delle realtà umane lì presenti mina
anche la sopravvivenza del contesto culturale. E’ quello che sembra
avvenire nel Kosovo, che, dopo le tragiche vicende di scontro, sta
finendo per essere ‘spogliato’ di una delle sue identità con il
‘silenzio’ di chi dovrebbe aiutare la comunicazione. Ci si augura che
si possa ancora agire in direzione contraria. Il rispetto per i
monumenti non può prescindere dal rispetto per le componenti umane che
caratterizzano la storia di un ambiente. La sopravvivenza è legata al
recupero della ‘memoria’ e della ‘identità’ di quelli che in una terra
hanno vissuto, e vivono, le proprie radici. Solo il riconoscimento del
‘filo’ che unisce le proprie alle radici dell’ ‘altro’, con la
condivisione di uno spazio comune , può far vivere il patrimonio nel
tempo. Senza quel ‘confronto’ nessun patrimonio può salvarsi, nemmeno
quando viene riconosciuto come ‘patrimonio dell’umanità’. Basti
ricordare quanto l’antico sradicamento degli abitanti abbia contribuito
a danneggiare l’eredità artistica di queste regioni . E quanto anche in
Italia l’allontanamento di comunità umane abbia portato a perderne la
cultura, come nel caso di borghi appenninici dove l’ abbandono ha
decretato distruzioni, danneggiamenti o incongrue ‘trasformazioni’
dell’ ambiente ormai privo di cure .
Si sa che la cultura del ‘nemico’ è condannata alla distruzione.
Ricostruire il contesto sociale è allora unica base per una reale
tutela dei monumenti, che presuppone conoscenza e accettazione.
‘Riconoscerli’ come propri vuol dire ‘curarli’ e farli esistere. Gli
organismi internazionali non potranno da soli garantirne la vita, se
non torneranno ad essere ‘usati’ da chi, attraverso drammatiche
vicende, li ha fatti giungere fino ad oggi.

L’avvio di un dialogo riguardo alla tutela dei monumenti nella Serbia
propriamente detta può essere riconoscimento di quella cultura nel suo
‘reale’ significato nel contesto del territorio.
Risultano in corso importanti recuperi , ad esempio a Mileseva, dove si
sta intervenendo sugli affreschi dello ‘spazio sotto la cupola’, a
Sopocani- dove ogni anno si fanno lavori di manutenzione- o nei palazzi
di Belgrado, per ripristinare le strutture danneggiate dalle bombe.
Conoscenza e diffusione di informazioni, con la ‘schedatura’ delle
presenze e il recupero di monumenti e centri urbani, potranno portare
anche alla riapertura di itinerari legati a un turismo positivamente
vissuto, necessario alla crescita del territorio, come quello dei
viaggiatori del passato. Spesso parlando dei Balcani si rimane ancorati
alla costa - con qualche ‘salto’ in Bosnia- dimenticando le opportunità
dell’interno, dove splendide emergenze attendono solo di essere
conosciute. La ‘ricostruzione’ della via che, lungo i tracciati delle
strade romane, traversava i Balcani fino a Salonicco, oggi in pratica
corrispondente all’autostrada Belgrado - Nis, e al suo proseguimento in
Macedonia, oltre a facilitare i contatti , può riaprire antichi
percorsi. Facendo brevi deviazioni, si potranno allora incontrare
alcuni dei più importanti monasteri, che quella via avevano come punto
di riferimento già nel Medioevo.

Bibliografia di riferimento:

Per le vicende storiche::
N. Komnenovic’, ‘O propadanju fresaka na polusrusenim srpskim
srednjovekovnim crkvama’, in ‘ Narodni Muzej – Beograd, Kopije fresaka
iz srpskih srednjovekovnim crkva u rusevinama’ ( Copie degli affreschi
delle chiese medievali serbe in rovina), catalogo della mostra, Beograd
1980, pp. 5- 16 ( traduzione inglese pp. 51- 55).
Per lo studio tecnico degli affreschi:
Zdenka Zivkovic’ ( ‘Promene vrednosti boja na freskama polusrusenih
srpskih crkva’), ibidem, pp. 17- 32, traduzione inglese pp. 56- 61
Per le vicende di Sopocani:
V. Djuric’, ‘Sopocani’, Beograd 1991, con bibliografia. Per la storia
del monastero dopo i Nemanja, ‘Sudbina manastira’, ibidem , pp. 173-
175 (con riassunto in inglese)
Per le vicende di Mileseva:
S Radojcic’, ‘Mileseva’, Beograd 1963. Per gli eventi storici
successivi ai Nemanja, pp. 44- 59, con riassunto in inglese.
Per le vicende e la storia serba nel Medioevo:
S. Cirkovic’, ‘I Serbi nel Medioevo’, edizione italiana, Milano 1992