Informazione


(To read the english version of this article: 
What do the killings of Milosevic, Saddam Hussein and Gaddafi have in common?
Hannes Hofbauer - Strategic culture foundation, 27. 10. 2011
http://www.nspm.rs/nspm-in-english/what-do-the-killings-of-milosevic-saddam-hussein-and-gaddafi-have-in-common-q.html
or http://www.en.beoforum.rs/comments-belgrade-forum-for-the-world-of-equals/230-who-decides-on-waging-wars.html
or http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7201 

Um die deutsche Fassung dieses Artikels zu lesen:
Milosevic, Saddam, Gaddafi: Lynchjustiz und Geopolitik
von Hannes Hofbauer - veroeffentlicht in Zeit-Fragen u. COMPACT
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7233 )


MILOSEVIC, SADDAM, GHEDDAFI: GIUSTIZIA DEL LINCIAGGIO E GEOPOLITICA

 

di Hannes Hofbauer

  

A partire dal crollo dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia nel 1991 tre capi di Stato e di governo sgraditi all’Occidente sono stati assassinati dalle istituzioni del triumvirato globale Usa – Unione Europea – Nato o sono morti sotto la loro responsabilità. Un tale sviluppo è inquietante. L’11 maggio 2006 l’ex Presidente jugoslavo Slobodan Milosevic venne trovato morto nella sua cella a Scheveningen, dopo che gli era stato negato dal tribunale dell’Aja  il richiesto aiuto medico. Il 30 dicembre 2006 è morto sul patibolo ad al-Kadhimija a nord-est di Baghdad il Presidente iracheno Saddam Hussein in precedenza abbattuto dalla guerra di bombardamento e dall’invasione militare. E il 20 ottobre 2011 ribelli libici colpirono e trascinarono a morte Gheddafi. Che cosa hanno in comune questi tre capi di stato morti? Anzi tutto e visibilmente la forma brutale della loro eliminazione. Nessun tribunale serio ha mai indagato sulle loro colpe, nessuna assise internazionale ha stabilito la loro responsabilità per eventuali crimini di guerra. Le condanne si ebbero senza eccezione ad opera dei media occidentali sulla base di corrispondenti istruzioni dei vertici di circoli politici e militari dell’ambito Nato. Al momento della loro eliminazione figuravano tutti e tre senz’altro come la personificazione del male; e come tali, nel caso di Gheddafi, di Saddam Hussein e dei figli di questo i loro cadaveri sfigurati sono stati esposti al pubblico. I fruitori dei media dovevano essere sicuri: qui giacciono diavoli, non uomini. L’assassinio politico con connessa ostensione del nemico addita a un lontano passato della civiltà.

Milosevic, Saddam Hussein e Gheddafi sono stati eliminati come nemici, non come criminali. E sicuramente hanno compiuto crimini, con responsabilità per una intera serie di misfatti. Ma questi loro misfatti, che andavano dallo schiacciamento di forze di opposizione sino alla repressione di minoranze etniche, hanno rappresentato solo il pretesto per gli interventi militari dell’Occidente. Qualunque altra interpretazione resta esclusa a fronte del fatto che oppressione politica ha luogo anche altrove in forme molteplici mentre nessuna “comunità internazionale” pensa ad intervenire militarmente a tal proposito. Dall’Arabia Saudita alla Spagna-terra dei Baschi, dalla Nigeria all’Indonesia la Nato avrebbe ben da fare per mandare in campo per i diritti dell’uomo la sua Armada.

Solo in casi ben precisi l’Alleanza occidentale entra in campo al fine – viene asserito – di  proteggere i civili. Quando e dove ciò viene fatto? E quali motivi vi si celano?

Gli alleati occidentali hanno dato la caccia fino alla morte a Milosevic, Saddam Hussein e Gheddafi non a causa della cattiva politica di questi, ma in ragione della loro buona politica. Tutti e tre erano simboli di forme diverse di “dittatura dello sviluppo”. Una tale consistente politica sociale per la massa del popolo, cure per un equilibrio regionale e sforzi in direzione di una modernizzazione economica. Ciò li differenziava da coloro che in prima linea si consideravano e si considerano come rappresentanti di investitori stranieri o di interessi geopolitici estranei. In Jugoslavia, Iraq e Libia gli investitori stranieri avevano accesso solo limitato ai mercati nazionali, basi militari estranee erano indesiderate. Questo è stato uno dei motivi principali per cui Milosevic, Saddam Hussein e Gheddafi apparivano sospetti alla troika costituita da Nato, Usa ed Unione Europea.

Ma anche la situazione geopolitica dei loro paesi rendeva questi oggetto di cupidigia occidentale. Tutti e tre giacciono alla periferia della zona di influenza occidentale, sia storicamente che attualmente. Durante la guerra fredda Jugoslavia, Iraq e Libia erano paesi cerniera fra i due blocchi, che in base alla propria forza politica ed economica non vedevano ragione alcuna per consegnare la loro indipendenza agli accaparramenti occidentali o alle ambizioni orientali. Mosca e Washington garantivano ciascuna la metà di quell’indipendenza, ciò che fece anche accrescere il sentimento nazionale. Dopo la fine dell’Unione Sovietica questo restò sospeso nell’aria e in mancanza di copertura da parte di Mosca condusse direttamente alla catastrofe. Sembra che i Paesi collocati fra i blocchi siano quelli che avessero ed abbiano più da soffrire davanti all’avanzata della nuova strategia imperiale. È ciò accaduto perché essi potenzialmente erano nella situazione di effettuare un’integrazione nel mercato globale diversa da quella dettata da Unione Europea, usa e Nato? La troika imperiale si è sentita minacciata da tutto ciò?

Jugoslavia, Iraq e Libia potevano rimandare a una lunga storia di partnership con il Consiglio di Cooperazione economica, il corrispondente sovietico dell’Unione europea. Fino ai tardi anni ’80 è fiorito il commercio di beni di investimento, di consumo e armi. Tale commercio veniva sviluppato tanto attraverso valute forti quanto anche nella forma del baratto, e cioè attraverso scambio diretto di beni: ciò che era proibito nel mondo dell’egemonia del dollaro. Triangolazioni con Stati africani o con l’India erano all’ordine del giorno. All’inizio degli anni ’90, gli Usa e l’Unione Europea hanno profittato della debolezza della dirigenza post-sovietica per imporre contro questi tre Stati di relativa potenza e operanti in spirito di indipendenza gli embarghi economici. Uno di questi colpì nell’agosto 1990 l’Iraq, le cui truppe avevano invaso in precedenza in Kuwait. Due anni dopo, nel 1992, il Consiglio di sicurezza delle NU irrogò sanzioni contro la Jugoslavia (30 maggio) e la Libia (31 maggio). Nel caso di Belgrado queste vennero motivate con la presa di posizione “sbagliata” nella guerra civile jugoslava, nel caso di Tripoli con l’asserita responsabilità per l’esplosione di un aereo Pan-Am nei cieli di Lockerbie, che era avvenuta anni prima. L’Iraq, la Jugoslavia e la Libia sono stati gli unici Paesi paralizzati da blocchi economici annosi. Ciò che non colpì solo loro, ma anche i loro partner commerciali tradizionali dell’Est: Russia, Bulgaria, Romania… Questo proprio in un momento in cui le economie post-comunista in sfacelo dovevano assumere nuovi orientamenti. Esse avrebbero avuto urgentemente bisogno di partner forti che potessero scambiare con loro prodotti su base diversa dal dollaro. Gli embarghi contro l’Iraq, la Jugoslavia e la Libia lo hanno impedito. All’inizio si irritarono quadri non epurati dell’epoca sovietica di fronte alle perdite imposte: “nei primi sei mesi dall’inizio dell’embargo commerciale contro l’Iraq l’Unione Sovietica ha perduto quattro miliardi di dollari Usa”, dichiarò Igor Mordvinov, portavoce del Ministero per il Commercio estero. Oggi sappiamo che la successiva Federazione russa ha perduto molto di più: la possibilità di un’integrazione economica alternativa rispetto al mercato mondiale dominato dagli Usa.

Milosevic e Saddam Hussein erano stati già abbattuti quando la Libia di Gheddafi scorse una piccola occasione di sopravvivere alla grossa svolta epocale senza doversi arrendere ai diktat di Washington e di Bruxelles. Dopo che Tripoli nel 2004 ebbe pagato somme di risarcimento agli eredi delle vittime di Lockerbie senza con ciò riconoscere una propria colpa, il Consiglio di sicurezza delle NU abrogò l’embargo. Sino ad allora Gheddafi è stato l’unico fra i tre paria ad esser sopravvissuto fisicamente alle sanzioni economiche. Vennero sottoscritti accordi internazionali con la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia. Ma Gheddafi si ricordò anche delle buone relazioni tradizionali con Mosca e cominciò a riattivarle. All’ombra dei contatti con l’Occidente, Mosca e Tripoli cercarono di annodare stretti legami economici. Nel 2007 il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha visitato la Libia, poco dopo è arrivato personalmente Vladimir Putin per perfezionare il trattato relativo alla costruzione di una linea ferroviaria di 550 chilometri fra Bengasi e Sirte. Ancor più interessanti sono stati i colloqui sulla costruzione di un metanodotto che avrebbe dovuto arrivare in europa attraverso il Mediterraneo e ciò sotto la direzione tecnica di Gazprom. Allorché anche il più potente uomo di Russia, il capo di Gazprom Alexej Miller arrivò nell’aprile 2008 da Gheddafi, in Occidente suonò l’allarme. La sua offerta a Tripoli fu equivalente ad una bomba geopolitica. Gazprom avrebbe in futuro acquistato dalla Libia “l’intero gas naturale estratto come pure quello liquefatto ai prezzi del mercato mondiale”, come annunciato dall’agenzia Interfax il 9 luglio 2008. L’Occidente si sentì minacciato. Se si fosse arrivati al trattato, Gazprom avrebbe portato ampiamente sotto il proprio controllo il mercato del gas dell’Europa occidentale attraverso la pipeline “North Strem” del Mar Baltico inaugurata nel novembre 2011 e quella da costruirsi nel Mediterraneo. Oggi sappiamo che le cose sono andate diversamente. Da settimane le direzioni dei monopoli occidentali del petrolio, del gas e dell’acqua fanno la caccia alla Libia per concludere accordi di sfruttamento e di estrazione con un cosiddetto “governo di transizione” nelle condizioni di uno Stato inesistente, ciò che rende la questione estremamente appetibile. Dopo una guerra di otto mesi la coalizione dei volenterosi, in prima linea monopoli francesi, britannici e degli Usa, possono servirsi a buon prezzo. Il presidente in servizio del Consiglio di transizione, Abdel Rahim el-Kib, adempirà i suoi doveri amministrativi nei confronti degli investitori occidentali assolutamente senza contrasto proprio come i suoi colleghi Boris Tadic e Nuri al-Maliki fanno ciò a Belgrado e Baghdad.


Zeit-Fragen, 3.1.2012

Fonte: COMPACT 12/2011.

(trad. di AB, che ringraziamo)


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INTELEKTUALIRIJAT
Nakon što je Parlament odobrio zakon Gelmini (ime tadašnje talijanskeministarke obrazovanja) o Univerzitetima, ova se analiza bavi stanjem i sasjecanjem procesa obrazovanja i znanstvenog istraživanja.

piše: Andrea Martocchia - 14/1/2011
Skraćena verzija ovog eseja je na broju 3/2010 online-časopisa MenodiZero: http://www.menodizero.eu/
Prijevod: Jasna Tkalec za Novi Plamen (http://noviplamen.net/). Originalni tekst na talijanskom: http://digilander.libero.it/andreamartocchia/intellettuariato.pdf .

PDF: https://www.cnj.it/CULTURA/intelektualirijat.pdf

[L'articolo originale: 
INTELLETTUARIATO. 
Dopo l'approvazione della Legge “Gelmini” sull'Università, il punto sullo stato dell'analisi attorno ai tagli a Formazione e Ricerca.
di Andrea Martocchia - 14/1/2011
Una sintesi di questo saggio appare sul numero 3/2010 della rivista online MenodiZero: http://www.menodizero.eu/
per scaricare il PDF: http://digilander.libero.it/andreamartocchia/intellettuariato.pdf ]

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http://www.diecifebbraio.info/2012/02/revisione-storiografica-e-uso-politico-della-questione-delle-foibe/

http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/storia/984-revisione-storiografica-e-uso-politico-della-questione-delle-foibe.html


Revisione storiografica e uso politico della questione delle foibe*

di Marco Delle Rose**

fonte: Marx21


Introduzione


L’altopiano calcareo compreso tra Slovenia e Italia (chiamato Kras in sloveno e Carso in Italiano) è denominato dagli studiosi di scienze della Terra “Classic Karst” per aver dato il nome ai “paesaggi carsici”. Doline, caverne, acquitrini, sprofondamenti, dirupi, forre, voragini, abissi sono gli ambienti principali del territorio carsico e ne hanno condizionato le forme di antropizzazione. In merito a strategie belliche, i paesaggi carsici si rivelano particolarmente adatti per operazioni di guerriglia. Attraversamenti obbligati e angusti, cavità quasi inaccessibili, offrono infatti singolari vantaggi a piccole e mobili unità locali, mentre pongono problemi tattici e logistici a truppe allogene non adeguatamente addestrate ed equipaggiate. Gli usi difensivi delle grotte da parte della guerriglia comprendono, tra gli altri, rifugio per combattenti e civili in fuga e posizionamento di postazioni armate. Vari usi offensivi sono altresì favoriti, ossia: intrappolamento, agguato, nascondiglio, spazio per addestramento e schieramento, deposito di munizioni, luogo per detenzioni ed esecuzioni(Day e Kuney, 2004).


Nel corso della seconda guerra mondiale, il Carso e altri territori carsici dei Balcani settentrionali sono stati teatro di battaglie tra nazi-fascisti e partigiani, il cui epilogo è riferito dall’attuale storiografia “ufficiale” italiana alla cosiddetta tragedia delle “foibe”. Di pochi episodi bellici relativi a siti ipogei si conserva però una certa memoria. Tra questi, l’acquartieramento di truppe jugoslave nelle grotte bosniache di Drvar e la distruzione di munizioni germaniche nelle grotte slovene di Postojna (Kempe, 1988). Eserciti convenzionali e partigiani, soprattutto questi ultimi, sono ritenuti responsabili di aver trucidato migliaia di nemici negli abissi carsici. In Slovenia, come in Croazia e nella Venezia Giulia, l’immediato dopoguerra fu “particolarmente cruento, giacché vi giunsero molte formazioni militari avversarie del Movimento di Liberazione Nazionale” sospinte dalle avanzate partigiane e senza possibilità di fuga (Ferenc, 2005). Esplorazioni speleologiche eseguite dagli anni ‘80, al fine di censire le cavità usate come “cimiteri di massa”, hanno fornito riscontri parziali (Mihevc, 1995). Del resto, il numero di persone uccise o occultate nelle cavità è realisticamente impossibile da stabilire e, dunque, materia di interminabili controversie storiche e politiche. Le forme carsiche a sviluppo verticale dell’area nord-balcanica si contano a migliaia e ciascuna di esse potrebbe essere stata utilizzata più volte per “infoibare”, con inversioni dei ruoli vittime-esecutori in relazione alle alterne vicende della guerra.


In Italia, il termine friulano “foibe”, che significa doline, abissi, è impiegato per indicare “violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime”. Un doppio mutamento semantico è intercorso rispetto all’originario significato geomorfologico di “foibe”, che ha perduto anche il legame con l’azione di “infoibamento”, ossia di uccisione per mezzo di armi o per caduta violentemente indotta dai bordi delle cavità, oppure di “semplice” occultamento di cadaveri nelle medesime. Secondo la tendenza storiografica “ufficializzata” dallo stato, è “questo un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale” (Pupo e Spazzali, 2003). Tale assunto costituisce però una gabbia epistemologica che limita e condiziona l’analisi storiografica. Scorporate dalla complessità reale del contesto bellico, le “violenze di massa” richiedono una pianificazione strategica dell’Osvobodilna Frontadi tipo ideologico. Ingabbiata da questa matrice disciplinare, la ricerca storiografica è vincolata al banale dualismo interpretativo tra l’ipotesi di “pulizia etnica” e quella di “eliminazione sistematica” degli avversari politici. Il presente scritto vuole essere un contributo per il superamento di questo paradigma.


Cenni storici


Dopo il primo conflitto mondiale, l’Italia attuò un programma di “snazionalizzazione” dell’Istria appena annessa, chiudendo le scuole slovene e croate e italianizzando i cognomi “stranieri”. Tra il 1919 e il 1922 le camicie nere compirono sistematicamente azioni squadriste, incendiando e distruggendo sedi di associazioni, redazioni di giornali, seviziando e uccidendo avversari politici. Contemporaneamente i dipendenti sloveni, croati e tedeschi furono licenziati o trasferiti di forza in altre parti del Regno d’Italia. Negli anni ‘30, l’immigrazione in massa di contadini “regnicoli” provenienti soprattutto dal Friuli e dal Veneto, costrinse gli istriani non italiani ad abbandonare le proprie terre. Molti contadini ingrossarono le fila del proletariato che si andava sviluppando nelle aree industriali di Pola e Arsia, come pure a Trieste e Monfalcone. In questi luoghi le idee marxiste trovarono terreno fertile e forgiarono quella cultura di lotta di classe che si rivelò poi un baluardo nella guerra contro il nazi-fascismo (Di Gianantonio, 2006).


Con la feroce invasione subita nell’aprile 1941 da Italia, Germania, Ungheria e Bulgaria, il Regno di Jugoslavia venne smembrato. La Croazia fu posta sotto la dittatura di Ante Pavelic, imposto da Mussolini con la benedizione del Vaticano; la Dalmazia e il Montenegro divennero governatorati italiani; la Slovenia fu ripartita tra Italia e Germania. In questi territori gli italiani si resero responsabili dei crimini più efferati: bombardamenti e incendi di villaggi; sevizie, torture, prelevamento e uccisione di civili per rappresaglia; esecuzione indiscriminata di partigiani; deportazione in massa in campi di concentramento e di sterminio (Conti, 2008). Non si trattò di episodi isolati o eccessi di singoli, ma di comportamenti sistematici, funzionali alla strategia di dominio imperialista dell’Italia monarchica e fascista applicata anche in Libia, Etiopia, Grecia.


Già nel settembre 1941, le autorità italiane di occupazione in Jugoslavia, riportarono episodi di “infoibamento” perpetrati da Ustaša ai danni di cristiano-ortodossi a Livno (Bosnia). Le stesse autorità, per fronteggiare la Resistenza jugoslava che si organizzava sotto la guida del partito comunista, assoldarono collaborazionisti “rispondendo con una serie di operazioni di guerra […] Nella provincia di Ljubljana durante i 29 mesi di occupazione, su 340.000 persone, 25.000 furono internate e 13.000 uccise. Un cittadino su cinque fu imprigionato” (Pirjevec, 2009). Voragini e abissi carsici vennero usati come “cimiteri a cielo aperto” per seppellire rapidamente le vittime di battaglie, rappresaglie e bombardamenti, specie nella necessità di prevenire il diffondersi di epidemie.


L’Armistizio dell’8 settembre 1943 causò un vuoto di potere nella Venezia Giulia mentre, quasi in ogni centro abitato, insurrezioni spontanee determinavano la formazione di comitati di governo locale. Il potere popolare fu stroncato all’inizio di ottobre dall’occupazione nazista e la costituzione della Operationszone Adriatisches Küstenland, aggregata al III Reich. Secondo la predominante storiografia italiana, durante questo periodo di trapasso di potere furono commesse, dagli insorti slavi, numerose uccisioni di massa di italiani (le “foibe istriane”). Tuttavia, un numero non precisato di salme esumate era stato inumato in voragini e abissi carsici dopo decessi causati da conflitti armati o incursioni aeree, con fini antiepidemici. Altre salme esumate appartenevano a vittime di rappresaglie nazi-fasciste, mentre altre ancora a persone uccise per fatti di criminalità comune o vendette personali non-politiche.


Anche i partigiani usavano infoibare i propri nemici; è noto un documento con il quale Luigi Frausin, segretario del PCd’I di Trieste, pur raccomandando un’azione politica piuttosto che repressiva, disponeva di non rinunciare “alla tattica delle foibe, quando si scovano fuori fascisti responsabili di azioni contro la popolazione [...] collaboratori aperti, decisi e attivi dei tedeschi, spie” (cit. in Pirjevec, 2009). Questa tattica terroristica di eliminazione dei nemici in circostanze favorevoli per la guerriglia era conforme a quella attuata dalla Resistenza in ogni parte d’Europa (Michel, 1973) e agevolata, nel territorio carsico, dalla possibilità di rapido occultamento dei cadaveri in anfratti sotterranei inaccessibili e sconosciuti agli occupanti.


Con l’approssimarsi della fine della guerra, nel complesso e mutevole contesto di giochi di potere del confine orientale italiano, il Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste rifiutò l’alleanza con i partigiani jugoslavi, provocando la fuoriuscita della componente comunista. Lo stesso CLN (considerato semplicisticamente soggetto “democratico” dall’odierna storiografia) tramò con la X MAS di Julio Valerio Borghese in chiave anticomunista (Novak, 1973). Ciò è confermato da archivi angloamericani, dai quali è emerso che le formazioni partigiane della Osoppo idearono un fronte unico con la X MAS contro l’ Osvobodilna Fronta(Bajc, 2006). Altre trame antijugoslave erano state già approntante sia dal Governo del Sud (il “piano De Courten”) che dagli angloamericani (il progetto “antiscorch”), anche al fine di prevenire disordini sociali che avrebbero avvantaggiato i comunisti alla fine del conflitto.


Il 30 aprile 1945, il giorno dell’insurrezione di Trieste e dell’arrivo dei partigiani jugoslavi, scontri armati, fortuiti o intenzionali, si verificarono tra unità del CLN e dell’ Osvobodilna Fronta. Significativo fu il contributo delle unità armate di operai italiani e slavi, organizzate dalle formazioni marxiste “Delavska Enotnost – Unità Operaia”, per il contenimento di truppe naziste. Gli jugoslavi liberarono Trieste, spingendosi poi nelle provincie di Gorizia e Udine. Questo territorio, in cui cercavano scampo centinaia o migliaia di fascisti e collaborazionisti sloveni e croati, fu investito da un’ondata di esecuzioni sommarie, sanguinose vendette e crimini comuni. Tali vicende sono inquadrate dalla storiografia italiana in un secondo periodo di uccisioni di massa di italiani (le c.d. “foibe triestine”). Dopo 40 giorni di occupazione jugoslava, il controllo civile e militare della Venezia Giulia occidentale passò all’ Allied Military Government.


Esumazioni e mancati processi


Gran parte degli esumati dalle foibe della Venezia Giulia non sono stati identificati, né si hanno informazioni essenziali quali le loro attività sociali e politiche, le circostanze dei decessi o l’identità degli esecutori. Solo una parte delle salme riconosciute – peraltro quantificabile mediante analisi dei documenti – si può attribuire a esecuzioni sommarie compiute da partigiani. Il maggior numero appartiene invece a soldati (soprattutto tedeschi) uccisi durante la guerra, come nel caso del monumento nazionaledella Foiba di Basovizza. Una frazione significativa delle salme doveva appartenere a civili di varie nazionalità uccisi dai nazi-fascisti negli eccidi, e “deposti” nelle voragini dai sopravvissuti (parenti, amici, compagni) per fronteggiare la diffusione di epidemie. Altre vittime sono da ascrivere alla criminalità comune e a varie vicende quali vendette personali.


Le esumazioni dalle foibe avvennero principalmente durante due distinte operazioni di recupero. La prima subito dopo la costituzione dellaOperationszone Adriatisches Küstenland, riguardò le “foibe istriane” e venne riportata nella cosiddetta “Relazione Harzarich”. La seconda riguardò le “foibe triestine”, fu svolta sotto l’amministrazione angloamericana e descritta nella cosiddetta “Relazione De Giorgi”. Purtroppo tali relazioni, ampiamente citate nella letteratura storica e pubblicistica, non sono disponibili nella loro forma originale (Cernigoi, 2005), a detrimento delle potenzialità della ricerca.


Nella zona di Trieste, una cifra non precisabile di “infoibamenti” avvenne, durante il periodo bellico, per mano di poliziotti dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza di Trieste; si trattava di persone morte a causa di sevizie e torture. Emblematica è poi la vicenda dell’Abisso Plutone presso Trieste, dove gli infoibatori furono fascisti della X Mas infiltrati nelle file partigiane (Cernigoi, 2005). Rilevante ai fini delle metodologie storiografiche è invece la vicenda di un presunto sopravvissuto ad un episodio di infoibamento in Istria, presso Plomin (Croazia) che ebbe, pochi anni or sono, grande clamore mediatico. Recenti ricerche hanno dimostrato infatti la sua inattendibilità al fine del processo di revisione storiografica (Pol Vice, 2008). Un elenco delle “foibe” completo e attendibile per la ricostruzione delle vicende storiche è quindi problematico da realizzare. Per fini comparativisti si consideri che in Slovenia sono stati censiti, per mezzo di esplorazioni speleologiche, circa 100 abissi carsici contenenti resti umani (Ferenc, 2005).


Quasi nessun criminale di guerra italiano venne giudicato dai tribunali internazionali. Molti furono riciclati, già a partire dall’Armistizio, negli apparati statali del Governo del Sud, e poi in quelli della nascente Repubblica Italiana, almeno sino al 1948. Lo stesso Badoglio era accusato, a giusta ragione, di crimini in Libia e soprattutto in Etiopia. Tra i casi eclatanti si può ricordare quello del generale dei carabinieri Taddeo Orlando, artefice del grande rastrellamento di Ljubljana che provocò migliaia di vittime. Egli compariva al numero 149 della lista dei criminali di guerra delle Nazioni Unite ma venne nominato segretario generale del Ministero della Difesa da De Gasperi nel 1947. Lo stato italiano favorì l’impunità dei criminali di guerra anche proteggendone la clandestinità. E’ questo il caso del generale Mario Roatta, responsabile dei massacri avvenuti in Slovenia e Dalmazia. Arrestato a Roma nel novembre 1944, fu poi fatto fuggire in Spagna dove visse agiatamente per un ventennio, per tornare infine indisturbato in Italia (Di Sante, 2005).


L’omertà degli apparati dello stato in cui si riciclavano i fascisti vanificò le richieste di estradizione dei criminali di guerra che il governo jugoslavo preparò dal 1944. Si trattò di una vera e propria “azione di salvataggio” organizzata dalle massime cariche della nascente repubblica. Le mancate estradizioni fecero aumentare il livore che gli slavi nutrivano nei confronti degli italiani. La tensione tra le popolazioni continuò a crescere per tutto il 1946 e anche dopo la firma del Trattato di Pace di Parigi. Vi furono vendette e uccisioni sommarie, nelle quali alle questioni ideologiche e nazionalistiche si sovrapponevano vecchi e nuovi rancori personali e familiari, nelle generali condizioni di miseria e nella lotta per la sopravvivenza generate dalla guerra. Altre cause geo-politiche contribuirono a oscurare la questione dell’ esodogiuliano-dalmata. In particolare la rottura tra i regimi comunisti di Jugoslavia e Unione Sovietica, e di conseguenza tra il PCI e il PCJ, nonché il contestuale consolidarsi dei rapporti tra Jugoslavia e Stati Uniti d’America.


Giorno della Memoria Vs . Giorno del Ricordo


Il calendario delle celebrazioni ufficiali della Repubblica Italiana si è arricchito negli ultimi anni di due nuove date: il Giorno della Memoria (27 gennaio) e il Giorno del Ricordo (10 febbraio). Le commemorazioni avvengono in tutto il territorio nazionale con cerimonie ufficiali, dibattiti pubblici, convegni di studio e altre iniziative. Molto frequenti sono i viaggi di scolaresche presso i rispettivi luoghi simbolo. L’impatto delle due ricorrenze sulla collettività è differente: mentre il Giorno della Memoria si svolge, forse troppo artificiosamente, nel commosso ricordo della Shoah, il Giorno del Ricordo è sistematicamente “turbato” da manifestazioni e contestazioni.


La legge n. 32 del 30 marzo 2004 “Istituzione del Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, è apparsa subito come la risposta politica alla legge n. 211 del 20 luglio 2000, che aveva istituito il Giorno della Memoria in ricordo “dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. Si tratta di due leggi promulgate da governi di segno politico opposto: il Giorno della Memoria dal governo Amato II (centrosinistra – XIII legislatura) quello del Ricordo dal Berlusconi II (centrodestra – XIV legislatura).


Le date scelte per le commemorazioni hanno un differente valore simbolico. Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz, liberando gli internati sopravvissuti allo sterminio nazista. Il regime comunista sovietico fu percepito dal mondo intero come il liberatore dei popoli oppressi dal nazi-fascismo. Nel promulgare la 211/2000, il legislatore italiano si era adeguato a una volontà sovranazionale. Era stata la Germania, nel 1996, ad adottare per prima questa data per commemorare le vittime del nazismo, seguita poi anche da Regno Unito e Polonia. L’assemblea generale dell’ONU ha quindi ratificato questa data per “ the international holocaust remembrance day”. La 211/2000 ha introdotto una serie di questioni, a partire dalla discriminazione degli altri gruppi umani deportati e sterminati, quali rom, omosessuali e (si direbbe oggi) diversamente abili. Considera solo i campi nazisti, dimenticando quelli fascisti che pur erano disseminati in Italia (19 dei quali riservarti alla deportazione di slavi) e nella Penisola Balcanica (dove morirono decine di migliaia di deportati). Conduce alla rimozione delle vittime del fascismo e alla selezione memonica di quelle del nazismo, pur riguardando formalmente anche deportati militari e politici. La maggior parte di questi ultimi erano però comunisti. Pertanto, la commemorazione avrebbe potuto trasformarsi in una sorta di “giornata dell’orgoglio comunista”, dieci anni dopo la fine dell’Unione Sovietica e la “demolizione” del Muro di Berlino. Infatti, nonostante le abiure di molti ex-comunisti con ripudio della vecchia fede politica, i partiti comunisti sorti dopo la dissoluzione del PCI, godevano ancora di ampio credito ed erano rappresentati in parlamento. Oggi, quindi, appare non casuale il sostanziale monopolio del ricordo della Shoahnelle celebrazioni del 27 gennaio, bensì approdo di un processo decennale di rimozione selettiva.


La promulgazione della legge 32/2004 ha avuto ben altre premesse. Negli anni ‘90 le questioni delle “foibe” e del cosiddetto esodogiuliano-dalmata, erano riemerse dopo decenni di generale disinteresse, con lo smembramento della Jugoslavia. Le foibe di Monrupino e di Basovizza furono contestualmente elevate a luoghi simbolo e designati “monumenti nazionali”. Episodi di giustizia sommaria partigiana e riesumazioni di salme dagli abissi carsici erano stati, già dagli anni ‘40, strumentalmente legati alla migrazione in massa degli italiani dai territori jugoslavi riconquistati dall’Armata Popolare di Liberazione. Negli anni delle contese territoriali con la Jugoslavia, l’inizio della diasporafu fatto coincidere “ufficialmente” con il Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947. Successivamente però lo stato, per nascondere le proprie inconfessabili colpe e in virtù dei nuovi equilibri geo-politici, contribuì all’oblio della questione. La data del 10 febbraio fu scelta anche dal legislatore della 32/2004, che avallò così rivendicazioni patriottarde sostenute dall’irredentismo più irriducibile. Tra l’altro occorre rilevare che, con sospetta coincidenza temporale, erano in corso i lavori della “commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazisti”. Più grevi sono le ripercussioni socio-politiche di questa legge. L’accostamento di “foibe” ed esodo, indica subdolamente gli episodi di “infoibamento” quale causa, unica e diretta, della diaspora. È questo un malcelato modo di condizionare la ricerca storica. Nondimeno, pur celebrando la ricorrenza di un atto di pace, il 10 febbraio è usato per seminare rancore tra italiani, sloveni e croati, riattizzare odi etnici faticosamente sopiti e praticare scellerate politiche razziste. Si descrivono le genti balcaniche come popoli rozzi, primitivi, assetati di sangue e di vendetta, invasati da odio etnico e dall’ideologia comunista (cfr., ad es., articolo di M. Sacchi su Il Giornale del 13 maggio 2010). Si rimarca una sedicente superiorità etica e morale degli italiani, preparando così la strada per nuove guerre. Il significato e la potenza di questo apparato ideologico sono espressi dalla sintesi: “ evocations of the ‘Slav other’ and of the terrors of the foibe made by state institutions, academics, amateur historians, journalists and the memorial landscape of everyday life [are] the backdrop to the post-war renegotiation of Italian national identity” (Sluga, 1999).


Un esempio di uso politico


L’uso politico della questione delle foibe può essere trattato analiticamente. L’esempio riguarda la comunicazione politica di “un viaggio di studio sui luoghi dell’oppressione comunista”, organizzato nel 2011 dalla Provincia di Lecce. La stampa locale, ricalcando i comunicati dell’ente amministrativo, ha sottolineato la necessità di sensibilizzare i “giovani sui crimini di guerra, che i regimi del Novecento perpetrarono in Italia nei confronti dell’Umanità”. La “spedizione didattica [era diretta] nelle terre del Friuli Venezia Giulia e della Dalmazia, dove vennero torturati e uccisi quasi 11mila italiani, per mano dei partigiani jugoslavi di Tito. […] Gli studenti [hanno visitato] la Foiba di Basovizza e la risiera di San Sabba, unico campo di concentramento[corsivo nostro, MdR] in Italia. Nello stesso periodo delle vicende di Basovizza – hanno spiegato gli organizzatori – il regime nazista individuò in quella risiera un campo di torture, dove persero la vita 5mila persone.” ( Corriere del Mezzogiorno, 15 gennaio 2011, pag. 7).


Bisogna rilevare varie manipolazioni e inesattezze, come l’assenza di riferimenti diretti al fascismo, al cui operato risalgono le cause remote delle “foibe” e dell’ esodo. L’inesattezza più grave è l’indicazione di San Sabba come “unico campo di concentramento”; in realtà esso fu un campo di sterminio, mentre in Italia operarono decine di campi di concentramento (Capogreco, 2006). Falsa e fuorviante è la contestualizzazione geografica e storica degli episodi richiamati. Pretestuosa la comparazione della stima massima delle vittime di nazionalità italiana nella Venezia Giulia con quelle assassinate nel Lager della Risiera di San Sabba. Il risultato numerico è funzionale alla strumentalizzazione politica: le vittime del regime comunista jugoslavo appaiono più del doppio di quelle del regime nazista. Con amara ironia si può immaginare che il passo propagandistico successivo, descriverà l’occupazione della Jugoslavia come una guerra preventiva e umanitaria per salvare le genti slave (oppure l’umanità intera) dal comunismo. Più concretamente, la comunicazione politica ha giocato sordidamente coi numeri: le quasi 11mila vittime per mano jugoslava comprendono le salme recuperate dalle foibe (circa un migliaio), i morti nei campi di concentramento jugoslavi (qualche migliaio) e un’altra frazione di presunti “infoibati”. Le 5mila vittime perite nel lager della risiera di San Sabba rappresentano, per contro, solo una parte infinitesima di quelle causate dall’occupazione nazi-fascista del Regno di Jugoslavia.


Occorre altresì evidenziare come il paradigma del totalitarismo costituisca un elemento portante della comunicazione. Le potenziali conseguenze ideologiche sono evidenti, a cominciare “dalla possibilità di scagionare le popolazioni civili da ogni corresponsabilità con le politiche seguite dalle istituzioni che le hanno governate” (Cfr. AA.VV, 2002). L’impatto socio-culturale dell’uso reale di questo paradigma sarà ovviamente determinato dalle forze culturalmente egemoni. È appena il caso di accennare che per il regime di Tito potrebbe essere più efficace la verifica del concetto di autoritarismo (cfr. Linz, 2000).


Due ulteriori appunti. Le salme riesumate dalla Foiba di Basovizza appartenevano a soldati tedeschi uccisi durante bombardamenti alleati. Sarebbe quindi opportuno che gli studenti accompagnati presso i luoghi della memoria apprendessero la reale identità dei poveri resti in essa rinvenuti. Così pure, che dai processi fatti nel dopoguerra, solo un italiano risulterebbe “infoibato” a Basovizza, il triestino Mario Fabian, volontario del citato Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza (Cernigoi, 2005).


Politica e riscrittura della storia


Citando Jaques de La Palice, la storia contemporanea è oggetto di revisioni condizionate dall’inevitabile uso politico. Emblematica è la riscrittura della Resistenza che inizia dagli anni ‘90 con la fine del primo regime partitocratico repubblicano e lo “sdoganamento” delle forze politiche eredi del fascismo. Per tale processo, la Destra ha riproposto proprie vecchie argomentazioni, tra cui il genocidio degli italiani della Venezia Giulia programmato dal regime comunista jugoslavo. La gabbia epistemologica del corrente significato di “foibe” ne è un risultato.


Ciò tuttavia non sarebbe bastato per far diventare senso comune (inteso come accettazione di posizioni pregiudiziali non meditate e assunzione acritica di opinioni e saperi che hanno solo il merito di essere diffusi) tale propaganda. È stato necessario il pentimento strumentale della Sinistra, peraltro costellato da una lunga serie di episodi di autocommiserazione. Così W. Veltroni ha affermato che “fu un odio alimentato dall’ideologia comunista a determinare la tragedia delle foibe”. Posizione “politicamente corretta” nell’ottica dei transfughi dal PCI. O W. Bordon, già sindaco comunista di Muggia e quindi deputato della Margherita, che usando il frasario neo-irredentista ha parlato di “15.000 italiani morti nelle foibe” nel corso di lavori parlamentari.


Si deve quindi rilevare la congruenza tra esternazioni politiche e limiti imposti dal paradigma delle “foibe”. Nel suo spazio ristretto, gli studiosi poi si dividono sulle motivazioni delle “violenze di massa” perpetrate dagli slavi sugli italiani, ammettendo comunque, con poche eccezioni, la pianificazione strategica di un genocidio. La tesi è sostenuta dalla constatazione “logica” che la riduzione della popolazione italiana e l’eliminazione degli avversari politici (compresi gli appartenenti a organizzazioni non comuniste o “democratiche”), avrebbero agevolato i piani politici della nascente Repubblica Socialista Federale. In tale prospettiva, e superando persino la questione della pianificazione, il senatore di Rifondazione Comunista L. Malabarba ha sostenuto che “i comunisti jugoslavi avevano assimilato a fondo il recupero del nazionalismo che stava dietro al Socialismo in un Solo Paese e tutta l’impostazione dei fronti popolari. […] La guerra, iniziata come antifascista, divenne antigermanica e antiitaliana, analogamente a quanto avveniva su scala maggiore con la Grande Guerra Patriottica” (Senato della Repubblica, 11 marzo 2004, p. 52). Tale assunto costituiva un’elaborazione del pensiero del segretario F. Bertinotti che, attingendo dal lessico marxista, aveva dichiarato che accanto al “furore popolare non si riesce a non vedere anche una volontà politica organizzata, legata ad una storica idea di conquista del potere, di costruzione dello stato attraverso l’annientamento dei nemici” (PRC, 2003). Questa linea di pensiero è sostanzialmente condivisa dall’attuale storiografia “ufficiale” slovena (cfr. Pirjevec, 2009, pag. XII).


Considerazioni conclusive


L’accettazione in ambito storiografico del significato comune di “foibe” vincola le analisi possibili del “fenomeno”, predeterminandone gli esiti. Si conferma quindi una necessità “scientifica” di rifiutare tale assunto (cfr. Cernigoi, 2005). Oltre alla verifica delle fonti dell’apparato interpretativo esposto, il processo di revisione storiografica della tragedia delle “foibe” richiede l’analisi di ciascun episodio documentato, o comunque “testimoniato”, di uccisione per mezzo di armi o per caduta violentemente indotta dai bordi delle cavità, e di occultamento di cadaveri nelle medesime. Studi di strategia militare appaiono quindi necessari, meglio se eseguiti in relazione alle caratteristiche geomorfologiche dei luoghi (cfr. Pol Vice, 2008). Nell’ambito di questo approccio, occorre indagare sia le cause generali che quelle contestuali degli eccidi. Plausibili appaiono l’odio etnico e la vendetta bellica. La cattura di prigionieri seguita dal trasferimento e dall’uccisione in massa comportano tuttavia non poche difficoltà operative per unità guerrigliere. Rispetto a tale questione tattica, le situazioni materiali delle “foibe istriane” erano senz’altro diverse da quelle delle “foibe triestine”.


L’analisi marxista può avere un ruolo determinate per il superamento del paradigma. La funzione della lotta di classe nelle vicende del confine italiano nord-orientale, la presa di coscienza del proletariato quale soggetto storico, i processi di formazione e trasformazione dei partiti comunisti, le sintesi operate tra nazionalismi e internazionalismo, sono alcuni dei possibili spunti per questo lavoro. Non ultima l’analisi del soggetto politico “democratico” (in cui viene inserito il CLN triestino) che nelle revisioni storiografiche e negli usi politici della tragedia delle “foibe” è in genere privo di ambiguità e contraddizioni e quindi strumentalmente adeguato e conforme alla rinegoziazione dell’identità nazionale.


Bibliografia


AA.VV., 2002, Totalitarismo, lager e modernità, Bruno Mondadori, Milano.

Bajc G., 2006, Operacija Julijska Krajina, Zolozba Annales, Koper.

Capogreco C.S., 2006, I campi del Duce, Einaudi, Torino.

Cernigoi C., 2005, Operazione “Foibe” tra storia e mito, Kappavu, Trieste.

Conti D., 2008, L’occupazione italiana dei Balcani, Odradek, Roma.

Day M.J., Kueny J.A., 2004, Military uses of caves. In: The Encyclopedia of Caves and Karst Science, Taylor and Francis.

Di Gianantonio A., 2006, L’arco lungo della Resistenza. Formazione, attese e pratiche politiche di una generazione tra guerra e dopoguerra. Il caso di Monfalcone. In: (a cura di Celletti D., Novelli E.) La Memoria che resiste, Memorie, 1, Cierre edizioni.

Di Sante C., Italiani senza onore, i crimini in Jugoslavia e i processi negati, Ombre corte, Verona.

Ferenc M., 2005, Absent from Public Memory. Hidden grave sites in Slovenia 60 years after the end of the World War Two. In: 1945 – A break with the past, Institute for Contemporary History, Ljubljana.

Kempe D.R., 1988, Living underground: A History of cave and cliff dwelling, Herbert Press, London.

Linz J., 2000, Totalitarian and Authoritarian Regimes, Boulder, Rienner.

Michel H., 1973, La guerra dell’ombra, Mursia, Milano.

Mihevc A., 1995, Caves as mass-graveyards in Slovenia. In: Acta Carsologica, n. 24.

Novak B., 1973, Trieste 1941-1954, Mursia, Milano.

Pirjevec C., 2009, Foibe. Una storia Italiana, Einaudi, Torino.

Pol Vice, 2008, La foiba dei miracoli, Kappavu, Trieste.

PRC, 2003, Atti del convegno sul problema storico e politico delle foibe, Venezia.

Pupo R., Spazzali R., 2003, Foibe, Bruno Mondadori, Milano.

Sluga G., 1999, Italian National Memory, National Identity and Fascism. In: Bosworth R.J.B. & Dogliani P. (ed.), Italian fascism: history, memory and representation, Palgrave, New York.

 


 

* Relazione esposta all’incontro pubblico promosso dall’ANPI “Il Giorno del Ricordo per la pace tra i popoli”, Lecce, 10 febbraio 2011. Ricerca presentata nella sessione “La Geografia e la Geologia Militare: una nuova prospettiva per gli studi storico-militari” di Geoitalia 2011, Torino, 22 settembre 2011.

 

** Consiglio Nazionale delle Ricerche – marco.dellerose@...

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[Il presidente designato della Germania, Joachim Gauck, si è reso noto alle cronache in anni recenti per alcune sue posizioni esplicite: l'apprezzamento per le dichiarazioni pubbliche di Thilo Sarrazin contro gli immigrati musulmani; la retorica pietista sugli esuli tedeschi della Slesia, e viceversa la relativizzazione dell'Olocausto commesso dai nazisti; la messa sullo stesso piano dei sistemi fascisti da una parte e socialisti dall'altra - d'altronde per un periodo è stato proprio Gauck a sovraintendere all'uso degli archivi della Stasi; la messa in discussione dell'attuale confine orientale con la Polonia; l'incitamento ai tedeschi a ritornare dai sensi di colpa al patriottismo... Costui può adesso contare sull'accordo di tutte le forze politiche parlamentari per la sua elezione, ma, in particolare, delle lodi entusiastiche dei quotidiani della destra estrema.]

http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58273

Der Konsenspräsident
 
21.02.2012

BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Eine Zeitung der äußersten Rechten feiert die Einigung auf Joachim Gauck als nächsten Bundespräsidenten. Während der bisherige Amtsinhaber Christian Wulff mit "Worthülsen von der 'bunten Republik'" Schlagzeilen gemacht habe, seien von Gauck "nüchterne Äußerungen" unter anderem zum Thema "Migration" bekannt, heißt es lobend in der ultrarechten Wochenzeitung Junge Freiheit. In der Tat hat Gauck durchaus positiv zu dem SPD-Politiker Thilo Sarrazin Stellung bezogen, der für rassistische Äußerungen über "Türken und Araber" bekannt ist. Der zukünftige Bundespräsident hat außerdem mit Aussagen über die deutsch-polnische Grenze, über die Umsiedlung der Deutschen und über die Shoah von sich reden gemacht. So vertritt er die Auffassung, die "Überhöhung" des "deutschen Judenmordes in eine Einzigartigkeit" nehme zuweilen eine quasireligiöse "Dimension der Absolutheit" an, die abzulehnen sei. Joachim Gauck soll in gut vier Wochen von den Abgeordneten beinahe sämtlicher Bundestagsparteien zum elften Präsidenten der Bundesrepublik Deutschland gewählt werden - in parteiübergreifendem Konsens.

Parteiübergreifend

Nach dem Rücktritt von Bundespräsident Christian Wulff haben sich fast sämtliche Parteien, die im Deutschen Bundestag vertreten sind, darauf geeinigt, den evangelischen Pastor und ehemaligen Leiter der Stasi-Unterlagen-Behörde Joachim Gauck zu seinem Nachfolger zu wählen. Gauck kann damit auf 90 Prozent der Stimmen zählen, wenn die Bundesversammlung am 18. März im Berliner Reichstag zusammenkommen wird, um über den künftigen Bundespräsidenten zu entscheiden. Das künftige deutsche Staatsoberhaupt unterscheidet sich dabei in mancherlei Hinsicht von dem letzte Woche zurückgetretenen Amtsinhaber.

Political Correctness: "Unbeliebt"

In direkten Gegensatz zu seinem Amtsvorgänger Christian Wulff stellte sich Gauck in der Debatte um rassistische Thesen des Sozialdemokraten Thilo Sarrazin. Dieser hatte im Herbst 2010 in einer Buchpublikation lautstark gegen "Türken und Araber" gewettert: Migrantische Teile der deutschen Unterschichten, behauptete er, kosteten den deutschen Staat viel Geld, brächten ihm aber zu wenig Nutzen. Der antimuslimischen Agitation, die daraufhin Wellen schlug, widersprach Wulff in seiner Rede zum 3. Oktober 2010 mit der Feststellung, der Islam gehöre zu Deutschland. Noch seine Rücktrittserklärung leitete Wulff mit dem Bekenntnis ein, ihm sei es "ein Herzensanliegen", dass sich alle, "die hier bei uns in Deutschland leben", der Republik "zugehörig" fühlten - "ganz gleich, welche Wurzeln sie haben".[1] Gauck hingegen hatte Sarrazin attestiert, "Mut bewiesen" zu haben: "Er hat über ein Problem, das in der Gesellschaft besteht, offener gesprochen als die Politik." "Die politische Klasse" könne aus seinem Erfolg lernen, dass "ihre Sprache der politischen Korrektheit" bei der Mehrheit der Bevölkerung keine Zustimmung finde.[2]

Die Schuld ad acta legen

Bekannt geworden ist Gauck vor allem als Kämpfer gegen "totalitäre Systeme". Unter diesem Begriff fasst der künftige Bundespräsident sowohl rassistisch fundierte Politikansätze der extremen Rechten als auch kommunistische Gleichheitsvorstellungen der Linken zusammen und setzt den Nationalsozialismus mit seinen Menschheitsverbrechen und die realsozialistischen Staaten, darunter die DDR, weitgehend in eins. So wird er mit der Aussage zitiert, es gebe Ähnlichkeiten bei den "Folgen staatsterroristischer Herrschaft auf die Bürger".[3] In einer "Prager Erklärung" vom 3. Juni 2008, zu deren Erstunterzeichnern Gauck gehörte, heißt es, es gebe "substanzielle Ähnlichkeiten zwischen dem Nazismus und dem Kommunismus" mit Blick auf ihre "Verbrechen gegen die Menschheit".[4] Die "Prager Erklärung" ist von jüdischen Verbänden entschieden kritisiert worden, weil sie die Menschheitsverbrechen der Shoah relativiere. Es gebe "gewisse osteuropäische Kreise, die eine Art 'Holocaust-Neid' entwickelt" hätten, wird der Direktor des Jerusalemer Simon Wiesenthal Centers, Efraim Zuroff, zitiert: "Sie sähen es gerne, wenn kommunistische Verbrechen ebenso scharf geahndet würden wie die Verbrechen der Nazis." Damit aber werde eine gänzlich unangemessene Parallele hergestellt, die letztlich nur dazu führen werde, die Deutschen zu entlasten: "Denn wenn jeder schuldig ist, dann ist eben auch keiner schuldig."[5] Dann könne man "das Ganze ad acta legen".

Die "Holocaust-Religion"

Tatsächlich ist der zukünftige Bundespräsident bereits im Jahr 2006 mit einer bemerkenswerten Stellungnahme zur Shoah an die Öffentlichkeit getreten. Demnach gebe es "eine Tendenz der Entweltlichung des Holocausts", die sich zeige, "wenn das Geschehen des deutschen Judenmordes in eine Einzigartigkeit überhöht wird, die letztlich dem Verstehen und der Analyse entzogen ist".[6] Offenkundig suchten "bestimmte Milieus postreligiöser Gesellschaften nach der Dimension der Absolutheit, nach dem Element des Erschauerns vor dem Unsagbaren"; dieses "Erschauern" jedoch könne auch durch "das absolute Böse" ausgelöst werden und sei "paradoxerweise ein psychischer Gewinn". An die Behauptung, das Gedenken an die Shoah enthalte religiöse Elemente, knüpft auch die äußerste deutsche Rechte an. Als Anfang 2009 ein Bischof der katholischen Piusbruderschaft in der öffentlichen Debatte heftig kritisiert wurde, weil er den Holocaust in Frage stellte, da hieß es in der ultrarechten Wochenzeitung Junge Freiheit, "der mächtigste Dämon der Gegenwart" sei "die Zivilreligion, in der Auschwitz an die Stelle Gottes" trete; der Holocaust werde "seiner Konkretheit und seines Kontextes entkleidet" und "auf die Höhe eines Mysteriums gestemmt, das priesterlicher Vermittlung" bedürfe.[7] Wenig später erklärte es der Autor eines anderen ultrarechten Mediums im Hinblick auf Kritik an antisemitischen Tendenzen in der katholischen Kirche [8] für "bedenklich", wenn "vom Oberhaupt der katholischen Kirche ein Kniefall vor dem negativen Heiligtum des Holocaust erwartet wird".[9] Der Autor gehört heute der Redaktion einer Zeitschrift an, die in offiziellem Auftrag an der Münchener Bundeswehr-Universität herausgegeben wird (german-foreign-policy.com berichtete [10]).

Wannseekonferenz und Stasizentrale

Öffentlich exponiert hat sich Gauck nicht zuletzt mit Äußerungen, die geeignet sind, das Verhältnis zwischen Deutschland und Polen beträchtlich zu belasten. So schrieb Gauck über die Anerkennung der polnischen Westgrenze durch die DDR im Jahr 1950, "die Kommunisten" hätten, indem sie die "Westverschiebung Polens und damit den Verlust der deutschen Ostgebiete guthießen", nur "Stalins Territorialforderungen" nachgegeben: "Einheimischen wie Vertriebenen galt der Verlust der Heimat als grobes Unrecht, das die Kommunisten noch zementierten, als sie 1950 die Oder-Neiße-Grenze als neue deutsch-polnische Staatsgrenze anerkannten."[11] Noch vor wenigen Jahren hat Gauck im Streit um die Präsidentin des Bundes der Vertriebenen (BdV), Erika Steinbach, und ihre Planungen für ein "Zentrum gegen Vertreibungen", die in Polen auf heftigen Protest stießen, sich ganz offiziell auf Steinbachs Seite geschlagen. Ein "Zentrum gegen Vertreibungen" sei in Berlin, "am Ort verschiedener 'Topografien des Terrors', dem Ort der Wannseekonferenz und der Stasizentrale, dem einstigen Regierungssitz brauner und roter Despoten", am richtigen Ort.[12]

Reifes Deutschland

Gauck hat mehrfach erklärt, "die Deutschen" täten gut daran, ihren Umgang mit der Vergangenheit ihres Landes zu ändern. "Ich frage mich, wie lange wir Deutschen unsere Kultur des Verdrusses noch pflegen wollen", urteilte er im Herbst 2010.[13] Bereits zuvor hatte er auf die Interviewfrage, ob "die Mehrheit der Deutschen" heute "reif" sei für eine "Hinwendung zu den eigenen Opfern, die Hinwendung zum Patriotischen": "So sehe ich das."[14] Tatsächlich findet der Konsenskandidat, der in Kürze ins Amt des Bundespräsidenten gewählt werden wird, auch Zustimmung in Kreisen der äußersten Rechten. "Im Gegensatz zu den Worthülsen von der 'bunten Republik', mit denen Wulff die drängenden Probleme der Zuwanderung und Integration von Ausländern verharmloste, sind von Gauck nüchterne Äußerungen bekannt" [15], heißt es zum Beispiel in der Wochenzeitung Junge Freiheit: "Der überfällige Rücktritt Wulffs und die Nominierung von Gauck als neuer Bundespräsident" seien "zwei gute politische Entscheidungen".

[1] Rücktrittserklärung. Schloss Bellevue, 17. Februar 2012
[2] Gauck attestiert Sarrazin "Mut"; www.tagesspiegel.de 30.12.2010. S. auch Herrschaftsreserve
[3] Daniela Dahn: Gespalten statt versöhnt; www.sueddeutsche.de 10.06.2010
[4] Prague Declaration on European Conscience and Communism. June 3, 2008
[5] Vergangenheitsbewältigung - nein danke; WDR 5, 21.08.2011
[6] Joachim Gauck: Welche Erinnerungen braucht Europa? www.robert-bosch-stiftung.de
[7] Thorsten Hinz: Der Super-Vatikan; www.jungefreiheit.de 13.02.2009
[8] s. dazu Der Papst und die AntisemitenDie Antithese zur Moderne (I) und Die Antithese zur Moderne (II)
[9] Larsen Kempf: Holocaust-Religion? www.blauenarzisse.de 12.05.2009
[10] s. dazu Eingeschränkte Demokratie
[11] Stéphane Courtois et al.: Das Schwarzbuch des Kommunismus. Unterdrückung, Verbrechen und Terror, München 1998
[12] www.z-g-v.de
[13] "Mutige Politiker ziehe ich vor"; www.sueddeutsche.de 30.09.2010
[14] Gauck: Erinnerung an Vertreibung leugnet nicht den Nazi-Terror; www.dradio.de 31.08.2006
[15] Dieter Stein: Joachim Gauck wird ein guter Bundespräsident; www.jungefreiheit.de 19.02.2012

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DISCENDENZA II


http://www.anvgd.it/notizie/12633-21feb12-marchionne-tra-gli-esuli-a-torino.html

21feb12 - Marchionne tra gli Esuli a Torino

Sorpresa tra gli Esuli giuliano-dalmati di Torino: l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne (madre istriana) ha partecipato ad una delle celebrazioni organizzate dalla ANVGD nel capoluogo piemontese. Si trattava dell'omaggio alla Targa commemorativa distrutta lo scorso anno dai vandali e poi ripristinata. Nelle foto de La Stampa alcune istantanee del suo intervento. Al microfono è il presidente della Consulta ANVGD del Piemonte, Antonio Vatta.
In corso Cincinnato, lì dove una lapide di marmo su un muro di mattoni rossi ricorda i «350 mila istriani fiumani e dalmati» costretti ad abbandonare la «loro terra e i loro morti», Sergio Marchionne è arrivato senza preavviso. Barba bianca, maglioncino nero e qualche uomo della scorta. Un sorriso appena abbozzato, qualche stretta di mano: «Vi porto i saluti della mia mamma». 
All'invito alla cerimonia per il «Giorno del Ricordo» al Villaggio Santa Caterina di Lucento hanno risposto quasi trecento persone. Anziani fuggiti all’odio dei titini, le ultime generazioni delle famiglie dell’esodo e l’ospite dell'ultima ora. «E’ stata una sorpresa - dice Fulvio Aquilante, presidente dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia - è venuto a rendere omaggio alle radici famigliari di sua madre».
Prima di allontanarsi l'ad Fiat ha trovato il tempo per scambiare qualche parola in dialetto istriano. «La prossima auto che producete chiamala Istria...», gli ha proposto un anziano esule.

 

(fonte La Stampa)

GALLERIA FOTOGRAFICA: http://www.anvgd.it/notizie/12633-21feb12-marchionne-tra-gli-esuli-a-torino.html

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La messa Fiat nell’acquario per annullare la dignità operaia

Pomigliano: autoflagellazione e delazione

di Antonio Di Luca* *operaio a Pomigliano ed ex delegato Fiom, quindi cassintegrato


da “il Manifesto” del 21 febbraio 2012

rubrica: “insindacabile”, p.4


Sono poco più di 2000 dipendenti, e solo 1750 gli operai finora richiamati a Pomigliano. In linea con il 40% dichiarato all’esame congiunto di Roma dalla Fiat nel luglio 2011. Passaggio necessario, per rinnovare di un altro anno la cassa integrazione per cessazione di attività per i restanti 3200 operai ancora fuori dal processo produttivo.

A oggi lo stabilimento produce 800 vetture al giorno su due turni per cinque giorni alla settimana. Dalle 6 alle 14 e dalle 14 alle 22. Il turno di notte è saltato, compromettendo anche quel poco di aumento salariale portato dall'indennità notturna. Questo significa concentrare l'innalzamento della salita produttiva solo su due turni anziché tre, e aumentare lo sfruttamento intensivo psicofisico degli operai, costretti a ritmi massacranti oltre ogni limite di ragionevolezza.

La salita produttiva nei prossimi giorni porterà a produrre 420 vetture a turno, una macchina al minuto. Meno di una margherita nel forno di una pizzeria. Una follia, mentre diversi capannoni sono in disuso e oltre 3000 operai in cassa integrazione.

Ma è questo il punto: non poteva essere altrimenti. Quando si produce una sola vettura, per quanto bella ma con un bassissimo valore aggiunto, comprimere i costi per l'azienda diventa necessario. Ed è in questo quadro che i delatori diventano essenziali per annientare la dignità degli operai.


Le testimonianze che ci giungono quotidianamente hanno dell'inverosimile, spesso accompagnate da pianti. Ecco il motivo umano, prima che sindacale o legale che ci spinge a svelare questo abominio.


Da quando è partita la produzione della nuova Panda le pause saltano, senza avvisi, scuse o particolare rispetto delle relazioni minime sindacali: «La pausa dalle 18 alle 18,10 salta», è il freddo ordine del capo.

Per chi aspetta quella pausa, già scelleratamente ridimensionata da «accordi» imposti dal «manager dei due mondi», per riposarsi dalla fatica di una catena che corre all'impazzata, è il baratro. Lavorare ancora due ore in quelle condizioni: con la schiena a pezzi, le gambe pesanti, la bocca secca e dolori alle articolazioni, ti sembra di impazzire.

Ma è a fine turno che si compie l'atto drammaturgico più grave, Sheakespeare e Brecht a confronto sembrerebbero dei dilettanti: «la messa nell'acquario».

Vi ricordate la lettera scritta al Corsera del prof. Ichino su Pomigliano?: « gli uffici con le pareti di cristallo collocati in mezzo al percorso del montaggio, quasi a sottolineare il superamento di ogni distinzione tra operai e impiegati».

Bene, quelle pareti di cristallo, che gli operai chiamano acquario, sono gli uffici che alla fine di ogni turno sono adibiti alla pièce. C'è un microfono, c'è il direttore con tutti i preposti aziendali al cui cospetto sono convocati gli operai.

La riunione si apre con la dettagliata delazione dei capi e/o dei team leader sugli errori commessi durante il turno dagli inconsapevoli operai, tralasciando naturalmente errori e ritardi provocati dal processo o dal prodotto.

L'audizione è obbligatoria per gli operai e lo spettacolo viene rappresentato nella pausa mensa. Quindi senza mangiare, dopo che quei poveracci hanno trascorso 10-11 ore lontano da casa, e dopo un turno massacrante di lavoro. Per espiare i propri peccati, il povero operaio messo in mezzo dalle gerarchie di fabbrica è costretto, al microfono, a scusarsi dinanzi a tutti magari di errori che neanche ricorda, vista la densità delle operazioni cui è stato sottoposto. Deve fornire convincenti prove del suo pentimento, nella speranza che la sua esibizione sia accolta con benevolenza dai capi e dal direttore e che scongiuri l'inevitabile contestazione e la multa.

Provvedimenti che scatteranno comunque in automatico dopo tre «messe», fino a provocare il licenziamento del malcapitato dopo alcune contestazioni disciplinari.

Molti obietteranno che è normale in una grande azienda effettuare un brainstorming, o un semplice feedback della giornata; senza scomodare Marx, credo sia inconcepibile imporlo in queste forme a operai già provati da una giornata alla catena per poche decine di euro al giorno e in un quadro di delazioni tipiche solo in un «universo concentrazionario», dove l'unico obiettivo è l'annullamento della persona umana, prima ancora che dell'operaio.


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Da: "Coord. Naz. per la Jugoslavia" 
Data: 13 gennaio 2011 23.56.06 GMT+01.00
Oggetto: [JUGOINFO] Visnjica broj 855



DISCENDENZA

<< Il padre Concezio fu un maresciallo dei Carabinieri d'origine abruzzese trasferitosi in Istria negli anni trenta, dove risiedette e prestò servizio fino al termine della II guerra mondiale quando venne occupata dalla Jugoslavia. Ivi conobbe la madre, Maria Zuccon, istriana del luogo. Negli anni della guerra la famiglia materna fu colpita da due tragici lutti: nel settembre del 1943 il nonno di Sergio, Giacomo Zuccon, fu sequestrato e infoibato da partigiani titini (i suoi resti verranno in seguito recuperati, assieme ad altri, nella foiba di Terli dai Vigili del Fuoco e riconosciuti dall'altra figlia Anna). Alcune settimane dopo, anche lo zio Giuseppe, fratello della madre, messosi alla ricerca del padre di cui non si avevano più notizie, cadde in un rastrellamento dei militari tedeschi che, scambiandolo per un partigiano o disertore, lo passarono per le armi.
A seguito di questi fatti e della seguente occupazione dell'intera regione da parte delle milizie iugoslave, i genitori di Sergio decisero di rifugiarsi presso i familiari del futuro marito a Chieti, dove subito dopo si sposano e dove nascerà nel 1952, Sergio. Quando Sergio aveva 14 anni, la famiglia Marchionne si sposta ancora, emigrando in OntarioCanada, dove si era già stabilita, esule dall'Istria, Anna Zuccon, zia materna di Sergio. >>


(credits: Serena M.)

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SEGNALIAMO DUE IMPORTANTI REPORTAGE DELLA RAI: L'UNO RECENTISSIMO, L'ALTRO DELLO SCORSO AUTUNNO.
ESSI DESCRIVONO LA COLONIZZAZIONE DEL CAPITALISMO ITALIANO A VALJEVO - ZRENJANIN - KRAGUJEVAC ...
E CHIARISCONO LO SCOPO DEI BOMBARDAMENTI DI MASSIMO D'ALEMA SULLA SERBIA.

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Recessione. Che fine faranno le operaie della Omsa?

Era veramente necessario spostare gli stabilimenti in Serbia? E i lavoratori dell’ azienda farmaceutica Sigma Tau che stanno lottando per salvare il posto di lavoro ci riusciranno? Alcuni imprenditori sono schiacciati tra lo Stato che non onora in tempo i debiti e le banche che non prestano soldi. Stiamo andando dritti verso la deindustrializzazione? Cosa si potrebbe fare? Esistono ancora soluzioni possibili? Il ministero dello sviluppo ha messo in atto un vero e proprio pronto soccorso per risolvere le questioni più spinose e noi stiamo seguendo le trattative tra le imprese, i sindacati e i lavoratori con la mediazione dei tecnici del ministero.
“Presadiretta” entra nel cuore di due vicende molto calde (la Omsa e la Sigma Tau) il cui epilogo si chiarirà proprio in questi giorni.
Nella puntata “Recessione” ci sarà anche una vicenda finita bene: quella dello stabilimento della Saint Gobain a Pisa, che è stato recuperato e salvato… Come ha fatto la dirigenza italiana a convincere la grande multinazionale francese a investire e a credere ancora alla possibilità di produrre nel nostro paese?

“Recessione” è un racconto di Francesca Barzini,Vincenzo Guerrizio, Raffaella Pusceddu e Rebeca Samonà.

RaiTre - Presa Diretta - puntata di domenica 19 febbraio 2012 ore 21.30

SI VEDANO IN PARTICOLARE LE RIPRESE DALLA SERBIA - dal minuto 01:15:40 al minuto 01:26:05

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Figli della Fiat

Nel 2011 inizia il piano di allargamento all'Est Europa della FIAT, guidata da Sergio Marchionne: dopo anni di trattative, i vertici aziendali italiani decidono di "azzerare" il comparto auto della storica Zastava di Kragujevac in Serbia, la "Torino dei Balcani", duramente provata dai bombardamenti NATO del 1999, assumere solo alcuni operai in una "nuova azienda", una NewCo sul modello di Pomigliano, sostenuti da soldi pubblici dello stato serbo, molti altri invece vanno a cassa integrazione.

di Danilo Licciardello, Simone Ciani e Bruno Federico. Traduzioni a cura di Carlotta Caldonazzo 

RaiNews24 - 27 ottobre 2011

VIDEO: http://www.rainews24.rai.it/it/canale-tv.php?id=24899

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(srpskohrvatski / english)

GERMAN COLONIAL GOUVERNEUR TEACHES N.A.T.O. LANGUAGE TO SERBS


[Nel corso di una conferenza sulla annessione della Serbia alla NATO, tenuta a Belgrado alla fine dello scorso ottobre, il governatore coloniale tedesco, Wolfram Maas, ha esortato la popolazione serba a parlare la lingua della NATO. Per esempio, d'ora in poi i bombardamenti della NATO non dovrebbero più essere definiti "bombardamenti della NATO" perché i bambini potrebbero farsi delle idee sulla stessa NATO ed il suo ruolo passato e presente. Questo non è consentito in un paese-colonia quale è oggi la Serbia, tantomeno in previsione della sua formale annessione alla NATO. (IS)]



13 years since the start of the NATO aggression against Serbia (FRY)(SRY)!!!

Germany's ambassador to Serbia, Wolfram Maas:

Serbs must explain to their children that 78 days of the NATO bombardment in 1999 was justified, so that they would not hate the Atlantic Alliance. ...

At a press conference in Belgrade regarding NATO, Germany's ambassador to Serbia, Wolfram Maas, said Serbs must explain to their children that the bombardment [78 days in 1999] was justified, so that they won't hate the Atlantic Alliance. "I must criticize government figures in Belgrade who continue to use expressions like 'NATO bombing'. "

Imagine you are walking down Knez Milosh street and your child asks you 'Daddy, who did this?' You answer him 'NATO'. And what do you expect that child to think about NATO? "

"That's not," Maas explained, "like when I was a boy in Germany and looked at the ruins in my city. I did not hate the one who had done that, because there were people who could tell me why he did that."

Besides, he insisted, "this country is much different than three years ago, when hooligans attacked my embassy.

"For me It was heart-warming to see the Democratic Party, the Serbian National Party, the Socialist Party of Serbia, G17 and Liberal Democratic Party assembled with Guido Westerwelle and declare in solidarity that integration in the EU is priority Number One."

"That," declared Ambassador Maas, " is fantastic progress in comparison to three years ago." He stressed that the questions of the EU and NATO are connected.

"In the case of Serbia, it is logical that she should first become a member of the EU, then in stages become a NATO member. And it is logical, after a given period of time, that an EU member should become a member of NATO. Serbia's NATO membership is not a question of 'if', but 'when'," according to the ambassador.

Maas attended a conference "Serbia, the Western Balkans and NATO -- by 2020," convening leading pro-NATO forces in Serbia, as well as the ambassadors of the US, Germany and the head of the EU delegation to Serbia, Vincent Degert. (October 28th, 2011.)



http://www.beoforum.rs/forum-prenosi-beogradski-forum-za-svet-ravnopravnih/303-volfram-mas-wolfram-maas-uoci-13-e-godisnjice-pocetka-agresije-nato-protiv-srbije.html

Уочи 13-е годишњице почетка агресије НАТО против Србије (СРЈ)!!!

Немаčки амбасадор у Србији Волфрам Мас:

Срби морају својој деци да објасне да је бомбардовање НАТО 1999. било исправно

 

Немачки амбасадор у Србији Волфрам Мас изјавио је на конференцији о НАТО у Београду да Срби морају својој деци да објасне да је бомбардовање било исправно, како она у будућности не би мрзела Атлантску алијансу.

“Морам да критикујем власти у Србији што и саме још увек користе термине попут “НАТО бомбардовања”. Замислите да шетате улицом Кнеза Милоша и да вас ваше дете упита: “Тата, ко је ово урадио?”. Ви ћете му одговорити: “НАТО”. И шта онда очекујете од тог детета да мисли о НАТО? За разлику од тога, ја сам као младић у Немачкој гледао рушевине у мом граду, али ја нисам мрзео оног ко је ту учинио јер је било оних који су могли да ми кажу засшо је то учинио”, изјавио је Мас.

Он је истакао да је, и поред тога, “ова земља много другачија него пре три године, када су хулигани напали моју амбасаду”.

“Било ми је топло око срца када сам видео ДССНССПСГ17 и ЛДП на састанку са Гвидом Вестервелеом како сложно изјављују да им је интеграција у Европску унију приоритет број један. То је фантастичан напредак у односу на пре три године”, истакао је Мас.

Он је инсистирао на томе да су питања ЕУ и НАТО повезана.

“У случају Србије, логично је да прво постане чланица ЕУ, па тек онда на средње и дуже стазе постане чланица НАТО. Логично је да једна чланица ЕУ после одређеног времена постане чланица НАТО. Питање чланства Србије у НАТО није “да ли” него “када”, оценио је немачки амбасадор.

Мас је учествовао на конференцији “Србија, Западни Балкан и НАТО – ка 2020. години” која је окупила водеће про-НАТО снаге у Србији, амбасадоре САД и Немачке и шефа делегације ЕУ у Србији Венсана Дежера. (28. октобар 2011.)


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Da Gene Sharp ad Avaaz, come si aggrediscono i paesi sovrani

1) Come si abbattono i regimi - di Giulietto Chiesa
2) Sostenere il governo USA senza saperlo: il grave esempio di “Avaaz” - dal sito sinistra.ch


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http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/7755-come-si-abbattono-i-regimi.html



Scritto da Giulietto ChiesaSabato 18 Febbraio 2012


Raramente scrivo recensioni. In genere, quando non sono costretto a farlo da ragioni di convenienza, o per soddisfare le pretese di autori molto insistenti, scrivo di libri che mi piacciono, o che intendo proporre ad altri lettori perchè li ritengo utili, o perchè offrono angoli visuali originali. 
In questo caso il libro in questione non mi è piaciuto per niente. Anzi l’ho trovato irritante. Il suo autore è sostanzialmente un poveraccio (intellettualmente parlando s’intende), che esce come un pulcino inzuppato di ideologia – intesa come falsa coscienza – dalla lavatrice del pensiero unico. Un esegeta, dunque, della Matrix in cui ha vissuto, del tutto incapace di vedere i suoi confini. Una specie di protagonista da “Truman show”, ma privato di ogni possibilità di redenzione.

Perchè ne scrivo, dunque? Perchè – come avrebbe detto Leonardo Sciascia – il contesto che rappresenta è straordinariamente interessante, ricco di informazioni su come si pensa, cosa si pensa, come si agisce nei centri della sovversione, quei posti dove vengono elaborate le vere strategie e tattiche rivoluzionarie dei tempi moderni. Tempi in cui, per essere precisi, le rivoluzioni le fa il Potere, non i rivoluzionari d’un tempo, non i mitici anarchici, non i popoli, non i partiti, non i soviet, o comunque si siano chiamati in passato, fino al secolo XX incluso.

E qui è subito opportuna una serie di notazioni non a margine. Forse utile per quei lettori che ancora pensano, appunto, con le categorie dei tempi andati; di quelli che, non essendosi aggiornati, non avendo fatto alcuno sforzo per capire quali cambiamenti sono intervenuti nei rapporti di forza, nelle dinamiche economiche e sociali, nei sistemi di informazione e comunicazione, nelle tecnologie della manipolazione, continuano ad applicare le teorie rivoluzionarie dell’epoca delle lotte di classe così come fu descritta, e creata, a partire dalla rivoluzione francese. 
Ma queste note a margine, che sono la ragione vera per cui scrivo queste righe, potrebbero forse servire anche per coloro che rivoluzionari non sono, e non intendono essere, ma che semplicemente non hanno mai provato a cimentarsi intellettualmente con il problema del Potere. E, essendo totalmente impreparati a farlo, non sono capaci di capire come il Potere agisce per mantenere se stesso. Con quale ferocia, un Potere – ferocia tanto più grande quanto più grande è questo potere – usa gli strumenti dei quali dispone. Il Potere non è mai “dilettante”. E’ un mestiere. E agisce sempre per la vita o per la morte.

Ora gl’intellettuali sono spesso inclini a ragionare proiettando sugli altri la loro visione del mondo. Quando lo fanno sulle persone prive di potere commettono sempre dei guai, ma talvolta questi guai sono di secondaria importanza, perchè  le persone normali non hanno potere. Ma quando questa proiezione si esercita nei confronti del Potere, essa può divenire esiziale, sia per chi la fa (cioè per gl’intellettuali stessi), sia per chi ci crede, cioè per i lettori dei loro libri, dei loro scritti, dei loro articoli, delle loro conferenze.

Se dunque tu cercherai di descrivere una lotta politica del Potere contro i suoi antagonisti come se fosse una partita di scopone, probabilmente finirai male (soprattutto se sei dalla parte degli oppositori al Potere). Il quale non gioca a carte, se si sente in pericolo: liquida, squalifica, esclude, se necessario uccide. Questo dettaglio sfugge alla gran parte degl’intellettuali e a quasi tutti i giornalisti. Quelli, tra questi ultimi, cui non sfugge, di regola si mettono dalla parte del Potere e così smettono di giocare a carte anche loro. Gli altri, i maggiormente stupidi, continuano a giocare a carte, essendo spesso utili a impedire a tutti gli altri di capire cosa fa il Potere. Questo spiega perfettamente perchè il libro di Gene Sharp è stato scritto: per loro.

Ovvio che con quelle categorie interpretative autoreferenti, non solo non si può vincere niente, ma non è più nemmeno possibile capire chi attacca e chi si difende, dov’è il campo di battaglia, chi sono i contendenti. Quando si discute con questi orfani della ragion politica non è difficile rendersi conto, per esempio, che questo vacuum quasi assoluto di analisi porta spesso costoro a pensare di essere all’offensiva su inesistenti tenzoni, mentre stanno subendo sconfitte clamorose nei campi reali dove la battaglia è in corso, ma dove loro non ci sono. Appunto perché sono altrove. I mulini a vento sono ciò che vedono questi Don Chisciotte modernissimi. La differenza tra loro e il loro prototipo consiste in un solo, enorme dettaglio. Quello della Mancia sognava per conto proprio. Questi sono stati ipnotizzati dal Potere, e vengono condotti per mano dove questo vuole.

Il libro è, in sostanza, la descrizione di come l’Impero, morente, diventa sovversivo per difendersi. E’ un manuale della “rivoluzione regressiva”: l’unica rivoluzione esistente, che segnerà gli ultimi decenni che precedono il crash finale di questo sistema. Il quale, non avendo più futuro, è costretto a pensare a ritroso. E lo fa utilizzando l’ultimo strumento che ha a disposizione: le tecnologie. E’ per questo che riesce ad apparire moderno agli occhi di milioni di giovani, che – immersi come sono nella Grande Piscina dei Sogni e delle Menzogne  – non riescono a guardare “fuori” e a vedere la complessità della manipolazione cui sono soggetti.

 

L’autore si chiama Gene Sharp e non è un ragazzino, visto che è classe 1928. Come abbia vissuto fino ai giorni nostri è faccenda non misteriosa. Basta guardare su Wikipedia la sua modesta carriera di sovversivo.

In questa specialità emerge al termine di una lunga vita nell’ombra, pubblicando un libro il cui titolo originale – “From Dictatorship to Democracy” – richiama subito alla memoria Francis Fukuyama, quello della “fine della storia”. L’editore italiano è Chiarelettere, per altri aspetti benemerito, ma in questo caso completamente abbacinato anch’esso dall’ideologia imperiale.

I confini di Matrix, come sappiamo, sono vasti e appiccicosi. Nell’ultima di copertina l’editore italiano ci informa che Sharp “è ritenuto tra i principali ispiratori delle rivoluzioni che stanno sconvolgendo il mondo arabo”. Definizione riduttiva. In realtà Gene Sharp (diciamo la sua scuola di pensiero, sebbene chiamarla in questo modo faccia correre qualche brivido nella schiena) è l’ispiratore di tutte le esportazioni della democrazia americano-occidentale dell’ultimo trentennio. Di quelle innescate e vinte, come di quelle tentate e perse. E’ bene ricordarlo, perchè nonostante il Potere sia l’unico rivoluzionario esistente, non è detto che le rivoluzioni che tenta le vinca tutte. Qualche volta le perde. Comunque Sharp è  il profeta, appunto, delle “rivoluzioni regressive”. Per questo merita tutta l’attenzione da parte nostra, di noi che siamo le sue vittime, i suoi bersagli.

Lui, di sè, dice: “Ero a Tien an men quando i carri armati ci sono venuti addosso” (La Repubblica, 17 febbraio 2011). Capito dove stava? Forse era lui quel giovanotto che fermò la colonna dei carri armati sotto l’Hotel Pechino. A quanto pare fu dappertutto. C’era lui dovunque sorgessero le rivoluzioni , come i funghi, specie dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sicuramente Gene Sharp era anche quel rude picconatore che sgretolava a martellate il famoso Muro di Berlino. E’ stata la sua tavolozza a fornire i colori delle varie rivoluzioni del ventennio passato, da Belgrado a Tirana, a Pristina a Kiev, a Tbilisi. Quando Gene Sharp non era presente di persona, sembra di capire che “ispirava” da lontano.

Il libro risulta tradotto in quasi trenta lingue, sicuramente in arabo, in russo e in cinese. E si capisce il perché, leggendolo. Perché le centrali sovversive guardano già a Mosca e  San Pietroburgo, a Pechino e Shanghai. Si capisce anche che contenga qualche contraddizione, come accade a tutti i bestsellers. La tesi centrale  del libro è che ogni dittatura può essere abbattuta, “purchè la ribellione nasca dall’interno”. Ovvero: purchè sembri che essa nasca dall’interno.

Viene in mente subito la Libia. E, ai giorni nostri, la Siria, o anche la Russia.

Infatti Gene Sharp spiega subito che, per nascere dall’interno, se non ci arriva da sola, la ribellione, deve “essere ispirata” da qualcuno. Ecco: il libro di Sharp è un manuale per formare gli “ispiratori”. Per questo – ma Sharp non lo dice – è sufficiente avere molti soldi, a decine e centinaia di milioni. Infatti, queste ribellioni avvengono di regola – così è stato fino ad ora – nei luoghi dove i redditi sono bassi, più bassi, e dove il denaro è l’arma principale per “ispirare”. Senza questo “differenziale” di ricchezza, non c’è ispirazione che tenga. E il primo suggerimento da dare agl’ingenui che non conoscono il Potere è proprio quello di chiedersi: come mai gl’«ispirati» che Gene Sharp cerca sono tutti nei paesi che soffrono di quel differenziale?

Non sarà che, ad essere «ispirati», sono gl’intellettuali dei paesi più poveri? Con i proventi di quel differenziale  si possono finanziare centinaia e migliaia di borse di studio, di grants per professori universitari, che accorreranno nelle università britanniche, americane, francesi, tedesche, nei think-tank occidentali, dove verranno educati in piena libertà ad amare solo i valori occidentali, e dove vedranno aprirsi autostrade per le loro carriere future. In patria dopo la vittoria, all’estero in caso di sconfitta. E’ così che si delinea il provvidenziale aiuto dall’esterno. C’è, per questo, e opera da decenni, una possente rete di istituzioni specificamente ad esso destinate, costruite, finanziate. Da “Giornalisti senza frontiere”, solo per fare qualche esempio, ai vari Carnegie Endowment for International Peace, agli Avaaz che raccolgono firme a tutto spiano, e che a volte sembrano davvero delle centrali missionarie, moralizzatrici, libertarie, ecologiche, verdi, comunque molto colorate. Ci sono, per questa bisogna, radio come Free EuropeRadio LibertyDeutsche Welle e via elencando. Ci sono televisioni satellitari, una marea di siti web, che sono impinguate di piccoli eserciti di “ispiratori” dall’esterno, che trasmettono incessantemente, foraggiano, spingono, descrivono le lotte per i diritti umani, per la democrazia; che fissano le scadenze delle rivoluzioni, delle “primavere”, degli aneliti alla libertà d’impresa, al mercato.

Se, per esempio – com’è accaduto recentemente – il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve votare una risoluzione di condanna del governo siriano che troverà il veto di Russia e Cina, ecco che l’”ispirazione” giungerà puntuale a muovere tutti i media occidentali perchè annuncino stragi in diverse città siriane. Mancheranno fonti attendibili e conferme, ma basterà per questo pubblicare i dati forniti da Avaaz, non si sa come raccolti, oppure quelli di Al Jazeera e di Al Arabiya, la cui attendibilità è ormai pari a quella della CNN, cioè uguale a zero. Non insisterei su tutti questi noiosi dettagli se non avessi assistito di persona alle modalità con cui sono state finanziate e organizzate le rivoluzioni colorate in Jugoslavia, in Ucraina, in Georgia, in Cecoslovacchia, e prima ancora con il meraviglioso prototipo di Solidarność in Polonia, che ebbe come “ispiratore” principale, sotto il profilo ideologico e finanziario, niente meno che il Vaticano del – per questo – beatificato Karol Wojtyła.

Operazioni che, nel centro d’Europa, continuano tutt’ora attorno all’”ultima dittatura”, quella di Aleksandr Lukašenko in Bielorussia, accerchiata dalle radio e dalle televisioni che, pagate dall’Unione Europea, trasmettono dai territori appena conquistati del Prebaltico e della Polonia.

Naturalmente – sarà opportuno ricordarlo per prevenire le geremiadi di coloro che mi accuseranno di sostenere i dittatori  più o meno sanguinari – in molti di questi casi le repressioni sono esistite ed esistono. Naturalmente la corruzione e la palese assenza di democrazia di alcuni di quei regimi esistono e sono esistite. Naturalmente esistono e sono esistite forme di resistenza dei diritti umani che meritano tutta la nostra solidarietà. Esse esistono, combattono in condizioni impari contro un Potere che è più forte di loro. Ed è appunto su di esse che si esercita l’”ispirazione” di cui scrive Gene Sharp. Ed essa può fare conto sulla potenza sterminata del denaro, quando è sterminato; ma anche sull’ingenuità dei destinatari. I quali, costretti come sono sulla difensiva, sono straordinariamente penetrabili alle forme più sottili, più innocenti, più “giustificabili”, di corruzione. E’  appunto maneggiando questa trappola che agiscono gl’”ispiratori” come Gene Sharp e i finanziatori che sono appollaiati sulle sue spalle.


Dunque la prima cosa che occorre fare, per capire cosa è successo e succede in tutti i paesi che si trovano dalla parte bassa del differenziale di ricchezza, è osservare l’evoluzione che si verifica proprio nei movimenti di ribellione: cioè come essi sono prima della cura cui vengono sen’altro sottoposti dagl’”ispiratori”, e poi dopo. Questa analisi rivelerebbe curiose somiglianze tra la trasformazione che fu subita, per esempio, da movimenti come “Otpor”, a Belgrado e nella ex Jugoslavia, e la  rinomata e ormai defunta “Rivoluzione Aarancione” in Ucraina. Si parte da qualche vecchio ciclostile, e si arriva con un contratto di insegnamento magari a Harvard. Resistere è difficile, per non dire impossibile. All’inizio sono “ispirazioni”, poi diventano ordini, ai quali è impossibile resistere. E più il differenziale è alto, più è facile trovare decine, poi centinaia, poi migliaia di sinceri, sincerissimi “ispirati”.

Hic Rhodus, hic salta. E’ qui che bisogna avere il coraggio e la forza di distinguere i diritti sacrosanti che vengono violati, dai profittatori politici esterni (o anche interni) che li utilizzano per fini di conquista. C’è un criterio abbastanza semplice per distinguere. Basta conoscere chi finanzia. Se, per esempio, ci sono buone ragioni per pensare che sia l’Arabia Saudita a comprare armi e a assoldare eserciti, ecco che si può stare certi che, appoggiando una data rivolta, non si lavora al servizio della democrazia e dei diritti, bensì si sostiene la barbarie e l’oppressione.

Ti mostreranno il contrario, naturalmente. E’ il loro mestiere. Lavorano per questo, ben pagati, 24 ore al giorno, tutti i giorni. Esempi preclari di questa circostanza sono l’UCK del Kosovo  e la rivolta siriana. Nel primo caso fu un intero esercito a essere organizzato, finanziato, istruito, appoggiato da  fiumi di denaro provenienti da Riyād, da Washington, da Berlino, dalla Nato. E non è un caso se il governo di Pristina che ne è emerso è un covo di criminali, le cui mani insanguinate vengono strette ora con calore a Bruxelles, in pieno ludibrio di ogni diritto umano e di ogni principio europeo di libertà e di rispetto dei diritti umani.


L’altro esempio è ora sotto i nostri occhi in Siria, dove l’evidenza mostra un intreccio complesso ma trasparente di aiuti esterni, ai ribelli provenienti da Israele, dalla Turchia, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti d’America. Non sono singole unità, sono centinaia, e poi migliaia di stipendi, di prebende, di consiglieri, di esperti. E poi, quando non bastassero i consigli e si dovesse fare ricorso alla forza, è la volta degli eserciti mercenari. E, quando essi vanno al potere e vincono, segue una lunga scia di sangue, di violenze, di vendette, di illegalità e di soprusi.  E, dunque, si può essere certi che, in caso di caduta del regime di Bashar el-Assad, quello che verrà dopo non sarà certamente il trionfo della libertà e dei diritti umani. Si veda il caso, di nuovo, della Libia appena liberata dal “sanguinario” dittatore Gheddafi e in preda amasnade criminali che erano già tali prima che il conflitto cominciasse e che ora sono divenute padrone.

Insomma basta applicare l’antica regola del cui prodest. Che non è criterio certo al 100%, ma che funziona, in politica, quasi sempre. Ovviamente usando norme di cautela elementari, come quella di stare sempre attenti che gli organizzatori delle provocazioni le costruiscono sempre utilizzando alla rovescia proprio il principio del cui prodest. Così, quando vi capiterà di trovarvi di fronte a un attentato terroristico qualunque, basterà che analizziate bene – per disinnescarlo - il cui prodest che vi viene offerto su un piatto d’argento. Per esempio quando qualcuno assassinasse  Vittorio Arrigoni, e voi sentiste da tutti i mass media, all’unisono, la rivendicazione di un non meglio identificato “gruppo salafita”, con tanto di sito internet e musichetta rivoluzionaria araba, dovreste immediatamente pensare che gl’ispiratori sono stati – faccio un esempio a caso -  i servizi segreti israeliani.

L’edizione italiana di Gene Sharp mette in caratteri minori il titolo inglese e offre una nuova titolazione: “Come abbattere un regime”, e come sottotitolo offre un condensato ideologico da cento tonnellate di peso: “Manuale di liberazione non violenta”. Come non applaudire? Qui, sommersi nella melassa libertaria, si possono intravvedere diversi contenuti complementari. Il primo è chiarissimo: noi siamo la democrazia, la libertà e la verità. Dunque abbiamo il diritto, se non addirittura il dovere, si insufflarla sugli altri. Meglio se negli altri. Chiunque si opponga al trionfo dei nostri ideali è parte del “Male”.

I dittatori sono tutti brutti e cattivi, e sono tutti gli altri: quelli che contrastano il Bene. Chi non li combatte con sufficiente convinzione è un alleato del Male.

Perchè esistano i dittatori, da dove vengano, come si siano formati, se abbiano qualche legittimità, se siano stati un prodotto della storia, chi li ha portati al potere, se siano stati nostri amici e alleati, se siano capi di stato o di governo riconosciuti dalle Nazioni Unite, se abbiano quindi diritti riconosciuti dalla comunità internazionale, se abbiano ragioni da rivendicare, di carattere storico o di emergenza, tutte queste sono questioni che non meritano di essere neppure prese in considerazione. Essi infatti sono “oppressori di popoli”. I quali popoli, ipso facto, vengono sussunti all’interno del nostro sistema di valori. Essi, cioè, hanno i nostri desideri, i nostri impulsi, i nostri bisogni, le nostre aspirazioni. La storia, le diverse storie dei popoli vengono, come per incanto, cancellate. E, come passo successivo immediato, occorre immaginare per loro conto quale dovrà essere la forma di governo che essi devono avere.

Il secondo contenuto implicito è questo: loro, i dittatori, sono violenti; noi, i democratici, dobbiamo essere non violenti. Purchè, naturalmente, il dittatore non riesca a mantenere soggetto il suo popolo. Nel caso ci riesca, poichè noi abbiamo deciso che può farlo solo grazie alla violenza, allora saremo autorizzati a esercitare a nostra volta la violenza. O, per meglio dire, saremo autorizzati a “ispirare” l’uso della violenza da parte degli oppressi contro il “dittatore” che, nel frattempo avremo già definito “sanguinario”, autore di “massacri indiscriminati”. E, giovandoci del differenziale a nostro favore, incluso quello mediatico, saremo riusciti a far diventare dominante la nostra narrazione degli eventi in tutto il mondo esterno.

Dunque, se vi sarà violenza, questa sarà interamente da attribuire alla “sacrosanta” reazione popolare alla “repressione” del dittatore. S’intende che questa “sacrosanta” reazione popolare sarà armata e organizzata mediante il differenziale di armi, munizioni, organizzazione, informazione, tecnologia. Ma saranno comunque i pacifici manifestanti per la libertà a usare le armi contro il sanguinario dittatore e i suoi scherani. E i morti saranno tutti, indistintamente pacifici cittadini, la popolazione civile innocente. Va da sé, inutile ricordarlo, che effettivamente la popolazione civile morirà in grande quantità. L’essenziale è che i racconti e i filmati assegnino la responsabilità degli eccidi esclusivamente al dittatore sanguinario e ai suoi scherani. Che magari sono effettivamente scherani e sanguinari, ma che avranno la malasorte di essere considerati gli unici criminali che agiscono sul terreno.

Sarà utile non dimenticare che, mentre noi - che stiamo sulla parte alta del differenziale, e che leggiamo le cronache dalle nostre alture - applaudiremo alla rivolta pacifica dei popoli oppressi presi di mira dai dittatori efferati che abbiamo preso di mira, altri dittatori, proprio lì a fianco, insieme ai loro scherani sanguinari, saranno lasciati in piena tranquillità a opprimere i rispettivi popoli, godendo, nel fare ciò, del nostro più cordiale appoggio e sostegno. Questo dettaglio – lo ricordo di passaggio – viene sempre dimenticato dagl’intellettuali amanti dei diritti umani che ci stanno intorno e a fianco. E, se glielo fai ricordare, si irritano accusandoti di cambiare discorso. Infatti uscire dalla narrazione del mainstream significa, per loro “cambiare discorso”. E, a pensarci bene, per chi conosce solo la narrazione del mainstream, uscirne anche solo per un attimo significa cambiare discorso.

Ma procediamo oltre. A questo punto il paese astratto che stiamo considerando si trova già in piena guerra civile. Il movimento di protesta ha già ricevuto le necessarie istruzioni per l’uso per colpire i “talloni d’Achille” di quel determinato regime. Perchè Gene Sharp sa perfettamente che ogni regime ha i suoi talloni d’Achille che, se bene individuati e colpiti, potranno farlo crollare di schianto.  Da qualche parte, possibilmente in un paese confinante, si trova già un’avanguardia bene organizzata, bene collegata con l’interno, bene integrata con il sistema informativo occidentale, capace di usare al meglio i social networks (tutti sotto il controllo e la guida dei centri di analisi occidentali). Non sarà mica stato casuale se,all’inizio del 2011, poco dopo l’avvio della cosiddetta “primavera araba”, Obama e Hillary Clinton convocarono proprio i chief executive officers dei principali social network, di Google, Facebook, Yahoo and companies?  Per la verità quest’ultima è una evoluzione tecnologica che Gene Sharp non include nel suo manuale. Il libro è stato scritto prima che essa diventasse utilizzabile su larga scala e, sotto questo profilo, appare datato.

Ma il manuale di Sharp ha un pregio indubbio, quello di aiutarci a capire bene i meccanismi tradizionali, quelli che sono stati usati negli ultimi decenni e che – si può essere certi - non usciranno di moda. Adesso in Siria, superata la fase dell’innesco della guerra civile, non c’è più nemmeno bisogno di fingere che, a combattere, siano solo i pacifici dimostranti armati oppositori del regime di Bashar el-Assad. Ora si dice apertamente che centinaia di agenti americani, sotto la guida diDavid Petraeus, attuale direttore della Cia, sono impegnati a reclutare, in Iraq, miliziani delle tribù di confine perchè vadano a combattere in Siria. La stessa cosa avviene attraverso la frontiera turca, dove agiscono i contingenti militari provenienti da Bengasi di Libia, comandati dai leader fondamentalisti islamici che, con l’aiuto della Nato, hanno abbattuto il regime libico. E, dalla frontiera libanese, agiscono le bande del deputato di Beirut Jamal Jarrah, reclutatore di mercenari per conto dell’Arabia Saudita, uomo che fa da cerniera tra il pincipe Bandar, da un lato, e dall’altro – attraverso il nipote Ali Jarah – i servizi segreti israeliani.

Come dire: da un lato i dollari a camionate, dall’altro i migliori consiglieri militari e i più evoluti sistemi di  intelligence di tutto il Medio Oriente. Si aggiungano le bande di commandos che già da mesi operano dentro i confini siriani, con l’obiettivo specifico di uccidere Bashar e i suoi più stretti collaboratori, di collocare bombe, di far saltare gli oleodotti.

Sarebbe evidente, il tutto, se i pubblici occidentali lo sapessero. Ma non lo sanno, perchè la cronaca è scritta all’incontrario. E i “diritti umani” della popolazione siriana sono giù stati avvolti nello stesso sudario in cui è imbavagliata ogni verità. Ma gl’intellettuali occidentali, insieme ai giornalisti, e assieme a una certa dose omeopatica di pacifisti, credono di sapere. L’esistenza del sudario non riescono nemmeno a immaginarla. Sentenziano con l’aria di farci sapere che “a loro non la si fa”. Pensano di essere più intelligenti – avendo letto qualche romanzo giallo, o perfino avendolo scritto – dei professionisti che lavorano a tempo pieno per conto di un Potere che non sta giocando a carte.

Così, m’è venuto in mente, usando un altro gioco, di provare una mossa del cavallo. Cioè di andare a vedere, in retrospettiva, cosa avvenne, una ventina d’anni fa, in Lituania. Anche lassù, molto lontano dal Medio Oriente, ci fu un inizio di guerra civile, quando l’Unione Sovietica stava per crollare. I lituani volevano l’indipendenza, e avevano diritto di chiederla. C’era un genuino movimento popolare che si batteva per questo. Fu sufficiente un inizio. Poi tutto si concluse con la sconfitta dell’Impero del Male. Ci furono una ventina di morti a Vilnius, quando le truppe russe e il KGB occuparono la torre della televisione. L’accusa cadde su Gorbaciov, sui russi, i cattivi di turno, che furono accusati di avere sparato a sangue freddo sulla folla.

Quell’episodio è diventato il momento fondante della Repubblica indipendente di Lituania, ora uno dei 27 paesi dell’Unione Europea. Ma adesso sappiamo che tutta quella storia fu scritta da altre mani, ben diverse da quelle del “popolo lituano”.

Lo racconta ora Audrius Butkevičius, che divenne poi ministro della difesa della repubblica, e che, quel 15 gennaio 1991, organizzò la sparatoria.

Fu una operazione da servizi segreti, predisposta, a sangue freddo, con l’obiettivo di sollevare la popolazione contro gli occupanti.

Chiedo al lettore di sopportare la lunga citazione dell’intervista che venne pubblicata nel maggio-giugno 2000 dalla rivista “Obzor” e che è stata recentemente ripubblicata sul giornale lituano “Pensioner”. Sarà una fatica non inutile, perchè coronata da una preziosa scoperta, che ci aiuterà a capire diverse cose del libro di cui stiamo parlando.

«Non posso giustificare il mio operato di fronte ai familiari delle vittime – dice Butkevičius, che allora aveva 31 anni – madavanti alla storia io posso. Perchè quei morti inflissero un doppio colpo violento contro due cruciali bastioni del potere sovietico, l’esercito e il KGB. Fu così che li screditammo. Lo dico chiaramente: sì, sono stato io a progettare tutto ciò che avvenne. Avevo lavorato a lungo all’Istituto Einstein, insieme al professor Gene Sharp, che allora si occupava di quella che veniva definita la difesa civile. In altri termini si occupava di guerra psicologica. Sì, io progettai il modo con cui porre in situazione difficile l’esercito russo, in una situazione così scomoda da costringere ogni ufficiale russo a vergognarsi. Fu guerra psicologica. In quel conflitto noi non avremmo potuto vincere con l’uso della forza. Questo lo avevamo molto chiaro. Per questo io feci in modo di trasferire la battaglia su un altro piano, quello del confronto psicologico. E vinsi». 

Spararono dai tetti vicini, con fucili da caccia, sulla folla inerme. Come hanno fatto in Libia, come hanno fatto in Egitto, come stanno facendo in Siria.

Adesso avete capito. Gene Sharp era là, in spirito. Fu lui che insegnò a Butkevičius come vincere, “trasferendo la lotta sul piano psicologico”. Peccato che, lungo la strada, morirono 22 persone innocenti. Ma, “di fronte alla storia”, cosa pretenderanno i nostri difensori dei diritti umani?

Il libro di Sharp va dunque letto sotto un’altra luce. Ed è, sotto questa luce, un’opera geniale. E’ stato scritto proprio per le giovani generazioni, che sono ormai totalmente prive di ogni memoria storica, già omologate dalle televisioni, ora intrappolate nei social network, che non hanno mai fatto politica, che sono digiune di ogni forma di organizzazione. Per questo è scritto con sconcertante semplicità, per essere compreso da un ragazzo o una ragazza della scuola media: per introdurli nella lotta politica e psicologica rese possibili dai tempi moderni, ma in modo tale che siano strumenti non in grado di capire ciò che fanno e per chi lavoreranno. E’ un manuale per organizzare la “sovversione dall’interno”, di tutti i paesi “altri” rispetto all’America e all’Europa; per armare, con la “non violenza” le quinte colonne che devono far cadere tutti i regimi che sono esterni al “consenso washingtoniano”.

Questa operazione ha un solo “tallone d’Achille”. Che si potrebbe vedere, come fosse fosforescente, non appena si strappasse il tendaggio principale: l’assioma indiscutibile che “noi siamo la democrazia”. Perché capiremmo tutti che la ribellione “non violenta”, che suggerisce Sharp, può essere diretta contro i nostri oppressori “democratici”, che hanno trasformato la democrazia in una cerimonia manipolatoria e senza senso. Potremmo anche noi attuare tutti i suggerimenti di Sharp: dileggiare i funzionari del regime, fare marce, boicottare certi consumi, esercitare la non collaborazione generalizzata, attuare la disobbedienza civile.

In realtà, a ben pensarci, grazie professor Sharp, lo stiamo già facendo. Solo che non abbiamo, a sostenerci, i mercenari pagati con i denari dell’America. E possiamo anche noi citare, come fa Sharp, il deputato irlandese Charles Stewart Parnell (1846-1891) : “Unitevi, rafforzate i deboli tra voi, organizzatevi in gruppi. E vincerete”.

Solo che questa nostra democrazia è molto più subdola delle dittature. E dobbiamo sapere che, quando cominceremo ad abbatterla, per costruirne una vera, magari tornando alla nostra Costituzione, non avremo nessun aiuto dall’esterno.


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Sostenere il governo USA senza saperlo: il grave esempio di “Avaaz”


–  18 FEBBRAIO 2012
L’associazione non governativa “Avaaz” sta spopolando su internet e nei circoli della sinistraliberal occidentale in nome della difesa dei diritti umani. Pochi conoscono però chi si cela dietro questa organizzazione che di umanitario ha solo l’apparenza e che è stata creata per “coprire a sinistra” gli interessi geopolitici ed economici dei poteri forti occidentali, soprattutto americani. La tattica è molto semplice: si promuovono decina se non centinaia di petizioni su temi umanitari, democratici, anti-corruzione che trovano immediato consenso fra il pubblico di sentimenti progressisti (ad esempio la lotta contro la censura su internet oppure il riconoscimento della Palestina). Fra di essi vi sono anche attacchi ai governi occidentali e contro lo strapotere delle banche,  così da convincere questo pubblico particolare della bontà della ONG. Fra tutti questi temi – che poi non sortiranno in gran parte comunque nessun risultato – si inseriscono invece questioni strategiche per i padroni nascosti di “Avaaz” (governi, multinazionali, eserciti) che così potranno più facilmente superare la diffidenza da parte della popolazione genericamente di “sinistra”, che non sospetterà mai che dietro a questi presunti critici degli USA è nascosto proprio il Partito Democratico del presidente Obama e dell’ex-presidente Cliton, attraverso l’organizzazione “MoveOn” che sta alla base di “Avaaz”, e che ha ricevuto un finanziamento di 1,46 millioni di dollari da George Soros per utilizzarla nella battaglia elettorale contro il Partito Repubblicano.

Una ONG schierata coi potenti

“Avaaz” è infatti una ONG creata da Ricken Patel, personaggio politicamente ben schierato a destra che gode del sostegno finanziario del patron della multinazionale informatica “Microsoft” Bill Gates e della Fondazione Rockefeller (il cui ruolo a favore dei governi americani è ben spiegato in quest’altro articolo). Non è tutto: “Avaaz” collabora strettamente con la famosa Fondazione Soros, una struttura vicina all’attuale governo statunitense e ai suoi servizi segreti che viene utilizzata per organizzare disordini e golpi nei paesi che in qualche modo non ubbidiscono ai diktat di Washington oppure che non autorizzano le grandi aziende occidentali a entrare nel loro mercato nazionale. Non a caso la Cina, che dispone di un mercato ancora fortemente controllato dallo Stato, è una delle vittime preferite di Soros e della ONG di cui stiamo parlando. Naturalmente “Avaaz” non parla di “libertà economica mancante” ma attacca la Cina in altro modo, ad esempio strumentalizzando la questione della pena di morte o del separatismo feudale del Dalai Lama in Tibet. Secondo altre fonti dietro “Avaaz” vi sarebbero mandanti di ben più alta caratura come si evince ad esempio da Indymedia Barcellona, dalla discussione interna a PeaceLink, oppure da questo blog molto dettagliato. Proponiamo ora alcuni dei tanti esempi che rendono perlomeno poco credibile “Avaaz” per chi, come la nostra redazione, si dichiara di sinistra.

Avaaz truffa gli ecologisti

A fine 2011 dichiarazioni, articoli, lettere circolano su Internet chiedendo la fine della “distruzione dell’Amazzonia”: “Avaaz” si tinge insomma di verde per ingannare gli attivisti ecologisti che mai si sognerebbero di sostenere i veri mandanti della campagna. 
 L’obiettivo che queste iniziative si pongono, infatti, non è certo quello di colpire le corporazioni transnazionali o i potenti governi filo-americani che le appoggiano, ma il governo popolare del primo presidente indigeno della Bolivia, Evo Morales. Al centro del dibattito c’è la controversa proposta di Morales di costruire un’autostrada attraverso il Territorio Indigeno del Parco Nazionale Isidoro Sécure (TIPNIS).

 Quest’ultimo, che copre una superficie di più di 1 milione di ettari di foresta, ha ottenuto lo statuto di territorio indigeno dal governo di Evo Morales nel 2009. Circa 2’000 persone vivono in 64 comunità all’interno del TIPNIS.

 Il 15 agosto, rappresentanti di tali comunità hanno iniziato una marcia verso la capitale, La Paz, per protestare contro il piano dell’autostrada.

 Sono subito partite petizioni internazionali da parte, naturalmente, di “Avaaz” che solidarizzando con gli indigeni, condannano il governo boliviano per avere indebolito i diritti indigeni.

 La gente del TIPNIS ha preoccupazioni legittime sull’impatto dell’autostrada. 

Disgraziatamente, però, la campagna di “Avaaz” strumentalizza queste preoccupazioni per indebolire politicamente Morales, il cui sentimento ostile al capitalismo americano non piace ai padroni di “Avaaz”. Con una lettera aperta firmata da più di 60 gruppi ecologisti, in maggioranza però fuori dalla Bolivia, “Avaaz” distorce i fatti e con una retorica progressista afferma “che le imprese straniere si spartiscano l’Amazzonia… e si scatenerà una febbre depredatrice su una delle selve più importanti del mondo”. Ma non menziona il fatto che la distruzione ha già luogo nell’area e che proprio il governo di Morales sta promuovendo una legge per aggiungere nuove norme protettive del parco nazionale. 

La legge proposta comminerebbe pene detentive tra i 10 e i 20 anni di carcere per insediamenti illegali, la coltivazione della coca o il taglio degli alberi nel parco nazionale.

 Avaaz questo non lo dice, ma trasmette l’idea alla sinistra e agli ecologisti che Morales (che è di sinistra e pure ecologista) non vada sostenuto. Al resto ci penseranno poi i “dissidenti” interni alla Bolivia.

Dalla Bolivia all’Iran: il caso Sakineh

A fine 2010 parte un appello mediatico globale che chiede di salvare dalla condanna a morte per lapidazione una donna iraniana, Sakineh Ashtiani. In quello stesso periodo l’Iran era il nemico numero uno dell’amministrazione Obama, si stava preparando una possibile guerra e occorreva che l’opinione pubblica avesse un’immagine demoniaca del paese. Ecco allora che “Avaaz” entra in gioco e inventa il caso Sakineh, subito dato in pasto ai giornalisti occidentali (sì, perché i giornalsti latinoamericani e orientali, invece, hanno evitato questa figuraccia andando a verificare le informazioni!). Sakineh sarebbe condannata alla “lapidazione” perché “adultera”. In realtà si verrà a sapere che Sakineh è stata condannata per aver assassinato il marito, non per averlo tradito; e in ogni caso la lapidazione nel codice penale iraniano non esiste più da decenni. Queste confutazioni sono state documentate non solo da siti di approfondimento come quello di “Come Don Chisciotte“, ma ha suscitato qualche dubbio infine anche ai giornalisti dei quotidiani italiani come “La Stampa”. Insomma “Avaaz” ha strumentalizzato politicamente questa vicenda e pochissimi media occidentali, dopo aver demonizzato l’Ira, raccontando notizie non verificate, hanno però avuto l’etica professionale di scusarsi e di rettificare, cosa che peraltro non ha fatto nemmeno l’ONG stessa, a dimostrazione che non si è trattato di un errore in buona fede.

Pacifisti che preparano la guerra

Di recente di fronte alle rivolte di alcune tribù feudali contro il governo della Libia Popolare, “Avaaz” – sempre con la scusa dei diritti umani – ha sostenuto e diffuso la rivendicazione di una “Non-Fly-Zone” contro la Libia, la quale altro non era che il primo passo per l’invasione militare del paese nordafricano da parte delle truppe della NATO che, con bombardamenti a tappeto, hanno ucciso migliaia di civili e hanno permesso ai rivoltosi di assumere il controllo del Paese e di uccidere Muammar Gheddafi. Una scelta duramente condannata, ad esempio, dal gruppo anti-militarista di Alicante (leggi). Va ricordato che oggi in Libia il governo “democratico” sostenuto da “Avaaz”  e dalle diplomazie occidentali è di carattere liberista (vedi filmato), ha riabilitato non solo la figura del dittatore fascista Benito Mussolini, ma ha pure definito quale “periodo fiorente” l’epoca in cui il fascismo italiano aveva colonizzato e saccheggiato la Libia. Sul fronte dei diritti umani, inoltre, la Libia odierna si caratterizza per violenza di vario genere spesso di tipo razziale contro i neri accusati di essere  tutti “mercenari al soldo di Gheddafi”, come documentato dai video pubblicati dal sito di “Fortresse Europe“. Stranamente, però, “Avaaz” ora della Libia non si occupa più, evidentemente ha raggiunto il suo vero scopo.

Esportare la democrazia e rubare il petrolio

“Normalizzata” la situaz

(Message over 64 KB, truncated)


(english / italiano)

Orwell e la Siria / 1

1) Road to Damascus... and on to Armageddon? - by Diana Johnstone  
2) A House of Sand and Fog - by Nebojsa Malic
3) PSY...OPS! Quando la guerra si fa con le parole - di Ermete Ferraro


=== 1 ===

http://www.en.beoforum.rs/comments-belgrade-forum-for-the-world-of-equals/235-diana-johnstone-road-to-damascus-and-on-to-armageddon.html

Wednesday, 15 February 2012

by DIANA JOHNSTONE  

What if pollsters put this question to citizens of the United States and the European Union :

“Which is more important, ensuring disgruntled Islamists freedom to overthrow the secular regime in Syria, or avoiding World War Three?”

I’ll bet that there might be a majority for avoiding World War III.

But of course, the question is never framed like that.

That would be a “realistic” question, and we Westerners from the heights of our moral superiority have no time for vulgar “realism” in foreign policy (except the eccentric Ron Paul, crying out in the wilderness of Republican primaries).

Because, in the minds of our political ruling class, the United States has the power to “make reality”, we need pay no attention to the remnants of whatever reality we didn’t invent ourselves.

Our artificial reality is coming into collision with the reality perceived by most or at least much of the rest of the world.  The tenants of these conflicting views of reality are armed to the teeth, including with nuclear weapons capable of leaving the planet to insects.

Theoretically, there is a way to deal with this dangerous situation, which has the potential of leading to World War.  It is called diplomacy.  People capable of grasping unfamiliar ideas and understanding viewpoints other than their own, examine the issues underlying conflict and use their intelligence to work out solutions that may not be ideal but will at least prevent things from getting worse.

There was even an organizational structure created for this: the United Nations.

But the United States has decided that as sole superpower it doesn’t really need to stoop to diplomacy to get what it wants, and the United Nations has been turned into the instrument of US policy. The clearest evidence of this was the failure of the UN Security Council to block the NATO powers’ abuse of the ambiguous and contested Responsibility to Protect (“R2P”) doctrine to overthrow the Libyan government by force.

Early this year, UN Secretary General Ban Ki-moon rejoiced that: “The world has embraced the Responsibility to Protect – not because it is easy, but because it is right. We therefore have a moral responsibility to push ahead.”  Morality trumps the basic UN principle of national sovereignty. Ban Ki-moon suggests that pushing ahead with R2P is no less than the “next test of our common humanity”, and announces: “That test is here – in Syria.”

So, the Secretary General of the UN considers the “moral responsibility” of R2P his main guideline to the crisis in Syria.

In case there was any doubt, the Libyan example demonstrated what that means.

A country whose rulers do not belong to the Western club made up of NATO countries, Israel, the emirs of the Gulf states and the ruling family of Saudi Arabia, is wracked by opposition demonstrations and armed rebellion, with the mix of the two making it difficult to sort out which is which.  Western mainstream media hasten to tell the story according to a standard template:

The ruler of the country is a “dictator”.  Therefore, the rebels want to get rid of him simply in order to enjoy Western-style democracy.  Therefore, the people must all be on the side of the rebels. Therefore, when the armed forces proceed to repress the armed rebellion, what is [foolscrusadejohnstone] happening is that “the dictator is killing his own people”.  Therefore, it is the Responsibility 2 Protect of the international community (i.e. NATO) to help the rebels in order to destroy the country’s armed forces and get rid of (or kill) the dictator.

The happy ending comes when Hillary Clinton can shout gleefully, “We came, we saw, he died!”

Thereupon, the country sinks into chaos, as armed bands rove, prisoners are tortured, women are put in their place, salaries are unpaid, education and social welfare are neglected, but oil is pumped and the West is encouraged by its success to go on to liberate another country.

That at least was the Libyan model.

Except that in the case of Syria, things are more complicated.

Unlike Libya, Syria has a fairly strong army.  Unlike Libya, Syria has a few significant friends in the world. Unlike Libya, Syria is next door to Israel. And above all, the diversity of religious communities within Syria is much greater and more potentially explosive than the tribal divisions of Libya.  The notion that “the people” of Syria are unanimously united in the desire for instant regime change is even more preposterous.

Electoral democracy is a game played on the basis of a social contract, a general consensus to accept the rule that whoever gets the most votes gets to run the country.  But there are societies where that consensus simply does not exist, where distrust is too great between different sectors of the population. That could very well be the case in Syria, where certain minorities, including notably the Christians and Alawites, have reason to fear a Sunni majority that could be led by Islamists who make no secret of their hostility to other religions.  Still, perhaps the time has come to overcome that distrust and build an electoral democracy with safeguards for minorities.  However, the one sure way to set back such a move toward democracy is a civil war, which is certain to revive and exacerbate hatred and distrust between communities.

Last month, on this site Aisling Byrne called attention to results of a public opinion poll funded by no less than the Qatar Foundation, which cannot be suspected of working for the Assad regime, given the Qatar royal family’s lead position in favor of overthrowing that regime. The key finding was that “while most Arabs outside Syria feel the president should resign, attitudes in the country are different. Some 55% of Syrians want Assad to stay, motivated by fear of civil war – a specter that is not theoretical as it is for those who live outside Syria’s borders. What is less good news for the Assad regime is that the poll also found that half the Syrians who accept him staying in power believe he must usher in free elections in the near future.”

This indicates a very complex situation.  Syrians want free elections, but they prefer to have Assad stay in power to organize them.  This being the case, the Russian diplomatic efforts to try to urge the Assad regime to speed up its reforms appear to be roughly in harmony with Syrian public opinion.

While the Russians are urging President Assad to speed up reforms, the West is ordering him to stop the violence (that is, order his armed forces to give up) and resign.  Neither of these exhortations is likely to be obeyed.  The Russians would almost certainly like to stop the escalation of violence, for their own good reasons, but that does not mean they have the power to do so.  Their attempts to broker a compromise, decried and sabotaged by Western support to the opposition, merely put them in line to be blamed for the bloodshed they want to avoid.  In a deepening civil war situation, the regime, any regime, is most likely to figure it has to restore order before doing anything else.  And restoring order, under these circumstances, means more violence, not less.

The order to “stop killing your own people” implies a situation in which the dictator, like an ogre in a fairy tale, is busily devouring passive innocents.  He should stop, and then all the people would peacefully go about their business while awaiting the free elections that will bring the blessings of harmony and human rights. In reality, if the armed forces withdraw from areas where there are armed rebels, that means turning those areas over to the rebels.

And who are these rebels?  We simply do not know.  Someone who may know better than we do is Osama bin Laden’s successor as head of al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, who is seen on a video urging Muslims in Turkey and neighboring Arab states to back the Syrian rebels.

With uncontrolled armed groups fighting for control, the insistent Western demand that “Assad must step down” is not really even a call for “regime change”.  It is a call for regime self-destruction.

As in Libya, the country would de facto be turned over to rival armed groups, with those groups that are being armed covertly by NATO via Turkey and Qatar having an advantage in hardware.  However, the likely result would be a multi-sided civil war much more horrific than the chaos in Libya, thanks to the country’s multiple religious differences.  But for the West, however chaotic, regime self-destruction would have the immediate advantage of depriving Iran of its potential ally on the eve of an Israeli attack.  With both Iraq and Syria neutralized by internal religious conflict, the strangulation of Iran would be that much easier – or so the Western strategists obviously assume.

At least initially, the drive to destroy the Assad regime relies on subversion rather than outright military attack as in Libya.  A combination of drastic economic sanctions and support to armed rebels, including fighters from outside, notably Libya (whoever they are), reportedly already helped by special forces from the UK and Qatar, is expected to so weaken the country that the Assad regime will collapse.  But a third weapon in this assault is propaganda, carried on by the mainstream media, by now accustomed to reporting events according to the pattern: evil dictator killing his own people.  Some of the propaganda must be true, some of it is false, but all of it is selective.  The victims are all victims of the regime, never of the rebels.  The many Syrians who fear the rebels more than the present government are of course ignored by the mainstream media, although their protests can be found on the internet. A particular oddity of this Syrian crisis is the way the West, so proud of its “Judeo-Christian” heritage, is actively favoring the total elimination of the ancient Christian communities in the Middle East.  The cries of protest that Syrian Christians rely for protection on the secular government of Assad, in which Christians participate, and that they and other minorities such as the Alawites may be forced to flee if the West gets its way, fall on deaf ears.

The story line of dictators killing their own people is intended primarily to justify harsh Western measures against Syria. As in Bosnia, the media are arousing public indignation to force the US government to do what it is in fact already doing: arm Muslim rebels, all in the name of “protecting civilians”.

Last December, US National Security Advisor Tom Donilon said that the “end of the Assad regime would constitute Iran’s greatest setback in the region yet – a strategic blow that will further shift the balance of power in the region against Iran”.  The “protection of civilians” is not the only concern on the minds of US officials.  They do think of such things as the balance of power, in between their prayer breakfasts and human rights speeches.  However, concern with the balance of power is a luxury denied less virtuous powers such as Russia and China. Surely the shift in the balance of power in the region cannot be limited to a single country, Iran.  It is meant to increase the power of Israel, of course, but also the United States and NATO.  And to decrease the influence of Russia.  Thrusting Syria into helpless chaos is part of the war against Iran, but it is also implicitly part of a drive to reduce the influence of Russia and, eventually, China.  In short, the current campaign against Syria, is clearly in preparation for an eventual future war against Iran, but also, obscurely, a form of long term aggression against Russia and China.

The recent Russian and Chinese veto in the Security Council was a polite attempt to put a brake on this process. The cause of the veto was the determination of the West to push through a resolution that would have demanded withdrawal of Syrian government forces from contested areas without taking into consideration the presence of armed rebel groups poised to take over. Where the Western resolution called on the Assad regime to “withdraw all Syrian military and armed forces from cities and towns, and return them to their original home barracks”, the Russians wished to add: “in conjunction with the end of attacks by armed groups against State institutions and quarters and towns.”  The purpose was to prevent armed groups from taking advantage of the vacuum to occupy evacuated areas (as had happened in similar circumstances in Yugoslavia during the 1990s).  Western refusal to rein in armed rebels was followed by the Russian and Chinese veto on Febuary 4.

The veto unleashed a torrent of insults from the Western self-styled “humanitarians”.  In an obvious attempt to foster division between the two recalcitrant powers, US spokespersons stressed that the main villain was Russia, guilty of friendship with the Assad regime.

Russia is currently the target of an extraordinary propaganda campaign centered on demonizing Vladimir Putin as he faces an lively campaign for election as President.  A prominent New York Times columnist attributed Russian support to Syria to an alleged similarity between Putin and Assad.  As we saw in Yugoslavia, a leader elected in free multi-party elections is a “dictator” when his policies displease the West. The pathetically alcoholic Yeltsin was a Western favorite despite shooting at his parliament.  The reason was obvious: he was weak and easily manipulated.  The reason the West hates Putin is equally and symmetrically obvious: he seems determined to defend his country’s interests against Western pressure.

The European Union has become the lapdog of the United States. This week the European Union is continuing to impoverish the Greek people in order to squeeze out money, among other things, lent by German and French banks to pay for expensive modern weaponry sold to Greece by Germany and France.  Democracy in Europe is being undermined by subservience to a dogmatic monetary policy.  Unemployment and poverty threaten to destabilize more and more member states.  But what is the topic of the European Parliament’s main monthly political debate this week?  “The situation in Russia.”  One can count on orators in Strasbourg to lecture the Russians on “democracy”.

American pundits and cartoonists have totally interiorized their double standards, so that Russia’s comparatively modest arms deliveries to Syria can be denounced as cynical support to dictatorship, whereas gigantic US arms sales to Saudi Arabia and the Gulf States are never seen as relevant to the autocratic nature of those regimes (at most they may be criticized on the totally fictitious grounds of being a threat to Israel).  To be “democratic”, Russia is supposed to cooperate in its own subservience to Washington, as the United States pursues construction of a missile shield which would theoretically give it a first-strike nuclear capability against Russia, arms Georgia for a return war against Russia over South Ossetia, and continues to encircle Russia with military bases and hostile alliances.

Western politicians and media are not yet fighting World War III, but they are talking themselves into it. And their actions speak even louder than words... notably to those who are able to understand where those actions are leading.  Such as the Russians. The West’s collective delusion of grandeur, the illusion of the power to “make reality”, has a momentum that is leading the world toward major catastrophe.  And what can stop it?

A meteor from outer space, perhaps?


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http://original.antiwar.com/malic/2012/02/10/a-house-of-sand-and-fog/

A House of Sand and Fog


Lies, Revolutions and Wars

by Nebojsa Malic, February 11, 2012

Last summer, as the Sandstorm mistakenly dubbed the “Arab Spring” swept across North Africa, a cadre of professional revolutionaries the Empire created in Serbia bragged about their role in the revolts to some European videographers. Sure, the revolts in Tunisia and Egypt may have begun spontaneously, but Empire-trained activists soon took control and channeled the rage into “regime change.” It’s what they get paid for.

Staging revolts and coups to replace foreign governments with more pliable ones is nothing new; only the techniques have changed, with “democracy activists” replacing Agency assets as the executors. But with the acceleration of information dispersal in the digital age came the shortening of the blowback window as well. It took twenty-six years for Persian resentment at the 1953 ousting of Mossadegh to manifest itself as Khomeini’s Islamic Revolution. Now mere months are enough.

“The Cairo 19”

Last week, the military government in Cairo – caretakers of the country until the Muslim Brotherhood takes over - arrested some forty-odd “democracy activists,” including 19 Americans. Reactions in Washington ranged from shock to outrage: how dare these foreigners touch the sacred missionaries of Democracy? Sure, these young people get paid big money by the unwitting American taxpayers, to foment unrest and subvert governments the world over, but isn’t that the prerogative of Empire? Isn’t it, like, oppressive and stuff, to prevent Serbian sellouts and sons of American government officials to earn their own private islands?

Even though foreign activism in the electoral process is strictly illegal in America itself, the rest of the world objecting to America interfering in their elections is just, well, “illiberal”! That’s what passes for logic in the Empire these days.

Furthermore, the revolution business is booming, quickly becoming the Empire’s major export. Granted, successful businesses are supposed to bring in profit, and the coups around the world are only sowing anti-American resentment – but what’s logic got to do with the thrill of fame and power?

Julija Belej Bakovic, described by the Washington Post as a “former student activist in Serbia”, now heads a regional office of the International Republican Institute (IRI) for Asia. She still believes what happened in Serbia is a “light at the end of the tunnel” for people everywhere. It certainly worked out well for her: she parlayed her “activism” into a well-paid international career. Most of her colleagues are lucky if they have jobs at all, in the “democratic” Serbia turned into a corrupt hellhole by Julija’s revolution that wasn’t.

It brings to mind a saying from Serbia, “What a wise man is ashamed of, the fool parades with pride.”

By The Numbers

Bolstered by the alleged success of the “Arab Spring,” the Empire set its crosshairs on Moscow. In December last year, “activists” began organizing protest marches and claiming that elections for the Russian federal legislature were stolen. This is a trope right out of the handbook, by the way – and easily disproved by doing actual math and statistics.

While shaken initially, the government of Vladimir Putin has rallied and charged the demonstrators with being foreign mercenaries. Trite but true, the charge resonated in a country stripped to the bone in the 1990s by a quisling regime beholden to the Empire. Nor does it help the Empire’s cause that Russians remember all too well the 2004 “Orange Revolution” in nearby Ukraine.

On February 4, as Empire’s activists rallied in freezing weather at Moscow’s Bolotnaya Square, a much larger crowd gathered to support the government at Poklonnaya Hill. The Western media promptly lied about the size of the demonstrations, but in Russia the difference was clear to anyone with eyes to see: the pro-government demonstrators vastly outnumbered the astroturfers. According to some observers, this may have taken the wind out of the revolutionaries’ sails, at least for now.

The Road to Damascus

Last weekend, Russia and China vetoed a resolution at the UN Security Council that would have backed “regime change” in Syria. Imperial officials predictably denounced this as a “travesty.” But was it?

Back in March 2011, both countries agreed to a resolution (UNSCR 1973) authorizing the no-fly zone over Libya, allegedly to protect innocent civilians. Supposedly, these civilians – or rather, the armed rebellion in Cyrenaica – were threatened by the Libyan air force. Within hours, the resolution became a fig leaf for a massive air campaign and special forces intervention on behalf of an Empire-backed rebellion. The Emperor argued it wasn’t a war but a “kinetic military action.” Is there another kind?

In Libya, the Bosnia scenario played out in fast-forward. Something similar began taking shape in Syria. However, a designated propaganda star of the Syrian revolt was exposed as a hoax early on, while the Libyan expedition took much longer than expected. For a while it seemed the Empire’s next target might be Iran, but currently the war drumline is beating a march to Damascus.

Empire’s moral outrage at Russia and China is hypocrisy at its finest. The warmongers in Washington and London are already bringing up Bosnia and Kosovo - two celebrated “successful” interventions that were nothing of the sort. There is definitely a pattern of aggression at work, but its source is not Assad.

Faced with a belligerent American Empire prone to attacking other countries with flimsy justification (or none at all), conducting drone wars worldwide, and organizing Astroturf revolutions in countries it finds too difficult to invade, it is honestly a miracle that Moscow and Beijing have waited this long.

Trouble in Paradise

Odds are the Chinese and Russian governments hardly think that a UN veto would keep the Empire in check; after all, lack of UN authorization didn’t stop the 1999 Kosovo War, or the 2003 invasion of Iraq. A Russian Navy task force anchored in Syria, however, just might.

Simply put, it is no longer 1999. Actions have consequences, and the Empire has lied, stolen, killed and cheated enough over the past two decades for the rest of the world to take notice and take action. Worst of all, the Imperial officials are actually convinced their actions have created a favorable reality on the ground – where in actuality, they’ve build a house of sand and fog that’s already falling apart.

Last April, the Maldives government – which came to power thanks to the efforts of professional revolutionaries – rewarded the activists with their very own tropical island. But that government is collapsing now, while angry mobs of militant Muslims destroy priceless statues in the museums. An AFP report from the islands includes this aside: “Islam is the official religion of the Maldives and open practice of any other religion is forbidden and liable to prosecution.”

Some “democracy,” indeed.


=== 3 ===

http://ermeteferraro.wordpress.com/2012/02/04/psy-ops-quando-la-guerra-si-fa-con-le-parole/

PSY...OPS! Quando la guerra si fa con le parole.

Pubblicato il 04/02/2012 da erferraro

Dal Grande Fratello orwelliano alla guerra psicologica
In un suo recente intervento, Alessandro Marescotti (www.peacelink.it ) ha giustamente messo in evidenza, a proposito di quanto sta accadendo in Siria, che le varie fonti d’informazione si ritrovano stranamente nel definire “disertori” quelli che, a rigor di logica e di vocabolario, dovrebbero essere chiamati “insorti” o partecipanti ad una“sedizione” militare. Questa osservazione gli dà lo spunto per una riflessione sull’uso propagandistico degli strumenti informativi e sulla preoccupante diffusione – dal secondo dopoguerra ad oggi – di una vera e propria strategia di manipolazione del pensiero e del linguaggio, come strumenti di guerra psicologica.
Il riferimento d’obbligo, in questo caso, è l’incredibilmente profetico romanzo di George Orwell “1984” (Nineteen Eighty-Four), quello che – tanto per intenderci – ha avuto, suo malgrado, la sventura di dar origine alla fin troppo nota espressione “Grande Fratello”. E’ questa, infatti, la traduzione di “Big Brother”, il “deus ex machina” che controlla e dirige come automi telecomandati tutti coloro che vivono sotto il regime assoluto e totalitario guidato dal partito chiamato Socing/Engsoc”.
E’ davvero incredibile come Orwell sia riuscito ad avere, già nel 1948, una visione talmente netta e dettagliata di quella realtà – massmediatica prima ed informatica poi – dalla quale milioni di esseri umani sarebbero stati sempre più condizionati, se non asserviti del tutto, grazie ad una sottile revisione del pensiero e dell’espressione linguistica, che lo veicola e ne è l’ovvio interfaccia.
Mi sono ricordato allora di un mio vecchio scritto – datato non a caso 1984...- nel quale analizzavo questa manipolazione logica (“Bispensiero/Doublethink”) e linguistica (“Neolingua/ Newspeak”), suggerendo anche una strategia per opporsi, nonviolentemente, ad entrambi. Ecco uno dei brani del romanzo che citavo:
“Se si vuole comandare e persistere nell’azione di comando, bisogna anche essere capaci di manovrare e dirigere il senso della realtà... [...] Bispensiero sta a significare la capacità di condividere simultaneamente due opinioni palesemente contraddittorie ed accettarle entrambe [...] La Neolingua era intesa non ad estendere ma a diminuire la possibilità di pensiero; si veniva incontro a questo fine, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta delle parole...”  (questa e le successive citazioni erano tratte dall’ediz. italiana, Milano, Mondadori,1983).
Rileggere, oggi, questi brani del romanzo orwelliano fa venire i brividi. Come non restare  stupiti, poi, di fronte alla constatazione che questi due processi di “addomesticamento” e massificazione del pensiero e del linguaggio, mediante un’accurata programmazione della mente umana, erano stati previsti dall’autore intimamente legati all’uso delle tecnologie informatiche?
Programmare un linguaggio-macchina, sottolineava già negli anni ’70 il cibernetico Silvio Ceccato, comporta l’eliminazione di ogni forma di originalità biologica e culturale, allo scopo di perseguire una “oggettività” ed “universalità” comunicativa, sì da “...sopprimere i contenuti del pensiero-linguaggio che fanno riferimento alla personalità dei parlanti...”  (S. Ceccato, La terza cibernetica. Per una mente creativa e responsabile, Milano, Feltrinelli, 1975)


http://www.disarmiamoli.org/

Perchè non aderiamo alla manifestazione del 19 febbraio sulla Siria

  

Lettera aperta alla Cgil, alla Tavola della Pace e alle associazioni che aderiscono alla manifestazione del 19 febbraio indetta dal Consiglio Nazionale Siriano a Roma.

 

Con questa lettera aperta intendiamo dissociarci nettamente dalla manifestazione indetta dal CNS a Roma per il 19 febbraio e non possiamo condividere le ragioni di quanti aderiscono a quella piattaforma.

Ciò perché non vogliamo assolutamente un'altra guerra “umanitaria” che, come è avvenuto in Libia, sotto la pretesa di proteggere i civili ha scatenato invece la ferocia dei bombardamenti e dell'intervento NATO ed ha aggiunto alla guerra civile, in corso sul terreno, un altro bagno di sangue molto, molto più grande. Crediamo perciò che grazie al veto di Russia e Cina la minaccia di un "intervento umanitario" solo per il momento sia stata scongiurata.

Pensiamo però che sia necessaria una piattaforma di pace alternativa che ,a partire dalla cessazione delle violenze da entrambe le parti (governo e bande armate della cosiddetta opposizione), rivendichi un vero negoziato di pace. Ciò perché il massacro dei civili in corso sul terreno in Siria è frutto di una guerra civile tra due entità armate, come ha dimostrato il rapporto degli osservatori della Lega Araba-censurato dal Qatar- e come dimostrano numerose violenze sui civili, gli attentati terroristici, il cecchinaggio e numerose efferatezze compiute proprio dall'Esercito Siriano di Liberazione di cui è alleato il CNS.

Questo ultimo attribuisce le violenze solo all'esercito governativo e invoca nel volantino del 19 febbraio (e nella piattaforma su cui chiede le adesioni ) “le dimissioni di Assad e del suo staff” e inoltre “la difesa internazionale dei civili secondo lo Statuto dell'ONU”, il che equivale a chiedere nei fatti il cambio di regime a mano armata e nuovamente quell'intervento militare internazionale che è stato momentaneamente fermato dal veto in Consiglio di sicurezza dell'ONU. Questa strada porta direttamente alla guerra”umanitaria” della NATO contro la Siria ed a legittimare l'intervento militare già in atto in Siria con truppe della Turchia, del Qatar, della Libia, dell'Arabia Saudita e di tutte le petrolmonarchie del Golfo che stanno da tempo fomentando la guerra, appoggiando con mezzi militari e mediatici l'opposizione armata in Siria.

L'esperienza delle cosiddette guerre umanitarie dell'ultimo quindicennio ci ha insegnato che nessuna retorica dei diritti umani o di “contingenti necessità” può mascherare la realtà della guerra con i suoi lutti e le sue devastazioni senza fine. L'unica strada per fermare il massacro di civili è quella di fermare le violenze, non di amplificarle invocando l'intervento occidentale.

Invitiamo pertanto tutte le associazioni che ripudiano la guerra a dissociarsi apertamente dal CNS e dalla sua piattaforma.

 

Alleghiamo alla presente lettera:
a) una scheda informativa sul CNS con l'indicazione delle fonti;
b) un estratto in italiano del rapporto degli osservatori della Lega Araba;
c) la piattaforma di pace da noi proposta.

 

FIRME:

 

RETE NOWAR, PEACELINK, WILPFITALIA, UNPONTEPER, STATUNITENSI CONTRO LA GUERRA FIRENZE, U.S. CITIZENS FOR PEACE AND JUSTICE, RETE DISARMIAMOLI, CONTROPIANO, ASSOCIAZIONE NAZIONALE DI AMICIZIA ITALIA-CUBA circolo di Roma, ASSOCIAZIONE AMICI DELLA MEZZALUNA ROSSA PALESTINESE.

 

 


a)

SIRIA. l Cns (Consiglio nazionale siriano organizzatore della manifestazione del 19 febbraio a Roma) e le violenze su civili e militari


 

Marinella Correggia

 

E’ stato il nuovo governo della Libia, frutto della guerra della Nato, il primo a riconoscere già lo scorso ottobre come “legittimo rappresentante del popolo siriano” il Consiglio nazionale siriano (Cns), in inglese Syrian National Council (http://latimesblogs.latimes.com/world_now/2011/10/syria-libya-opposition.html). Il Cns a sua volta aveva riconosciuto il Cnt libico già prima della conquista di Tripoli.

Del resto, come ricorda Mustafa el Ayoubi su Confronti, nel 2011 “nell’ambito della Lega araba, la Siria aveva votato contro l’intervento militare in Libia. Era insomma un regime scomodo, non per il fatto che fosse anti-democratico ma perché anti-americano”. Così poco dopo, puntualmente scoppia una rivolta in Siria, “il 17 marzo a Daraa, una piccola città di 75mila abitanti. Non è stata una rivolta pacifica in quanto molti insorti erano armati e non esitavano a sparare sui civili e sulle forze dell’ordine”.

Il Cns, basato in Turchia (ma il suo leader Bhuran Ghalioun vive a Parigi da decenni; sostiene però di rappresentare l’80% dei siriani), il Cns, attraverso i suoi “osservatori sui diritti umani” da Londra e i cosiddetti “Comitati di coordinamento locale”, è la fonte quasi esclusiva delle notizie pubblicate sui media che accreditano la versione di una “rivolta a mani nude contro il dittatore”. Peraltro c’è uno scontro interno fra “attivisti” che si accusano reciprocamente (vedi la Seconda puntata di questa serie).

A differenza dell’altra opposizione che vuole il negoziato e non accetta la lotta armata né l’ingerenza, il Cns rifiuta ogni possibile negoziato e mediazione (come il Cnt libico, a suo tempo). Non ne ha bisogno, perché ha trovato molti alleati fra i paesi occidentali e petromonarchici, ai quali ha chiesto da tempo l’imposizione di una no-fly zone “per la protezione dei civili” (per esempio in ottobre: http://globalpublicsquare.blogs.cnn.com/2011/10/11/time-to-impose-a-no-fly-zone-over-syria/; e in gennaio: http://www.wallstreetitalia.com/article/1307700/siria-opposizione-invoca-intervento-onu-serve-no-fly-zone.aspx). Del resto come vari analisti hanno spiegato, anche nel caso siriano la no-fly zone non avrebbe senso e dovrebbe piuttosto sfociare in un vero e proprio sostegno aereo anti-governativo o Cas (close air support).

Il Cns ha stretto in dicembre un patto di collaborazione (http://www.nytimes.com/2011/12/09/world/middleeast/factional-splits-hinder-drive-to-topple-syrias-assad.html?_r=1&pagewanted=all) con il cd Esercito siriano libero (Free Syrian Army-Fsa).

Il rappresentante del Cns in Italia e organizzatore della manifestazione a Roma del prossimo 19 febbraio (che ha già avuto diverse adesioni di associazioni italiane) è Mohammed Noor Dachan. Sul sito del Syrian National Council risulta affiliato come appartenente alla Muslim Brotherhood Alliance (http://www.syriancouncil.org/en/members/item/241-mohammad-nour-dachan.html). Egli sostiene che la Fsa è formata da “soldati, sottufficiali e ufficiali che hanno scelto di rifiutare di sparare alla gente comune disarmata e non è un esercito di guerra, ma ha solo l'obiettivo di difendere le manifestazioni”. La realtà appare molto diversa.

Il cd Esercito libero appare responsabile di uccisioni di soldati e civili siriani (ci sono elenchi nominativi documentati, vedi puntata 3 di questo dossier) e atti di sabotaggio e terrorismo. Anche a Homs nella fase attuale (http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/7707-homs-un-testimone-racconta-il-terrore-gruppi-armati-non-damasco.html). Lo stesso il giornalista francese Jacquier è stato ucciso da gruppi armati dell’opposizione, secondo quanto raccolto da Le Figaro presso gli stessi osservatori della Lega Araba. Venerdì 10 febbraio, decine di morti in esplosioni ad Aleppo: la Fsa prima rivendica (“una risposta ai bombardamenti di Homs” dichiarava all’agenzia spagnola Efe il colonnello Riad Assad) poi smentisce e infine costruisce un’altra narrazione: surrealmente dichiarando ad Al Jazeera che effettivamente il gruppo ha attaccato Aleppo e le due basi militari con razzi e altro per “proteggere i civili che sarebbero scesi in piazza”, ma che gli attentati sono avvenuti dopo il ritiro dei suoi uomini. Secondo il McClatchi Newspaper, dietro i terroristi ad Aleppo c’è Al Qaeda. Del resto, leggiamo su TMNews, il leader di al Qaida, Ayman al-Zawahiri, ha espresso il suo sostegno alla ribellione siriana contro un regime definito antislamico, in un messaggio video diffuso su alcuni siti internet islamici: lo ha reso noto il centro di sorveglianza informatica Site. La stessa solidarietà a suo tempo espressa ai “ribelli” libici.

E il Ministro degli Interni dell’Iraq ha annunciato all’Agence France Press che molti jihadisti iracheni stanno andando in Siria. Nelle stesse ore la Lega Araba di cui l’Iraq fa parte ha deciso di chiedere alla “comunità internazionale” più sostegno per l’opposizione (che è armata).

Alla tivù satellitare saudita pro.opposizione al-Arabyiya, Ammar Alwani della Fsa dichiara: “Ogni soldato e ufficiale sono nostro obiettivo”; e “colpiremo Damasco”; poi l’inviato della tivù lo corregge e imbocca: “Vuol dire che colpirete obiettivi militari, non civili, vero?”.

 
Mentre la Turchia offre la base logistica alla Free Syrian Army, Qatar, Gran Bretagna e altri paesi non fanno mistero del loro appoggio “diplomatico” e finanziario e in armi; a metà gennaio lo sceicco Bin Khalifa Thani ha dichiarato la volontà di mandare truppe. E un video darebbe atto di una conversazione fra un militare israeliano e un armato della Fsa. Inglesi e francesi hanno confermato di aver mandato unità ad assistere i rivoltosi. Sono state scoperte armi inglesi avviate clandestinamente. Sul suolo siriano sono già operativi commandos e forze speciali. L’obiettivo è di creare delle “zone liberate” così da rendere legittimo l’intervento “umanitario” esterno. Uno scenario di destabilizzazione.


Da tempo l’opposizione siriana ottiene quotidianamente partite di armi (http://rt.com/news/syria-opposition-weapon-smuggling-843/). Obama chiede apertamente di sostenere gli armati anti-Assad e pensa di replicare i successi libici: nessun uomo, nessun morto, ma consiglieri e molti soldi. Fonti americane rivelano al Times un piano in fase di elaborazione da parte di Stati Uniti e alleati per armare i ribelli. Indiscrezioni che si incrociano con quelle del Guardian sulla presunta presenza di reparti speciali britannici e americani al fianco degli insorti. A Homs truppe inglesi e qatariote dirigono l’arrivo di armi ai ribelli e consigliano sulle tattiche della battaglia, secondo il sito israeliano Debka file (ne riferisce la RT, Russian Tv).

Del resto l’estate scorsa John Negroponte è arrivato all’ambasciata Usa a Damasco; quello stesso Negroponte che organizzò le squadre della morte in San Salvador che uccisero il Vescovo Oscar Romero; e che a Bagdad organizzò squadre della morte a danno degli iracheni.

A queste indiscrezioni la Russia ha reagito affermando che si tratta di informazioni ''allarmanti'', secondo il portavoce del ministero degli Esteri, Aleksandr Lukashevich (http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-mondo/siria-homs-strage-senza-fine-times-piano-1113360/www.peacelink.it).


Poi ci sono i mercenari libici. A dicembre il presidente del Consiglio nazionale siriano Burhan Ghalioun incontra a Tripoli i nuovi dirigenti. E scatta il piano che porta diverse centinaia di volontari libici in Siria, sparpagliati tra Homs, Idlib e Rastan (http://www.corriere.it/esteri/12_febbraio_10/olimpio-siria-insorti_a9528996-53da-11e1-a1a9-e74b7d5bd021.shtml). La missione è coordinata dall’ex qaedista Abdelhakeem Belhaj, figura di spicco della nuova Libia, e dal suo vice Mahdi Al Harati.
 

Intanto il sito di petizioni Avaaz, dopo aver diffuso per la Libia notizie di bombardamenti su civili (http://www.avaaz.org/it/libya_stop_the_crackdown_eu) in seguito ampiamente smentite, invita alla "battaglia mondiale" per la Siria dicendo: "Questo è il culmine della primavera araba e della battaglia mondiale contro i despoti sanguinari.

In conclusione, ecco quanto denuncia la stessa opposizione non armata (nelle parole di un esponente che preferiamo non citare per tutelarlo) “il Cns sembra fare il gioco degli sceicchi e del petrolio, sono in maggioranza fratelli musulmani che se ne fregano della democrazia e sanno benissimo che la Siria è abbastanza laica per poter arrivare al potere in modo democratico, non arriveranno senza armi, perciò stanno facendo di tutto per armare la rivoluzione, da altro canto, c'è la Turchia che si sente la nostalgia attraverso il partito di Erdogan per ottomanizzare la regione contro un'Europa ancora ostile nei suoi confronti. Non dimentichiamo che la rivoluzione siriana è la più importante in assoluto nel caso un probabile successo. Gli sceicchi del Golfo Persico temono per il futuro della loro monarchie basate comunque sulla dittatura e sull'ingiustizia”.

 


b) 

Oggetto: Rapporto degli Osservatori della Lega Araba in Siria (alcuni estratti)

 
 

La traduzione completa è disponibile al link http://www.peacelink.it/conflitti/a/35517.html.

Fonte: Il Rapporto in lingua inglese è qui http://www.innercitypress.com/LASomSyria.pdf

 


VI. L'attuazione del mandato della Missione nell'ambito del protocollo

24. Il capo della missione sottolinea che la valutazione in termini di disposizioni del protocollo riassume i risultati dei gruppi, come trasmesso dai leader del gruppo in occasione della riunione con il capo della Missione il 17 gennaio 2012.

A. Monitoraggio e osservazione della cessazione di ogni violenza da tutte le parti in città e residenziali aree

25. All’assegnazione delle loro zone di lavoro e come punto di partenza, gli osservatori sono stati testimoni di atti di violenza perpetrati da forze governative e ad uno scambio di fuoco con elementi armati a Homs e Hama. Come risultato delle insistenze della missione per una totale fine della violenza e il ritiro di veicoli e attrezzature dell'esercito, questi sono stati ritirati. I rapporti più recenti della missione indicano una situazione considerevolmente più calma su entrambe le parti in campo.

26. A Dera'a e Homs, la Missione ha visto gruppi armati commettere atti di violenza contro le forze governative, causando morti e feriti nelle loro file. In certe situazioni, le forze governative hanno risposto agli attacchi condotti con forza contro di loro. Gli osservatori hanno notato che alcuni dei gruppi armati stavano usando razzi e proiettili perforanti.

27. A Homs, Hama e Idlib, le missioni degli osservatori hanno assistito ad atti di violenza commessi contro Forze governative e civili, che hanno causato diversi morti e feriti. Esempi di tali atti includono il bombardamento di un autobus di civili, che ha  ucciso otto persone e ferito altri, tra cui donne e bambini, e il bombardamento di un treno che trasportava gasolio. In un altro incidente a Homs, un autobus della polizia è stato fatto saltare in aria, uccidendo due ufficiali di polizia. Sono stati bombardati anche una conduttura di carburante e alcuni piccoli ponti. 

28. La Missione ha osservato che molti partiti hanno riferito falsamente di esplosioni o di violenze si erano verificate in diverse località. Quando gli osservatori sono andati in quei luoghi, hanno scoperto che quei rapporti erano infondati.

29. La Missione ha inoltre osservato che, secondo le squadre in campo, i media hanno esagerato la natura degli incidenti,  il numero di persone uccise in incidenti e le  proteste in alcune città.

B. Si sta controllando che i servizi di sicurezza siriani e i così chiamati “shabiha gangs” non ostacolino le manifestazioni pacifiche

30. Secondo gli ultimi rapporti ed incontri della “Head of the Mission” il 17 gennaio 2012 durante la preparazione di questa relazione, i leader del gruppo hanno testimoniato manifestazioni pacifiche sia da parte dei sostenitori del governo, sia dall’opposizione in numerosi luoghi.
Nessuna delle manifestazioni è stata interrotta, a eccezione di alcuni scontri minori con la Mission e tra i conservatori e l’opposizione. Questi non hanno avuto conseguenze fatali dall’ultima presentazione prima dell’incontro dell’8 gennaio 2012 della Commissione Ministeriale Araba sulla situazione in Siria.

31. Le relazioni e gli incontri dei leader del gruppo affermano che i cittadini affini all’opposizione circondano la Mission al suo arrivo e usano l’incontro come barriera contro i servizi della sicurezza. Comunque, tali incidenti sono gradualmente diminuiti.

32. La Missione ha ricevuto alcune richieste dai sostenitori dell’opposizione a Homs e Deraa affinché rimanga sul luogo e non parta, qualcosa che potrebbe essere attribuito alla paura dell’attacco dopo la partenza della Missione.


C. Si sta verificando la liberazione dei trattenuti durante gli eventi attuali

33. La Missione ha ricevuto relazioni dai partiti esterni alla Siria indicando che il numero di trattenuti era di 16.237. Si ricevono anche informazioni dall’opposizione interna al paese secondo cui il numero dei trattenuti era 12.005. Convalidando i numeri, le squadre sul campo hanno scoperto che c’erano alcune discrepanze fra le liste, che le informazioni erano errate e inaccurate, e che i nomi erano ripetuti. La Missione sta comunicando con le agenzie del Governo interessate per confermare tali numeri.

34. La Mission ha inviato al governo siriano tutte le liste ricevute dall’opposizione siriana interna ed esterna alla Siria. Secondo il protocollo, è stato richiesto il rilascio dei trattenuti.

35. Il 15 gennaio 2012, il presidente Bashar Al-Assad ha emesso un decreto legislativo che garantisce un’amnistia generale per i crimini commessi nel contesto degli eventi dal 15 marzo 2011 tramite l’emissione del decreto. Durante l’attuazione dell’amnistia, le autorità governative competenti si stanno periodicamente liberando dei trattenuti nelle varie regioni fintanto che essi non sono ricercati per altri crimini. La Missione sta supervisionando i rilasci  e sta monitorando il processo insieme all’ attiva e piena coordinazione del Governo.

36. Il 19 gennaio 2012, il governo siriano ha affermato che 3.569 prigionieri sono stati liberati dai servizi di persecuzione militari e civili. La Missione ha verificato che 1.669 di quei trattenuti finora sono stati liberati. Si continua ad esaminare ulteriormente insieme al Governo e all’opposizione, facendo notare al Governo che i trattenuti dovrebbero essere liberati alla presenza di osservatori così che l’evento possa essere documentato.

37. La Missione ha convalidato i seguenti numeri per un numero totale di trattenuti che il governo Siriano ha finora affermato di aver liberato:
-    Prima dell’amnistia: 4.035
-    Dopo l’amnistia: 3.569
Il Governo ha perciò sostenuto che 7,604 prigionieri sono stati liberati.

38. La Missione ha verificato il corretto numero di prigionieri liberati, e si è arrivati ai seguenti numeri:
- Prima dell’amnistia: 3.483
- Dopo l’amnistia: 1.669
Il numero totale dei rilasciati confermati è perciò 5.152. La Missione sta continuando a monitorare il processo e a comunicare con il Governo Siriano per il rilascio dei prigionieri rimasti.

D. Si conferma il ritiro della presenza militare dai quartieri residenziali in cui ci sono e ci sono state manifestazioni e proteste

39. Sulla base delle relazioni dei leader del team sul campo e dall’incontro tenutosi il 17 gennaio 2012 con tutti i team-leader, la Missione ha confermato che i veicoli militari, i carri armati e armi pesanti sono stati ritirati dalle città e dai centri residenziali. Sebbene ci siano ancora alcune esistenti misure di sicurezza sotto forma di argini e barriere di fronte ai palazzi più importanti e nelle piazze, tutto ciò non ha effetto sui cittadini. Si deve notare che il Ministero della Difesa Siriano, in un incontro con “The Head of the Mission” che si è svolto il 5 gennaio 2012, ha affermato la sua prontezza nell’accompagnare “The Head of the Mission” in tutti i luoghi e città designate da questi ultimi e nei luoghi in cui secondo la Missione si sospetta che la presenza militare non sia ancora sparita, in vista dell’invio degli ordini sul campo e rettificando ogni violazione immediatamente.

40. Veicoli blindati (truppe militari) sono presenti in alcune barriere. Una di queste barriere si trova a Homs e anche a Madaya, Zabadani e Rif Damascus. La presenza di questi veicoli è stata riferita e di conseguenza sono stati ritirati da Homs. E’ stato confermato che i residenti di Zabadani e Madaya hanno raggiunto un accordo bilaterale con il governo in modo che direzioni la rimozione di tali barriere e veicoli.

E. Si conferma il riconoscimento da parte del governo siriano delle organizzazioni internazionali e arabe dei media e che a tali organizzazioni è permesso di muoversi liberamente ovunque in Siria

41. Parlando a nome del Governo, il Ministero Siriano dell’Informazione ha confermato che, dall’inizio di dicembre 2011 al 15 gennaio 2012, il Governo ha autorizzato 147 organizzazioni mediatiche arabe e straniere. Alcune di queste 112 organizzazioni sono entrate in territorio siriano, unendosi alle altre 90 accreditate organizzazioni che operano in Siria tramite i corrispondenti a tempo pieno.

42. La Missione ha esaminato questo problema. Sono stati identificati 36 organizzazioni mediatiche arabe e straniere e diversi giornalisti dislocati in un gran numero di città siriane. Sono state ricevute anche lamentele secondo cui il Governo siriano ha concesso ad alcune organizzazioni mediatiche l’autorizzazione ad operare per 4 giorni soltanto, tempo non sufficiente, soprattutto secondo le organizzazioni. Inoltre, per impedire che essi entrino nel paese fintanto che le loro destinazioni non vengono accertate, ai giornalisti è stato richiesto di ottenere ulteriori autorizzazioni una volta entrati nel paese e gli è stato impedito di raggiungere determinate zone. Il Governo Siriano ha confermato che garantirà alle organizzazioni mediatiche sul campo dei permessi validi per 10 giorni, con la possibilità di rinnovo.

43. Relazioni ed informazioni da alcuni settori (gruppi) indicano che il Governo ha imposto restrizioni sul movimento dei media nelle zone dell’opposizione. In molti casi, tali restrizioni hanno causato ai giornalisti ritardi nello svolgimento del proprio lavoro.

44. A Homs, un giornalista francese che lavorava per il canale 2 francese è stato ucciso e un giornalista belga è stato ferito. Il Governo e l’opposizione si accusano a vicenda della responsabilità per gli incidenti, e da entrambi i lati vengono pubblicate dichiarazioni di condanna.  Il Governo ha istituito una commissione investigativa in modo da determinare la causa dell’incidente.Si può notare nelle relazioni della Missione da Homs, che il giornalista francese è stato ucciso da una bomba da mortaio dell’esercito dell’opposizione.




c)

PIATTAFORMA DI PACE

1. Cessate il fuoco e fine di ogni violenza da entrambe le parti in conflitto.

 

2. Condanna di ogni ingerenza militare esterna, diretta e indiretta, o minaccia dell'uso della forza e rispetto della sovranità nazionale della Siria nelle forme garantite dalla Carta dell'Onu. 

 

3. Rinnovo della missione degli osservatori internazionali che comprenda mediatori neutrali di alto profilo etico nonché attivisti per la pace e i diritti umani, con compiti di verifica delle informazioni sulle violenze, di individuazione dei responsabili delle violenze e di risoluzione nonviolenta dei conflitti

 

4. Richiesta di una commissione indipendente nominata dalla Assemblea Generale dell'ONU per l'accertamento delle reponsabilità dlle violenze-da qualunque parte siano provenute-al fine di applicare le norme delle Convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani.

 

5. Sostegno al progetto di referendum e libere elezionicon la presenza di osservatori internazionali accettati dalle parti.

 

6. Il Governo e il Parlamento d'Italia agiscano come ponte di pace e come fautori di mediazione in piena conformità con l'art.11 della Costituzione italiana e secondo il principio di trasparenza del dibattito parlamentare.

 

Riteniamo necessario che tutte le associazioni pacifiste e della società civile che appoggiano la pace e la riconciliazione per il popolo siriano siano realmente neutrali tra le parti e non affianchino organizzazioni come il CNS che in questo momento approvano l'insurrezione armata in Siria.


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ALTRE INIZIATIVE SEGNALATE E AGGIORNAMENTI

* Roma - Borghesiana 17 febbraio: GUERRA, NAZIONALISMI, MASSACRI ETNICI E POLITICI IN VENEZIA GIULIA, SLOVENIA, CROAZIA 1941-1945
* Montereale Valcellina (PN) 18 febbraio: INAUGURAZIONE DELLA MOSTRA "QUANDO MORI' MIO PADRE" - esposizione fino al 4 marzo 2012
* Ventimiglia (IM) 18 febbraio: dopo l'irruzione squadristica alla mostra su "Foibe e Crimini Fascisti in Jugoslavia" PRESIDIO PARTIGIANO ANTIFASCISTA - la mostra è visitabile ancora per alcuni giorni! 
* Roma 23 febbraio: Davide Conti presenta il libro e la mostra sui CRIMINALI DI GUERRA ITALIANI
* Reggio Emilia 25 febbraio: RICORDIAMO. Pubblico dibattito con Davide Conti e Alessandra Kersevan

NB. Il sito di CNJ-onlus - www.cnj.it - sarà aggiornato con le necessarie rettifiche nei prossimi giorni.


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SULLA INIZIATIVA DELLA BIBLIOTECA BORGHESIANA - ROMA - GIA' ANNUNCIATA AGGIUNGIAMO I SEGUENTI DETTAGLI:



Jugoslavia e Venezia-Giulia: "Giornata del Ricordo" in biblioteca

Jugoslavia e Venezia-Giulia: "Giornata del Ricordo" in biblioteca


Conferenza con relazioni di storici mercoledì nei locali di largo Monreale a Borghesiana. Dalle 17,30 : "Guerra, nazionalismi, massacri etnici e politici in Venezia Giulia, Slovenia a Croazia"

di Mauro Cifelli 13/02/2012


Potrebbe interessarti:http://torri.romatoday.it/borghesiana/giornata-del-ricordo-foibe-biblioteca-largo-monreale.html
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Jugoslavia e Venezia-Giulia: "Giornata del Ricordo" in biblioteca
"Giornata del Ricordo". Questo il nome dell'iniziativa che si terrà mercoledì 17 febbraio nella biblioteca Borghesiana di largo Monreale. "Guerra, nazionalismi, massacri etnici e politici in Venezia Giulia, Slovenia, Croazia: 1941-1945", questa la conferenza che si terrà a partire dalle 17,30.

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Jugoslavia e Venezia-Giulia: "Giornata del Ricordo" in biblioteca
INTERVENTI: Promossa dalla biblioteca Borghesina la conferenza vedrà la partecipazione di alcuni storici come Davide Conti, che dibatterà in relazione "all'occupazione italiana della Jugoslavia e la Resistenza 1941-45". Alberto Becherelli: "Rapporti tra Italia e Stato Indipendente Croato, 1941-1943". Giancarlo Bertuzzi: "Resistenza italiana e movimento di liberazione sloveno e croato nella Venezia Giulia". E Sandi Volk con : "La documentazione esistente sulle foibe".

LEGGI LA RISPOSTA SCOMPOSTA DELLA DESTRA NAZIONALISTA:
http://torri.romatoday.it/borghesiana/attacco-marsilio-giornata-del-ricordo-foibe-biblioteca-largo-monreale.html


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http://www.diecifebbraio.info/2012/02/montereale-valcellina-pn-dal-182-al-432012-quando-mori-mio-padre/

Montereale Valcellina
gennaio/marzo 2012

“GIORNO DELLA MEMORIA”
 
A cura del Circolo ARCI “Tina Merlin”
con il patrocinio del Comune di Montereale Valcellina
 


Sabato 18 febbraio 2012 alle ore 18:00
Sala Roveredo – Palazzo Toffoli
 
inaugurazione della mostra intitolata:
 
“Quando morì mio padre”
disegni e testimonianze dei bambini dai campi di concentramento del confine orientale (1942-43)
 
presentano:
 
-  Mag. Metka Gombac (Archivio di Stato Repubblica di Slovenia)
-  Dr. Boris M. Gombac (Museo Nazionale Repubblica di Slovenia)
-  Sigfrido Cescut (ANPI Pordenone)
-  Alessandra Kersevan (storica)
 
Seguirà un rinfresco presso i locali del Circolo ARCI con musica d’intrattenimento.
 


La mostra sarà visitabile durante gli orari di apertura della biblioteca:
martedì, mercoledì e giovedì dalle 17.00 alle 19.00, venerdì dalle 9.00 alle 12.00, sabato dalle 15.00 alle 18.00 e alla domenica dalle 10.00 alle 12.00 fino al giorno 04 marzo.
Per le scolaresche è possibile prenotare al numero
 
Collaborano: Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale ”Leopoldo Gasparini” Gradisca d’Isonzo (GO), ANPI PN, Istilib Pordenone, Biblioteca Civica di Montereale Valcellina, Circolo Culturale Menocchio, Università della Terza Età delle Valli del Cellina e del Colvera.
 
Per informazioni:  www.arcitinamerlin.it

“Quando morì mio padre. Disegni e testimonianze di bambini dai campi di concentramento del confine orientale (1942-1943)” , preparata dall’Istituto Gasparini di Gorizia. La mostra illustra i i crimini fascisti italiani contro la comunita’ slovena e croata al confine orientale italiano. Nello specifico descrive le condizioni di vita nel campo di concentramento nell’isola di Rab, attraverso le testimanianze di bambini internati nel campo, raccolte tra il 1944 e il 1945. Si articola in 26 grandi pannelli in italiano e in serbo.
La mostra è nata così: Metka Gombac, nel suo lavoro all’Archivio di stato sloveno, dirige il reparto dedicato alla resistenza. E’ uno degli archivi piu’ ricchi di documentazione su questo fenomeno in Europa. Proprio collaborando con le colleghe di Venezia (scrivevano un articolo sulle donne e sui bambini nella seconda guerra mondiale) si e’ riusciti a rintracciare una cinquantina di disegni e scritti datati nel 1944 e scritti da bambini sopravvissuti ai campi di concentramento che, tornati a casa, dovevano frequentare i corsi delle scuole riaperte dai partigiani. Il ‘direttore’ didattico, informato dalle maestre “che i bambini rimpatriati rivivevano i drammi trascorsi stando molto irrequieti e depressi e che bisognava fare qualcosa per rimuovere i patimenti patiti”, imparti’ alle maestre il consiglio di fare una specie di gara dove dovevano riscrivere e disegnare quello che avevano provato nei “campi”, affinche’ “dessero fuori il loro patimento”. E’ chiaro che si pensava a sanare il PTS (Post traumatic sindrom) e oggi i colleghi psicologi direbbero proprio cosi’, ma allora si penso’ solo di alleviare loro il peso del ricordo.
Ecco, alla mostra organizzata a Ljubljana sono stati invitati all’apertura quasi tutti i bambini sopravvissuti. Allora avevano l’eta’ dai sette ai dieci anni e oggi ne contano settanta in piu’. Gli organizzatori sono riusciti a creare un ambiente incredibile. I bambini di allora rivedevano i propri compiti dopo decine di anni e rivivevano l’ambiente e la situazione di allora. I sopravvissuti hanno rivisto per la prima volta i propri compiti di scuola di 70 anni prima . Non potevano credere che la storia si fosse ricordata di loro, dei loro patimenti e della loro gioventu’ provata dall’esperienza del lager.
La mostra indaga l’odissea dei bambini sloveni deportati nei campi di Gonars, Visco, Arbe-Rab e Monigo (Treviso) tra il 1942 ed il 1943. Disegni e scritti dei bambini vennero composti durante i corsi di terapia post traumatica avviati in strutture mediche partigiane dopo la liberazione dai campi, successiva all’8 settembre 1943. Ai tentativi di terapia, attuati stimolando i bambini a far riemergere la memoria delle sofferenze patite per poterle elaborare, ed ai temi svolti nelle scuole elementari organizzate dalle forze partigiane, dobbiamo la conservazione di questi materiali che costituiscono oggi una delle testimonianze più preziose e drammatiche di una delle pagine più buie della nostra storia.
 

SCARICA IL VOLANTINO IN FORMATO PDF: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/02/monterealev180212.pdf



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IRRUZIONE FASCISTA E RISPOSTA ANTIFASCISTA E ANTINAZIONALISTA A VENTIMIGLIA:

info sulla mostra: http://www.sanremonews.it/2012/02/07/leggi-notizia/argomenti/eventi-1/articolo/ventimiglia-al-chiostro-di-santagostino-prosegue-con-successo-la-mostra-foibe-e-crimini-in-jugosl.html
reazioni scomposte della lobby neo-irredentista e dei nazionalisti:
comunicato sul sito ANVGD: http://www.anvgd.it/notizie/12597-07feb12-negazionismo-che-serpeggia-anche-al-confine-occidentale.html
comunicato ANVGD sul sito Riviera24.it: http://www.riviera24.it/articoli/2012/02/08/126706/associazione-nazionale-venezia-giulia-e-dalmazia-mostra-a-ventimiglia-e-giustificazionista
* azione di disturbo dei militanti de La Destra: 
su SanremoNews: http://www.rivieranews.it/2012/02/12/leggi-notizia/argomenti/ventimiglia-vallecrosia-bordighera/articolo/ventimiglia-giovani-de-la-destra-contestano-mostra-sulle-foibe-allestita-dallassociazione-inteme.html
su Riviera24.it: http://www.riviera24.it/articoli/2012/02/12/126981/gioventu-italiana-e-la-destra-contestano-la-mostra-foibe-e-crimini-fascisti-in-jugoslavia



Presidio Partigiano Antifà. ★ Contro il Revisionismo. Per la Memoria.


    • sabato 18 febbraio 2012
    • 10.30 fino a 16.30
  • Mostra sui Crimini Fascisti in Jugoslavia. Via Cavour, 65. Ventimiglia.
  • Nella scorsa Mattinata si è verificata a Ventimiglia una grave provocazione squadrista da parte dei fascisti di "Gioventù Italiana" e de La Destra di Storace.
    Approfittando del fatto che la mostra su Fojbe e Crimini Fascisti in Jugoslavia fosse presidiata soltanto da un paio di anziani compagni ultrasettantenni, i fascisti venuti da Sanremo e Imperia hanno iniziato a inveire e minacciare i presenti, fare saluti romani e insultare la memoria dei partigiani caduti.
    Dopodichè si sono pure rivendicati l'azione a mezzo stampa con tanto di comunicato e di foto:
    http://www.rivieranews.it/2012/02/12/leggi-notizia/argomenti/politica-1/articolo/ventimiglia-giovani-de-la-destra-contestano-mostra-sulle-foibe-allestita-dallassociazione-inteme.html
    Come antifascisti del Ponente Ligure non possiamo accettare questo genere di insulti alla nostra città, Medaglia d'Argento alla Resistenza. ★
    Invitiamo pertanto compagni e cittadini alla vigilanza e convochiamo nella mattinata di Sabato un Presidio Antifascista e Partigiano davanti alla Mostra sui Crimini Fascisti, in Via Cavour 65.
    Durante l'iniziativa saranno letti brani del libro "Operazione Foibe a Trieste" (potete scaricarlo gratuitamente a questo link: 
    https://www.cnj.it/foibeatrieste/) della studiosa e storica Claudia Cernigoi, che rivela la mistificazione politica sulla vicenda delle Fojbe utilizzata dai fascisti e dalla destra come arma di propaganda anticomunista e antipartigiana.
    Vi Aspettiamo!


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ROMA
Giovedì 23 febbraio ore 16:30 

Università La Sapienza - Facoltà di Fisica

Davide Conti presenta il libro e la mostra sui 
CRIMINALI DI GUERRA ITALIANI

E' previsto che la mostra sarà esposta a cura dell'ANPI presso il Museo del Risorgimento di Porta San Pancrazio, probabilmente dal 27 febbraio alla fine di marzo 2012. SEGUIRANNO DETTAGLI.



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http://www.diecifebbraio.info/2012/02/reggio-emilia-2522012-ricordiamo/


Reggio Emilia, sabato 25 febbraio 2012

ore 15:00, presso la Sala polivalente del centro sociale Rosta Nuova

in Via Medaglie d’Oro della Resistenza 6

RICORDIAMO

Pubblico dibattito con Davide Conti e Alessandra Kersevan


SCARICA LA LOCANDINA: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/02/reggioemilia250212.jpg


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http://www.lucidamente.com/13239-in-slovenia-la-cultura-resiste/

In Slovenia gli artisti resistono


10 febbraio 2012


La testimonianza di uno scrittore. Anche nel paese limitrofo al nostro comincia a imperare il “liberismo anticultura”. Ma, a differenza dell’Italia...


Un popolo a volte dimostra la propria mancanza di rassegnazione anche senza mettersi a bestemmiare o a sfasciare vetrine in piazza. Testimonianza ne sia la manifestazione pacifica che circa trecento scrittori e intellettuali hanno tenuto il pomeriggio del 7 febbraio 2012 nel centro di Lubiana, con l’intenzione di aggiungere una nota polemica alla cerimonia ufficiale di premiazione del Premio Prešeren 2012, che si teneva la medesima sera in una sala congressi del grande Cankarjiev dom (palazzo destinato a incontri culturali, spettacoli, ecc. Ogni anno a novembre vi si tiene anche la fiera del libro nazionale).

Cosí quei trecento – dopo aver firmato, con altri cinquemila operatori culturali, una petizione che esprimeva la loro posizione rispetto al problema – si sono radunati all’aperto (il termometro segnava dieci sotto zero) e hanno discusso assieme, scandito tranquilli slogan, acceso lumini e... bruciato simbolicamente un violoncello autentico e funzionante. Perché? Qual era il “problema” che univa musicisti, scrittori e redattori, uomini di spettacolo e traduttori?

Semplice: il problema era che il governo ha deciso di eliminare il Ministero della Cultura, accorpandone le funzioni (e i funzionari) a quello dell’Istruzione. Prevedendone le probabilissime (io direi le ovvie) ricadute negative sul mondo dell’editoria e della cultura in genere, tutti si sono alquanto arrabbiati. La televisione nazionale ha dedicato servizi alla protesta sul primo canale. I giornali ne parlano tuttora (e anch’io, pur essendo un italiano vivente a Lubiana, faccio il mio dovere divulgando la faccenda, che dovrebbe far profondamente vergognare l’attuale governo sloveno). La cosa, insomma, non è restata incastrata nel “vuoto pneumatico” dell’omertà massmediatica – che invece in Italia funziona tanto bene quando c’è da annullare un evento “minoritario” sgradito al potere. Esempio: tu, cittadino, o tu piccolo coordinamento, scrivi alla Rai per dirle che il servizio fa schifo e spieghi con civiltà le tue ragioni? Nessuno ti risponde. È il “vuoto pneumatico”, il silenzio del potere che ti isola e ti uccide in quanto cittadino o piccola aggregazione di cittadini.

Ebbene, in Slovenia questo silenzio (nonostante un certo imbarbarimento evidente anche qui) è considerato immorale: se tu scrivi e spieghi civilmente le tue ragioni, esiste un funzionario che ti risponde, alla tv come in qualsiasi altro ente pubblico. E della cultura nessuno oserebbe addirittura dire, come il nostro Tremonti, che «non si mangia». E se anche qualche imbecille lo dice, c’è chi gli risponde a tono. E brucia i violoncelli sotto lo Cankarjiev dom.

Dunque, ovunque in Europa, davanti ai liberisti e ai liberomercatisti culturali, ai darwinisti sociali della cultura, agli ottusi nonlettori o lettori danbrowniani: resistere! Resistere! Resistere! Solidarietà alla lotta degli operatori culturali sloveni. E ai politici italiani: tagliassero le proprie scorte, non il bilancio della cultura, che già è uno dei piú bassi dell’Unione Europea!

L’immagine: il violoncello arso nel corso della manifestazione di Lubiana dello scorso 7 febbraio.

Sergio Sozi

(LM MAGAZINE n. 22, 14 febbraio 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 74, febbraio 2012)

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