Informazione


DI CHE PARLIAMO?

Cosa resta di Sana’a, capitale yemenita (PandoraTV, 7 mar 2017)

Più di 10mila le vittime, 40mila i feriti, più di tre milioni gli sfollati, 12 milioni le persone che rischiano la morte per fame e inedia. La tragedia dello Yemen, il paese più povero del mondo arabo ma che ha la disgrazia di trovarsi in posizione strategica, affacciato sul Golfo di Aden, si sta compiendo nell’indifferenza dell’Europa. La grande macchina dei media occidentali ha volutamente oscurato quanto accade in questo Paese per non disturbare i monarchi sauditi ed i lucrosi traffici che gli Usa e i Paesi europei svolgono con le petromonarchie. Oltre a bombardamenti indiscriminati, che proseguono incessanti dal 25 marzo 2015 da parte della coalizione del Golfo, guidata da Arabia Saudita e sostenuta da Usa e Gran Bretagna, lo Yemen è sottoposto a un embargo per via marittima e aerea, imposto attraverso navi da guerra saudite e statunitensi che pattugliano il Mar Rosso e il Golfo di Aden. Senza considerare che anche i porti di attracco sono stati bombardati...




(hrvatskosrpski / italiano)
 
Madonna del Malaffare
 
1) Tiziano Renzi: << Io a Medjugorje lo sa da quando ci vado? Dal ‘93... Ma guai a chiamarla Jugoslavia. >>
2) Medjugorie, il vescovo di Mostar: la Madonna non è mai apparsa
3) Ratko Perić, biskup: MEĐUGORSKA „UKAZANJA“ U PRVIH SEDAM DANA
 
 
Su Medjugorje e dintorni si vedano alla nostra pagina dedicata https://www.cnj.it/documentazione/varie_storia/prebilovci.htm :
• Link e documenti utili
• Michael E. Jones: IL FANTASMA DI ŠURMANCI: REGINA DELLA PACE, PULIZIA ETNICA, VITE DISTRUTTE
• James Martinez: LA REGINA DEI PROFITTI (2000) 
• INTERVISTA a E. Michael Jones, autore di due libri sulle apparizioni della Madonna a Međugorje (marzo 2008)
• Giancarlo Bocchi: MEDJUGORJE, LA FABBRICA DELLE APPARIZIONI
• News
 
 
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«A Fiumicino con mister X? Nessun segreto: è solo un manager»

Tiziano Renzi: «Ho visto Comparetto della Fulmine, un’azienda di spedizioni. Altro che uomo del mistero!». La messa a Rignano sull’Arno e la riunione al circolo dem. «Dimettermi dalla carica nel Pd? Non vedo perché, il partito è garantista»

di Virginia Piccolillo, 5 marzo 2017
 
Scende dalla Touran nera respingendo con durezza l’agguato delle telecamere: «Voglio solo essere lasciato in pace! Questo è stalking». Agguanta una 48 ore nera dal bagagliaio e poi entra nella Pieve di San Leolino respingendo le domande: «State violentando la mia vita privata». In chiesa si siede come al solito all’organo, tira fuori dalla valigetta gli spartiti e, dopo aver duettato con un flauto, intona: «Perdonami Signore, ho molto peccato». (...)
 
Ci parli dei suoi viaggi a Medjugorje che condivide con il suo amico Carlo Russo.

«Ecco lo vede. Mi dica un po’ lei se è normale? Poi dice: “Oh perché tu t’infuri?”». 

Le sto facendo una domanda. Di Medjugorje lei dice di aver parlato al manager di Consip, Luigi Marroni, nel suo incontro a Santo Spirito. 

«Io a Medjugorje lo sa da quando ci vado? Dal ‘93». 

Durante la guerra in Jugoslavia? 

«Sì. Partivamo da Rignano e portavamo aiuti alla povera gente. Ma guai a chiamarla Jugoslavia. È un posto che ho proprio nel cuore. Ma che ne sapete voi?».
Ma questa storia della statua della Madonna che ha chiesto a Marroni di mettere all’Ospedale Meyer ce la spiega? E poi all’ospedale c’è stata messa davvero?

«Questo non glielo posso dire perché c’è l’indagine». (...)
 
 
 
=== 2 ===
 
 
Medjugorie, il vescovo di Mostar: la Madonna non è mai apparsa
 
di Franca Giansoldati, 28 Febbraio 2017

Città del Vaticano - Le apparizioni della Madonna di Medjugorie sono una fiction, una gigantesca truffa collettiva, oppure sono davvero frutto di un fenomeno soprannaturale e inspiegabile? Il vescovo di Mostar, Ratko Peric, sul sito della diocesi, ha pubblicato una lunga riflessione dalla quale emerge di avere pochi dubbi: «Sebbene si sia detto che le apparizioni dei primi giorni potrebbero essere ritenute autentiche e che poi sarebbe sopraggiunta una sovrastruttura per altri motivi, in prevalenza non religiosi, questa Curia ha promosso la verità anche riguardo a questi primi giorni». Insomma, tolto l’inizio del fenomeno, quando i bambini raccontavano le visioni e Medjugorie era un paesino sperduto su una collina brulla, tutto il resto è da prendere con le pinze.
L’intervento del vescovo di Mostar è stato pubblicato alla vigilia dell’arrivo nella cittadina bosniaca dell’inviato del Papa, il vescovo polacco scelto per mettere ordine nel ginepraio economico del santuario dove oggi tutto appare come un grande business, gli alberghi, i ristoranti, gli shop, i souvenir. Peric racconta che dopo aver trascritto dai registratori le audiocassette contenenti i colloqui avvenuti, nella prima settimana delle apparizioni (1982) nell'ufficio parrocchiale di Medjugorje, tra il personale pastorale e i ragazzi e le ragazze (che avevano affermato di aver visto la Madonna, «con piena convinzione e responsabilità») ha illustrato i motivi per cui «appare evidente la non autenticità dei presunti fenomeni. Se la vera Madonna, Madre di Gesù, non è apparsa – come infatti non è – allora a tutto sono da applicare le seguenti formule: sedicenti veggenti, presunti messaggi, pretes” segno visibile e cosiddetti segreti».
«Nel corso del mio ministero episcopale, prima da coadiutore (1992/93) e poi da ordinario, con prediche e pubblicazioni di libri (Sedes Sapientiae 1995, Speculum iustitiae 2001, La Madre di Gesù 2015) e di una cinquantina di articoli mariani e mariologici, ho cercato di presentare il ruolo della Beata Vergine Maria nell'incarnazione ed opera del Figlio di Dio e suo Figlio, e la sua intercessione per tutta la Chiesa, di cui lei è Madre secondo la grazia. Nello stesso tempo ho rilevato, come fu fatto anche dal mio predecessore, il vescovo Pavao Žanić, la non autenticità delle apparizioni, che finora hanno raggiunto la cifra di 47.000. Questa Curia ha cercato sempre di informarne la Santa Sede, in particolare i Sommi Pontefici San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Qui riportiamo succintamente una serie di punti inerenti ai primi giorni delle „apparizioni“, per cui siamo profondamente convinti di quanto detto».
Una figura ambigua. La figura femminile che sarebbe apparsa a Medjugorje secondo il vescovo di Mostar si comporta «in modo del tutto diverso dalla vera Madonna, Madre di Dio, nelle apparizioni riconosciute finora come autentiche dalla Chiesa: di solito non parla per prima; ride in maniera strana; a certe domande scompare e poi di nuovo ritorna; obbedisce ai veggenti e al parroco che la fanno scendere dal colle in chiesa sebbene controvoglia. Non sa con sicurezza per quanto tempo apparirà; permette ad alcuni presenti di calpestare il suo velo steso per terra, di toccare la sua veste e il suo corpo. Questa non è la Madonna evangelica».

 
=== 3 ===
 
IN ENGLISH: THE FIRST SEVEN DAYS OF THE “APPARITIONS” IN MEDJUGORJE
 
 
MEĐUGORSKA „UKAZANJA“ U PRVIH SEDAM DANA
VIJESTI 28. February 2017.
 

Budući da „Crkva Boga živoga“ jest „stup i uporište istine” (1 Tim 3,15), sva dosadašnja istraživanja „međugorskog fenomena” išla su za tim da se ustanovi istina: jesu li ukazanja vjerodostojna ili nevjerodostojna? Constat vel non de supernaturalitate? Tomu je služila prva dijecezanska komisija u Mostaru: 1982.–1984., proširena komisija: 1984.-1986., komisija Biskupske konferencije u Zagrebu: 1987.–1990., komisija Kongregacije za nauk vjere u Vatikanu: 2010.-2014. te vrjednovanje same Kongregacije: 2014.–2016., kako je bio odredio papa Benedikt XVI. A sve se našlo u rukama Svetog Oca Pape Franje.

Stajalište ovog Ordinarijata kroz sve ovo vrijeme bilo je jasno i odlučno: nije riječ o vjerodostojnim ukazanjima Blažene Djevice Marije.

Iako je bilo ponekad govora o tome da bi se ukazanja prvih dana mogla smatrati istinitima, a potom je nadošla „nadgradnja“ drugih, ponajviše nereligioznih elemenata, ovaj je Ordinarijat promicao istinu i s obzirom na te prve dane. Nakon što su presnimljene i prepisane audiokasete koje sadržavaju razgovore pastoralnog osoblja u župnom uredu u Međugorju, u prvih tjedan dana, s dječacima i djevojčicama koji su tvrdili da im se ukazala Gospa, s uvjerenjem i odgovornošću iznosimo razloge i zaključke o nevjerodostojnosti navodnih ukazanja. A ako se prava Gospa, Isusova Majka, nije ukazala – kao što nije – onda su sve to samozvani vidioci, tobožnje poruke, tzv. vidljivi znak i navodne tajne.

U vrijeme svoje biskupske službe, najprije koadjutorske (1992./93.) potom ordinarijske, svojim propovijedanjem, objavljivanjem knjiga (Prijestolje mudrosti 1995., Ogledalo pravde 2001., Isusova majka 2015.) te još pedesetak marijanskih i marioloških članaka, nastojao sam obrazlagati ulogu Blažene Djevice Marije u utjelovljenju i djelu Sina Božjega i Sina njezina, i njezin providnosni zagovor cijele Crkve kojoj je ona Majka po milosti. U isto doba isticao sam, na liniji svoga prethodnika sretne uspomene biskupa Pavla Žanića, nevjerodostojnost međugorskih ukazanja koja su do sada dosegnula brojku od 47 tisuća. Ovaj je Ordinarijat uvijek nastojao o tome izvješćivati Svetu Stolicu, napose Vrhovne svećenike: svetoga Ivana Pavla II., Benedikta XVI. i Franju. Ovdje sažeto donosimo niz točaka iz tih prvih dana „ukazanja“, koje nas u tu nevjerodostojnost duboko uvjeravaju.

Dvoznačna pojava. Ukazana žena, koja se navodno pojavila u Međugorju, ponaša se sasvim drugačije od istinske Gospe, Majke Božje, u ukazanjima koja je Crkva do sada priznala autentičnima. Redovito ne govori prva; čudno se smije; nakon određenih pitanja nestaje, zatim se ponovo vraća; pokorava se „vidiocima” i župniku da s brda siđe u crkvu, iako nevoljko. Nije sigurna koliko će se vremena ukazivati; dopušta nekima nazočnima da joj gaze po velu koji se vuče po zemlji, dopušta da joj se dodiruje odjeća i tijelo. Takva doista nije evanđeoska Gospa!

Čudan trepet. Jedan od „vidjelaca“, Ivan Dragićević, u razgovoru s kapelanom fra Zrinkom Čuvalom (1936.-1991.) kaže da je primijetio, prvoga dana, „trepet“ na rukama pojave.[1] Kakav „trepet“? Takva primjedba može pobuditi ne samo jaku sumnju nego i duboko uvjerenje da to nije autentično ukazanje Blažene Djevice Marije, iako se tako, navodno, predstavlja već četvrtoga dana.[2]

Obljetnica neistinita. Navodna su ukazanja započela 24. lipnja 1981. Međutim, režiseri „međugorskoga fenomena” odlučili su da se obljetnica ne slavi 24. nego 25. lipnja. Razlog takva izbora jest u tome što je 25. lipnja 1981. bilo, navodno, zajedno na „ukazanju” sve šestero „vidjelaca” probranih od više njih koji su se tih dana hvalili da su imali „ukazanja“. Pravu istinu, opovrgavajući ovu verziju Vicke Ivanković, kaže sam Ivan Dragićević, koji tvrdi: „Prvu sam večer bio s njima, drugu nisam“.[3] Od šestero uobičajenih „vidjelaca“, osim Marije Pavlović, i Jakov je Čolo prvi put bio na „ukazanju“ tek drugoga dana.[4] Prema tomu nadnevak je obljetnice proizvoljan, netočan, krivotvoren.

Ne/vidljivo dijete. Figura, koja se navodno ukazuje kao žena ima različite opise: neke „vidjelice“ vidjele su kao neko dijete prekriveno na rukama žene: Vicka i Ivanka Ivanković, [5] Mirjana Dragićević, [6] Ivanka to ponovo potvrđuje. [7] Ivan, međutim, izričito niječe da je vidio dijete, dok je, naprotiv, lako mogao vidjeti iz daljine „oči“ i „trepavice“ ženskoga lika.[8]

Varljivi znak. „Vidioci“ su od početka, od drugoga dana, tražili od svoje pojave neki „znak“ kao dokaz o vjerodostojnu ukazanju. Prema Ivanki, pojava je dala „znak“ o okrenutosti sata na Mirjaninoj ruci: „skroz se sat okrenuo“; „I ona je na satu ostavila znak“! [9] Više nego smiješno i čudovišno!

Ali redovito se događa da se, na vrlo čest zahtjev vidljiva znaka, svima pojava samo nasmiješi i nestane. [10] A ponekad se odmah vrati. U jednom trenutku upada vjernik imenom Marinko, koji vodi „vidioce“, sugerirajući im: ako „Gospa“ ne može dati znaka, „neka pita Isusa da joj pomogne“.[11]

Ivanka je sigurna da će pojava ostaviti znak na brdu, možda u obliku vode.[12] Čeka se skoro četiri desetljeća, nema nikakva znaka, ni vode, sve sama izmišljotina!

Neprotumačiva šutnja. U prvih sedam dana pojava ne poduzima nikakve inicijative, ne počinje govoriti prva.[13]Na pitanja „vidjelaca“ odgovara općenito, radije dvosmisleno, kimajući glavom,[14] odgađajući u budućnost, obećavajući čudo ozdravljenja i ostavljajući poruku svijetu: „Neka narod čvrsto vjeruje kao da me vidi“. I franjevcima: „Nek čvrsto vjeruju“ [tj. da se ukazala].[15]

Čudne poruke. Prvih dana, prema snimljenim razgovorima, ne vidi se nikakva svrha takozvanih ukazanja, ne opravdava se pojava, ne daje se nikakva posebna poruka ni za „vidioce“, ni za franjevce, osim da vjeruju da se „ukazala“, ni za vjernike župe, ni za svijet. A privatne su „poruke“ ove vrste:

Ivanki njezina majka, koja je umrla dva mjeseca prije toga, šalje poruku: „Slušajte babu jer je stara“.

Mirjani pojava kaže da je njezin pokojni „dedo dobro“, i da „ode na groblje“.

Ivanka je čula od pojave motiv "ukazanja" u Međugorju: „Zato što ima puno vjernika“.

Vicka je čula da je pojava došla da se „narod pomiri“.[16]

Ivan je čuo poruku: „Vi ste najveći vjernici“.[17]

Jakov jednostavno kaže: „Ovako, kad ja postavim pitanje, ja u sebi mislim da će mi ona tako reć i ona mi rekne tako”.[18] Sve sami umišljaj i izmišljaj!

Lažna proročanstva o lažnim ukazanjima. Na Ivankino pitanje koliko će dugo još ostati i ukazivati se, pojava odgovara: „Koliko god vi hoćete, koliko god vi želite“.[19]

Mirjana kaže da će pitati pojavu koliko će se dana još ukazivati i onda dodaje kako joj iz nje neki glas govori da će se još ukazivati „2-3 dana“. To ponavlja još jednom.[20]

Na pitanje župnika o. Zovke kada će prestati „ukazanja“, Vicka odgovara: „Ja mislim isto kad bi mi rekli da nećemo više dolazit, a da nam ostavi tačno neki znak, sigurno da bi prestalo”.[21] Znači li to: budući da tražena „znaka“ nema već 37 godina, zato „ukazanja“ ne prestaju!

Potom kategorična izjava pojave koja se „ukazala“ ne u Međugorju nego u susjednom Cernu, u utorak popodne, 30. lipnja 1981., da će se ukazivati još samo „tri dana“: 1., 2. i 3. srpnja 1981. U stvari, na pitanje župnikovo, koliko će se vremena još ukazivati, sve petero „vidjelaca“, osim Ivana, odgovaraju jednoglasno: „Tri dana“.22

Zatim pojava mijenja ideju i „ukazuje“ se već 37 uzastopnih godina svaki dan trima „vidiocima“ u skupini: Ivanu, Mariji i Vicki, a drugima troma jednom godišnje: Mirjani od 1982. godine, Ivanki od 1985. i Jakovu od 1998. Osim toga, dvoma spomenutih iz skupine pojava se „ukazuje“ jednom mjesečno od 2007. s „porukama“ svijetu: Mirjani točno 2. i Mariji 25. svakoga u mjesecu.

Različite haljine. Iz razgovora s „vidiocima“ pojava se oblači na razne načine. Ona je imala haljinu -

prema Ivanu: „plave boje“ prvoga dana; [23]

prema Ivanki: „kafe boje“ drugoga dana; [24]

prema ostalim „vidiocima“ – „sive boje“: Jakov,[25] Mirjana,[26] Ivanka šestoga dana.[27]

Više nervoza nego mir. Vidi se neka napeta nervoza u padanju „u nesvijest“ i na zemlju triju „vidjelica“, trećega dana, 26. lipnja: Ivanke, Mirjane i Vicke. „One su padale u nesvijest, meni ništa”, hrabri se Marija.[28] Vicka: „Velečasni, ja došla gore, donila one kršćene soli i vode. I velim ja: ako ne bude Gospa, otić će. Poškropit ćemo i da vidimo. Stvarno vidit ćemo. Došla ja: „U ime Oca i Sina i Duha Svetog. Amen. Ako si Gospa, ostani među nama; ako nisi, iđi!’“[29] Uporno traženje vidljiva „znaka” za ljude da im vjeruju. U većini razgovora spominje se znak, [30] i vidljivo je da su „vidioci“ nervozni jer nemaju vidljiva znaka.

Škandalozni dodiri. Nešto vrlo neobično i ozbiljno: pojava dopušta da joj neki iz mnoštva gaze ne samo njezin veo koji se proteže do zemlje, [31] nego i da joj dodiruju tijelo. Vicka je već dotiče drugi dan. „I kad je dirneš, velečasni, ovako, prsti odskoče“.[32] Isto ponavlja Ivanka i dodaje da, dodirujući njezino tijelo, osjeća kao da je „vazduh, nekako kao svila, sve nam se odmiču prsti ovako, kad je diramo, sve se prsti odmiču”.[33] Dali su i jednoj doktorici da se dotakne te pojave: „I, eto, ona je dirnila njenu haljinu”.[34] Takve priče o dodirivanju navodna Gospina tijela, njezine haljine i gaženja njezina vela stvaraju u nama i osjećaj i uvjerenje da se radi o nečem nedostojnom, nevjerodostojnom i škandaloznom. Samo možemo reći: To nije katolička Gospa!

Namjerne manipulacije. Sugovornik „vidjelaca“, fra Jozo Zovko, župnik, nervozan je

jer ukazana pojava ne šalje konkretne poruke za svijet i za franjevce;

jer s brda ne silazi u crkvu, gdje se nalazi njezin kip;

štoviše, pita može li se Gospu „obvezat” – doslovno tako! – da siđe i ukaže se u crkvi. O. Zovko: „Ali ovo me zanima, Mirjana, ako se Gospa ne pokaže u crkvi, možete li vi nju obvezat da ona se u crkvi pokaže, možda može, je li, šta misliš to?” Mirjana: „Ne znam. Nismo o tome razmišljali uopće”. O. Zovko ponavlja: „Ja mislim da bi mogla obvezati: ‘Gospe, tražim da mi se ukažeš u crkvi', šta misliš?” A onda Mirjana popušta i misli da bi „bilo isto bolje jer onda nas ne bi ni milicija ova tražila…”.[35] I tako se manipulacijski „ukazanja” premještaju u crkvu 1. srpnja 1981. Takvo „obvezivanje“ navodne Gospe da siđe i „ukazuje se“ u crkvi jest magična igra, a ne Kristovo Evanđelje!

Zaključak. Nakon komisijskih radova o „međugorskom fenomenu” u Mostaru slijedila je izjava biskupa Pavla Žanića u Međugorju, 25. srpnja 1987. Smisao biskupove izjave jest da je posve jasno da se u Međugorju ne radi o nadnaravnim pojavama i objavama. A nakon komisijskoga rada u Zagrebu, izjavu je dala i tadašnja Biskupska konferencija, u Zadru, 10. travnja 1991. Ona kaže: na temelju dotadašnjega istraživanja ne može se ustvrditi da se radi o nadnaravnim ukazanjima i objavama.

Imajući u vidu sve što je ovaj Biskupski ordinarijat do sada istraživao i proučavao, uključujući prouku prvih sedam dana navodnih ukazanja, može se mirno ustvrditi: Gospa se u Međugorju nije ukazala! To je istina koje se držimo, i vjerujemo Isusovoj riječi da će nas „istina osloboditi“ (Iv 8,32).

+Ratko Perić, biskup

 

[1] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[2] Kaseta 7 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, nedjelja prije podne, 28. VI. 81.

[3] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[4] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[5] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[6] Kaseta 6 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[7] Kaseta 11 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, nedjelja navečer, 28. VI. 1981.

[8] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[9] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[10] Kaseta 10 – razgovor: o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, nedjelja navečer, 28. VI. 1981.

[11] Kaseta 13 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[12] Kaseta 13 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[13] Kaseta 13 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 81.

[14] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[15] Kaseta 11 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, nedjelja navečer, 28. VI. 1981.

[16] Kaseta 1 – svi navedeni citati iz kasete 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[17] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[18] Kaseta 16 – razgovor o. Jozo Zovko – petero „vidjelaca”, utorak navečer, 30. VI. 1981.

[19] Kaseta 13. razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[20] Kaseta 14 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[21] Kaseta 15 – razgovor o. Jozo Zovko – Vicka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[22] Kaseta 16 – razgovor o. Jozo Zovko – petero „vidjelaca”, utorak navečer, 30. VI. 1981.

[23] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[24] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[25] Kaseta 5 – razgovor o. Jozo Zovko – Jakov Čolo, subota popodne, 27. VI. 1981.

[26] Kaseta 6 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981. Također

kaseta 8 – razgovor o. Jozo Zovko – Jakov Čolo, nedjelja prije podne, 28. VI. 1981.

[27] Kaseta 11 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, nedjelja navečer, 28. VI. 1981.

[28] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[29] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[30] Kaseta 1, 2, 5, 6, 7, 9, 10, 11, 14, 15, 16.

[31] Kaseta 7 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, nedjelja prije podne, 28. VI. 1981.

[32] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović subota prije podne, 27. VI. 1981.

[33] Kaseta 11 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, nedjelja večer, 28. VI. 1981.

[34] Kaseta 13 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[35] Kaseta 14 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

 

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Kosovo: "Non pensavamo che tornassero terroristi..."

1) Kosovo, Vicepresidente a parlamentari italiani: "Non pensavamo che i nostri volontari mandati in Siria contro Assad tornassero terroristi"
Intervista a Emanuele Scagliusi (M5S) di ritorno da una missione della Commissione Affari esteri della Camera in Kosovo, 23/02/2017
2) Le bandiere dell'Isis nei villaggi dell'Albania. "Una polveriera per la Puglia" (La Repubblica Bari, 7.1.2017)
3) Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti (Sergio Cararo, 9 agosto 2016)


À lire aussi: GUERRE EN SYRIE : QUI ÉTAIT RIDVAN HAQIFI, LE CHEF DES COMBATTANTS KOSOVARS DE L’ÉTAT ISLAMIQUE ?
(Radio Slobodna Evropa | Traduit par Chloé Billon | lundi 20 février 2017)
Connu pour ses vidéos de propagande où il prédisait des « jours sombres » aux Balkans, le chef des combattants kosovars de l’État islamique, l’ancien imam de Gnjilan, Ridvan Haqifi, aurait été abattu en Syrie...


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23/02/2017

Kosovo, Vicepresidente a delegazione di parlamentari italiani: "Non pensavamo che i nostri volontari mandati in Siria contro Assad tornassero terroristi"


Come AntiDiplomatico abbiamo intervistato Emanuele Scagliusi (M5S) di ritorno da una missione della Commissione Affari esteri della Camera in Kosovo.


“Almeno cinque campi, di cui - se non tutto - l’impressione è che si sappia molto. Se la presenza di cellule fondamentaliste nell’area dei Balcani è cosa nota (due anni fa l’Espresso ne aveva censite una ventina in tutta la regione), adesso arriva la conferma dell’esistenza di un livello superiore. Prevedibile, per alcuni versi, ma finora mai resa nota più o meno ufficialmente: la presenza di campi di addestramento dell'Isis in Kosovo”. Iniziava così un articolo de l’Espresso che riportava la notizia dei cambi dell’Isis nello stato esperimento della NATO che come AntiDiplomatico avevamo anticipato di settimane.
 
Inquieta ancora di più pensare ai campi di addestramento in Kosovo alla luce di questa dichiarazione del vice Presidente del Parlamento kosovoro Xhavit Haliti rilasciata questa settimana: “Noi abbiamo semplicemente inviato dei volontari a combattere contro Assad in Siria, non credevamo che sarebbero tornati terroristi islamici". Inquietano, per il ruolo dell’Unione Europea e della Nato, queste "illuminanti" dichiarazioni di Haliti rilasciate ad una delegazione della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, nella quale era presente anche il deputato del Movimento Cinque Stelle Emanuele Scagliusi. Come AntiDiplomatico abbiamo avuto la possibilità di rivolgergli alcune domande.
 

ll Kosovar Center for Security Studies (Kcss) stima che il Kosovo sia oggi il principale serbatoio europeo pro-capite di foreign fighter dello Stato Islamico. La diffusione dell’Islam radicale si è spesso materializzata nella costruzione, attraverso grandi finanziamenti sauditi, di centinaia di moschee wahabite e nella distruzione di altrettante chiese cristiane e monasteri. Tutto il territorio kosovaro pullula da anni di imam radicali che predicano la guerra santa e operano come reclutatori nelle centinaia di moschee finanziate dalle monarchie arabe. Com’è possibile che tutto questo accada sotto gli occhi dell’apparato militare e di intelligence Nato e Ue che opera in Kosovo?
 
Nella mia recente visita in Kosovo abbiamo avuto una serie di incontri bilaterali con il Presidente dell’Assemblea della Repubblica del Kosovo, Kadri Veseli, con il Vice presidente dell’Assemblea, Xhavit Haliti e con la neoeletta Ministra per l’integrazione europea, Mimosa Ahmetaj.  Sono rimasto colpito dalla naturalezza con la quale il vicepresidente del Parlamento kossovaro ci ha raccontato il problema legato ai foreign fighters. “Noi abbiamo semplicemente inviato dei volontari a combattere contro Assad in Siria, non credevamo che sarebbero tornati terroristi islamici". Una frase inquietante che lascia ben intendere l'emergenza legata al terrorismo che sta vivendo il Kosovo. Un problema, quello dei foreign fighters, che rischia di diventare un'altra delle emergenze di questo Paese dove negli ultimi anni sono aumentate le moschee wahabite ed i centri in cui il fenomeno della radicalizzazione islamica aumenta, grazie ai finanziamenti che arrivano dai Paesi del Golfo e della Turchia.

Che ruolo giocano le Monarchie del Golfo in questo processo in corso nel Kosovo?
 
L’Arabia saudita, alleato Usa e Ue, è il più grande acquirente dell’equipaggiamento militare dei paesi balcanici. L’Arabia Saudita sostiene le forze jihadiste in Siria.
Credo che il cerchio si chiuda.
Un recente studio pubblicato dal BIRN (Balkan Investigative Reporting Network) sostiene che dal 2012, anno dell’inasprimento delle “primavere arabe”, ad oggi, ai paesi dei Balcani sono state comprate armi per un valore di 1.2 miliardi di euro da Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Turchia, molte delle quali smistate per poi essere usate nel conflitto siriano e in quello yemenita. I leader europei hanno fatto di tutto negli ultimi anni per tentare di bloccare la strada percorsa dai migranti che tentavano di raggiungere l’Europa passando per i paesi mentre non si sono preoccupati di mobilitarsi per fermare il commercio di armi che segue la medesima rotta balcanica che percorrono i migranti (con l’unica differenza che viene percorsa nella direzione opposta).
 
 
La crescente partecipazione di membri radicali tra le fila dello Stato Islamico e la posizione di hub strategico nel cuore dell’Europa sollevano seri elementi di criticità legati al ritorno dei combattenti in patria. “Questa situazione è potuta maturare nonostante le missioni internazionali presenti sul territorio, perché da tempo l’Europa e la Nato si disinteressano al Kosovo, e ai Balcani in generale, nonostante questa evoluzione fosse chiara da anni”. Sono parole del Generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato in Kosovo. Come procede il lavoro del contingente italiano in Kosovo?
 
Nella nostra missione, abbiamo visitato il contingente italiano presso la KFOR e la base dei Carabinieri della Multinational Special Unit (MSU). 
Con loro, abbiamo potuto visitare il Ponte di Mitrovica, uno dei luoghi simbolo del conflitto del ‘99 e teatro dei più recenti scontri connessi dalle perduranti tensioni interetniche tra minoranza serba e maggioranza di albanese. Attraversandolo, ho subito percepito, nonostante siano passati 18 anni, quali siano gli sconvolgimenti che le missioni "umanitarie" portano in paesi che con difficoltà nel corso della loro storia avevano raggiunto il loro precario equilibrio tra le diverse etnie, religioni e ideologie politiche.
Ricordo ancora le bombe del Governo D'Alema, spacciate per intervento militare in difesa dei diritti umani, che in verità hanno contribuito a rimescolare le tessere del puzzle balcanico. Tessere che faticosamente si cerca di rimettere in ordine.

Il Kosovo vuole entrare nell’Unione Europea. Secondo lei sono pronti?
 
Adesso il Kosovo, come un po' tutti i Paesi balcanici, ambisce ad entrare nell'Unione Europea e, dai discorsi che ho sentito dai loro parlamentari e rappresentanti di Governo, mi sembrava di essere tornato indietro di qualche decina di anni quando l'allora presidente del consiglio Prodi annunciava: "con l'euro lavoreremo un giorno in meno guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più". Previsione rivelatasi drammaticamente sbagliata. 
Il Kosovo rischia di cadere in una simile illusione. Per questo, in tutti gli incontri bilaterali avuti, ho illustrato loro la posizione del M5S su tutto quello che a nostro avviso va rivisto immediatamente in Europa: dalla moneta unica alla gestione dei profughi, dal mercato del lavoro a quello delle merci. Una serie di temi che prevedono nella nostra agenda politica una rivisitazione del principale trattati della UE. "O l'Europa cambia o muore".


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Terrorismo, le bandiere dell'Isis nei villaggi dell'Albania. "Una polveriera per la Puglia"

I fenomeni di radicalizzazione oltre l'Adriatico preoccupano l'intelligence italiana: sul territorio pugliese ci sono comunità originarie dei villaggi su cui sventolano le bandiere del Califfato

di GIULIANO FOSCHINI

7 gennaio 2017

È dal mare Adriatico che arriva oggi uno dei principali allarmi per il terrorismo in Italia. E la Puglia è frontiera di questo rischio. Nulla c'entrano i flussi migratori. L'allerta non riguarda né i barconi di disperati che attraccano per lo più sulle coste del Salento né le migliaia di richiedenti asilo che, in attesa del permesso di soggiorno, vengono portati nei Cara di Bari e Foggia o nell'hotspot di Taranto.

L'allarme arriva dall'Albania. Dove i nostri servizi di intelligence, così come quelli della maggior parte dei Paesi occidentali, hanno lanciato l'allerta radicalizzazione: in alcuni villaggi, e in particolare quelli ai confini del Kosovo, da tempo sventola la bandiera nera dell'Isis. E sono sempre più i casi di radicalizzazione. "Sta diventando una polveriera" ragiona una qualificata fonte investigativa italiana. "E in questo senso l'Italia diventa un paese esposto. E la Puglia in particolare". Questo per via della vicinanza geografica, della presenza di comunità fortemente radicate e per quegli stretti collegamenti tra criminalità organizzata e traffico internazionale di stupefacenti.

Il caso Albania. Sin dalla nascita dello Stato islamico un numero importante di foreign fighter è partito dai Balcani occidentali, e dall'Albania soprattutto. Se ne stimano mille almeno. Negli ultimi 12 mesi, però, il flusso si è notevolmente ridotto. Non è un caso: la perdita di terreno in Siria ha spinto l'Isis a bloccare i viaggi di chi si vuole arruolare per spostare, appunto, il conflitto in Occidente. Non a caso le intelligence europee segnalano una radicalizzazione sempre più profonda proprio in questi mesi. Un allarme che in un certo modo le autorità albanesi stanno cercando di fronteggiare.

Nove persone sono state condannate per reclutamento, si sta cercando di fare un lavoro sulle moschee seppur 89 sembrano essere completamente fuori controllo. I servizi albanesi hanno segnalato come "fortemente pericolosi" una decina di imam, due dei quali sono però in carcere. Il più pericoloso di loro, Almir Daci, dovrebbe essere morto ad aprile scorso in Siria: è lui che da Leshnica, la città nel sud-est dell'Albania dove reggeva la moschea che ha radicalizzato centinaia di uomini. I ragazzi di Leshnica, Zagorcan e Rremeni sono quelli che ora fanno tremare l'Europa.

La rete pugliese. Non sono città qualsiasi. In Italia vivono da tempo comunità originarie di quelle zone. In particolare in Puglia, con concentrazioni in Salento e in un comune della provincia barese. Un ragazzo di quelle zone, Ervis Alinj, si era trasferito in Puglia piccolo per poi ritornare a casa con i genitori in Albania. Qui si è radicalizzato e poco meno di due anni fa è morto mentre combatteva in Siria. Vengono dal sud-est albanese esponenti di spicco anche della malavita organizzata pugliese, che vivono da anni nel barese e sono attivi in particolare nel traffico di stupefacenti e in quello di armi.

Un fattore questo che rende ancora potenzialmente più pericolosa la situazione, in quanto legherebbe la criminalità organizzata con le organizzazioni terroristiche. Non a caso, sulla cellula albanese da tempo lavora la Dda di Bari. Un fascicolo è stato aperto dopo la strage di Nizza ma fin qui, più che una reale pista investigativa, si è trattato di una suggestione. Chokri Chaffroud, il complice di Mohamed Bouhlel, lo stragista di Nizza aveva vissuto per anni a Gravina, dove vive una delle comunità albanesi più importanti e, indagini alla mano, con più affari criminali. Ed erano proprio albanesi due presunti complici di Bouhlel, arrestati dopo la strage sulla Promenade con l'accusa di avergli offerto un supporto logistico per compiere l'attentato.

La prevenzione. Chiaro il rischio, in questi mesi si stanno prendendo tutte le contromisure affinché il pericolo resti potenziale. La Dna, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha sottoscritto in estate un protocollo con i colleghi serbi che serve proprio a mettere in rete le informazioni. In questo senso il porto di Bari, considerato hub per il passaggio, è in grado di offrire un supporto fondamentale: ha un sistema informatico di registrazione dei passeggeri che consente di verificare alle forze di polizia in tempo reale chi, quando e soprattutto accompagnato da chi ha viaggiato.

Proprio grazie a questo software - unico in Italia - è stato possibile individuare Ahmed Dhamani, uno dei fiancheggiatori di Salah Abdeslam, il terrorista che assaltò Parigi il 13 novembre 2015. Nessuno conosceva il suo nome ma la Digos di Bari scoprì che i due avevano viaggiato insieme da Bari a Patrasso il primo e il 5 agosto, in quel viaggio in Grecia nel quale fu probabilmente organizzata la strage.



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Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti


di Sergio Cararo, 9 agosto 2016

Sembrerebbe una legge del contrappasso eppure è lo stesso scenario che si è ripetuto costantemente dall’alleanza con i mojaheddin afgani dal 1980 in poi. Gli Stati Uniti, la Nato e l’Unione Europea hanno disgregato gli stati esistenti – anche con i bombardamenti e le operazioni di regime change – hanno sostenuto militarmente i gruppi islamici e hanno consentito il loro rafforzamento economico e militare in enclavi protette e sostenute dal wahabismo saudita. Ma non è accaduto solo in Medio Oriente, è accaduto anche in Europa nella sua periferia balcanica. Una volta diradata la polvere dei bombardamenti (incluso quelli all’uranio impoverito) sul territorio dei Balcani sono rimaste quasi sempre basi militari Usa (in Kosovo, Croazia, Macedonia) e sono prosperati network legati alla jihad globale, sia di osservanza wahabita (legati all’Arabia Saudita) che di altre correnti (legati alla Turchia). Il risultato è che enclavi dello Stato Islamico sono assai più vicine ai confini europei di quanto la geografia e la cronaca abbiano lasciato intendere fino ad ora.

Sono stati infatti individuati diversi network jihadisti che hanno origine in Kosovo (dove in rapporto alla popolazione si segnala il numero più alto di foreign fighters andati a combattere in Siria e Iraq tra le file dell’Isis), Bosnia e Albania. In questi tre paesi balcanici nei quali la Nato è intervenuta militarmente tra il 1995 e il 1999 a sostegno delle ambizioni islamiche,   si è formata una rete di gruppi islamici radicali, che si ispirano a Lavdrim Muhaxheri, noto come il “’macellaio dei Balcani”, per le sue atroci esecuzioni al servizio del califfo Al-Baghdadi. Tra i cento soggetti  posti all’attenzione dalla polizia in Italia, ci sono persone provenienti da quelle zone: si tratta soprattutto di ex criminali con precedenti per spaccio di droga, tra cui anche donne. Proprio nel dicembre 2015 è stato individuato un gruppo di kosovari, di cui alcuni arrestati, che propagandava la Jihad  e che,  secondo gli investigatori,  aveva collegamenti con gruppi riconducibili a Muhaxheri. Quest’ultimo ha lavorato proprio dentro la base militare Usa in Kosovo, quella di Camp Bondsteel, all’ombra delle quale si segnalano ben cinque campi di addestramento dei miliziani islamici.

Il vero cuore dello Stato Islamico alle porte dell’Europa è proprio il Kosovo, uno stato fantoccio creato dai bombardamenti dalla Nato e riconosciuto come indipendente dalla maggioranza dei paesi europei (tranne la Spagna). Una inchiesta de L’Espresso rivela che Florin Nezir,  l’imam della moschea Sinaan Pasa Camii di Kacanik, è stato sostenuto in questi anni da Ilir Berisha e Jetmir Kycyku,  arrestati per terrorismo in un’operazione dell’ Eulex (la missione europea in Kosovo). Ma il grande sostenitore di Nezir è Lavdrim Muhaxheri, albanese, oggi uno dei capi dello Stato islamico, ex collaboratore della Kfor (la missione Nato in Kosovo dopo la guerra del 1999), famoso per essersi fatto ritrarre mentre decapitava prigionieri in Siria.

Il reclutamento di giovani jihadisti che partono per Siria e Iraq è un fenomeno diffuso in tutta l’area che si è ulteriormente aggravato con il ritorno di gruppi di foreign fighters. Diventati pedine importanti e anelli di congiunzione tra l’Europa e il Medio Oriente.
Da Kacanik sono partiti nel 2014 almeno 7 giovani di età compresa tra i 25 e i 31 anni, per andare in Siria e Iraq come foreign fighters al servizio dell’Isis. Il flusso si è ridotto con la legge sui foreign fighters approvata nel 2014 dal Parlamento di Pristina. Qualche mese fa, un’operazione congiunta di esercito e polizia ha portato all’arresto di cinquanta persone legate all’estremismo islamico e coinvolte nella partenza di combattenti per Siria e Iraq. Gli indagati (dati del 2015) sono 130, di cui un’ottantina  gli arrestati .
Ma non è solo il Kosovo a preoccupare tra i paesi dell’area balcanica: Bosnia, Macedonia, Sangiaccato serbo conoscono situazioni simili. Negli anni ‘90 in queste regioni attraversate dalla secessioni e dalle guerre civili che hanno contrapposto comunità musulmane a comunità ortodosse o cattoliche, è stato imponente l’ingresso in alcune aree di mujaheddin, finanziati dall’Arabia Saudita, ha contribuito a far crescere il numero dei musulmani wahabiti. La Nato, che ha sempre e solo bombardato la Serbia o la Repubblica Sprska in Bosnia, ha chiuso entrambi gli occhi rispetto a questa rilevante infiltrazione di foreign fighters nelle guerre balcaniche. “Due aspetti sono risultati fondamentali per l’espansione del wahabismo nei Balcani” scrive l’inchiesta de L’Espresso, “ la forza della propaganda grazie all’attività di associazioni sul filo della legalità da un lato, e i cospicui finanziamenti dall’altro. Tali correnti integraliste vanno collegate alla guerra del 1992-1995, quando in Bosnia giunsero alcune centinaia di volontari arabi e islamici (secondo altre fonti sono stati migliaia) per combattere a fianco dei musulmani bosniaci, inquadrati nell’esercito governativo”.

A  Bihac, in Bosnia,  c’è una fetta di territorio ormai sfuggito dal controllo statale (debole in un paese di fatto diviso, costruito e per lungo tempo gestito dalla Nato e dall’Unione Europea tramite commissari plenipotenziari), dove la polizia non entra e dove esiste una vera enclave dello Stato islamico. 
Comunità consistenti di musulmani integralisti bosniaci sono sorte in particolare nei villaggi di Bocinja, presso Maglaj, in Bosnia centrale, e Gornja Maoca, presso Brcko, dove periodicamente la polizia effettua blitz e retate di islamisti radicali. Secondo stime non ufficiali, sarebbero almeno 150 gli jihadisti partiti dalla Bosnia per combattere in Siria e Iraq, 50 sono rientrati in Bosnia e una ventina di loro finora sarebbero stati uccisi.
Gli anni della ricostruzione post guerra sono stati caratterizzati dall’arrivo di numerose organizzazioni umanitarie patrocinate da Paesi islamici: Alto Comitato saudita, Fondazione Al-Haramain, Società per la rinascita del patrimonio islamico.

In alcune zone della Bosnia come a Bihac, Teslic, Zeppe, Zenicae Gornja Maoca sono ormai presenti delle sacche wahabite dove si seguono alla lettera gli insegnamenti di Abu Muhammad al-Maqdisi, predicatore giordano-palestinese noto per le sue posizioni radicali. In queste regioni i wahabiti vivono secondo le leggi della Sharia seguendo gli insegnamenti di imam radicali come Husein Bilal Bosnic e Nusret Imamovic. Il villaggio di Gornja Maoca, situato vicino alla città di Brcko, risulta essere la stazione di transito, stando ad alcuni rapporti del Middle East Media Research Institute, attraverso la quale avviene il passaggio per jihadisti stranieri in viaggio per lo Yemen, l’Iraq e la Siria, e in questo contesto il nome di Bilal Bosnic ricorre frequentemente in relazione alle attività di trasporto dei guerriglieri.

Dai Balcani raggiungere la Siria risulta ormai molto facile: ogni grande città della regione è collegata con Istanbul, sia con pullman che con l’aereo. In seguito, stando alle indicazioni della polizia bosniaca, i volontari si muovono alla volta di Antakia, per attraversare la frontiera di Bab Al-Hawa con l’aiuto dei gruppi jiahdisti siriani, per raggiungere successivamente il Fronte al-Nusra.

Segnali preoccupanti vengono anche da un altro stato sorto nella stagione delle secessioni nella ex Jugoslavia: la Macedonia. Recentemente in una località al confine con il Kosovo, Kumanovo, si sono registrati scontri armati tra milizie islamiche macedoni e polizia con diversi morti soprattutto tra gli agenti. Secondo il portavoce della polizia macedone Ivo Kotevski, gli islamisti sarebbero entrati in Macedonia da un Paese confinante, l’Albania o più verosimilmente il Kosovo.. Questo accadeva solo tre settimane dopo che una quarantina di militanti kosovari aveva preso il controllo di una stazione di polizia sul confine rivendicando la creazione di una enclave indipendente albanese in Macedonia.
La componente estremista del wahabismo in Macedonia è stata poi coinvolta nei tentativi di assumere il controllo di alcune importanti moschee della capitale Skopje come Yahya Pasha, Sultan Murat, Hudaverdi e Kjosekadi.






Incessante propaganda mirata allo squartamento della Siria

1) LETTERA APERTA ad Amnesty International Italia
2) MOSTRA “CAESAR”: cosa ci tocca vedere a Milano. Il sindaco Sala ha nulla da dire?
3) E' INIZIATO IL LINCIAGGIO contro gli archeologi occidentali che "osano" collaborare con i colleghi siriani. Nel mirino anche PAOLO MATTHIAE, il più grande archeologo italiano vivente


Vedi anche:
L'Esercito siriano entra nella città di Palmira (1.3.2017). VIDEO e MAPPA:
Le prime immagini di Palmira liberata (2.3.2017):


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LETTERA APERTA ad Amnesty International Italia


Con il vostro Comunicato CS 028 – 2017 diffuso il 1° marzo, dopo aver genericamente parlato di inchieste sull’uso di armi chimiche riguardanti “tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Siria”, rivelate, dalle parole della stessa Tadros,  il vero scopo del comunicato: attaccare il governo siriano impegnato da 6 anni in un durissima battaglia contro orde di terroristi e mercenari etero diretti dall’esterno che hanno il compito di distruggere e smembrare quello sfortunato paese; e attaccare nel contempo Russia e Cina colpevoli di volerlo salvare. Grazie ai loro veti infatti si è evitata la legittimazione di una ennesima aggressione “umanitaria”  da parte della Nato contro un Paese sovrano, come successo nel marzo del 2011 contro la Libia,  le cui conseguenze devastanti sono oggi sotto gli occhi di tutti!

Anche allora avete fornito al “mondo” utili coperture propagandistiche per giustificare bombardamenti e attacchi militari, accusando Gheddafi di orribili stragi di civili e stupri di massa ottenuti distribuendo fiumi di Viagra ai soldati governativi, salvo poi riconoscere, a distruzione del paese avvenuta, che si trattava di fatti non provati o falsità evidenti.

Riguardo alla Siria, avete sponsorizzato una mostra fatta di foto di cadaveri torturati anonimi, di cui  non era possibile accertare identità e circostanze della morte. Foto attribuite a un fantomatico agente siriano “Caesar” di cui non siete stati in grado di fornire né il nome né altre indicazioni, alimentando il generale sospetto che si tratti di pura invenzione.

In altra circostanza avete pubblicato dossier attribuibili all’opposizione armata terrorista e jihadista siriana, in cui si parla senza prove del fantomatico numero di 13.000 impiccati- tutti rigorosamente anonimi – nelle carceri siriane.

Siate certi che queste “informazioni”, prive di riscontri e caratterizzate da una evidente faziosità, sono accolte da un numero crescente di cittadini con sempre maggiore scetticismo, e sempre un maggior numero di persone apprezza il comportamento di Russia, Cina e altri Paesi. Grazie a loro la Siria, malgrado gli attacchi e la devastazione da parte di migliaia di mercenari armati, addestrati e finanziati dalle petromonarchie e dall’impero Usa, è riuscita a difendere e mantenere la sua integrità e sovranità.

Ripensateci ed agite con maggiore responsabilità e dignità.


Cordiali saluti
Vincenzo Brandi, Stefania Russo della Rete No War Roma.




COMUNICATO STAMPA                                                               
CS028-2017 

SIRIA, ALTRO VERGOGNOSO VETO DI RUSSIA E CINA AL CONSIGLIO DI SICUREZZA 

Russia e Cina hanno per l'ennesima volta usato il loro potere di veto all'interno del Consiglio di sicurezza per bloccare, il 28 febbraio, una risoluzione che avrebbe contribuito ad accertare le responsabilità per l'uso e la produzione di armi chimiche da parte di tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Siria. 

"Ponendo il veto alla risoluzione, Russia e Cina hanno mostrato un palese disprezzo per la vita di milioni di siriani. Entrambi i paesi fanno parte della Convenzione sulle armi chimiche e anche per questo non c'è alcuna scusa per il loro comportamento", ha dichiarato Sherine Tadros, direttrice dell'ufficio di Amnesty International presso le Nazioni Unite. 

"Da sei anni la Russia, sostenuta dalla Cina, blocca le decisioni del Consiglio di sicurezza riguardanti il governo siriano. Questo atteggiamento impedisce la giustizia e rafforza la tendenza di tutte le parti coinvolte nel conflitto a ignorare il diritto internazionale. Il messaggio della comunità internazionale è che, quando si parla di Siria, non esiste alcuna linea rossa", ha aggiunto Tadros. 

Dall'inizio della crisi siriana, la Russia ha fatto ricorso per sette volte al diritto di veto. La risoluzione del 28 febbraio proponeva sanzioni nei confronti di singole persone collegate alla produzione di armi chimiche in Siria e un embargo su tutti i materiali che potrebbero essere usati per produrle in futuro. 

La proposta su cui Russia e Cina hanno posto il veto faceva seguito alla risoluzione 2118 del settembre 2013, redatta da Russia e Usa, che impone misure sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite sul "trasferimento non autorizzato di armi chimiche e su ogni uso di armi chimiche, da parte di chiunque, nella Repubblica araba siriana". 

Nell'agosto 2015 il Consiglio di sicurezza aveva anche adottato all'unanimità la risoluzione 2235, che aveva istituito un Meccanismo d'indagine congiunto per identificare i responsabili degli attacchi con armi chimiche in Siria. Da allora, il Meccanismo è giunto alla conclusione che tanto il governo siriano quanto il gruppo armato Stato islamico hanno compiuto attacchi con armi chimiche. 

"Il vergognoso atteggiamento della Russia è un ulteriore esempio di come Mosca usi il potere di veto per garantire al suo alleato, il governo siriano, che eviterà di subire conseguenze per i suoi crimini di guerra e contro l'umanità. Ora è di fondamentale importanza che il neo-nominato segretario generale Onu e gli stati membri del Consiglio di sicurezza agiscano con fermezza quando alcuni stati impediscono l'approvazione di risoluzioni per impedire o porre fine a crimini di guerra. Il Consiglio di sicurezza è diventato un luogo in cui fare sfoggio di posizioni politiche e il popolo siriano ne sta pagando il prezzo definito", ha concluso Tadros. 

FINE DEL COMUNICATO                                                       
Roma, 1 marzo 2017 

Per interviste: 
Amnesty International Italia – Ufficio Stampa 
Tel. 06 4490224 – cell. 348 6974361, e-mail: press@...


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Mostra “Caesar”: cosa ci tocca vedere a Milano. Il sindaco Sala ha nulla da dire?

Comunicato del Comitato Contro La Guerra Milano sulla mostra “Nome in codice Caesar”

Da venerdì 3 marzo giunge anche a Milano la mostra “Nome in codice Caesar: detenuti siriani vittime di tortura”, con il Patrocinio del Comune di Milano.

La stessa mostra era stata proposta, la scorsa primavera, alla Camera e al Senato della Repubblica, ma non accettata, poiché serve solo a “scatenare reazioni emotive facilmente strumentalizzabili”, aggiungiamo noi, finalizzate ad accusare il legittimo Governo della Repubblica Araba di Siria di “crimini contro l’umanità”.

I promotori di queste campagne, sono gli stessi che hanno giustificato e fiancheggiato i bombardamenti all’Iraq e alla Libia, motivati con “i falsi”, ampiamente dimostrati, dei bimbi Kuwaitiani uccisi nelle incubatrici da Saddam Hussein, o delle fosse comuni di Gheddafi e altre falsità, ormai conosciute in tutto il mondo, fino ad arrivare alle “famose” provette di antrace mostrate all’ONU dall’allora Segretario di Stato USA, Generale Colin Powell, di cui, persino lo stesso ex Primo Ministro britannico, Tony Blair, dovette scusarsi di fronte al mondo.

Tra i principali finanziatori di “Caesar” compare lo stesso Qatar, paese che, con Arabia Saudita e Turchia, è tra i principali sponsor delle bande armate islamiste della cosiddetta “opposizione siriana”, ISIS inclusa (a cui l’appoggio di questi paesi è ora conclamato), che dal 2011 hanno messo a ferro e fuoco la Siria e il vicino Iraq, provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi in esodo verso l’Europa.

Per approfondimenti sulla mostra “Caesar” si legga il report di SibiaLiria e L’Antidiplomatico (Report sull’attendibilità delle “Foto di Caesar” e sulla relativa mostra – goo.gl/A0YDg8).

Questi approfondimenti legittimano il sospetto che molte di esse non raffigurino “ribelli uccisi da Assad”, ma “poliziotti e soldati uccisi dai ribelli”.

E’ preoccupante il sostegno che la mostra ha ricevuto dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, è inoltre oltraggioso e dannoso il Patrocinio del Comune di Milano, città simbolo della lotta per la Liberazione dal nazifascismo.

Chiediamo, quindi, spiegazioni all’Amministrazione del Comune di Milano, segnatamente nelle figure del Sindaco Sala e dell’Assessore Majorino, delle ragioni per cui hanno deciso di patrocinare questa mostra, vista la scarsa credibilità della stessa ed anche visto che all’interno della mostra si sono tenuti dibattiti dove hanno avuto modo di pontificare soggetti ripresi in trasmissioni televisive e più volte fotografati in manifestazioni di piazza a fianco di elementi jihadisti, come ad esempio Haisam Sakhanh (https://youtu.be/8VXykI1OGjQ), appena condannato all’ergastolo dalla procura di Stoccolma, poiché colpevole di una esecuzione sommaria, nel corso della quale venivano  assassinati 7 prigionieri, soldati di leva dell’esercito regolare siriano; la condanna all’ergastolo è stata inflitta poiché è stata dimostrata l’aggravante della particolare ferocia e crudeltà del crimine, che pone questo episodio fuori dal diritto internazionale. Si consideri che Sakhanh appare in molte fotografie con armi di ogni tipo. Infine riteniamo opportuno che, dopo questa offesa alla città, l’Amministrazione del Comune di Milano porga le sue scuse, prendendo atto della leggerezza con cui ha agito in questa occasione, laddove le scuse non arrivassero, sarebbe lecito pensare che, come gli amici di Sakhanh, anche l’Amministrazione Comunale sia fortemente condizionata dai rapporti che il Qatar intrattiene con settori economico-finanziari della città di Milano.




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Siria, la grande lite tra gli archeologi 

«Collaborazionista chi va da Assad»

Convegni a Damasco, lettere e email infuocate, accuse in Italia, Gran Bretagna, America
E il decano degli scavi siriani Paolo Matthiae finisce sotto accusa. Lui: «Esigo le scuse»

di Lorenzo Cremonesi, 7 febbraio 2017

Archeologi in Siria: che fare? Riprendere a scavare come nulla fosse stato, oppure rifiutare di collaborare con un regime macchiato di crimini orribili? «Sino a prova contraria, ciò che resta dei siti è ancora al suo posto e solo le autorità e gli archeologi siriani rimasti possono cercare di restaurarli dopo i vandalismi dell’Isis. Ecco perché è nostro compito aiutarli al meglio», ci spiega pragmatico e disincantato l’italiano Paolo Matthiae, il celebre scopritore delle tavolette di Ebla che a 77 anni, di cui circa 50 trascorsi a scavare in Siria, resta il decano dei tanti studiosi che da tutto il mondo hanno operato nel Paese. A lui si affiancano i colleghi (non sono pochi in Italia e all’estero) disposti a scendere a patti con il regime di Assad pur di ritornare.
«Assolutamente no. Impossibile far finta che non sia accaduto nulla. Non si tratta con la dittatura. Si passerebbe per collaborazionisti di un regime sanguinario, repressivo, macellaio che cerca anche nel ritorno degli archeologi stranieri un modo per riacquistare legittimità agli occhi della sua popolazione e sul teatro internazionale. Tornare significa diventare complici dei massacratori», replicano i contrari, tra cui Marc Lebeau, noto studioso di Bruxelles scopritore del sito di Tell Beydar, e Annie Sartre Fauriat, anch’essa ricercatrice del Vicino Oriente, oltre a diversi nomi celebri come Piotr Steinkeller, che insegna a Harvard e Cambridge e Gonzalo Rubio della Pennsylvania State University. Le loro lettere aperte di condanna al«collaborazionismo» dividono gli accademici. Tra i critici non mancano gli italiani come Maria Giovanna Biga, della Sapienza di Roma, la quale con Matthiae ha intavolato uno scambio non proprio amichevole di email di chiarificazione-accusa, in realtà destinato a riacuire lo scontro.
Punto di partenza di questa vera e propria «guerra tra archeologi» è l’ormai noto convegno tenuto a Damasco l’11 e 12 dicembre scorsi per volere del ministero delle Antichità siriane assieme a quello del Turismo con l’intenzione di riprendere i lavori e restaurare i siti danneggiati. Il regime per facilitare l’arrivo degli studiosi dall’estero non ha richiesto visti, in più ha organizzato i trasporti in Siria. Tra gli italiani, Giorgio Buccellati, noto per i suoi scavi a Urkesh, ha steso una delle più rilevanti relazioni in cui magnifica gli interventi delle autorità locali a salvaguardia dei reperti, specie a Palmira. «Non ho potuto esserci per motivi famigliari, ma ci sarei andato molto volentieri e comunque ho inviato la mia relazione», dice Matthiae.
Ma critiche durissime arrivano dai colleghi siriani espatriati per non cadere nelle mani della polizia segreta di Assad. Sette di loro hanno firmato uno degli appelli più noti per il boicottaggio. «Impossibile lavorare in Siria. Il regime continua a reprimere e uccidere. Oltre il 70 per cento di noi è fuggito all’estero, restano solo quelli asserviti. Inoltre i bombardamenti indiscriminati russi e dell’aviazione di Damasco hanno provocato più danni all’archeologia e al patrimonio storico che non tutti i vandalismi dell’Isis messi assieme», ci dice un archeologo di Aleppo. 
Un dato questo confermato da altri colleghi scappati in Europa: quelle stesse autorità che oggi vorrebbero presentarsi come paladine del ripristino del retaggio culturale ne sono state in effetti i peggiori vandali. Le bombe siro-russe sarebbero cadute copiose sui tesori di Palmira, Ebla, Krak dei Cavalieri, sui centri storici di Ariha, Idlib, Homs, Hama, e sulle parti più antiche di Aleppo a partire dal mercato coperto. Per cercare un possibile compromesso, un gruppo di archeologi «critici» ha smussato i toni, proponendo una «carta etica» per chi opera in regioni controllate dalle dittature. Ma la polemica resta aspra. Commenta Matthiae: «Concordo con l’80 per cento di quel documento. Ma le accuse contro di me sono state troppo offensive. Esigo scuse formali prima di firmarlo».

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La guerra in Siria ora si combatte tra gli archeologi

Il belga Marc Lebeau e i suoi seguaci: no ai rapporti con Assad. Matthiae: politicizzazione devastante

di Francesca Paci, 19/01/2017 (Ultima modifica il 27/01/2017)

Qual è il momento giusto per occuparsi delle antichità archeologiche in una guerra come quella siriana in cui, giunto nel 2014 a quota 191 mila, l’Onu ha rinunciato a contare le vittime per concentrarsi sugli oltre 5 milioni di profughi? La domanda, nient’affatto oziosa di fronte alla maggiore crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale, spacca da un mese la comunità degli studiosi internazionali, accomunati dall’amore per la terra ospite di ben 6 siti Unesco ma divisi oggi su come e con chi cooperare per proteggerli.  

 

A Palmira  
Il casus belli risale al 10 dicembre scorso, giorno del ritorno dell’Isis a Palmira precedentemente liberata e celebrata dall’orchestra del teatro Mariinskij di San Pietroburgo, quando a Damasco s’incontrano una ventina di specialisti di vari paesi per ragionare insieme sulle sorti del patrimonio archeologico siriano. Damasco significa Bashar al Assad e per diversi accademici, che pure avevano lavorato sotto di lui prima del 2011, la partecipazione dei colleghi equivale a un «deplorevole» sostegno politico al suo regime nel momento in cui, dopo 5 anni di bombardamenti seguiti alla inizialmente pacifica richiesta di riforme, sta sferrando l’ultimo decisivo e cruentissimo assalto alla Aleppo ribelle.  

 

«E’ impossibile far finta che non sia accaduto niente mentre infuria la guerra civile, dobbiamo attendere e rispettare la lotta del popolo siriano» ci spiega da Bruxelles l’archeologo Marc Lebeau, direttore europeo degli scavi di Tell Beydar e promotore di una lettera di fuoco contro il meeting di Damasco. Frequenta la Siria dal 1975, era lì anche quando nel 1982 Hafez al Assad radeva al suolo Hama. Adesso, giura, è diverso: «Chi si occupa del vicino Oriente ne conosce bene l’assenza di democrazia, ma ci sono molte scale di grigi nelle violazioni dei diritti umani. Di Hama abbiamo saputo solo molto tempo dopo, oggi invece vediamo in diretta il massacro dei civili. E soprattutto, diversamente da quanto accaduto a dicembre, gli archeologi di prima non erano in contatto con il regime né erano coinvolti nella propaganda». 

 

L’implicita assimilazione con gli artisti graditi a Hitler nella Berlino degli Anni 30 ha scatenato l’indignazione dei luminari additati dal j’accuse di Lebeau, del mensile «L’Histoire», di Annie Sartre Fauriat e di altri studiosi firmatari della Carta Etica per l’Archeologia e l’Assiriologia del Vicino Oriente pubblicata martedì sul sito del Penn Cultural Heritage Center. Ora è guerra.  

 

Sul campo  
«Se è il momento giusto per l’archeologia? Si è già tardato troppo - tuona Paolo Matthiae, decano della Siria a cui si deve la scoperta di Ebla -. E’ grave che la comunità internazionale abbia isolato la Direzione generale delle antichità di Damasco, impeccabile e valorosa nell’aver salvato dai musei di tutto il paese 300 mila preziosi oggetti di cui ora, con tono neo-coloniale, la Francia si dice pronta a prendere la custodia». E i morti? I raid? Il professor Matthiae tiene al ruolo dello studioso: «Questa polemica avrà conseguenze serie perché ha portato a quella politicizzazione dell’archeologia che io ho sempre evitato sin dalla fondazione dell’Icaane, dove hanno collaborato iraniani e iracheni, israeliani e palestinesi, turchi e ciprioti. Noi studiosi del Vicino Oriente sappiamo bene quanto già gravato sia da logiche politiche e dovremmo prevenirne ulteriori». 

 

Eppure, replicano gli altri, parlare di Siria nel 2017 non può che essere politica. Perché, insiste Lebeau, «il 75% degli alti responsabili della Direzione generale delle antichità siriane ha lasciato il paese» e perché «stando all’Onu, l’80% delle vittime dipende dai bombardamenti lealisti ma anche la distruzione dei beni archeologici, da Aleppo ad Homs, è frutto dei raid». Sulla sua linea è la storica de La Sapienza e a lungo epigrafista a Ebla Maria Giovanna Biga, convinta che l’impegno per i civili preceda quello per le antichità, in Siria come in Yemen: «Molti miei studenti siriani hanno la famiglia là. Ci sono zone non bombardate tipo Tell Mozan, dov’è possibile curare il patrimonio archeologico. Ma altre sono sotto tiro, Aleppo prima e ora Idlib o Tell Mardikh. La Direzione generale delle antichità siriane dovrebbe chiedere al suo governo la fine dei raid. Non sono politicizzata, confidavo negli Assad, Asmaa aveva fatto molto per Ebla. Ma non hanno ascoltato il loro popolo».  

 

I puristi ribaltano su chi li giudica degli opportunisti alla corte di Assad e del suo sponsor Putin l’accusa di covare motivi personali o professionali. L’archeologo emerito Pierre Leriche era al famigerato incontro. Anzi, l’ha organizzato: «Sostenere che ci fosse dietro il governo di Damasco è assurdo, significa ricalcare la posizione propagandistica del governo francese sulla Siria. Dietro c’era solo chi lavora da sempre in Siria e vuole sostenere l’eroico direttore generale delle antichità siriane Maamoun Abdulkarim, riconosciuto dall’Unesco e acclamato anche a Strasburgo la settimana scorsa per aver salvato 13 mila pezzi solo a Deir Ezzor. L’organizzazione nasce in tandem con l’amministrazione delle antichità, tra i cui bravi funzionari ce ne sono anche di non in linea con il governo. La data poi, era stata decisa in estate quando nessuno poteva prevedere Aleppo».  

 

“Nessuna propaganda”  
Come Leriche anche lo scopritore di Urkesh, Giorgio Buccellati, era in Siria il 10 dicembre. E lo rivendica: «Anziché polemizzare bisognerebbe raccontare il sacrificio dei dipendenti delle antichità siriane per il patrimonio del loro paese, nella difesa del quale sono morti almeno in 15. Non c’erano ministri all’incontro di Damasco, è venuto solo un sottosegretario a darci il benvenuto. E la tv che aspettava fuori non ci ha fatto domande». Fine della storia? È improbabile, perché le domande difficili sulla Siria in agonia non finiranno presto.