Informazione


Ricordando Sergio Manes

1) Addio al compagno Sergio Manes, instancabile militante e organizzatore di cultura (Alexander Höbel)
2) In memoria di Sergio Manes: il ricordo dei compagni de La Contraddizione
3) Il ricordo di Gianni Fresu
4) E' morto il compagno Sergio Manes, fautore della lotta ideologica attiva (Resistenze.org / Sergio Manes)


Sergio Manes, artefice delle Edizioni e del Centro Culturale Città del Sole, ci ha lasciati domenica 19 marzo.
Malato di tumore da tempo, era tuttavia sempre in prima linea con idee e proposte di iniziative – tra cui un progetto in fieri di convegno per il Centenario dell'Ottobre, che altri compagni seguiranno anche in sua memoria.
Con lui abbiamo realizzato importanti progetti, tra cui le pubblicazioni "Dossier Srebrenica", "Il corridoio" di JTMV e "Menzogne di guerra" di J. Elsässer, perle rare nel panorama editoriale fondamentalmente fascista dell'Italia all'inizio del XXI secolo.
Grande cuore napoletano, marxista-leninista intransigente, uno dei pochi italiani che negli anni Settanta poteva entrare in Albania senza il visto... Diceva di se stesso, citando una battuta del film di Sordi "Finché c'è guerra c'è speranza" che riguardava un personaggio suo omonimo, guerrigliero antimperialista: "Manes è dappertutto". Ed ora anche per sempre. 
(a cura di AM per Jugocoord Onlus)


Altri link:
Napoli, è morto il compagno Sergio Manes (di Redazione Napoli, 19 marzo 2017)
http://contropiano.org/news/politica-news/2017/03/19/napoli-morto-compagno-sergio-manes-090058
Intervista Sergio Manes "La Città del sole"- Napoli (NapoliUrbanBlog, 15 ago 2010)
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=IWVvJSmt5yk


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24 mar 2017

Addio al compagno Sergio Manes, instancabile militante e organizzatore di cultura

Alexander Höbel

Il compagno Sergio Manes, fondatore e anima del Centro culturale e delle Edizioni La Città del Sole, ci ha lasciato poche ore fa, all’alba di questo 19 marzo grigio e triste. Sergio è stato un comunista fino alla fine: un comunista mai riconciliato col mondo ingiusto, grande e terribile; un comunista da tempo “senza partito”, critico sincero dei nostri limiti, delle nostre inadeguatezze. Le sue critiche però non erano quelle di un compagno che sta alla finestra o davanti a un computer, ma quelle di un militante costantemente impegnato, sul versante della battaglia culturale e della continua organizzazione di luoghi e momenti di aggregazione, mobilitazione, crescita politica.


Sergio Manes aveva iniziato la sua militanza nel 1960, e raccontava spesso del suo fermo nel corso delle manifestazioni antifasciste di quel luglio, che anche a Napoli segnarono la discesa in campo di una nuova generazione di antifascisti e di comunisti. Sergio aderì al Partito comunista italiano, da cui uscì pochi anni dopo, condividendo la critica che intanto andava emergendo alla strategia togliattiana e che si saldò presto con la contestazione della linea del partito sovietico operata sul piano internazionale dai comunisti cinesi. Entrò dunque a far parte del Pcd’I m-l, collaborando alla rivista “Nuova Cultura” e fondando assieme ad altri il quotidiano “Ottobre” (in entrambi i casi direttore responsabile era Mario Geymonat). Anche in quella esperienza Sergio portò la sua grande attenzione al versante culturale della lotta politica: una concezione che conservò anche quando si allontanò dalla militanza di partito.

Nel 1989-90, in opposizione frontale alla liquidazione del Pci promossa da Achille Occhetto e dal gruppo dirigente della Bolognina, il compagno Manes rientrò nel Partito comunista italiano per partecipare alla battaglia del “fronte del No”, anche lì dando vita a bollettini, giornali, pubblicazioni. È in quella fase che ebbi modo di conoscerlo. Aveva saputo che nella sezione “Che Guevara” del Pci, nello stesso quartiere di Napoli in cui abitava, c’era un gruppo di giovani decisi a impegnarsi per il No allo scioglimento, e fu lui dunque a contattarci, per chiedere, confrontarsi; ne venne fuori un’intervista per un foglio che, se ricordo bene, si chiamava “Rosso di Sera”.

Poi Sergio aderì, come molti di noi, a Rifondazione comunista. E si impegnò sia sul versante politico della dialettica interna, sia nel tentativo di avviare un’iniziativa culturale ed editoriale che fiancheggiasse l’attività del Partito: le “Edizioni di Rifondazione comunista” però non nacquero mai. L’unica pubblicazione fu quella parte dei Manoscritti economico-filosofici di Marx intitolata Proprietà privata e comunismo. Sergio diede vita allora alle edizioni Laboratorio politico, e con quel marchio avviò un’intensa attività editoriale.

Poco dopo diede vita all’Associazione comunista “L’Internazionale”, e le nostre strade si incrociarono di nuovo. Sergio coglieva l’esigenza di noi compagni più giovani di imparare, discutere, approfondire, impegnarci nella battaglia delle idee. E per alcuni anni quella associazione, nella sede magnifica di Palazzo Spinelli, fu un punto di rifermento per tanti giovani e per i comunisti napoletani in generale: quelli che continuavano a militare nel Prc, ma anche tutti gli altri. Non mancarono gli scontri, anche forti, l’Associazione entrò in crisi. Poco dopo il compagno Manes abbandonò anche il Prc, per dedicarsi completamente alla battaglia culturale: una battaglia, però, sempre finalizzata alla politica, ossia alla trasformazione del mondo.

E proprio il suo impegno costante su questo versante ci portò di nuovo a incontrarci. Sergio intanto aveva dato vita a una nuova casa editrice, La Città del Sole, collaborando tra l’altro strettamente con l’Istituto italiano per gli studi filosofici, e negli anni Duemila promosse altre interessanti esperienze, quella del Centro studi sui problemi della transizione al socialismo (notevole il convegno di Napoli del novembre 2003, dal quale venne fuori il libro Problemi della transizione al socialismo in URSS) e quella dell’Archivio storico del movimento operaio napoletano, mentre il Centro culturale La Città del Sole costituiva una Biblioteca di grande interesse. Nuove generazioni di militanti, che si avvicinavano alla politica, trovavano in quelle strutture possibilità di formazione, dibattito, crescita. Intanto Sergio trovava il tempo anche per tornare a riflettere sul ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, sintetizzando le sue valutazioni nel libro Senza testa. Limiti e insegnamenti delle lotte degli anni ’60 e ’70, uno dei pochissimi suoi titoli pubblicati dalla sua casa editrice, che intanto arricchiva il suo catalogo di autori e testi di rilievo non solo nazionale.

La Città del Sole si è impegnata anche nel proseguire la pubblicazione delle Opere complete di Marx ed Engels nella loro traduzione italiana (importante, tra le altre, l’uscita nel 2012 di una nuova edizione del I Libro del Capitale, a cura di Roberto Fineschi), ma ha dovuto affrontare problemi sempre maggiori, di tipo logistico ed economico, incontrando una scarsa capacità di ascolto e di valorizzazione, a Napoli e sul piano nazionale, fino allo scontro col Comune per la sede concessa al Centro culturale, che proprio nelle scorse settimane è parso finalmente avviarsi a una soluzione.

Mi rendo conto di aver parlato tanto dell’attività di Sergio, e poco di lui. Forse perché proprio nella sua instancabile attività e capacità d’iniziativa e di lavoro Sergio metteva tanta parte di sé e ha messo tanta parte della sua vita. Ma non voglio che questo impedisca di dire qualcosa su di lui come persona: della sua schietta umanità, della grande ironia, del suo spirito profondamente napoletano, dell’intelligenza vivacissima, del “brutto carattere” che era poi una intransigenza assoluta verso opportunismi e pressapochismi, del suo essere sempre proiettato verso il futuro. Anche in questi mesi, quando, pur sapendo del male grave che lo aveva colpito, non si è stancato di proporre, incalzare, stimolare, per il futuro del Centro culturale e della Casa editrice, e intanto per quanto occorreva mettere in campo per il Centenario della Rivoluzione d’Ottobre (e su questo terreno un importante percorso unitario, di cui questo sito è uno dei primi frutti, è stato avviato).

Fino alla fine Sergio ci ha spronato, proposto, consigliato, spinto ad andare avanti. E ancora avanti cercheremo di andare, coi nostri limiti, anche nel suo ricordo, cercando di fare la nostra parte perché il suo grande lavoro sia ulteriormente sviluppato.

Alla sua famiglia, a sua moglie Liliana, ai figli Emiliano e Giordano, va intanto il nostro abbraccio commosso.



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In memoria di Sergio Manes 
Il ricordo dei compagni de La Contraddizione per La Città Futura.

di La Contraddizione  25/03/2017

Difficile parlare di una persona conosciuta da sempre. Non c’è memoria distinta, infatti, del primo incontro, come del primo impegno culturale, politico, della prima militanza, dei primi pensieri tendenti al comunismo, del primo accesso ai livelli scientifici della transizione socialista, come dire insomma della teoria della rivoluzione iniziatasi più di cento anni fa. È come se Sergio fosse da sempre compresente a tutto ciò, alle battaglie sindacali, politiche, alle fasi propositive e a quelle recessive della nostra storia recente, con il suo instancabile fare, proporre, suggerire, lottare su tutti i terreni possibili per l’apertura di varchi ad una umanità meritevole di una destinazione di crescita razionale e di giustizia sociale. Le sue ultime parole per definire il comunismo sono state proprio tese a ribadire che infine, da qualunque versante lo si volesse considerare, avrebbe dovuto inevitabilmente sfociare nel diritto alla vita di tutti, e nella umanizzazione consapevole di una comunità mondiale in grado di soddisfare i bisogni storici della vita.

Nel suo modo di esprimersi, a metà scherzoso e a metà serio, era solito dire di avere tre figli: due in carne e ossa, amatissimi, e un terzo partorito come casa editrice di cui ha continuamente curato, non solo la nascita ma poi anche la crescita, concepita come erede naturale di tutte le pubblicazioni necessarie a informare scientificamente in senso lato, e in particolare sul pensiero socialista e comunista. Il mantenimento della memoria del sapere attraverso il libro, colto o divulgativo, specialistico o politico, nel momento in cui la lettura veniva meno, le case editrici storiche della sinistra sparivano una dietro l’altra, i classici del marxismo venivano mandati al macero o su qualche sparuta bancarella e le librerie che li tenevano vendute ad altre attività commerciali, significava scommettere sulla sopravvivenza, in questi lunghi tempi bui, della consapevolezza delle contraddizioni del sistema, del conseguente sfruttamento umano necessario al dominio di questo, della crescente distruttività legata al suo inevitabile progresso, infine della altrettanto ineluttabile tendenza alla sua fine e superamento in un altro modo di produzione.

Difficile parlare di Sergio Manes, nel senso che era stato capace di confondersi nei molteplici momenti di lotta sociale, nella storia delle trasformazioni del comunismo italiano e internazionale, solerte punto di riferimento di iniziative culturali e per pubblicazioni editoriali coraggiose, che altrove non avrebbero avuto spazio data la regressione sociale e politica di questi ultimi cinquant’anni. Come persona, pur essendo una individualità forte e spiccata, autorevole e tenace, non era schivo dal mostrare anche i lati più teneri, affettuosi e fragili legati agli affetti più cari, all’amicizia dei compagni considerata sempre come il bene più prezioso di cui avrebbe sentito una mancanza insopportabile semmai fosse venuta meno. Oggi a parlare a tutti di Sergio saranno le innumerevoli pubblicazioni della Città del Sole, che ci auguriamo possano continuare ad essere prodotte, proprio come lui auspicava, nell’ottica di una continuità non solo della sua lotta personale, ma soprattutto della necessità di resistenza sociale della cultura marxista di contro a ogni ostracismo opposto dal capitale. La “Città del Sole” non è soltanto stata la sua casa editrice, ma anche un centro stabile di incontri e dibattiti cultural-politici che Sergio ha tenuto caparbiamente a costituire a Napoli, nonostante tutti i tentativi di esproprio, i furti, le effrazioni e distruzioni subite, operate da riconoscibili ignoti mai efficacemente perseguiti, ad irrisione delle puntuali denunce effettuate.

La lunga collaborazione con l’associazione Contraddizione si è tradotta con la collana “Il socialismo scientifico” da cui è scaturito Laboratorio politico, la cui definizione era appunto la cifra costante di Sergio:“iniziativa militante che si pone –senza riproporre vecchie preclusioni e al di fuori di nuove divisioni – al servizio di una ripresa culturale e politica del movimento comunista… aperta ad ogni livello di contributo di tutti i militanti, poiché potrà raggiungere gli obiettivi per cui è nata solo con l’apporto e la collaborazione attiva di chi, con indomabile ostinazione, è impegnato più che mai a comprendere e trasformare la realtà, a battersi per realizzare i valori e gli ideali del comunismo”. Un’altra collana intitolata “Comunismo In/formazione”, sempre entro Laboratorio politico, ha affrontato diverse tematiche del presente sulla falsariga delle analisi marxiane, per attestarne e dimostrarne l’assoluta attualità e unicità analitica per la critica del presente. Inutile ribadire che senza la piattaforma e la disponibilità di questa casa editrice il lavoro profuso per i vari contributi non avrebbe mai visto la luce. Questa, inoltre, è stata la base anche per molte altre collaborazioni con docenti di ogni ordine e grado, riviste legate alla tradizione di sinistra, strutture sindacali, compagni sparsi e movimenti che faticosamente Manes ha continuamente ricercato, contattato, sollecitato e aiutato ad esistere. La casa editrice era il supporto e lo strumento che si attivava ovunque un nucleo di resistenza all’abbandono del comunismo si evidenziasse con le forze possibili ma reali.

Già dallo scorso anno Sergio aveva avviato i preparativi per una riflessione critica sulla rivoluzione d’ottobre in occasione, quest’anno, del ricorrere del suo centenario. Non si doveva trattare né di una commemorazione né di una celebrazione ritualistica, ma di una valutazione a più voci sul significato storico, sulla sua supposta attualità o meno, sulla sua permanenza nel presente, anche nei più giovani, e sulla sua forza ancora propositiva nelle contraddizioni di un imperialismo dei nostri giorni più avanzato e minaccioso. Seppure non riuscirà a vederne le conclusioni, tutti i compagni impegnatisi in quest’obiettivo nel portare a termine – forse in ottobre o novembre di quest’anno – sentono ora di proseguire i lavori anche in suo nome, come per tutte le altre iniziative e proposte che Sergio ha lasciato incompiute nella vita della sua terza, preziosa creatura. In essa si concretizza quella difficile sintesi di teoria e prassi che Sergio Manes ha mostrato come quella “cosa semplice difficile a farsi” [1].


Note:

[1] L’ultima citazione, per chi volesse apprenderne completamente il significato, non conoscendola, è la frase finale di B. Brecht in “Lode del comunismo”, 1933.



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Il ricordo di Gianni Fresu


Ho appena appreso della morte del mio caro amico Manes. Sergio non aveva un carattere facile, né amava le mezze misure, ma è stato un compagno instancabile, un editore coraggioso, leale e generoso come pochi. La sua creatura, “La città del sole”, senza risorse né santi in paradiso, in tanti anni ha pubblicato autori famosissimi come sconosciuti, dando al lavoro di tutti la stessa dignità e garantendo sempre lo stesso impegno editoriale. Ha reso disponibili grandi classici dimenticati e fuori catalogo, come opere nuove o inedite, fondamentali nel dibattito attorno al materialismo storico. Ci siamo conosciuti a Torino nel 1997, al Convegno per il sessantesimo anniversario della morte di Gramsci. Chiesi all’allora mio segretario regionale di essere mandato lì, anziché al Congresso dei Giovani Comunisti che si svolgeva contemporaneamente. In una di quelle giornate, al termine di una sessione di lavori nella quale il tema prevalente era l’esigenza tutta politica di separare Gramsci da Lenin con l’accetta, chiesi la parola e contestai in maniera abbastanza irrituale e dura quella lettura che ritenevo scorretta tanto sul piano filologico, quanto su quello dell’onestà politico-intellettuale. Subito dopo mi si avvicinò un uomo alto e con i baffi, che non aveva smesso di sorridermi da quel momento. “Io e te dobbiamo parlare” mi disse, quindi mi lasciò i suoi numeri, indirizzi e un malloppo di nuove pubblicazioni appena uscite. Così fu, ci incontrammo in una trattoria nel cuore di Napoli, confrontandoci anche duramente, fino litigare a voce alta su tante cose. Ben presto lo compresi, portare la discussione sul terreno sdrucciolevole del contrasto era un suo modo per studiare e capire chi aveva di fronte, quasi un esame. Nonostante una furibonda litigata sulla figura di Togliatti, nella quale non ci risparmiammo colpi bassi, diventammo molto più che amici. Sebbene fossi uno studentucolo senz’arte né parte, mi coinvolse da subito nelle iniziative della casa editrice, convegni, riviste, riunioni di gruppi e correnti marxiste-leniniste concluse a notte fonda, dopo aver smontato e ricostruito il mondo secondo la nostra “etica rivoluzionaria”. Per quanto potesse sembrare burbero e brusco nei modi, aveva in realtà una sensibilità e empatia umana capaci di sorprenderti. Ci sentivamo spesso, in interminabili telefonate nelle quali si parlava di tutto, dalla politica internazionale alla disastrosa situazione del nostro campo, dalle disavventure dei nostri rispettivi lavori all’uscita di nuovi libri interessanti o indecenti. Sebbene partisse dalla valutazione amara e sconsolata di una fase di riflusso e arretramento generalizzato, non dava il tempo per crogiolarti nella lamentazione passiva. In un secondo il suo tono di voce e ritmo nel parlare mutavano, come preso da una smania di azione irrefrenabile e da un entusiasmo giovanile, quindi ti travolgeva con idee, iniziative, progetti politico-editoriali. La mia partenza nel 2014 interruppe questa abitudine che assecondavamo con cadenza regolare, ma appena rientravo, dopo qualche giorno, ricevevo la sua telefonata: “ciao caro, hai due minuti per parlare…?" Anche l’ultima volta, mai avrei potuto immaginare sarebbe stata veramente l’ultima, quando mi ha parlato dei progetti per il centenario della Rivoluzione di Ottobre, del rilancio della casa editrice, di collaborazioni e rapporti con autori e editori brasiliani. Devo molto a Sergio, tantissimo, e la tristezza di questa pessima notizia è resa ancora più amara dalle migliaia di chilometri di distanza che mi impediscono di dargli il mio ultimo saluto. Addio Sergio, amico mio e compagno, non ho mai avuto l’occasione di ringraziarti abbastanza, anche perché mi avresti mandato a quel paese con una grossa risata. Grazie.

Gianni Fresu
March 19 2917 · Uberlândia, MG, Brazil


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www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 22-03-17 - n. 625

Il compagno Sergio Manes è morto. Malato da tempo, si è impegnato sino all'ultimo nella grandiosa e lunga lotta per un cambiamento di società. Militante comunista, editore, patrocinatore di iniziative di studio e di ricerca (per esempio, il convegno del 2003 a Napoli sui problemi della transizione al socialismo in Urss), Sergio Manes, attraverso il Centro di Documentazione "La Città del Sole", ha fornito un contributo tangibile alla difesa e al rilancio dello studio del marxismo come strumento critico di comprensione della realtà e arma ideologica fondamentale per i militanti comunisti e le loro organizzazioni nella lotta di classe.

Lo vogliamo ricordare riproponendo un suo recente articolo, schiettamente critico rispetto il passato e il presente del movimento dei comunisti in Italia, in cui prova a indicare "l'unica strada praticabile: riappropriarsi dei propri strumenti teorici; farne un uso ad un tempo rigoroso e dialettico nel nostro tempo, formando una nuova generazione di quadri e di militanti; affrontare finalmente, con coraggio e sistematicità, una rilettura autocritica di tutta la propria esperienza novecentesca; provare ad articolare un "programma minimo" per questa fase dello scontro di classe con proposte, obiettivi e percorsi ragionevoli e praticabili." 

Rivolgiamo ai famigliari e agli amici più stretti le nostre sincere condoglianze.

Ciao Sergio, che la terra ti sia lieve.

I compagni e le compagne del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

20 marzo 2017



Per la lotta ideologica attiva


Sergio Manes

09/09/2016

 I comunisti non si autocriticheranno mai abbastanza per aver disatteso - del tutto o quasi - l'esigenza di sottoporre ad analisi rigorosa i cambiamenti epocali della seconda metà del '900. Questa omissione ha impedito che l'esperienza ancora in corso del comunismo novecentesco - a partire da quella centrale dell'URSS - interpretasse pienamente e correttamente le trasformazioni in atto e individuasse linee capaci di resistere alle difficoltà insorgenti, ma anche di conquistare nelle condizioni in via di cambiamento nuovi traguardi all'altezza di quelli conseguiti fino a quel momento. Le conseguenze furono il crescente degrado teorico e il logorio politico di quelle esperienze fino al loro collasso.

Ma ce ne sono state altre che sono andate ben oltre il tempo della sconfitta e che ancora oggi pesano come macigni sulla speranza e sui volenterosi - ma confusi - tentativi di ripresa e di ripartenza. La inadeguata percezione dei cambiamenti in atto e il sostanziale vuoto di analisi innescarono una deriva - la cui responsabilità grava pesantemente sui gruppi politici dirigenti e ancor più sugli intellettuali comunisti - che lasciò e ancora lascia campo libero alla borghesia transnazionale sul piano strutturale e uno spazio immenso ad elaborazioni sia esterne alla tradizione marxista, sia vicine o perfino interne ad essa ma che fanno un utilizzo non rigoroso e coerente delle categorie e del metodo e che, nelle loro evoluzioni più mature, hanno portato infine a concezioni del tutto estranee alla concezione materialistica e dialettica del mondo e della storia.

Esse hanno, però - proprio per la loro sostanziale affinità con visioni interne al pensiero idealistico dominante e per la loro più semplice accessibilità - una capacità di suggestione e di convincimento che devia le analisi e le proposizioni di carattere politico di chi continua tuttavia a porsi soggettivamente - ma volontaristicamente - su un terreno alternativo e antagonista. Si pensi, ad esempio, alla deriva originariamente "operaista" la cui elaborazione del concetto di "operaio-massa" non poteva – nella sua forma matura e in presenza delle trasformazioni avvenute nella realtà produttiva e sociale - non sfociare che in quella della "moltitudine" che segna il definitivo abbandono - concettuale e politico, ancor prima che lessicale - della categoria di classe. Un approdo che sfugge al ben più arduo compito di ridefinirla nelle nuove condizioni, ma che porta a esiti aberranti.

Al suo seguito trovano spazio suggestioni soggettivistiche, che sembrano aderire più semplicemente al nuovo, ma che portano in sé l'eco dell'antica contrapposizione tra idealismo e materialismo, tra gradualismo e dialettica. Si riaffacciano in realtà vecchie ipotesi – per esempio, ma non solo, di impronta proudhoniana – che reintroducono opzioni strategiche, proposizioni e percorsi tattici, metodi e forme di lotta e di organizzazione che ben poco hanno più in comune con il pensiero e il metodo marxisti.

Le conseguenze sono devastanti: sfuma e finisce per sparire la contraddizione principale del rapporto tra chi produce la ricchezza e chi se ne appropria e, dunque, scompaiono le radici stesse dell'ineguaglianza e dell'ingiustizia, della loro riproduzione verso l'alto, del loro possibile rovesciamento dialettico: la necessità di una radicale trasformazione dei rapporti di produzione a seguito dello sviluppo incontenibile delle forze produttive.

Ne discende che cambiano inevitabilmente il terreno, i soggetti e le modalità dello scontro e del necessario salto di qualità: il luogo non è più quello della produzione; i soggetti non sono più i "borghesi" e i "proletari", i "capitalisti" e i "lavoratori", ma l'"imperialismo" e le "banche" da un lato e il "popolo" dall'altro, i "ricchi" e i "poveri"; lotta e obiettivi del cambiamento non sono fondati sull'unità organizzata e sull'internazionalismo militate degli sfruttati e degli oppressi del mondo in ragione delle radici comuni e delle cause materiali del loro sfruttamento e della loro oppressione, ma su una conflittualità diffusa, generalizzata e dispersa tra le strutture del privilegio e la massa indifferenziata delle moltitudini subordinate; alle forme organizzate - politiche ed economiche – della lotta per la trasformazione vengono preferiti strumenti "leggeri" - cangianti e variegati - di autorganizzazione "partecipata" e "democratica". Non si tratta affatto, dunque – come si favoleggia con irresponsabile leggerezza codina o con opportunistico feticismo per un "nuovo" sgrammaticato – di differenze meramente formali o lessicali.

I comunisti hanno avuto e hanno grandi difficoltà a contrastare questa deriva che ormai connota una parte maggioritaria delle esperienze di lotta di questo tempo e suggestiona anche organismi che continuano a schierarsi in campo comunista. Sfilacciata la dimestichezza con il metodo e le categorie interpretative, sacralizzata per superficialità o per opportunismo l'esperienza novecentesca, trascurate l'insorgenza e la crescita di queste diverse concezioni e metodi di lotta, assediati o minati al loro stesso interno da pulsioni democraticiste, compresi soltanto di sé e occupati piuttosto a dividersi settariamente e a riprodursi replicando all'infinito esperienze già dimostratesi inadeguate, hanno essi stessi dismesso o appannato i propri riferimenti teorici e smarrito qualsiasi legame con la classe di riferimento - di cui però pretendono astrattamente di continuare a rappresentare gli interessi - e arrancano ai margini dei cosiddetti "movimenti".

Tuttavia, in una situazione così difficile e di così lungo periodo ci sono ancora una speranza e una ragionevole possibilità di ripresa. Già il testardo e pur sterile arroccamento di questi anni testimonia nelle diverse realtà residuali - anche e non solo di provenienza Pci-Prc - se non altro una tenacia che deve però scrollarsi di dosso i vecchi e i nuovi schemi settari e autoreferenziali per liberare le potenzialità tuttavia esistenti. In questa prospettiva il dato positivo che bisogna cogliere e valorizzare è che intanto cominciano a far breccia gli sforzi dei pochi che ostinatamente continuano a indicare e percorrere concretamente - nei limiti del possibile - l'unica strada praticabile: riappropriarsi dei propri strumenti teorici; farne un uso ad un tempo rigoroso e dialettico nel nostro tempo, formando una nuova generazione di quadri e di militanti; affrontare finalmente, con coraggio e sistematicità, una rilettura autocritica di tutta la propria esperienza novecentesca; provare ad articolare un "programma minimo" per questa fase dello scontro di classe con proposte, obiettivi e percorsi ragionevoli e praticabili.

Tutto questo, però, rischia di restare puro e inutile esercizio intellettuale se non viene coniugato e verificato nella realtà viva dello scontro di classe che si sviluppa - pur se percepita in modo distorto e realizzata in maniera frammentata, dispersa e spesso incoerente - sulle condizioni materiali delle masse sfruttate e oppresse, sulle drammatiche contraddizioni reali derivanti dalle scelte imposte dal capitalismo transnazionale, sui retroterra ideologici di chi - comunque meritoriamente -suscita e orienta queste lotte a cui occorre portare il massimo contributo e il sostegno. Ma esserci non basta. Questo vuol dire che formazione, ricerca, analisi e proposizioni non possono essere studio avulso dal contesto reale, ma debbono essere impostati e sviluppati in funzione di esso.

E allora formazione, ricerca, analisi e proposizioni debbono essere centrate e finalizzate a riportare il terreno principale di scontro nei luoghi e sui modi della produzione;  a riguadagnare la fiducia della classe lavoratrice nella prospettiva comunista e in chi opera a partire dai loro bisogni collettivi piuttosto che dai loro presunti diritti individuali; a ricostruire nelle nuove condizioni e con la lotta l'unità degli sfruttati e degli oppressi a livello nazionale e internazionale; a individuare e realizzare forme di lotta capaci di unificare questo esercito sterminato, in mille modi frazionato ma unito dalla comune condizione; a costruire forme stabili di organizzazione, al passo con la realtà materiale di oggi.

A questo scopo è anche utile e necessario aggredire criticamente analisi, posizioni e iniziative che vengono agitate sulla scena politica, che captano il consenso e indirizzano la conflittualità dei militanti: polemiche non demonizzanti ma intese, fornendo gli opportuni spunti critici, a problematizzare, a far discutere, a fare chiarezza, a formare maieuticamente i militanti. È giunto il tempo di scatenare tra gli stessi comunisti, ma anche tra coloro che si ispirano ancora ad orizzonti anticapitalisti, una seria lotta ideologica attiva e dedicare ad essa energie e risorse.




(srpskohrvatski / italiano)

Report dalla Serbia in occasione del 18.mo della aggressione NATO

0) VOCE JUGOSLAVA e altri LINK
1) GIORNATE DI CAMPAGNA ELETTORALE IN SERBIA
Report della Redazione di Voce Jugoslava su Radio Città Aperta per Contropiano.org
2) 18. GODIŠNJICA NATO AGRESIJE NA SR JUGOSLAVIJU (SRP)
3) 18.ГОДИШЊИЦА НАТО БОМБАРДОВАЊА СРЈ (Komunisti Srbije)


=== 0: LINKOVI ===

VOCE JUGOSLAVA ★ JUGOSLAVENSKI GLAS / Program  28.III.2017  Programma  
18. godišnjice NATO bombardiranja. Izvještaj sa puta u Srbiju od 23. do 29. marta. Ivan i Andrea
18.mo Anniversario dei bombardamenti NATO. Relazione del viaggio in Serbia, dal 23 al 29 marzo. Ivan e Andrea

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Nećemo u alijansu koja nas je bombardovala (Igor MITIĆ | 24. mart 2017.)
Kod Železničkog mosta u Grdeličkoj klisuri obeleženo 18 godina od početka NATO bombardovanja SR Jugoslavije 1999. Vučić: Na svaku agresiju imaćemo jak i jasan odgovor...

Godišnjica Nato bombardovanja - Grdelica (Vranjska Plus, 24 mar 2017)

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Agresija NATO (SUBNOR, 23.3.2017)

Da se ne zaboravi (SUBNOR, 24.3.2017)

Zaječar:
Agresor ne moze da pobedi (SUBNOR, 25.3.2017)

Negotinska Krajina:
Mir je put u budućnost (SUBNOR, 25.3.2017)

Šumadija:
Školski čas o agresiji (SUBNOR, 27.3.2017)

Vranje:
Ubijali su i decu (SUBNOR, 27.3.2017)

Kuršumlija: 
Herojiski ćin sestre Radice (SUBNOR, 29.3.2017)
Uvek ćemo braniti otadzbinu (SUBNOR, 29.3.2017)

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Видео излагања са Конференције Де се не заборави, 18 година од НАТО агресије

(субота, 25 март 2017 09:21 | Нато агресија)

Конференција "Агресија НАТО 18 година после- где смо сада?" одржана је 23. априла 2017. године у Свечаној сали Дома војске у Београду. Конференција је окупила преко 250 учесника из Србије ( укључујући АП Косово и Метохију), Републике Српске, Црне Горе и српског расејања, као и велики број дипломата страних земаља у Србији. Скуп је започео минутом ћутања, чиме је одата почаст свим невино страдалим жртвама агресије. У наставку су излагања учесника.

Живадин Јовановић

Јелана Гускова

Ген. Миломир Миладиновић

Душан Чукић

Момчило Вуксановић

Проф др Жарко Павић

Јован Алексић

Проф Шеварлић

Марко Антић

Симо Спасић

Јован Радић - Косовски божури
Маја Арсић - Косовски божури


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GIORNATE DI CAMPAGNA ELETTORALE IN SERBIA

Redazione di Voce Jugoslava su Radio Città Aperta


La primavera ha fatto irruzione a Belgrado con una temperatura media di 25 gradi di giorno – molto meno di notte, come in ogni clima continentale che si rispetti. Sono giornate limpide e colorate da una splendida fioritura di violette, adatte a una campagna elettorale energica e aggressiva come è quella per le elezioni presidenziali in calendario il prossimo 2 aprile
Sono però anche i giorni dell'anniversario dell'inizio della aggressione della NATO (24 marzo 1999). Quella ferita non è rimarginata, nonostante il tempo passato, le ristrutturazioni di molti degli edifici bombardati, che fanno storcere il naso a chi non vuole dimenticare, e i nuovi rapporti politici, sociali e macro-economici instauratisi dopo il "cambio di regime". Le strade di Belgrado si sono riempite di insegne luminose in stile occidentale, la viabilità ha subito trasformazioni importanti – con la costruzione di nuove autostrade e spettacolari ponti sui fiumi Sava e Danubio, anche grazie all'imprenditoria cinese. I nuovi ponti non cancellano però dai cuori le immagini di quelli "colpiti e affondati" dalla NATO né di quelli occupati da migliaia di cittadini che, urlando slogan e ballando, in quella primavera del 1999 mostravano al mondo intero fieramente i cartelli con la scritta TARGET.
L'anniversario a Belgrado è celebrato nell'arco di un paio di giorni attraverso qualche conferenza con tema geopolitico e cerimonie in memoria dei caduti; la campagna elettorale potrebbe invece durare fino al 16 aprile, in caso di ballottaggio. L'opzione più probabile, e certamente la meno peggio da vari punti di vista, date le condizioni reali esistenti, è che vinca l'attuale primo ministro Aleksandar Vučić, che darebbe così il cambio al suo compagno di partito Tomislav Nikolić. Alle ultime elezioni politiche il loro Partito Progressista Serbo (SNS, una scissione moderata del Partito Radicale di Šešelj) ha incassato oltre il 48% dei voti. I due in tandem hanno gestito in questi anni la cosa pubblica e la collocazione della Serbia sulla scena internazionale con pacatezza ed equilibrio, riuscendo a garantire il posizionamento "centrale" del paese nella contesa sempre più dura apertasi tra Occidente e Federazione Russa: una contesa culminata con la guerra civile in Ucraina, che sotto numerosi aspetti assomiglia alla guerra – fratricida e imperialista assieme – che ha cancellato la Jugoslavia dalle carte geografiche tra il 1991 e il 2008 ed i cui strascichi permangono sotto forma di gravi tensioni e sfacciate ingerenze esterne. 

Non è questa la sede per approfondimenti sulla situazione in tutta l'area, ma per comprendere la precarietà quasi miracolosa dell'equilibrio serbo vanno richiamate le delicatissime situazioni esistenti nei paesi vicini. Nella FYROM (Macedonia di Skoplje), essendo fallito il progetto terrorista pan-albanese con la operazione di Kumanovo del maggio 2015, UE e NATO da molti mesi lavorano a rinfocolare lo scontro politico ed etnico cercando di imporre un governo socialdemocratico sostenuto dai secessionisti albanofoni al posto dell'attuale governo di impronta patriottica. In Montenegro, le stesse UE e NATO lo scorso ottobre hanno "coperto" l'ennesimo  "golpe bianco" del "presidente eterno", il camorrista Milo Djukanović, che ha inscenato una operazione mediatico-repressiva proprio nel giorno delle elezioni politiche, garantendo così la vittoria formale del blocco atlantista che sta portando il piccolo paese nella NATO contro la volontà della maggioranza della sua popolazione. In Bosnia-Erzegovina la Repubblica Srpska difende con i denti alcune prerogative di sovranità che in tutti i modi il regime semicoloniale, instaurato dopo gli Accordi di Dayton, le vuole sottrarre: principale tra tutti, anche in questo caso, è il diritto a non entrare a far parte della NATO contro la volontà del proprio popolo, anch'esso bombardato nel 1994-1996. 
Per quanto dunque riguarda la Serbia, il focolaio principale di crisi rimane ovviamente (lo è da 30 anni a questa parte) il Kosovo, che i paesi NATO hanno provato a strapparle a forza di atti militari e diplomatici unilaterali e illegali (1). Violenze, ingiustizie, provocazioni e polemiche non sono mai cessate dal giugno 1999 (momento della occupazione congiunta NATO-UCK del territorio) in poi, inclusa ovviamente la dichiarazione di indipendenza del 2008. Però sono adesso all'ordine del giorno nuovi passaggi simbolici dalla valenza potenzialmente lacerante, in particolare: la nuova decisione del "Parlamento" di Pristina di "nazionalizzare" i beni jugoslavi (ricordiamo la straordinaria ricchezza mineraria di quel territorio e tutte le infrastrutture industriali ad essa collegate) e l'annuncio della formazione di un "esercito del Kosovo" (fatto su misura, ovviamente, per la adesione alla NATO).

Ritornando dunque ai leader SNS, data la preoccupante situazione al contorno e globale, il loro equilibrio è apprezzato da tutti i soggetti internazionali: da Occidente – si pensi al gesto della visita di Vučić a Srebrenica – come da Oriente – visti i rapporti sempre più stretti, specialmente dal lato economico, con la Cina e ovviamente la Russia, con cui è stato stretto un accordo di partnership strategica nel 2014. In virtù di tale equilibrio, che potremmo definire opportunistico, gli anni del governo SNS sono stati finora contrassegnati dalla accumulazione di energie, anche economiche, nel segno ovviamente del nuovo corso liberista seguito al golpe dell'ottobre 2000.
Un orientamento liberista più acceso è propugnato dai candidati alla presidenza filo-occidentali: dall'ex "difensore civico" (ombudsman) Janković all’ex premier Živković ("Partito Nuovo"), dall’ex ministro degli Esteri Jeremić (di recente candidato a Segretario Generale dell’ONU, ma significativamente sgradito anche alla Russia) all’ex ministro dell’Economia Radulović, ed altri ancora. Tutti costoro erano però assenti dal Parlamento il giorno della visita della Rappresentante dell'UE Mogherini, a causa di una controproducente protesta che hanno voluto inscenare contro la sospensione della attività parlamentare in campagna elettorale. Nel Parlamento della capitale serba la Mogherini non ha trovato perciò applausi, come avrebbe voluto, bensì la sonora e plateale contestazione da parte dei deputati delle opposizioni di destra,cioè Dveri e il Partito Radicale con Vojslav Šešelj in testa. Dinanzi alla contestazione << Vučić, impassibile tra le fila della maggioranza di governo, è apparso ancora una volta come l’unico interlocutore possibile per l’UE >> (2). Allo stesso Šešelj il circo mediatico, evidentemente diretto da "spin doctors" assai professionali formatisi in chissà quali istituti anglosassoni, ha attribuito il ruolo di candidato per eccellenza della parte più apertamente anti-europeista e anti-occidentale dell'opinione pubblica; alle consuete scritte sui muri ed ai manifesti scoloriti affissi dai militanti si sono aggiunti in queste settimane molti manifesti patinatissimi e bene illuminati che ne espongono il faccione con insistenza. Oltre al provocatorio Šešelj, sul fronte nazionalista alle elezioni c'è il rappresentante di Dveri, Obradović, ed il debole candidato del partito DSS che fu di Koštunica – Popović.

La sinistra non presenta candidati. I socialisti (SPS e Movimento dei Socialisti) sono oramai da molti anni in coalizione con l'SNS e dunque appoggiano Vučić. La sinistra di classe doveva essere rappresentata da Zeljko Veselinović, coordinatore del sindacato SLOGA (federato alla Federazione Sindacale Mondiale), per la iniziativa civica "Il lavoratore non è merce": ma appena il 5 marzo con una dichiarazione pubblica rilasciata via YouTube Veselinović ha comunicato che "a causa delle condizioni impossibili" (spec. dal punto di vista economico) poste per la presentazione della lista e la partecipazione alle elezioni, doveva rinunciare alla competizione. È l'ennesima volta che le formazioni anticapitaliste sono tenute fuori dalle competizioni elettorali tramite tagliole burocratiche e finanziarie.

La UE si lagna della crescita dell'influenza russa in Serbia (3), ma ha poco da piangere sul latte versato essendo questo uno dei frutti di quanto ha essa stessa seminato nel corso dell'ultimo quarto di secolo. Non si può dimenticare che la UE ha responsabilità non minori di quelle statunitensi nel determinarsi del disastro jugoslavo: proprio contestualmente al suo atto fondativo, il 17 dicembre 1991, a Maastricht, la allora Comunità Europea per diktat tedesco sacrificò l'unità jugoslava e con essa la pace nel continente (4). Il 23 dicembre successivo, come preannunciato a Maastricht, la Germania dichiarava unilateralmente e pubblicamente il suo riconoscimento delle repubbliche di Croazia e Slovenia, con effetto a partire dal 15 gennaio successivo; il 13 gennaio 1992 era però la Città del Vaticano a precedere tutti, riconoscendo la Croazia come stato indipendente, seguita due giorni dopo da tutti i paesi della UE.
Incontestabile fu dunque l'analisi di Slobodan Milošević, che dinanzi al “Tribunale ad hoc” dell'Aia, il 30 gennaio 2002 disse: << C'era un piano evidente contro quello Stato di allora [la Jugoslavia] che era, direi, un modello per il futuro federalismo europeo. >> Necessariamente, anche post-mortem Milošević rimane il convitato di pietra di ogni passaggio politico in Serbia, e quindi pure in queste elezioni. Proprio negli stessi giorni della visita della Mogherini, nell'altro anniversario marzolino – quello del giorno 11, quando nel 2006 il cadavere di Milošević fu ritrovato nella cella dell'Aia – a Belgrado la associazione SloboDA (che vuol dire "Slobo SI" ma anche "Libertà") ha presentato pubblicamente il testo "Anatomia di un assassinio giudiziario" (5), contenente tutta la documentazione forense e amministrativa che dimostra come all'interno del "Tribunale ad hoc" sia stato pianificato e realizzato l'omicidio dell'ultimo presidente jugoslavo, vittima della somministrazione intenzionalmente scorretta di un farmaco in grado di causare sbalzi di pressione esiziali per un cardiopatico.

In effetti in Serbia il nodo del "cambio di regime", dal colpo di Stato dell'ottobre 2000 alla uccisione di Milošević all'Aia nel 2006, rimane sotto traccia nella vita politica e nella coscienza popolare nonostante la disinformazione strategica impartita in dosi massicce da un sistema mediatico fortemente condizionato dai monopoli capitalistici. A Belgrado capita di trovare persone che ti dicono seriamente che "Milošević in realtà fu portato a Mosca di nascosto ed è ancora vivo"... ultima favola giornalistica dopo altre surreali bufale, come quella di "Tito agente del Vaticano".
Ancora più chiaro di Milošević nel giudizio sull'Europa è stato solamente il grande drammaturgo tedesco Peter Handke: << Per me la Jugoslavia era l'Europa... La Jugoslavia, per quanto frammentata sia potuta essere, era il modello per l'Europa del futuro. Non l'Europa come è adesso, la nostra Europa in un certo senso artificiale, con le sue zone di libero scambio, ma un posto in cui nazionalità diverse vivono mischiate l'una con l'altra, specialmente come facevano i giovani in Jugoslavia, anche dopo la morte di Tito. Ecco, penso che quella sia l'Europa, per come io la vorrei. Perciò, in me l'immagine dell'Europa è stata distrutta con la distruzione della Jugoslavia. >> (6) Questo è l'epitaffio che campeggia sulla tomba del progetto europeo sin dal 1991, e che i manifestanti del 25 marzo a Roma, dopo tante inequivocabili ulteriori verifiche (basti pensare ai casi ucraino o greco) potrebbero fare proprio con pieno diritto.


NOTE:

1) La Risoluzione ONU 1244 del 1999, con cui si è conclusa la aggressione NATO, sulla carta ribadisce la sovranità della Serbia sulla provincia del Kosovo-Metohija.

2) G. Vale: Serbia: il premier sogna da presidente (Affari Internazionali, 15/03/2017)
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3860

3) L'Unione Europea teme la crescita dell'influenza russa in Serbia (Sputnik News, 20.03.2017)
https://it.sputniknews.com/mondo/201703204225158-unione-europea-russia-serbia-conflitti-balcani/

4) La cinica trattativa è stata raccontata anche Gianni De Michelis, che vi partecipò (Si veda ad es. Limes n.3/1996. Di essa rimane anche traccia formale nel documento UE numero 1342, seconda parte, del 6/11/1992.

5) Il libro "Anatomija sudskog ubistva" è in corso di traduzione a cura di Jugocoord Onlus, che su questi temi sta per lanciare una serie di attività concordate con SloboDA.

6) Intervista al giornalista televisivo tedesco Martin Lettmayer, gennaio 1997.

Sul tema delle responsabilità europee in Serbia si consiglia anche la lettura di
A. Martocchia: Nessuna Europa senza la Jugoslavia (su Marx21 / L'Ernesto n.3-4/2011)


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18. GODIŠNJICA NATO AGRESIJE NA SR JUGOSLAVIJU

Danas 24. marta, navršava se 18 godina od početka brutalne NATO agresije na SR Jugoslaviju, odnosno Srbiju i Crnu Goru, koja je trajala punih 78 dana. Sama agresija pokrenuta je mimo svih dotadašnjih normi međunarodnog prava, povelje UN-a, završnog dokumenta iz Helsinkija o evropskoj sigurnosti i suradnji pa i do tada važećih NATO akata koji su Sjevernoatlantski savez definirali kao obrambeni sistem.

Iako je NATO agresija na SR Jugoslaviju predstavljala presedan po nekoliko osnova, ona je ipak proizvod jedne politike koja si želi uzurpirati pravo dominacije u svijetu i upravljanja iz jednog centra moći.

Agresija koju je tzv. međunarodna zajednica, a ustvari grupa najbogatijih zemalja svijeta na čelu sa SAD-om i NATO, izvršila u proljeće 1999. godine na SRJ, bila je u svojoj biti sastavni dio borbe za prostor koja je krenula nakon tektonskih društveno-političkih procesa 90-ih godina prošlog stoljeća, a kojima je cilj bio prodor krupnog kapitala na Istok i osvajanje novih teritorija.

Tim prodorom je kapitalizam, koji se našao u dubokoj krizi 80-ih godina prošlog stoljeća, ostvario svoja tri cilja i odgodio svoj silazak s društvene scene i odlazak u povijest za jedan nedefinirani vremenski period.

Ciljevi koje je kapitalizam postigao su:

- ekonomski

- politički

- vojni

 

EKONOMSKI cilj sastojao se od:

Osvajanja novih tržišta.

Preuzimanja infrastrukture, sirovinske i financijske baze novoosvojenih područja.

Dobivanja jeftine radne snage, bilo postojeće u zemljama u koje su transferirali kapital ili one imigrantske u vlastitim zemljama.

POLITIČKI cilj sastojao se od:

Eliminacije socijalizma u Evropi i samoupravljanja u Jugoslaviji.

VOJNI cilj sastojao se od:

Prodora na Istok s krajnjim ciljem približavanja i opkoljavanja Rusije i Kine. I taj proces još traje.

Agresija na SRJ 1999. godine, osim što je bila dio opće strategije osvajanja prostora, na način kako je izvedena po svojoj brutalnosti imala je i zadatak kažnjavanja neposlušnog protivnika.

Naime, dinamika prodora u istočnoj Evropi bila je za nosioce imperijalne težnje zadovoljavajuća, jer su u zemljama bivšeg socijalističkog bloka lako pronašli suradnike među političkim elitama za rušenje dotadašnjeg društveno-političkog uređenja, koji su time vlastiti narod i materijalne resurse predali globalnom krupnom kapitalu.

Problem je nastao na jugoslavenskom prostoru. Posebno nepoželjan imperijalističkim krugovima bio je njen model samoupravnog socijalizma kao primjer emancipatorske prirodne pozicije rada u društvu i dostojanstva radnika koji bi bili u stanju upravljati vlastitim sudbinama uz pun državni suverenitet.

U procesu koji je dirigiran izvana, a realiziran iznutra, predani smo na milost i nemilost svjetskim moćnicima pri čemu su vodeću ulogu odigrale secesionističke republike Slovenija i Hrvatska, a po domino efektu slijedile Bosna i Hercegovina i Makedonija, bez iole racionalne potrebe koja bi imala pokriće u ekonomskoj ili nekoj drugoj logici. Jedinu prepreku osvajanju kompletnog  prostora i dominacije nad njim, predstavljala je tadašnji ostatak nekadašnje države, SR Jugoslavija, koja je, iako s tada već promijenjenim društveno-političkim uređenjem, percipirana kao zadnji bastion na putu imperijalističkim moćnicima i zbog toga ju je trebalo kazniti. Da se radi o kažnjavanju razvidno je već iz činjenice da je međunarodna zajednica primjenjivala različite kriterije za pojedine republike i narode bivše Jugoslavije, što je bilo dozvoljeno jednima, nije bilo dozvoljeno drugima, a to je zavisilo od stupnja koncilijantnosti lokalnih oligarhija naspram svjetskih moćnika.

Uslijedila je brutalna agresija NATO snaga koje nisu nanijele SRJ relativno velike vojne gubitke usprkos širini kampanje i činjenici da je omjer snaga izražen u ljudstvu i vojnoj opremljenosti između agresora i napadnutih bio do tada nezabilježen u vojnoj praksi. Iako su vojni gubici SRJ bili relativno mali, zato su oni civilni i materijalni bili vrlo visoki. Uništavana je infrastruktura i ekonomska supstanca zemlje primjenom najsofisticiranijih sredstava koja nemaju nikakvo vojno opravdanje, već su namijenjena materijalnom razaranju civilnih i privrednih objekata, često s katastrofalnim učincima.

Prvi su put upotrijebljene grafitne bombe, a vrhunac brutalnosti postignut je upotrebom municije s osiromašenim uranom koja trajno kontaminira prostor u kojem žive ljudi, a o apsurdu upotrebe tih sredstava svjedoči činjenica o velikom broju stradalih pripadnika agresorskih jedinica koje su rukovale tom municijom.

Presedan, par excellence, učinjen je sada već prema državi Srbiji otimanjem dijela njenog teritorija mimo svih međunarodnih pravnih normi i instaliranjem imperijalističkog protektorata na Kosovu i Metohiji s najvećom NATO vojnom bazom u ovom dijelu svijeta. Tim činom stvorena je jedna umjetna kvazidržavna tvorevina bez vlastite privrede od koje bi njeni građani živjeli, ali s velikim i vrijednim mineralnim resursima, koju nije priznao veliki broj zemalja u svijetu, a čija je osnovna namjena biti odskočna daska SAD-a i NATO-a na putu prema Kaspijskom bazenu. Ta je teza potvrđena 2008. kad su SAD i NATO stojeći jednom nogom na Kosovu i Metohiji pokušali drugom nogom zakoračiti na Kavkaz, što im, na sreću, nije uspjelo. Kasnija događanja u Ukrajini i ona recentna u baltičkim zemljama potvrđuju namjere SAD-a u širenju utjecaja prema Rusiji, ne prežući pritom od suradnje s eksplicite fašističkim subjektima.

Od agresije je, eto, proteklo 18 godina, ali posljedice su još prisutne, prvenstveno one zdravstvene kao posljedica trajno kontaminiranog tla od upotrebe radioaktivne municije. Ali i sam proces porobljavanja još traje. On se finalizira, ovaj put ne vojnim sredstvima, s ciljem da se žrtva ponizi i uvuče u interesni krug svojih tlačitelja – EU i NATO. Na raspolaganju je široki spektar metoda: od honoriranja oligarhije, obećanja za jednokratnu upotrebu, uvjeravanja, ucjena, podmetanja i slično.

Doprinos agresiji odradile su i bivše republike SFRJ, pa i Hrvatska, dozvolivši agresorskim snagama korištenje zračnog prostora za avione koji su polijetali iz NATO baze u Avianu. Dio neiskorištenih bojnih punjenja ti su avioni na povratku istresali u Jadransko more da bi se oslobodili prije slijetanja.

Aviano je tih dana svjedočio i plemenitoj strani ljudskog uma. Cijelim tokom bombardiranja tamo su se održavale vrlo organizirane masovne proturatne demonstracije na dnevnoj bazi, pretežno mladih ljudi pristiglih iz svih dijelova Italije i Evrope. Broj prisutnih znao je vikendom prelaziti brojku od 25.000 ljudi. Socijalistička radnička partija je, kao jedini politički subjekt iz Hrvatske, u organizaciji i suradnji s našim drugovima iz Rifondazione Comunista dva puta učestvovala u demonstracijama i to 17. aprila i zadnji vikend prije prestanka agresije. Tom je prilikom u demonstracijama uzeo učešće i osnivač i tadašnji predsjednik SRP-a dr. Stipe Šuvar.

 

Vladimir Kapuralin



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18.ГОДИШЊИЦА НАТО БОМБАРДОВАЊА СРЈ


Комунисти Србије никада неће заборавити злочиначку агресију НАТО пакта на чијем челу су САД и водеће земље ЕУ који сви заједно представљају ударну песницу крупног капитала који изграђује нови светски поредак. 24. Марта 1999.године НАТО пакт је по први пут изашао из својих до тада прокламованих начела да никада никога не напада без сагласности СБ УН.

Током агресије уз ангажовање 19 чланица НАТО алијансе, убијено је око 3.500, а рањено 12.500 грађана. Од тога, према званичном, објављеном списку, у редовима војске и полиције погинуло је 1.008 бораца, од којих 659 војника и 349 полицајаца. Ракетама и бомбама НАТО оштећено је 25.000 кућа и стамбених зграда и уништено 470 километара путева и 595 километара железничких шина. Оштећено је 14 аеродрома, као и 19 болница, 20 домова здравља, 18 вртића, 69 школа, 176 споменика културе и 44 моста, док је још 38 мостова било потпуно уништено.Потпуно је разорио 7 индустријских и привредних објеката, 11 енергетских постројења, 28 радио и ТВ-репетитора, 29 манастира и 35 цркава. Изведено је 2.300 налета у нападима на 995 објеката по Србији, док је 1.150 борбених авиона испалило скоро 420.000 пројектила укупне масе од 22.000 тона. НАТО је испалио 1.300 крстарећих ракета, бацио 37.000 касетних бомби које су убиле око 200 људи и повредиле још неколико стотина.

Коришћени су пројектили пуњени осиромашеним уранијумом који трајно угрожава земљиште, воду и ваздух, улази у ланац исхране и изазива далекосежне последице по здравље људи и живих бића уопште. Србија је током бомбардовања засипана и другим отровима а контаминацији су допринела и оштећења индустријских постројења. Дејство загађивача резултирало је чињеницом  да је данас Србија прва у Европи по броју оболелих и умрлих од малигних болести у дечијем узрасту. Ово је био тихи атомски рат, чије последице ћемо сагледати за 600 година.

Уништена је једна трећина електроенергетских капацитета у земљи, бомбардоване су две рафинерије нафте, у Панчеву и Новом Саду, а снаге НАТО употребиле су први пут и такозване графитне бомбе нарушавајући функционисање електроенергетског система. НАТО је свесно лишавао снабдевања струјом домаћинства, болнице, породилишта, дечје вртиће, пекаре…

Комунисти Србије ће се и даље борити против поданичких власти у Србији који подржавају прикључење ЕУ и Евроатланским интеграцијама. Наглашавамо да је капитализам у овој фази узрочник НАТО агресије и свих досадашњих ратова и криза у свету.

КОМУНИСТИ СРБИЈЕ





Caldarola (MC), 31 marzo 2017
alle ore 20 presso la Tensostruttura comunale nella zona industriale

Cena Resistente 73° Anniversario Eccidi di Montalto e Piobbico

Resistenza, memoria e difesa del territorio

L’edizione della “cena resistente” di quest’anno sarà realizzata dalle sezioni Anpi Sarnano e Caldarola. 

L’evento, che cade nel periodo degli anniversari nazifascisti di Montalto (22 marzo) e Piobbico (29 marzo), si svolgerà presso la tensostruttura comunale nella zona industriale di Caldarola. 

Dopo la cena di autofinanziamento, il cui ricavato servirà per la realizzazione della “Marcia della Memoria” Caldarola-Montalto e per progetti di ‘ricostruzione’ della memoria, avrà luogo un dibattito aperto su ‘Resistenza, memoria e difesa del territorio’. 

Ci saranno i contributi di Lorenzo Marconi, presidente provinciale dell’Anpi Macerata, Franco Fabi dell’Anpi intercomunale Visso-Castelsantangelo sul Nera, Susanna Angeleri del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia (CNJ) e la presentazione di ‘Terre in moto’ Marche, “una rete di realtà sociali, associazioni e semplici cittadini che ha intrapreso un percorso collettivo che vuole intervenire sulle problematiche legate al terremoto andando oltre i singoli ambiti comunali”.

L’appuntamento è per venerdi 31 marzo a partire dalle ore 20.00.


Info:
Pagina Fan: https://www.facebook.com/anpi.sarnano/
Email: anpisarnano @ gmail.com



(deutsch / italiano)

Siehe auch:
"Freiheitskämpfer" in Riga (Waffen-SS-Gedenken in Lettland – GFP 15.3.2017)
RIGA/BERLIN (Eigener Bericht) - Öffentliche Gedenkveranstaltungen für Einheiten der Waffen-SS in dieser Woche in Riga stoßen international auf Protest. Am morgigen Donnerstag wird in der lettischen Hauptstadt die alljährliche Gedenkprozession zur Ehrung der lettischen Waffen-SS-Divisionen stattfinden. Als Teilnehmer werden neben den letzten noch lebenden Veteranen auch Aktivisten heutiger ultrarechter Organisationen erwartet. Vor mehreren lettischen Botschaften und Konsulaten unter anderem in Deutschland, Italien und Griechenland sind für den heutigen Mittwoch Protestkundgebungen angekündigt worden. Die lettische Waffen-SS war ein Produkt lettischer NS-Kollaborateure, die umfassend am Holocaust beteiligt waren. Von den rund 70.000 lettischen Juden, die sich beim Einmarsch der Wehrmacht noch in Lettland aufhielten, überlebten weniger als 1.500 das Terrorregime der Deutschen und ihrer Kollaborateure. Das morgige Gedenken geht auf eine Organisation namens "Daugavas Vanagi" ("Habichte der Düna") zurück, die nach dem Ende des Zweiten Weltkriegs geflohene Waffen-SS-Veteranen versammelte und den westlichen Mächten für Zwecke des Kalten Kriegs zur Verfügung stand...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59561

Vedi anche:
In Lettonia si festeggia la giornata del legionario nazista (PTV news 17 Marzo 2017)



Riga: la sfilata annuale degli ex legionari lettoni delle SS


di Fabrizio Poggi, 17 marzo 2017

Sono finiti in manette ieri a Riga i giovani che, in lingua russa, avevano osato gridare “Vergogna Lettonia; il fascismo non passerà”, di fronte al corteo che ogni anno, il 16 marzo, celebra i legionari lettoni delle Waffen SS. La data ricorda il primo scontro dei reparti lettoni delle SS (15° e 19° Divisioni Granatieri) contro l'Armata Rossa, nel 1944. 

La Lettonia si difende in questo modo dalla “aggressione” russa e spiega ai più piccoli il pericolo che potrebbe venire da est, insegnando la “Difesa dello stato” – educazione patriottica e preparazione paramilitare – materia scolastica introdotta in seguito alla “annessione della Crimea”. Per i più grandi, la speaker del Saeima per il Nacionālā apvienība (Unione nazionale, il cui simbolo è di per sé un programma)Ināra Mūrniece, propone di reintrodurre il servizio militare obbligatorio, cui però si oppongono (ma solo per motivi di bilancio, o per la paura che i giovani emigrino, pur di evitarlo) Presidente, Ministro della difesa e Comandante in capo, nonostante insistano anch'essi sul “pericolo russo”. Si è arrivati al punto di dichiarare che la naja servirebbe gli interessi russi, indebolendo l'esercito professionale (circa 6.000 uomini) e la Zemessardze, la difesa territoriale (8.000 uomini). 

La stessa Ināra Mūrniece, intervenendo ieri alla cerimonia commemorativa delle SS al cimitero militare di Lestene (80 km a sudovest di Riga) ha dichiarato che i legionari SS andarono in battaglia per “sgominare il bolscevismo, nella speranza di sconfiggere entrambi gli eserciti occupanti” (lo stesso argomento usato dai neonazisti ucraini che si rifanno a Stepan Bandera) “come avevano fatto nella guerra di indipendenza del 1918-1920, allorché i lettoni respinsero sia i bolscevichi, che i nazisti”, i quali ultimi, per le cronache, non erano ancora comparsi.

Ma, nota Sergej Orlov su Svobodnaja Pressa, le fobie che dettano tali misure e altre già adottate ad esempio in Lituania, potrebbero in egual misura scoraggiare i tanto attesi investimenti occidentali. Tant'è che, ad esempio, il sindaco della città portuale di Ventspils, 200 km a nordovest di Riga, Ajvar Lembergs, aveva già avuto da ridire sulle prese di posizione della passata amministrazione USA a proposito della “linea del fronte che passa per la Lettonia”: pensiamo davvero, aveva detto Lembergs “che un investitore voglia gettare risorse in un territorio prossimo alla linea del fronte?”. Non a caso, il 23% dei lettoni, contro le pretese dei circoli russofobi, avrebbe voluto Lembergs alla guida del governo, sopravanzando nei favori addirittura il sindaco di Riga Nils Ušakovs, appoggiato dalla forte minoranza russofona lettone, in gran parte esclusa dal diritto di voto nella Lettonia membro della UE.

In un modo o in altro, sembra comunque che il passato collaborazionista torni regolarmente a far capolino nei Paesi baltici, con le parate annuali di Riga e Sinimaee, in Estonia. E a poco servono gli “argomenti” secondo cui i legionari baltici sarebbero stati costretti a indossare l'uniforme nazista per difendere il proprio paese: combattendo contro l'Armata Rossa, liberavano forze naziste per le necessità di sterminio nei campi di Salaspils (20 km a sudest di Riga) o Klooga (40 km a sudovest di Tallin); tanto più che, come nota l'agenzia Regnum, i legionari non prestavano giuramento al proprio paese, ma direttamente a Adolf Hitler. 

E ugualmente serve a poco la “giustificazione” per cui i legionari lettoni non ricadono sotto le sentenze del tribunale di Norimberga, dato che, nonostante il loro status formalmente volontario, non avrebbero avuto la possibilità di sottrarvisi. Le stragi di almeno 12mila civli lettoni (di cui 2.000 bambini) e le distruzione di centinaia villaggi in Russia, Bielorussia e Polonia a opera di battaglioni lettoni delle SS, impiegati nelle attività antipartigiane dell'operazione “Magia invernale”, non sembrano un solido argomento a sostegno delle dichiarazione adottata nel 1998 dal Saeima lettone: "L'obiettivo dei militari richiamati e di quelli che volontariamente aderirono alla legione era quello di difendere la Lettonia dalla restaurazione del regime stalinista. Essi non presero mai parte alle azioni punitive hitleriane contro la popolazione civile". Nel 1944-'45, come ricorda un ampio servizio di Argumenty i Fakty, i terroristi del “Comando Arajs” di polizia ausiliaria si occuparono dell'eliminazione di ebrei lettoni – da 26mila a 60mila, a seconda delle fonti – e anche questo difficilmente permette di considerare i membri volontari della legione lettone “vittime delle circostanze”, come si tenta di presentarli oggi in Lettonia. 

Sono centinaia i collaborazionisti, sfuggiti 70 anni fa alla giustizia sovietica, rifugiati a ovest e utili alle manovre della guerra fredda, poi rientrati in patria dopo la fine dell'Urss. Ma perché su di loro, nota Argumenty i Fakty, sulle loro sfilate e celebrazionil'occidente chiude tutti e due gli occhi? Perché tali reparti di SS non ci furono solo nei Paesi baltici o in Ucraina: ce ne furono in Olanda, Danimarca, Norvegia, Belgio, Finlandia, Svezia, Francia e in altri paesi europei.

E' così che oggi, da Riga, Tallin o Vilnius, mentre non si rinnega tale passato e anzi lo si esalta, con la partecipazione ai cortei dei veterani anche di massimi esponenti governativi (a titolo individuale, per carità!), non si hanno remore a pretendere “compensazioni” in milioni di euro non dagli eredi degli ex camerati, ma dalla Russia, “erede della occupazione sovietica”.

Io ho vissuto l'occupazione e so cosa significhi”, ha dichiarato qualche giorno fa il primo ministro estone Juri Ratas incontrando a Bruxelles il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e riferendosi alla odierna “occupazione russa” dell'Ucraina e alla necessità di “ristabilire l'integrità territoriale di Moldavia e Georgia”. Se è chiara la sua posizione geopolitica, nota Sergej Orlov su Svobodnaja Pressa, è però il caso di ricordare come suo padre, Rejn Ratas, durante “l'occupazione sovietica” – terminata, bisogna ricordarlo, nel 1991, quando Juri Ratas aveva 13 anni – sia divenuto uno degli scienziati più affermati del paese, le cui centinaia di pubblicazioni e volumi sono oggi disponibili in ogni biblioteca russa.

Ora, dunque, lo scorso novembre Juri Ratas è diventato leader del Partito di Centro (sostenuto da moltissimi russi di Estonia), capovolgendo la precedente politica di buon vicinato con Mosca condotta dal suo predecessore e sindaco di Tallin, Edgar Savisaar, politica che aveva relegato il partito fuori del governo, nonostante i successi elettorali. Adottando la nuova politica, il Partito di Centro è stato immediatamente ammesso al governo e Ratas nominato primo ministro. 

E' così che va, nella UE “a due velocità”, non solamente economiche, quando a Bruxelles si ritiene, alla maniera di Heinrich Böll, che “nei momenti decisivi bisogna essere primitivi e barbari”.