Informazione

Slovenia/Croazia: quali sono i confini della UE?

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http://www.edit.hr/lavoce/index.html
"La Voce del Popolo", Rijeka - Fiume, 10.8.2004

La stampa slovena sulla situazione nel Golfo di Pirano

Gli incidenti fomentano lo spirito antieuropeo

LUBIANA - Non accenna a diminuire l'interesse dell'opinione pubblica
slovena in merito all'inasprimento dello scontro relativo alla
sovranità territoriale nel Golfo di Pirano e al conseguente diritto
alla pesca nelle acque contese. Parimenti, numerosi continuano a essere
anche i commenti e gli articoli pubblicati a riguardo dai giornali
sloveni. Immediatamente dopo l'incontro della presidenza della
Commissione mista per il traffico frontaliero tra la Croazia e la
Slovenia tenutosi venerdì scorso Otocec non sono tardati i commenti che
non facevano mistero della mancata riuscita dell'incontro. Nel corso di
questo, infatti, non era stato possibile giungere a un accordo
riguardante il codice di comportamento dei pescatori in quanto la parte
slovena aveva valutato inaccettabili le modifiche al testo prestabilito
richieste dalla parte croata. In aggiunta, a sottolineare il fallimento
dell'iniziativa il quotidiano di Lubiana "Delo" informava che a
incontro concluso il Ministero degli Affari Esteri sloveno aveva
inviato a Zagabria una nota diplomatica, la seconda riguardante gli
ultimi sconfinamenti. In questa si faceva presente che la Slovenia
considera le acque nelle quali si sono verificati gli incidenti che
hanno coinvolto i pescherecci croati e le motovedette della polizia
slovena acque territoriali slovene e protestava contro l'uso del nome
"Savudrijska vala" in quanto internazionalmente riconosciuto sarebbe
soltanto quello di Golfo di Pirano. Stando all'articolo le ragioni
fondanti dello scambio di note riguarderebbero ancora una volta la zona
ittico - ecologica con la quale la Croazia a partire da ottobre
prossimo allarga la propria giurisdizione nell'Adriatico in quanto
stando all'accordo raggiunto alcuni mesi fa con Bruxelles la zona entra
in vigore nei confronti dei Paesi che non fanno parte dell'UE. Ciò, a
causa dell'irrisolta questione del confine marittimo tra la Croazia e
la Slovenia mette in forse la fiducia reciproca tra i due Paesi
confinanti. Proseguendo lungo questa linea di pensiero lunedì il
quotidiano ha riportato che le proposte croate vertevano
all'imposizione della "linea mediana" richiamandosi all'art.15 della
Convenzione dell'ONU sul diritto del mare impossibilitando così la
parte slovena a dare il proprio consenso al codice di comportamento per
i pescatori. Infatti, il diritto internazionale prevede il ricorso alla
"linea mediana" soltanto quando non sussistono "ragioni storiche o
altre circostanze particolari".
Queste sussisterebbero nel caso del Golfo di Pirano in quanto "la
Slovenia ha amministrato il Golfo dal punto di vista turistico,
economico ed ecologico senza interruzioni di alcun genere. Inoltre, la
polizia slovena controllava tutto il Golfo in data 25 giugno 1991, data
in riferimento alla quale vanno prese tutte le decisioni riguardanti il
confine sul mare". Stando a quanto riportato dal "Delo" alla luce di
detti fatti risulta chiaro che le acque del Golfo vanno considerate
"parte delle acque interne slovene" nelle quali, a differenza di quanto
avviene nelle acque territoriali, gli stati hanno gli stessi diritti
sovrani garantiti anche sulla terraferma.
Il giornale di Maribor, "Vecer", ha invece portato la questione sul chi
può aver interesse a un eventuale inasprimento dei rapporti croato -
sloveni. "Entrambe le diplomazie si dichiarano di essere orientate ad
assicurare i rapporti di buon vicinato e a migliorare lo spirito
europeo di collaborazione. Il codice è scaduto con l'ingresso della
Slovenia nel'UE. Ora ci si chiede se il mancato rinnovo è dovuto alle
elezioni in programma a settembre o al fatto che le tensioni vanno a
favore di quanti propagano la mentalità antieuropea in entrambi gli
stati", si legge nelle pagine del "Vecer".
Per quanto riguarda le reazioni dei partiti che immancabilmente
introducono l'argomento "confine sul mare" tra i temi trattati nel
corso della campagna elettorale le opinioni sono fortemente divise
suscitando di conseguenza anche divisioni tra gli analisti che stilano
previsioni riguardo al risultato elettorale. Mentre uni ritengono il
tutto vada a favore dell'attuale opposizione di centro - destra, altri
si dicono convinti che le attuali forze governative sapranno sfruttare
l'argomento per assicurarsi il voto degli elettori "più attenti agli
interessi nazionali".
Comunque sia, una soluzione diplomatica alla crisi continua a rimanere
lontana anche perché dal Ministero degli Affari Esteri sloveno hanno
fatto sapere che un incontro tra i capi delle diplomazie, Miomir Zuzul
e Ivo Vajgl non può attendersi a breve termine.

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http://www.edit.hr/lavoce/index.html
"La Voce del Popolo", Rijeka - Fiume, 11.8.1994

La TV di stato sui motivi del mancato accordo sulla pesca

La Slovenia non cede sui diritti di sovranità nel Golfo

LUBIANA – Codice di comportamento dei pescatori nel Golfo di Pirano: la
diplomazia slovena espone le ragioni del mancato accordo. Venendo
incontro al forte interesse dell’opinione pubblica in merito
all’argomento la TV slovena ha dedicato ieri, all’interno del
telegiornale della sera, un ampio servizio alla questione riguardante
il confine sul mare. Nel servizio, che si richiamava a fonti
diplomatiche di Lubiana, come motivo dell’insuccesso dell’incontro dei
membri della presidenza della Commissione mista per il traffico
transfrontaliero tra la Slovenia e la Croazia veniva indicata la
richiesta avanzata dalla parte croata che per la Slovenia avrebbe
significato "la rinuncia a una parte della sovranità sul mare".
Stando alla dichiarazione rilasciata in merito da Aleksander Geržina,
il membro sloveno della presidenza della Commissione, "la Croazia ha
proposto la sottoscrizione di un accoro in base al quale alla polizia
verrebbe tolta la competenza a controllare i pescatori che effettuano
la loro attività commerciale nella zona di confine. Per Lubiana ciò
significherebbe rinunciare a una parte della sovranità nel Golfo di
Pirano". Richiamandosi a questa dichiarazione il comunicato diffuso
dall’agenzia STA ha adotto tra le ragioni del rifiuto sloveno a
sottoscrivere un siffatto accordo anche il fatto che la Slovenia non ha
intenzione di rinunciare a quanto previsto nell’accordo Drnovšek-Račan.
Illustrando la proposta di accordo precedentemente stilata Geržina ha
detto che “questa prevedeva nelle acque un controllo congiunto delle
polizie slovena e croata per quanto concerne tutti gli elementi che
possono essere ricondotti alla pesca. Per quanto riguarda invece la
pesca intesa come attività commerciale, regolata nel codice di
comportamento, questa sarebbe diventata competenza dell’ispettorato
composto da rappresentanti sloveni e croati".
Il sottosegretario presso il Ministero dell’agricoltura, Franc
Potočnik, ha dichiarato che “i pescatori possono continuare
indisturbati la loro attività nella zona controllata dalla polizia
slovena, vale a dire fino a circa 300 metri dalla costa occidentale del
Golfo di Pirano".

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"La Voce del Popolo", Rijeka - Fiume, 29.8.2004

Janez Drnovšek affronta il tema del contenzioso con la Croazia

«Plovania, valico inventato da Zagabria»

Le tesi di Stjepan Mesić sono una semplice «chimera»

LUBIANA – Il presidente sloveno, Janez Drnovšek, ha affermato ieri che
stando all’accordo “Drnovšek-Račan” del 2001, quello in base al quale a
Lubiana spetterebbe la maggior parte del Golfo di Pirano e lo sbocco al
mare aperto, gli ultimi sette chilometri del confine continentale fra
Croazia e Slovenia in Istria appartengono alla Croazia. “In conformità
a quell’accordo gli insediamenti a meridione della Dragogna
spetterebbero alla Croazia, ma ciò costituisce una contropartita per lo
sbocco della Slovenia al mare aperto, e per la linea di frontiera nel
Golfo di Pirano che spetta a noi per la maggior parte assieme a una
parte adeguata del mare territoriale”, ha dichiarato il capo di Stato
sloveni ai giornalisti del quotidiano di Maribor “Večer”, dal quale è
stato invitato a commentare gli ultimi eccessi di Joško Joras e le
recenti dichiarazioni rilasciate dal presidente croato, Stjepan Mesić,
in relazione ai confini terrestri tra Lubiana e Zagabria.
Secondo Drnovšek la tesi del presidente croato, il quale sostiene che
la frontiera terrestre è stata determinata e ora rimane da stabilire
unicamente quella marittima, costituiscono solamente un suo
“desiderio”. “Questo presunto fatto rappresenta soltanto un auspico,
giacché non ci sono i presupposti necessari, in nessun accordo o atto
giuridico. Gli ultimi sette chilometri del confine terrestre sono
rimasti in dubbio nel corso di tutto il tempo delle trattative sulle
frontiere, cioè dalla nostra indipendenza”, ha chiarito Drnovšek. Il
presidente sloveno ha fatto presente che Lubiana dispone della
documentazione inerente alle trattative sulle frontiere e allo status
dei quattro villaggi situati a Sud del fiume Dragogna. Egli ha spiegato
che in base ad alcuni elementi insorti nel 1991 scaturiva che fosse
corretta la tesi croata e in base ad altre circostanze che lo fosse
quella slovena.
Drnovšek ha collegato il dilemma inerente agli ultimi sette chilometri
del confine terrestre in Istria all’accordo Drnovšek-Račan, che per la
Slovenia è tuttora attuale (lo ha dichiarato in questi giorni pure il
ministro degli Affari esteri di Lubiana, Ivo Vajgl) e all’ottenimento
dello sbocco alle acque internazionali. “Se la Croazia desidera la
linea di confine sancita dall’accordo, allora lo deve accettare nel suo
insieme e non può avvalersi solo di quei punti che le fanno comodo”, ha
rilevato Janez Drnovšek. Secondo il presidente sloveno, il valico di
frontiera di Plovania è stato realizzato da Zagabria di testa propria.
Egli ha ricordato che la Slovenia in tale senso ha trasmesso una nota
diplomatica. Le polemiche riguardanti il confine in Istria sono tornate
d’attualità in seguito alle gesta di Joško Joras che aveva bloccato il
traffico al confine tra i due paesi. Joras sostiene che il valico di
Plovania non rappresenti un confine bensì un semplice check point.

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"La Voce del Popolo", Rijeka - Fiume, 29.8.2004

Stjepan Mesić commenta le ultime considerazioni di Janez Drnovšek

«Confine terrestre? Commissione Badinter docet...»

Secondo il presidente croato non ci sono dubbi in merito

LESINA (HVAR) – Il presidente della Repubblica, Stjepan Mesić, non ha
mancato di commentare – sabato durante la sua visita a Lesina (Hvar) –
le dichiarazioni rilasciate il giorno prima dal presidente sloveno
Janez Drnovšek al quotidiano "Večer" di Maribor in merito ai confini
tra Croazia e Slovenia. Secondo Drnovšek, infatti, la convinzione di
Mesić che la frontiera terrestre è cosa fatta e risolta, rappresenta
una "chimera", una "pura illusione del mio collega croato". La
determinazione degli ultimi sette chilometri del confine terrestre,
aveva affermato il capo di stato sloveno, è rimasto un problema aperto
per tutto il tempo delle trattative sulle frontiere, ossia
dall'ottenimento dell'indipendenza della Slovenia. Drnovšek, inoltre,
aveva collegato il dilemma su questi ultimi sette chilometri in Istria
all’accordo Drnovšek-Račan, aggiungendo che il valico di Plovania non è
altro che un'invenzione di Zagabria.
Commentando la dichiarazioni di Drnovšek alla Radio croata, Mesić si è
limitato a ricordare il responso della Commissione Badinter, secondo il
quale i confini terrestri tra le repubbliche socialiste dell'ex
federazione jugoslava rappresentano ora i confini di stato tra le nuove
entità statali sorte sulle rovine della RSFJ, mentre ai nuovi stati
rimane soltanto di definire i confini marittimi. "Il confine marittimo
– ha detto Mesić – dipende da come sono stabiliti quelli terrestri. Se
in qualcosa dovessi dare ragione al presidente sloveno, lo farei
certamente per la sua dichiarazione che i confini terrestri tra i
nostri due paesi non sono stati identificati, ma questi stessi confini
sono eccome ben definiti. La Commissione Badinter ha definito i
confini, e ora spetta a noi identificarli metro per metro".

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Ti, 'ex'-jugoslavenu/ko,
odgovori!
1) Koje si nacionalnosti? Da li znas - ili ne znas?
2) Daju li ti pasos?
3) Kuda prolaze nove granice?
a. izmedju tebe i tvoga supruga/e?
b. izmedju tebe i tvoj djece?
c. izmedju tvoje i susjedove kuce? ...

(Milena Cubrakovic, 1994)


Tu, 'ex'- jugoslava/o,
rispondi!
1) Di che nazionalita' sei? Lo sai - o no?
2) Ti danno un passaporto?
3) Dove passano le nuove frontiere?
a. fra te ed il tuo coniuge?
b. fra te ed i tuoi figli?
c. fra la tua casa e quella del tuo vicino?
Chi ti rilascia il visto sul passaporto per
andarlo a trovare? ...

(Milena Cubrakovic, 1994)

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( Ovaj tekst na srpskohrvatskom:
O ujedinjenju jugoslovenskih naroda i republika
http://komunist.free.fr/arhiva/jun2004/rkp-bih.html )


Dell’unita' dei popoli e delle repubbliche jugoslave

Il Partito Comunista Operaio della Bosnia-Erzegovina invita tutti i
partiti comunisti e gli altri partiti di orientamento jugoslavo a
sostenere il Partito Comunista Sloveno [ vedi:
http://komunist.free.fr/arhiva/jun2004/kps.html ; in italiano su:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3743 ] sulla
necessità di non riconoscere la frantumazione della Repubblica
Socialista Federativa di Jugoslavia e sulla necessità della sua
ricostituzione!
Per una dichiarazione congiunta dei vari partiti sulla necessità della
ricostruzione della RSFJ!

Si parla molto negli ultimi anni dell’integrazione europea. Tutti
corrono per unirsi all’UE nella speranza di ottenere qualche guadagno.
Dalle integrazioni europee ne traggono guadagno soltanto i paesi
europei ricchi e le classi dirigenti dei paesi poveri dell’est e centro
Europa e dei Balcani. I semplici cittadini di questa unione non ne
ricavano nessun profitto. Molti lo sanno, perciò si dichiarano contrari
all’UE. La dimostrazione di ciò è l’ultimo sondaggio realizzato in
Croazia. Lo stesso vale per la Bosnia-Erzegovina.

Siccome le annessioni sono antidemocratiche e noncuranti
dell’espressione dei cittadini, la classe dirigente non ritiene
importanti neanche i risultati delle votazioni. Cosi' la integrazione
viene imposta anche se ad esprimersi a favore e' soltanto un cittadino
su dieci.

Ma se possiamo dire di questa integrazione che essa e' insoddisfacente
per tutti, tranne che per la classe dirigente, esiste un’altra
integrazione della quale il gruppo che conta non vuole proprio parlare,
mentre i media e i leader partitici la ritengono sorpassata ed
impossibile: l’integrazione delle repubbliche jugoslave e dei loro
popoli. Dichiaratevi jugoslavo, dite che siete per la ricostruzione
della RSFJ, e sarete esposti ad una marea di sorrisi sarcastici.

Dopo la guerra civile e l'inglorioso sfacelo della Seconda Jugoslavia,
si dice che nessuno vorrebbe più rinnovare "la ex patria comune". Di
questo dobbiamo dubitarne. Le numerose inchieste svolte in tutte le
Repubbliche negli ultimi anni, hanno dimostrato che i cittadini dei
nuovi Stati ricordano con nostalgia il precedente sistema e lo Stato
unico. Naturalmente non per questo essi sono pronti a sostenere un
movimento politico che si adoperi per la ricostruzione della
Jugoslavia. Ma è altrettanto evidente che il sentimento nazionalista
antijugoslavo non è così forte come appariva e come sembra ancora. La
gente semplicemente pensa che l’idea del rinnovamento dello Stato
jugoslavo non sarebbe realizzabile e perciò non vuole impegnarvisi.
Questo ancora non significa che a molti questa idea non sia vicina.

Si dice spesso che la jugoslavità è una questione di nostalgia. C’è
della verità in questo. Ma non è forse vero che la gente, innanzitutto,
ricordando il periodo prospero della propria vita vorrebbe che esso
ritorni?
Per quanto riguarda i comunisti, il loro programma non si basa sulla
nostalgia, anche se essi la rispettano. La rispettano in quanto parte
dei sentimenti e delle aspirazioni umane. E' chiaro che un programma
politico non si può basare sulla nostalgia e sulle emozioni, quali che
siano. I comunisti d'altronde non lo fanno. Per noi è evidente che
tutto il mondo si sta collegando; l’unione è necessaria, per vari
motivi. Ma, effettuandosi in varie forme e tra vari soggetti, essa può
avere anche conseguenze negative.

E' inaccettabile unirsi con nazioni e stati ricchi, perché questo
significa la subordinazione economica, politica e militare agli
interessi del grande capitale. Da noi proprio questo si sta verificando.

E' insensato richiamarsi ad una solida unione con popoli con i quali
gli jugoslavi non hanno avuto un forte contatto culturale, storico ed
economico, mentre al contempo si condanna ogni connessione fra popoli
simili. E' insostenibile la tesi secondo cui gli interessi e le
affinita' di qualunque popolo jugoslavo con altri popoli europei
sarebbero maggiori degli interessi e delle affinita' tra esso e gli
altri popoli jugoslavi.

Il livello dello sviluppo economico degli Stati jugoslavi è simile, e
fino a qualche tempo fa questi territori facevano parte dello stesso
sistema economico. Oltre, del tutto uguale è la loro storia e l’etica
stessa.
In più, i popoli e gli Stati jugoslavi si trovano nella stessa
posizione nei confronti del capitalismo mondiale.
In particolare, la loro economia ha una posizione sfavorevolmente
identica nella spartizione mondiale del lavoro e del mercato. Siccome i
popoli jugoslavi appartengono al gruppo dei cosiddetti piccoli popoli,
è più logico che si uniscano reciprocamente e lavorino insieme per
migliorare la loro posizione.

Esiste una singolare euforia per entrare nell’UE e nel patto NATO. Essa
non durerà per molto. I risultati negativi si riscontreranno presto, in
particolare quelli che riguardano la completa perdita dell’autonomia
politica, le grandi spese per gli armamenti, e la sudditanza
dell’economia nazionale jugoslava meno sviluppata sul mercato europeo
unico.

Il Partito Comunista Operaio della Bosnia Erzegovina sin dalla sua
fondazione si adopera per la ricostruzione della Jugoslavia nelle
frontiere del 1991, perché in base ai principi dell’AVNOJ la Jugoslavia
non si è sciolta - come di solito si va dicendo - ma viceversa è stata
distrutta da determinate forze politiche del paese e dall’estero.

La ricostruzione della Jugoslavia e della jugoslavità è di grande
interesse per la classe operaia, perché, divisa nazionalmente, essa non
può svolgere un ruolo indipendente nella lotta per i propri interessi.
E la difficolta' non sta tanto nel fatto che la classe operaia negli
Stati jugoslavi è sotto l’influenza dell’ideologia nazionalista. Forse
il problema maggiore è che la classe operaia in ciascuno Stato
jugoslavo è troppo poco numerosa per opporsi ai suoi nemici sia sul
piano regionale che quello globale. La classe operaia jugoslava, unita
in un unico movimento politico e liberata da pregiudizi nazionalisti,
rappresenta una forza politica rispettabile. La sua resistenza al
capitale globale sarà più efficace se agirà come una forza unica. Il
socialismo e la Jugoslavia sono perciò due idee difficilmente
realizzabili l'una senza l’altra.

La Bosnia-Erzegovina e i suoi popoli hanno un interesse particolare per
la ricostruzione della Jugoslavia. E' evidente che la Bosnia-Erzegovina
si è formata come Stato durante la Guerra popolare di liberazione,
tramite le decisioni prese alle sessioni dell’AVNOJ (Consiglio
antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia) e dello ZAVNOBiH
(Consiglio regionale antifascista di liberazione della
Bosnia-Erzegovina). La storia però non si può studiarla selettivamente,
come vorrebbero ragioni ideologiche e politiche contingenti. Lo
ZAVNOBiH fa parte del sistema dell’AVNOJ e le sue decisioni sono state
formulate con la forte convinzione che la Bosnia ed Erzegovina fa parte
della Jugoslavia federata. Tenendo conto della composizione nazionale
della popolazione, la Bosnia-Erzegovina può essere un esempio di
persistenza come Stato unico inserito nella Jugoslavia, sulla base di
una pace stabile e duratura, della democrazia e della parità tra le
nazionalità.

E' un diritto legittimo del popolo bosgnacco quello di vivere la
Bosnia-Erzegovina come la propria patria e di esprimere il desiderio di
vivere, come prima, su tutto il suo territorio. Ma allo stesso modo è
legittimo che sia i serbi che i croati della Bosnia Erzegovina vivano
in un unico Stato insieme ai loro connazionali di Serbia e Croazia.

Questa apparente contraddizione si può risolvere in modo pacifico e
democratico soltanto se si rinnova lo Stato jugoslavo. Così saranno
realizzati gli interessi e le volontà di tutte e tre le popolazioni
bosniaco-erzegovesi.
Questo succedeva anche nella RSFJ, dove la parità dei diritti valeva
come un fatto reale, e non come un semplice sogno jugo-romantico.

Sostenendo queste posizioni il Partito Comunista Operaio della Bosnia
Erzegovina appoggia completamente la dichiarazione del CC del Partito
Comunista di Slovenia sul non riconoscimento della frammentazione della
RSFJ, e si risolve a lavorare per la ricostruzione della patria
comune. I comunisti della Bosnia Erzegovina invitano i partiti
comunisti e i partiti delle altre repubbliche jugoslave a sostenere
questa dichiarazione ed a contattarli per accordarsi sulla elaborazione
di una dichiarazione comune con la quale si potrà dire di essere pronti
ad una lotta politica per la ricostruzione della RSFJ.

Bijelina, giugno 2004

Comitato Centrale del
Partito Comunista Operaio di Bosnia-Erzegovina


[ Trad. a cura di Ivan, rev. del testo a cura di Andrea per il
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia
Italijanska Koordinacija za Jugoslaviju - Italija ]

[ Sul caso del pestaggio subito da Michel Collon a Bruxelles da parte
di poliziotti durante una manifestazione contro i bombardamento della
NATO sulla Jugoslavia vedi anche:

I minuti più lunghi della mia vita
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3577 ]


From: Michel Collon

6/9/04 : reprise du procès Collon / Flics brutaux de Bruxelles

Un document remarquable du parquet reconnaît
le droit de manifester face à l'arbitraire policier


Ce lundi 6 septembre, à 8h45, reprise du procès des flics brutaux de
Bruxelles - Ville, au Palais de Justice de Bruxelles (50ème chambre
correctionnelle). Il s'agit des deux policiers, Frank Van Impe et
Bernard Jongen, qui m'avaient arrêté arbitrairement pour empêcher la
tenue d'une manifestation contre la guerre de l'Otan en Yougoslavie (3
avril 1999) et qui m'avaient tabassé avec une brutalité extrême : 4
côtes fracturées, des semaines d'immobilisation.
Ils auraient déjà dû être jugés le 14 juin dernier, mais leurs avocats
ont tenté une manoeuvre de retardement en déposant des conclusions
écrites au dernier moment (la règle prévoit qu'il faut déposer ses
conclusions en temps utile pour permettre aux autres parties de
répondre).
Motif de cette manoeuvre ? D'une part, tenter de démobiliser. En effet,
une cinquantaine de personnes s'étaient déplacées pour me soutenir dans
cette audience. Certaines venant même spécialement de France. Un grand
merci pour ce précieux soutien ! D'autre part, ces flics brutaux sont
dans leurs petits souliers, car ils ont plusieurs affaires de
brutalités sur les cornes en même temps. Leurs avocats ont donc essayé
de 'saucissonner' : faire juger les affaires séparément pour atténuer
l'effet 'récidivistes'.
Mais leur manoeuvre a provoqué un effet boomerang. Leurs conclusions
écrites ont été mises à néant par le parquet, dans un document
remarquable. Qui pourra être utile à tous ceux qui se soucient de la
liberté de manifester et de s'exprimer.
En effet, que disait la défense des deux policiers ? 1. Que ceux-ci
n'ont rien fait, qu'ils ne sont pas responsables de quatre côtes
fracturées. La preuve : le chauffeur (un policier) de la camionnette où
s'est passé le tabassage dit n'avoir rien remarqué. 2. Que
l'arrestation aurait été nécessaire car « le sieur Collon organisait et
participait à une manifestation interdite, a gravement troublé l'ordre
public, a adopté un comportement de rébellion », et cetera, et
cetera... 3. Qu'enfin cette prétendue 'agressivité' des manifestants
serait prouvée par le procès-verbal établi par le commissaire Leduc,
chargé de diriger l'intervention des policiers.
Sur chacun de ces points, la riposte du parquet est cinglante :

1. Procès-verbal de la police : non fiable !

Le parquet met carrément en doute la véracité du dit procès-verbal qui
m'accuse de toutes sortes de méfaits ! « On peut légitimement se poser
la question de savoir si ce n'est pas le transfert de Michel Collon à
l'hôpital qui est à l'origine de l'ouverture du procès-verbal à sa
charge... »
Le procureur va même jusqu'à envisager que le procès-verbal soit au
fond un faux mensonger : « Cette manière de rédiger un procès-verbal
après présomption de violences policières est de nature à susciter le
trouble. Une telle imprécision dans la rédaction de ce document met en
outre son rédacteur à l'abri de toute procédure pour faux en écriture
(sic) . » Pas tendre !

2. Oui, les policiers ont tabassé

Le Parquet soutient ma plainte et réclame la condamnation des agents
brutaux : « En dehors du témoignage de l'agent De Boer (conducteur du
véhicule), tous les éléments de fait accréditent la thèse de graves
violences exercées à l'encontre de Michel Collon ».

3. Un policier n'a pas le droit d'arrêter arbitrairement

Peut-être plus important encore : « L'arrestation de Michel Collon
apparaît illégale. » En effet, selon la loi, un policier ne peut priver
une personne de sa liberté sans instruction du procureur du Roi. Sauf
en cas de flagrant délit, mais alors il doit en informer le procureur.
Ce qui ne fut pas fait. Arrestation illégale donc.
Certes, il existe aussi ce qu'on appelle 'arrestation administrative'.
Mais « aux termes de l'article 31 de la loi du 5 août 1992 sur la
fonction de police, ce type d'arrestation doit répondre à une absolue
nécessité. Le trouble de l'ordre public n'est pas suffisant en lui-même
pour autoriser la privation de liberté ; il faut encore que cette
dernière soit la seule manière pour mener à bien la mission. Aucun
autre moyen (...) notamment ceux du dialogue et de la négociation (...
n'a été tenté par les prévenus pour faire cesser le trouble supposé...
Les circonstances démontrent clairement que les prévenus ont agi par
représailles, voulant ainsi en découdre avec Michel Collon, pour avoir
osé braver une interdiction de manifester. »

Pourquoi ce dernier point est-il essentiel ? Parce que bien des
manifestants ont déjà fait l'expérience d'arrestations ou
d'intimidations arbitraires de la part des policiers. Ceux-ci se
permettent assez fréquemment de bafouer la loi lorsqu'une manif déplaît
à leurs supérieurs.
Le scénario vécu le 3 avril 1999 à Bruxelles n'est en fait pas rare. La
police arrête d'office les manifestants, avec des brutalités gratuites
et si vous vous plaignez, c'est vous qui vous retrouvez accusé de
rébellion et autres délits. Et, en effet, combien de p - v officiels ne
sont-ils pas d'une 'valeur douteuse', comme le dit cette fois le
parquet ?

Important pour le droit de tous de manifester

Je l'ai dit dès le début : je me bats non seulement pour obtenir
justice et réparation pour moi-même, mais plus encore pour le droit de
manifester, le droit de s'exprimer pour des causes justes, le droit de
ne pas se faire tabasser. En fait, pour toutes les victimes de telles
violences, souvent passées sous silence.
En ce sens, ces conclusions du parquet me réjouissent énormément. Elles
sont importantes, car elles disent clairement que des policiers ne
peuvent pas se permettre n'importe quoi, ne peuvent pas vous arrêter
sans raison, ne peuvent pas intimider des manifestants. C'est une
première victoire, après des années de lutte contre l'étouffement.
L'important est de se battre pour que le tribunal suive cette position,
condamne les policiers brutaux et que ce jugement soit utile à tous les
manifestants futurs. Merci pour votre soutien et votre diffusion de
cette information !

Michel Collon


Rendez-vous donc au Palais de Justice de Bruxelles, 6 septembre 2004,
8h45, 50ème chambre du tribunal correctionnel.


Sur ce procès, voir aussi nos documents précédents : Les minutes les
plus longues de ma vie et Qui a protégé les flics brutaux de Bruxelles
- Ville ? [voir:

Michel Collon: Les minutes les plus longues de ma vie
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3544

Michel Collon: Lettre ouverte à l'ex-bourgmestre de Bruxelles
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3587 ]


*** Une autre attaque que je dois bien prendre comme un compliment :
La firme Hasbro - Monopoly réclame 265.000 Euros à mon éditeur EPO pour
la publication de mon livre Monopoly - L'Otan à la conquête du monde.
Il faut savoir que parmi les dirigeants d'Hasbro figure Paul Wolfowitz,
le vice-ministre de la Guerre de Bush, et l'inspirateur de la guerre
contre l'Irak. Le procès se déroule à Paris. Un mail suivra. ***


Tout cela bientôt sur le site www.michelcollon.info
Vous serez averti de son ouverture dans les prochaines semaines.

DEM-ANSA SENILE


Elenchiamo di seguito alcuni dei bizzarri titoli che appaiono sul
portale ANSA Balcani (al link
http://www.ansa.it/balcani/serbiamontenegro/serbiamontenegro.shtml ):

27-08-2004 15:27
SERBIA: ALLARME VAMPIRO NEL VILLAGGIO DI LOPUSNIK / ANSA

27-08-2004 14:52
SERBIA: TORNA A CASA DALLA CINA IN BICICLETTA

25-08-2004 18:01
SERBIA: A SETTE ANNI VA IN AUTO A COMPRARE SIGARETTE,FERMATO

24-08-2004 13:01
SERBIA: PAURA PER UNA VIPERA NEL CENTRO DI BELGRADO

20-08-2004 14:22
SERBIA: MATRIMONI IN MONGOLFIERA, NUOVO SERVIZIO TURISTICO

19-08-2004 13:00
SERBIA: FILM PORNO PROIETTATO PER ERRORE A SCOLARESCA

18-08-2004 17:19
SERBIA: OMICIDIO IN STANZA CHIUSA, OMBRA SETTE SATANA / ANSA

Si noti come l'agenzia governativa italiana faccia abbondantemente uso
di pseudonotizie tratte da tabloid-spazzatura. Questi ultimi sono oggi
abbondantemente diffusi sul mercato giornalistico serbo, che con
l'avvento del regime filo-occidentale e' passato interamente in mano ai
monopoli stranieri. Lo scopo di questo lavaggio del cervello, in Serbia
come in Italia, e' quello di nascondere i problemi reali.
(A cura di IS ed US)

(english / italiano)

In Croazia si erigono monumenti ai nazisti

(2 - Vedi la prima parte su:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3739 )

1. Wiesenthal Center protests erection of monument honoring World War
II Croatian minister Mile Budak

2. Nazi collaborator memorials protested (The Jerusalem Post)

3. Croatians weep as Nazi pride is erased (The Telegraph)

4. Un (parziale) epilogo della vicenda: IRA BELGRADO PER TARGA A BUDAK
/ RIMOSSA TARGA DEDICATA A NAZISTA

Vedi anche:
Croazia: minacce neonaziste
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3692


=== 1 ===

http://www.wiesenthal.com/social/press/pr_print.cfm?ItemId=9807

August 26, 2004

WIESENTHAL CENTER PROTESTS ERECTION OF MONUMENT HONORING WORLD WAR II
CROATIAN MINISTER MILE BUDAK

The Simon Wiesenthal Center today issued an official protest against
the recent erection in the Croatian village of Sveti Rok of a monument
honoring Mile Budak, who served as Minister of Education in the Fascist
Ustasha regime which governed Croatia during World War II.

In a letter sent to Croatian ambassador to Israel Ivan Del Vechio, the
Center’s chief Nazi-hunter Dr. Efraim Zuroff condemned the erection of
the monument and urged the Croatian authorities to take whatever
measures were necessary to remove it as quickly as possible.

According to Zuroff:
“I am certain that you fully realize the implication of such step which
seeks to glorify a person who was an active member of the Ustasha
government which carried out a policy of genocide against Serbs, Jews,
and Gypsies during World War II.”

“The Wiesenthal Center urges the Croatian authorities to take whatever
steps are necessary to remove this monument as quickly as possible. It
not only constitutes a blatant attempt by Croatian extremists to
distort the history of World War II, but also is deeply insulting to
the victims of Ustasha violence, their families and all persons of good
conscience. In that context, we fully support the declaration by
Croatian President Stipe Mesic who denounced the monument and called
for its prompt removal.”

For more information call: 972-51-214156


=== 2 ===

http://www.jpost.com/servlet/Satellite?pagename=JPost/JPArticle/
Printer&cid=1093489827763&p=1078113566627

Nazi collaborator memorials protested

ETGAR LEFKOVITS, THE JERUSALEM POST
Aug. 26, 2004

The Los Angeles-based Simon Wiesenthal Center on Thursday issued two
protests against the recent erection of monuments in Estonia and
Croatia which commemorate Nazi collaborators during WWII.

The Estonian monument honors an Estonian SS Division which fought
alongside Nazi Germany, while the Croatian monument honors a member of
Croatia's quisling regime who was an active participant in crimes
against humanity.

Both monuments were put up in the last two weeks.

In a statement, the director of center's Jerusalem office, Dr. Efraim
Zuroff condemned the erection of the Estonian monument "which glorifies
those who were willing to sacrifice their lives to help achieve the
victory of Nazi Germany."

He added that the monument's inscription, which calls the soldiers
"fighters for Estonian Independence" was a misguided attempt to rewrite
history and to turn Nazi collaborators into Estonian heroes.

More than 1,000 Estonian Jews perished during the Holocaust, while
thousands of Jews sent from other countries were killed in Estonia.

The Estonian Consulate in Tel Aviv had no immediate comment.

Zuroff said that the establishment of such a monument in Estonia was
hardly surprising in a country which has failed to prosecute a single
Estonian Nazi war criminal to date, and in which a public opinion poll
revealed that 93% of the Estonian public oppose the establishment of a
memorial day for the victims of the Holocaust.

Separately, the Wiesenthal center on Thursday also condemned the
erection of a monument in a Croatian village honoring a member of
Croatia's WWII quisling regime.

The plaque commemorating Mile Budak, who served as education minister
in dictator Ante Pavelic's 1941-45 government, was erected within the
last two weeks in the Croatian village of Sveti Rok.

The Croatian government has condemned the monument and called for its
prompt removal.

It was not immediately clear who had put the monument up, but a group
of Croatian emigrants living in Canada and Australia with apparent
Ustasha sympathies has recently said they were considering erecting
such a monument.

During WWII, Croats were divided between anti-Fascists who fought
against the Nazis, and those loyal to Pavelic's quisling state.

About 30,000 Croatian Jews – 80 percent of the country's pre-war Jewish
population – perished during the Holocaust.

Zuroff said that both monuments were symptomatic of a general
post-Communist post-Soviet eastern European problem, whereby the evils
of communism are highlighted at the expense of their complicity with
the crimes of the Holocaust.

This article can also be read at
http://www.jpost.com/servlet/Satellite?pagename=JPost/JPArticle/
ShowFull&cid=1093489827763&p=1078113566627

Copyright 1995-2004 The Jerusalem Post - http://www.jpost.com/


=== 3 ===

http://www.telegraph.co.uk/news/main.jhtml?xml=/news/2004/08/28/
wcroat28.xml&sSheet=/news/2004/08/28/ixworld.html

The Telegraph (Britain) - August 28, 2004

Croatians weep as Nazi pride is erased
By Our Foreign Staff

Two plaques erected in Croatia to commemorate
officials from Nazi times were removed amid heavy
police security yesterday on the orders of the Zagreb
government.

It was the first such "de-Nazification" action since
the country became independent in 1991.

A plaque erected last week to honour Mile Budak, a
writer who served as education minister in Croatia's
Nazi-allied Ustasha government of 1941-45, was removed
by workers in Lovinac, central Croatia.

Budak signed into force racial laws under which the
Ustasha regime executed thousands of Jews, Serbs and
gipsies.

The plaque was paid for by a group of emigres, mostly
hard-liners who fled to Australia and Canada in 1945.
It attracted criticism from the government, human
rights groups and the Roman Catholic Church.

The other plaque to be removed honoured the Ustasha
military commander Jure Francetic, the founder of the
notorious Black Legion that fought in Bosnia. It was
put up in the central town of Slunj two years ago.

The government ordered their removal at a meeting late
on Thursday. The cabinet also asked the justice
ministry to draft amendments to the penal code to ban
the promotion of all totalitarian ideologies,
including communism and fascism.

The Ustasha era is seen elsewhere as a black mark on
Croatia's history. But few Croatians show shame about
the country's support for Hitler.

Several villagers in Lovinac wept as workers took away
the black marble plaque to Budak under an escort
provided by special forces police.

The nationalist government that ruled the country
between independence and 2000 was often accused of
whitewashing Ustasha crimes and re-installing some of
its symbols.

However, Croatia is preparing for talks next year on
membership of the European Union and is eager to prove
that its record on human rights and democracy matches
the criteria demanded by Brussels.


=== 4 ===

http://www.ansa.it/balcani/croazia/croazia.shtml

SERBIA/MONTENEGRO-CROAZIA: IRA BELGRADO PER TARGA A BUDAK

(ANSA) - BELGRADO, 26 AGO - Il ministero degli esteri serbomontenegrino
ha ufficialmente protestato presso Zagabria per l'inaugurazione, il 21
agosto scorso, di una targa alla memoria del defunto ministro Mile
Budak, considerato a Belgrado il teorico del movimento filo-nazista
ustascia al potere in Croazia durante la seconda guerra mondiale. La
targa, posta nel villaggio di Sveti Rok sul monte Velebit (luogo di
nascita di Budak), era stata commissionata da emigrati croati in
Australia e in Canada, e aveva sollevato critiche anche fra le
autorita' di Zagabria, particolarmente da parte del presidente Stipe
Mesic. L'Associazione dei croati antifascisti aveva anche paragonato
Budak al ministro della propaganda nazista Josef Goebbles. Budak,
ministro della cultura sotto il regime ustascia, venne condannato e
giustiziato nel 1945 dai partigiani di Josif Broz Tito, con l'accusa di
crimini di guerra. Era stato responsabile delle leggi razziali croate
che avevano portato allo sterminio di centinaia di migliaia di persone,
principalmente serbi ma anche ebrei, zingari, oppositori politici.
L'ambasciatore croato a Belgrado Tonci Stancic e' stato convocato al
ministero degli esteri serbomontenegrino per chiarimenti. Le autorita'
serbe chiedono la rapida rimozione della targa incriminata. (ANSA). OT
26/08/2004 17:30

SERBIA/MONTENEGRO-CROAZIA: RIMOSSA TARGA DEDICATA A NAZISTA

(ANSA) - BELGRADO, 27 AGO - Le autorita' croate hanno fatto rimuovere
la targa dedicata al defunto ministro della propaganda ustascia
(filonazista) Mile Budak, la cui inaugurazione aveva provocato una
dura protesta di Belgrado. Lo hanno annunciato oggi le agenzie
belgradesi Beta e Fonet. Le agenzie hano sottolineato la
dichiarazione del primo ministro croato Ivo Sanader: ''Il mio governo
non permettera' al paese di perdere tempo su temi del passato,
soprattutto sulle pagine negative''. Budak, giustiziato nel 1945
dai partigiani di Josif Broz Tito, e' ritenuto in Serbia l'ideologo
del movimento filonazista ustascia che domino' la Croazia della
Seconda guerra mondiale, e fu l'autore delle leggi razziali che hanno
portato alla morte di centinaia di migliaia di persone, fra serbi,
ebrei, rom e oppositori politici. Il 21 agosto un gruppo di
emigrati croati in Australia e in Canada aveva organizzato la
cerimonia di inaugurazione della targa nel villaggio di Sveti Rok,
sul monte Velebit, luogo di nascita di Budak. Ieri il ministero degli
esteri serbomontenegrino aveva indirizzato a Zagabria una protesta
ufficiale. (ANSA). OT 27/08/2004 14:23


NOTA DEL CNJ: probabilmente, assai piu' delle proteste di Belgrado, per
la rimozione del monumento al nazista Budak hanno pesato le prese di
posizione molto dure provenienti da Centro Wiesenthal e da Israele,
documentate piu' sopra.

(francais / italiano)

L'eroica resistenza del popolo iracheno (3)

1. Signor Ministro dica la verità sulla strage dell’ambulanza a
Nassiriya (Domenico Gallo)

2. L'anéantissement du patrimoine culturel irakien (Reseau Voltaire)


== 1 ===

http://www.uruknet.info/?s1=1&p=5086&s2=27

No ad una nuova Ustica. Signor Ministro dica la verità sulla strage
dell’ambulanza a Nassiriya

Domenico Gallo*, Articolo 21

27 agosto 2004 - Il Governo si deve presentare alle Camere il 27 agosto
per informare il Parlamento sugli sviluppi della situazione irachena.
In questa sede il Ministro della Difesa Martino non può far finta che a
Nassiriya non sia successo niente. Il Ministro deve render conto dei
fatti denunziati dal giornalista americano Micah Garen, il quale ha
documentato, attraverso filmati ed interviste, parzialmente trasmesse
dalla RAI, che nella notte fra il 5 ed il 6 agosto scorso il
contingente militare italiano, nel corso di una operazione militare ha
colpito un’ambulanza, facendola esplodere e provocando la morte di 4
delle sette persone a bordo, fra le quali vi era una partoriente.
E’ scandaloso che le autorità militari e politiche abbiano tenuto
nascosta questa strage all’opinione pubblica, si siano rifiutate di
riconoscere e prestare soccorso alle vittime e di rispondere agli
interrogativi sollevati dalla diffusione dell’inchiesta effettuata dal
coraggioso giornalista americano, opponendo un muro di gomma, a cui –
non casualmente -ha fatto riscontro un “rumoroso” silenzio stampa da
parte dei massimi organi di informazione.
Ugualmente scandaloso è stato il comportamento delle autorità
militari, che invece di fare le dovute indagini per verificare la
fondatezza della notizia di reato diffusa da Garen, hanno sottoposto il
giornalista ad un’estenuante interrogatorio, “trattandolo come un
criminale”, come emerge dalle e. mail che lo stesso giornalista ha
inviato ai suoi conoscenti prima del rapimento.
Sparare sulle ambulanze è sempre un evento gravissimo ed inaccettabile
(un crimine), anche nel corso di operazioni militari di tipo bellico,
ma sarebbe ancora più grave tentare di nascondere la verità su quanto è
effettivamente avvenuto a Nassiriya e di insabbiare le indagini, come è
avvenuto per la strage di Ustica.
Il Ministro della Difesa deve fare la massima chiarezza su questi
episodi e riferire anche sull’intervento che il suo Dicastero avrebbe
effettuato nei confronti della RAI per imporre il silenzio sulla
strage, secondo quanto riferito dallo stesso Garen.
Le autorità militari non devono frapporre ostacoli all’accertamento
della verità. Ogni menzogna sarebbe un atto di correità.

*Giurista

http://www.articolo21.com/notizia.php?id=921


=== 2 ===

Da: rifondazione_paris
Data: Sab 28 Ago 2004 18:51:22 Europe/Rome
A: info_prc_paris@ yahoogroups. com
Oggetto: L'anéantissement du patrimoine culturel irakien


http://www.reseauvoltaire.net/article13987.html

Guerre des civilisations

L'anéantissement du patrimoine culturel irakien

Un an après le sac du musée de Bagdad, le Conseil provisoire de
gouvernement assure que l'ampleur des pillages a été surestimée et que
les forces de la Coalition ont récupéré la presque totalité des objets
volés. La vérité est toute autre : avec la complicité du Pentagone, un
gang de trafiquants s'est emparé de ce qui pouvait l'être lors de la
chute du régime. Puis, il a organisé de vastes fouilles sauvages sur
les sites archéologiques, notamment assyriens et babyloniens. En outre,
les forces états-uniennes ont détruit quantité de monuments omeyyades
et abbassides au cours des récents combats urbains contre la
résistance. Le remodelage US du Proche-Orient passe-il par
l'anéantissement des cultures ?

24 mai 2004


Dans une déclaration jeudi 20 mai 2004 à l'agence de presse allemande
DPA, le ministre de la culture du Conseil provisoire irakien de
gouvernement, Mufid Jazairi, a indiqué que l'on était toujours sans
nouvelles de 9 000 à 10 000 œuvres d'art volées au musée de Bagdad.
« Nous allons retrouver de nombreuses œuvres lorsque les conditions de
sécurité se seront améliorées », a-t-il poursuivi, optimiste [1].

D'ailleurs, les principales pièces du musée, une collection de bijoux
du VIIIe siècle et connues sous le nom de « Trésors de Nimrod », ont
été exposées en grande pompe, le 3 juillet dernier. Pendant trois
heures et en présence de centaines de journalistes étrangers,
l'ambassadeur L. Paul Bremer III et le conseil archéologique de la
Coalition, l'ambassadeur Piero Cordone, avaient doctement expliqué que
sur les 180 000 pièces du musée, seules 3000 manquaient encore à
l'appel, dont uniquement 47 de valeur unique [2].

Les déclarations de Jacques Chirac qualifiant les cambriolages des
musées irakiens de crimes contre l'humanité et l'effervescence de
l'UNESCO [3] qui suivit n'étaient donc que des manifestations
hystériques d'anti-américanisme. Les mises en cause d'un groupe de
marchands d'art, l'American Concil for Cultural Policy (ACCP), que nous
avions publiées, il y a un an, étaient donc diffamatoires (cf. « Qui a
planifié le pillage des musées nationaux irakiens ? », Voltaire, 17
avril 2003). C'est tout au moins ce que les forces d'occupation et
leurs collaborateurs souhaitent faire croire et c'est la propagande
lénifiante que reprennent certains de nos confrères.

En réalité et contrairement aux communications officielles US, le
problème est plus grave encore que nous ne l'avions rapporté. Le
pillage des œuvres irakiennes a bien été planifié à l'avance et exécuté
avec la complicité active de l'armée des États-Unis. Il s'est agi à la
fois de vols systématiques des pièces conservées dans les musées
nationaux, mais surtout de fouilles industrielles des sites
archéologiques. En outre, les forces de la Coalition ont détruit de
très nombreux monuments et sites, parfois par méconnaissance, souvent
de manière délibérée.

Pour comprendre les enjeux de cette polémique, remémorons-nous la
période précédant la guerre. Depuis une décennie, Irchad Yassine,
beau-frère de Saddam Hussein, exporte discrètement des œuvres
irakiennes. À partir de 1994, des marchands d'art états-uniens,
regroupés autour de l'avocat Aston Hawkins [4] au sein de l'ACCP,
acquièrent le monopole de cette filière. Yassine leur vend les
principales pièces du musée d'Assour. Ils s'intéressent aussi à l'art
dans toutes les zones de conflit, notamment l'Afghanistan. À l'annonce
de la guerre, ils reçoivent des commandes de richissimes clients qui
indiquent sur catalogue les pièces de musées qu'ils souhaitent acheter.
Des scientifiques du monde entier se mobilisent pour prévenir le
pillage annoncé. Colin Powell demande un avis à son conseiller Thomas
Warrick. Celui-ci rend au printemps 2002 un rapport, intitulé Projet
pour l'avenir de l'Irak. Il y indique qu'une période d'anarchie suivra
la chute du régime de Saddam Hussein et que les trafiquants en
profiteront pour piller les musées. Powell transmet le rapport à la
Maison-Blanche et au Pentagone [5]. Pendant ce temps, les scientifiques
multiplient les courriers aux responsables politiques. Interviennent
ainsi des spécialistes de renom comme McGuire Gibson (Oriental
Institute, université de Chicago) ou Neil MacGregor (directeur du
British Museum).

La catastrophe semblant inévitable, le député français Didier Julia,
lui-même archéologue, se rend en Irak, en février 2003, pour convaincre
la conservatrice nationale de protéger son patrimoine [6]. Il organise
le transfert des dizaines de milliers de pièces dans des caves qui sont
aussitôt murées. M. Julia, qui masque le but de son voyage, est
vivement critiqué dans son parti, l'UMP, où l'on accuse de collusion
avec la dictature de Saddam Hussein. L'Élysée publie un communiqué pour
feindre son « étonnement ». En réalité, le député, qui est appuyé dans
sa démarche par des scientifiques français, notamment ceux de la revue
Archeologia-Magazine, a informé à l'avance Jacques Chirac et bénéficie
de la « bienveillance » de ses services [7].

Comme annoncé, Bagdad sombre dans l'anarchie à la chute du raïs. Les
forces de la Coalition ne sécurisent que le ministère du Pétrole et les
sièges des services de répression [8]. Des experts-cambrioleurs se
ruent dans les musées nationaux et emportent ce qui peut l'être. Ils
pillent identiquement les bibliothèques et mettent le feu derrière eux
pour empêcher que l'inventaire de leurs vols ne puisse être établi.
Jacques Chirac, Dominique de Villepin et Jean-Jacques Aillagon [9]
ameutent la communauté internationale. Mikhaïl Chvydkoï en
rajoute [10]. L'ONU [11] et l'UNESCO se saisissent de l'affaire, tandis
que le conseiller culturel de la Maison-Blanche, Martin Sullivan, sert
de fusible et démissionne [12]. La Coalition, qui continue à prétendre
qu'elle est venue libérer le peuple irakien, prend tardivement des
mesures [13]. Le département de la Justice détache un groupe de treize
agents, le Joint Inter-Agency Coordination group (JIACG), commandé par
le procureur-colonel Matthew Bogdanos, pour enquêter sur les faits et
récupérer les objets volés. On arrête ici et là des journalistes et des
hommes d'affaire indélicats, mais la filière ACCP n'est pas inquiétée,
de sorte qu'en pratique, la Coalition lui assure un monopole du trafic
et des profits maximaux. En juin 2003, la Coalition achève le
déblaiement de la Banque nationale d'Irak, qui a été détruite par les
bombardements, et atteint les chambres fortes. Elle y trouve une partie
des œuvres cachées par les Irakiens et les Français. La directrice des
Antiquités, Nawada al-Mutawali, révèle où se trouvent entreposées les
autres et les collections sont reconstituées. Néanmoins plusieurs
milliers manquent à l'appel [14]. Il s'agit surtout de sceaux-cylindres
et de tablettes cunéiformes qui restaient au musée pour études, mais
aussi de quelques pièces majeures dont la liste est communiquée à
Interpol.

Pendant ce temps, le groupe de trafiquants lié au département de la
Défense, poursuit son pillage. Non plus dans les musées, mais dans les
sites archéologiques. Partout, on procède à des travaux sauvages. On
exhume des dizaines de milliers d'objets qui sont immédiatement sortis
du pays, dont les frontières sont pourtant officiellement fermées, et
vendus sur des marchés parallèles [15]. Les pilleurs agissent avec soin
pour ne pas abîmer les marchandises, mais ils ne s'intéressent pas aux
contextes de leurs trouvailles. Ils se préoccupent uniquement de leur
valeur esthétique et commerciale. Pour les archéologues, c'est une
nouvelle catastrophe : ces objets sont privés de leur histoire et leurs
découvertes n'apporteront aucune connaissance nouvelle sur les
civilisations disparues [16]. Le conseiller culturel de la Coalition,
l'ambassadeur et archéologue italien Piero Cordone, tente d'arrêter les
fouilles sauvages, mais il en est dissuadé lorsque son convoi est
attaqué par les GI's qui tuent son inteprète [17].

Pour le peuple irakien et pour la mémoire de l'humanité, le drame ne
s'arrête pas là. Si les forces de la Coalition ont pris soin de ne pas
bombarder de sites historiques [18], elles en ont détruit un grand
nombre par la suite, sans que l'on sache ce qui relève du vandalisme
ignorant et de la vengeance barbare. Sans aucun doute, le scandale
maximum a été atteint avec le bétonnage d'Ur : l'US Air Force a
construit une base militaire sur le site où s'éleva, il y a six mille
ans, la cité d'Eridu et où vécu l'Abraham biblique. Cette destruction
est interprétée, à tort ou à raison, par les Irakiens comme l'ultime
vengeance des troupes israélo-états-uniennes contre Babylone. Ils se
souviennent comment les troupes d'Ariel Sharon procédèrent à des
destructions systématiques de sites archélogiques lorsqu'elles
envahirent le Liban. En outre, lors des récentes batailles dans le Sud,
non plus contre la dictature de Saddam Hussein mais contre la
résistance populaire, les forces de la Coalition ont détruit de
nombreux monuments islamiques, omeyyades et abbassides. Au cours des
combats urbains, l'armée états-unienne dégage le terrain en détruisant
tous les édifices.

Devant l'ampleur des pillages et destruction, sans équivalent connu
dans l'Histoire, on ne peut que s'interroger sur l'attitude de
Washington. Le remodelage du Proche-Orient passe-t-il par
l'anéantissement des identités et des cultures locales ?


[1] Il manque encore 10 000 œuvres d'art au musée de Bagdad, AFP, 20
mai 2004.
[2] Les "trésors de Nimrod" exposés pendant trois heures au Musée de
Bagdad, AFP, 3 juillet 2003.
[3] Voir Discours de Koïchiro Matsuura, 6 juin 2003. Communiqué, 27
juin 2003. Communiqué, 16 juillet 2003. Communiqué, 29 juillet 2003.
Communiqué, 6 août 2003.
[4] Maître Aston Hawkins est ancien vice-président du Metropolitan
Museum de New York.
[5] « Blueprint for a Mess » par David Rieff, in New York Times du 2
novembre 2003.
[6] Ancien élève du philosophe Martin Heiddeger, Didier Julia est
philosophe et égyptologue. Auteur d'ouvrages sur Fichte et directeur du
Dictionnaire Larousse de philosophie, il est député gaulliste de
Seine-et-Marne depuis 1967.
[7] Entretien de Didier Julia avec Thierry Meyssan, 23 avril 2003
[8] Pourtant, un mémo de cinq pages signé par le général Jay Garner, le
26 mars 2003, établissait une liste de sites à sécuriser. Le musée
national y figurait en deuxième place. Il ne fut pas respecté, le
mandat de Garner n'étant effectif qu'après la chute du régime. Cf.
« Troops were told to guard treasures » par Paul Martin, in The
Washington Times du 20 avril 2003.
[9] Cf. « Un saccage indigne », tribune de Jean-Jacques Aillagon,
ministre français de la Culture, Le Figaro du 17 avril 2003.
« Communiqué conjoint des ministères français de la Culture et des
Affaires étrangères », 30 juin 2003.
[10] Cf. »Lettre de Mikhaïl Chvydkoï, ministre de la Culture de la
Fédération de Russie au directeur général de l'UNESCO », 28 mars 2003.
[11] Cf. « Communiqué de Kofi Annan », 15 avril 2003.
[12] Cf. US governement implicated in planned theft of Iraqi artistic
treasures par Ann Talbot, World Socialist Web Site, 19 avril 2003.
[13] Cf. « Coopération pour la protection des antiquités et de la
propriété culturelle de l'Irak », déclaration de Colin Powell,
secrétaire d'État des États-Unis, 14 avril 2003. Voir aussi le
« Communiqué du département d'État » du 30 avril 2003.
[14] Lors d'une communication à la 49e rencontre assyriologique
internationale, qui s'est tenue le 11 juillet 2003 au British Museum,
le colonel Bogdanos a reconnu qu'il manquait environ 10 500 pièces au
musée de Bagdad, alors qu'il avait évoqué 35 pièces seulement dans ses
conférences de presse. Cf. Update by Colonel Matthew Bogdanos on the
situation at the Iraq Museum, document téléchargeable au format Doc.
[15] Ces objets n'étant pas répertoriés, il est impossible d'en
connaître le nombre précis. Cependant la multiplication des offres de
vente en Occident de pièces prétendument retrouvées dans des greniers
permet aux spécialistes de se livrer à des estimations.
[16] Lire « Le Massacre du patrimoine irakien », enquête
d'Archéologia-Magazine n°402, juilllet-août 2003. Et Le Pillage de
l'Irak par Philippe Flandrin, Éditions du Rocher, 2004.
[17] Tir américain contre la voiture d'un diplomate italien en Irak, un
Irakien tué, AFP, 19 septembre 2003. Le président Bush a téléphoné au
président italien du Conseil, Silvio Berlusconi, dès le lendemain, pour
lui présenter ses « excuses ».
[18] Cf. Point de presse des officiers de la Coalition chargés de la
protection du patrimoine culturel irakien, 5 avril 2003.

http://www.reseauvoltaire.net/

The Cost of the US Colonial War Against Iraq

by Lenora Foerstel

www.globalresearch.ca   28 August 2004

The URL of this article is:
http://globalresearch.ca/articles/FOE408A.html


Most citizens of the world assume that when their country declares war,
the country's army and weapons industry will be called upon to fight
the battle.  But what we find today is that a group of CEOs heading
privatized military firms are sharing the power once vested exclusively
in the President and Congress. Private military contractors are the new
corporate face of war.  They have sent their own mercenaries to
Croatia, Macedonia, Columbia, Afghanistan and Iraq.  These contractors
enable the United States to wage war by proxy and without the kind of
congressional voting or media coverage to which conventional wars were
earlier subjected.

The US government increasingly relies on corporate enterprises such as
Military Professional Resources Incorporated (MPRI), which specializes
on supplying military training and expertise to the US government and
other countries.  MPRI sees war as a commercial enterprise.  On March
24, 1994, the defense minister of Croatia appealed to the United States
for military assistance against Serbia.  Under the United Nations arms
embargo, the US could not legally provide any military assistance to
the entities of the former Yugoslavia, but the Pentagon simply referred
the Croatian minister to MPRI for aid.  Just months after MPRI was
hired, the Croatian army under their guidance launched a stunningly
successful military operation [Uluja) or "Storm"] against Krajina, a
region of Croatia inhabited almost exclusively by ethnic Serbs.  The
MPRI employed air power, artillery and infantry forces, resulting in
the death of countless Serbs and causing 250,000 of them to flee the
country.  And so Krajina was ethnically cleansed.

A large number of the private military corporations have crossed the
fine line of legality, employing illegal business practices and hiring
employees with criminal records while serving potentially illegal
clients.  Congress, the Defense Department and the Pentagon
inadequately supervise the use of private military contractors,
allowing them to break down the traditional norms of control. 

Some 15,000 to 20,000 contractors are stationed in Iraq.  There is a
mercenary in place for every ten occupation soldiers.  The contracted
individual has a free hand in threatening or killing an Iraqi citizen. 
As mercenaries, these contractors do not fall under the UN charter, the
Geneva Accords or the Nuremberg doctrines.  On October 6, 2003, the
Washington Times reported that military contractors guarding ministries
killed Iraqi citizens without punishment or inquiries.  Many of these
contractors are not US citizens and are not subject to US laws

Blackwater USA, one of the largest of these corporations, flew in a
group of sixty former commandos from Chili.  May of them were trained
under the military government of Augusto Pinochet.  Squads of
Filipinos, Bosnians and US men are trained and hired for tasks ranging
from military training, intelligence, combat, and local security
including protecting administrators like Paul Bremer. The salaries paid
these mercenaries are as high as 1,000 to 1,500 US dollars a day. 
Philipinos, often referred to by their employers in racist terms,
usually get $4000 a month. 

These are good times  for recruiting mercenaries.  Since the end of the
Cold War some six million service men have been thrown into the
unemployment market.  With minimal job skills, they use their combat
training to find work with private military corporations which offer
them high salaries. 

Private military corporations now do an estimated $100 million in
business world-wide each year.  Much of it goes to top US corporations
like Halliburton, it's subsidiary Kellogg, Brown and Root, or DynCorp
and Raytheon.  These corporations frequently overcharge the government
for their services, and Congress and the Pentagon have begun 
investigations into how the money is being spent.  Some $1.6 million is
now being withheld from Halliburton for overcharging for meals that
were never sent to soldiers in Iraq. (1) Another Halliburton scam was
to charge exorbitant amounts for delivering equipment in Iraq, using
trucks that carried nothing.  Such practices cost US taxpayers hundreds
of thousands of dollars. 

DynCorp has a contract worth tens of millions of dollars to train an
Iraqi police force.  This same corporation had an earlier contract to
train the police force in Bosnia, but a scandal developed when the
contractors were implicated in a sex slavery scandal which involved the
buying and selling of young girls from Eastern Europe.  No one was
prosecuted, but the two whistle blowers were fired. 

DynCorp also functions as an intelligence network for the Pentagon and
the CIA.  Following DynCorp advice in Haiti, the US occupation force in
Haiti integrated former members of Ton ton Macoutes, the private death
squad  begun by Haitian dictator Francois Duvalier, into the Haitian
National police (HNP) and installed military officers involved in the
1991 coup d'etat in prominent positions. (3)

Private military corporations have penetrated Western warfare so deeply
that they now constitute the largest portion of coalition forces in
Iraq after the US military.  Corporate power has always played a role
in war, but it has never been so blatant in exercising its power.  When
their activities are questioned, corporations claim that private
businesses cannot be subject to government scrutiny.  Vice President
Cheney refused to release the notes and attendees of his energy Plan to
the Supreme Court, claiming "executive privilege" and protection of
"national security."  All of this to protect corporate power.

The US army estimated that of the $87 billion earmarked in 2004 for the
Iraqi campaign, Central Asia and Afghanistan, thirty billion of this
money will be paid to private military corporations.  On July 22, the
House of Representatives voted overwhelmingly to approve more than $400
billion in defense spending, including some $25 billion in emergency
funding for operations in Iraq and Afghanistan.  While the House of
Representatives rubber stamps billions of dollars for the war, the
budget for children in poverty, the disabled and the elderly had been
drastically cut, leaving 36 US states in deep crisis.  Aside from
eliminating proper services for US citizens, the US government is now
running a $444 billion deficit.

According to estimates provided by the US law Report and US Labor
against War in June 2004, the war in Iraq has already cost the United
States $118, 518, 293, 319.  As we move into 2005, the increased budget
for the rebuilding of Iraq will cost billions more.

References

(1) Associated Press, May 14, 2004

(2) Guardian, UK, Article by Ian Traymore, December 10, 2003

(3) Silverman, Ken, "Privatizing War", The Nation, July 28, 1997

For more information on Halliburton- recommended reading: "The
Halliburton Agenda" by Dan Briody, published by John Wiley and Sons.


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UNA LINGUA "BOSNIACA", PER DECRETO OSCE

Sul sito dell'OSCE dedicato alla Bosnia-Erzegovina, cosi' come su molti
altri siti di istituzioni internazionali, si fa riferimento ad una
chimerica lingua "bosniaca" (in certi casi persino "bosgnacca", secondo
la vulgata del separatismo musulmano). Essa e' talvolta apparentemente
affiancata dalle lingue "serba" e "croata", ma ovviamente i documenti
presentati sono IDENTICI a meno della diversa grafia (cirillica vs.
latina) o di disgustose forzature (soprattutto arcaismi e forme gia'
desuete). In realta', infatti, nello spazio linguistico serbocroato
esiste una ed una sola lingua, che si puo' chiamare serbocroata o
croatoserba, con minime varianti di pronuncia e regionali.
Questa pratica differenzialista usata dall'OSCE, che continua da una
decina d'anni in forza dell'omertoso silenzio in materia da parte di
linguisti ed accademici (talvolta, d'altronde, corresponsabili dello
scempio), mira a cronicizzare la frattura inter-culturale tra le varie
componenti linguistiche, per giustificare il "nuovo ordine" balcanico
voluto da nazionalisti, neonazisti ed imperialisti stranieri. (Italo
Slavo)

Ma, molim vas, koji je to bosanski (iliti bosnjacki) jezik kojim pisete
na sajtu?! Zar samo zato sto pisete latinicom, jekavski, negirate da je
to srpskohrvatski iliti hrvatskosrpski jezik?
Prestanite vec jednom da zaludjujete i razdvajate narod - uz blagoslov
OSCE-a! (Ivan Istrijan)

www.reseauvoltaire.net

aout 2004

L'USAID et les réseaux terroristes de Bush

Au même titre que la Fondation nationale pour la démocratie (NED), les
États-Unis utilisent leur service de coopération et d'assistance
humanitaire, l'USAID, comme couverture pour leurs actions secrètes
d'infiltration et de déstabilisation. Le journaliste mexicain Edgar
González
Ruiz rapporte pour Réseau Voltaire/Red Voltaire le soutien de l'USAID
aux
formations d'extrême droite cubaines et vénézuéliennes pour renverser
les
présidents Fidel Castro et Hugo Chavez.

__________________________

Le terrorisme de l'administration Bush a inclus l'invasion de l'Irak, le
coup d'État en Haïti et la tentative de coup d'État au Venezuela, ainsi
que
le harcèlement constant de Cuba, dont la déstabilisation est l'un des
principaux objectifs de son gouvernement, qui peut compter pour cela
sur le
soutien des exilés cubains d'extrême droite.

Le gouvernement Bush s'active à la création de groupes de soutien
artificiels qui, financés par des fonds étasuniens, se chargent de
déstabiliser les gouvernements qu'il cherche à renverser, et justifie de
telles agressions par une rhétorique dans laquelle abondent les
invocations
à Dieu, à l'« amour », à la « compassion » et à la « défense de la
démocratie ».

La Fondation nationale pour la démocratie (NED) et l'Agence étasunienne
pour le développement international (USAID) sont autant d'instruments
destinés à financer les ONG de droite qui espèrent installer dans leurs
pays respectifs des gouvernements fidèles aux intérêts étasuniens.

Le 15 janvier 2004, l'USAID diffusait une note informative sur le
Programme
cubain dont le thème était de « favoriser une transition rapide et
pacifique
vers la démocratie à Cuba » et qui par sa nature même constitue un
projet
ouvert de subversion du gouvernement de ce pays.

Selon l'USAID, le Programme cubain avait jusqu'alors mobilisé un total
de 26
millions de dollars de donations bénéficiant à 28 ONG pour promouvoir «
la
solidarité avec les défenseurs des droits de l'homme cubains, permettre
aux
journalistes cubains indépendants de s'exprimer, développer des ONG
cubaines indépendantes et tracer un plan de transition vers la
démocratie
par le biais de dons aux universités et aux ONG ».

En juin 2004, le gouvernement des États-Unis annonçait, dans le cadre
d'un
ensemble de mesures contre le gouvernement cubain, qu'il portait à 36
millions de dollars la subvention accordée par le Département d'État et
l'USAID et destinée à « aider les proches des dissidents emprisonnés à
Cuba et pour soutenir des programmes de démocratisation de l'île ».

Les activités visant à faciliter le renversement du gouvernement cubain
incluent la distribution de dix mille radios à ondes courtes à Cuba
pour que
les insulaires aient accès à la propagande anticastriste, ainsi que le
financement et le maintien de journalistes et ONG opposés au régime
cubain,
qui manifestement ne sont pas indépendants de cet argent étasunien et
républicain.

Il convient de souligner qu'une stratégie identique, consistant à
financer
des organisations de droite dont la plupart sont d'inspiration
patronale,
fut adoptée par le gouvernement Bush dans le but de provoquer la révolte
en Haïti et de promouvoir le référendum contre Chavez au Venezuela.

Les fonds anticastristes de l'USAID ont été aiguillés vers l'Université
de
Rutgers, l'Université de Miami, le Fondation internationale pour les
systèmes électoraux (IFES) ainsi que le Conseil Patronal
États-Unis-Cuba.

Parmi les groupes ayant bénéficié de l'argent étasunien figure l'agence
CubaNet, qui soutient le journalisme anticastriste et a reçu pour cela
plus
de 800 000 dollars ainsi que The Freedom House, prétendu groupe de
défense des droits de l'homme présidé par l'ancien directeur de la CIA
James Woolsey, qui a reçu, en plus d'autres dons, la somme d'un million
trois cent mille dollars pour publier près de quarante mille livres,
pamphlets et autres publications sur Cuba.

C'est précisément à l'Université de Miami que le 17 octobre 2002, en
présence de la parlementaire cubano-étasunienne Ileana
Ros-Lehtinen, partisane de Bush et de causes réactionnaires allant de
l'anticastrisme au militantisme anti-avortement, l'administrateur de
l'USAID
Adolphe Franco, se présentant comme « un exilé cubain et fils d'exilés
cubains », inaugura un séminaire sur le « Projet de transition de Cuba
de
l'Université de Miami », et demanda avec insistance son soutien au
président
Bush, ainsi qu'à d'autres fonctionnaires parmi lesquels on trouve le
sous-secrétaire chargé de l'Amérique du sud Otto Reich, autre exilé
cubain
à la trajectoire sombre. Franco est un sympathisant actif et résolu de
l'extrême droite cubaine à Miami.

À l'Université de Miami, Franco a également déclaré qu'« il n'existe
aucun
substitut au leadership nord-américain dans le domaine de le promotion
des
droits de l'homme et la prospérité économique dans toute l'hémisphère
occidentale. ». Il a ajouté que « (.) le régime de Fidel Castro ne
s'est pas
assoupli et ses relations avec les États-Unis ne se sont pas améliorées
»
et, reprenant le lexique terroriste dont Bush fit usage dans un discours
prononcé le 20 mai 2002, a affirmé que « La normalisation complète des
relations avec Cuba, à savoir la reconnaissance diplomatique, le libre
commerce et un programme d'aide solide, ne sera possible que lorsque
Cuba
sera dotée d'un nouveau gouvernement. » En Irak, l'USAID poursuit ses
travaux selon une vision dictée par la surprenante rhétorique
terroriste de
Bush et du secrétaire d'État Colin Powell, qui dans son article « Du
cauchemar à la liberté : le réveil de l'Irak libre », diffusé par
l'USAID
sur ses pages internet, signale que face aux alarmantes nouvelles en
provenance du conflit se déroulant jour après jour en Irak, « il y a
également une abondance de bonnes nouvelles (...) Ces bonnes nouvelles
émanent d'une vérité irréversible et décisive : le peuple d'Irak est
libre ».

Il poursuit : « (...) cette liberté est tellement nouvelle pour les
Irakiens, contraste tellement avec l'énorme cauchemar du ouvernement de
Saddam Hussein, que beaucoup d'Irakiens demeurent indécis et désorientés
(...) », néanmoins :

« La société civile irakienne (sic) prospère. En Irak, où l'on ne
trouvait
auparavant qu'une source officielle d'informations à laquelle les
Irakiens
ne faisaient jamais confiance, aujourd'hui se développe une presse
libre.
Ses dirigeants peuvent communiquer la vérité et non plus l'odieuse
propagande du parti Ba'ath. Les tribunaux fonctionnent. Les banques sont
ouvertes et concèdent des prêts. Les commerces se multiplient, comme
on peut le constater en survolant rapidement les produits disponibles
dans les marchés de n'importe quelle ville irakienne. Les salaires
augmentent, les économies ne sont plus cachées, les gens dépensent
et gagnent de l'argent. ».

Pourtant « Au final, lorsqu'on trahit la confiance, il est difficile de
la
restaurer, sans parler de faire redémarrer une économie. Quand la vie de
générations entières s'est avérée être un cauchemar absolu, le
processus de
rétablissement est d'autant plus difficile. Les Irakiens doivent se
persuader eux-mêmes, de nouveau, qu'ils sont des personnes bonnes et
honorables, qu'il n'y a plus lieu de se sentir intimidé par les
conditions
qui leur étaient imposées par Saddam Hussein et sa légion de bandits et
criminels. ».

Toujours dans la même malheureuse rhétorique, Powell écrit : « Peu
importe
combien la vie des étasuniens et tous ceux qui veulent donner vie au
nouvel
Irak est difficile ou dangereuse, notre meilleur allié est le peuple
irakien. Si il est prêt à se sentir fort et à se préparer à un grand
voyage,
alors nous devons également persévérer, se tenir à ses côtés jusqu'à ce
que
notre mission soit menée à bien. ».

En Irak ainsi que dans d'autres pays, le personnel de l'USAID a,
particulièrement sous le gouvernement Bush, une fonction beaucoup plus
dangereuse que celle de disséminer les armes rhétoriques de Powell et
Bush.

Si la mauvaise foi des accusations du gouvernement Bush selon lesquelles
l'Irak détenait des armes de destruction massive nucléaires ou
bactériologiques, pouvant être utilisées lors d'une guerre contre les
États-Unis, a été démontrée, récemment des éléments ont fait surface
concernant la « dissémination » d'armes chimiques par les États-Unis
sur le
territoire irakien, par le biais de chargements étiquetés du nom
d'organisations humanitaires comme la Croix rouge et l'USAID. Selon des
sources irakiennes, les responsables irakiens se sont vus interdire
l'inspection de tels chargements et avisés que toute question relative
à ces
conteneurs devait être transmise aux « forces de la coalition ».

Comme en Irak, pour mettre fin à une « dictature » et étendre les «
bienfaits du libre échange », les États-Unis ont organisé une révolte
sanglante en Haïti, en ayant recours à des organisations comme l'IRI
(filiale républicaine de la NED) et aux ressources de l'USAID.

Fidèle à sa conception de l' « éducation à la démocratie », l'IRI a
entraîné, en République Dominicaine et avec l'assentiment de son
président
Hipolito Mejia, des groupes d'opposition à Aristide qui devaient
traverser
la frontière pour entrer en Haïti.

Le sénateur démocrate Christopher Dodd a déclaré que l'IRI avait reçu
1,2
millions de dollars en provenance de l'USAID pour entraîner des
Haïtiens, et
il a par ailleurs ajouté que conformément aux plans du département de la
défense, les États-Unis avaient livré 20 000 fusils d'assaut M-16 ainsi
que
d'autres équipements au gouvernement dominicain durant les deux
dernières
années, laissant en suspens la question de savoir si ces armes s'étaient
retrouvées entre les mains des opposants à Aristide.

En décembre 2003, Adolphe Franco faisait référence à Haïti en reprenant
les
termes de Colin Powell, expliquant que les États-Unis « ne
travailler[aient]
pas avec le gouvernement haïtien tant que ne ser[ait] pas résolu le
problème
politique qui afflige le pays depuis un certain temps, en grande partie

aux dernières élections législatives (...) ils pensent qu'elles ont été
l'objet de fraudes ».

Selon Franco, le gouvernement étasunien a canalisé l'aide économique «
directement » en direction du « peuple haïtien » et non pas par
l'intermédiaire de son gouvernement, selon une stratégie qui bien
entendu
fait partie du processus de déstabilisation fomenté par le gouvernement
Bush.

La manière dont l'USAID « aidait » directement le peuple haïtien est
illustrée par le témoignage suivant, celui de Tom Reeves, qui relate son
expérience lors d'un voyage qu'il fit à Haïti après le coup d'État
contre
Aristide : « A Jacmel, nous nous sommes réunis avec des étudiants, des
femmes et des syndicats qui avaient formé des groupes spécifiquement
anti-Aristide. Pierre J.G.C. Gestion, dirigeant de MHDR (Mouvement
haïtien
pour le développement rural) se vantait orgueilleusement de ses liens
avec
l'USAID, le programme du Département d'État pour le renforcement de la
démocratie et la NDI. " Ils nous ont entraînés et nous ont appris à nous
organiser ; nous avons organisé les groupes qui sont venus ici pour
exiger
que soit destitué le gouvernement corrompu d'Aristide" » [1].

Au Venezuela, l'USAID a installé ses bureaux à Caracas le 1er août 2002,
dans le but prévisible de « fournir une assistance adéquate et flexible
afin
de renforcer la démocratie », objectif qui, comme on le sait bien, s'est
matérialisé avec l'aide de la NED en un mouvement visant à expulser
Chavez par le biais d'un coup d'État ou d'un référendum.

Le 31 mai 2004, Jorge Valero, ambassadeur du Venezuela au Conseil
permanent de l'OEA, s'indignait de ce que « L'année du coup d'État,
l'Agence
étasunienne pour le développement international (USAID) du département
d'État, avait également déboursé 2 millions de dollars pour soutenir les
dirigeants et institutions vénézuéliennes qualifiées de " modérées "
mais
qui en pratique étaient opposées au président Hugo Chavez ».

« Durant les six mois précédant le coup d'État, six autres bureaux du
Département d'État ont fait des versements d'un montant de 695 300
dollars
pour financer des conférences et séminaires bénéficiant à l'opposition
».

* * * *

Edgar González Ruiz

Journaliste d'investigation mexicain, auteur de Los Abascal, De los
cristeros a Fox, La sexualidad prohibida, Cruces y Sombras ainsi que
d'autres livres sur la droite mexicaine et sud-américaine.

[1] « Retour à Haïti », par Tom Reeves, http://www.counterpunch.org

---

SOURCE:
CUBA SOLIDARITY PROJECT
http://perso.club-internet.fr/vdedaj/cuba/
"Lorsque les Etats-Unis sont venus chercher Cuba, nous n'avons rien
dit, nous n'étions pas Cubains."

Pour vous abonner à ce groupe, envoyez un email à :
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Pour contacter directement le responsable
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cubasolidarity@ club-internet.fr
Lettre aux députés européens
http://perso.club-internet.fr/vdedaj/cuba/lettre_deputes.html

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La rimozione degli jugoslavi


Giriamo un significativo scambio, tratto dal portale di Osservatorio
Balcani --
> http://auth.unimondo.org/cfdocs/obportal/
> index.cfm?fuseaction=news.notizia&NewsID=2162
-- nel quale si evidenziano gli insuperabili paradossi creati in
Bosnia, dalla secessione e dalla parcellizzazione etnica. Si noti in
particolare come, nella discussione, tanto la Lettrice quanto
l'Osservatorio omettano completamente di usare l'attributo "jugoslavi"
per quegli slavi del sud (jugoslavi) che da 13 anni si rifiutano di
farsi imprigionare in schemi razzisti ed improntati al differenzialismo
"etnico": questo e' soprattutto vero in Bosnia, dove una alta
percentuale della popolazione si definisce tuttora in questa maniera,
in molti casi rifiutandosi di riconoscere come "proprio" lo
staterello-protettorato frutto della secessione, della guerra e degli
accordi di Dayton. (IS)


-----------

La posta dei lettori

Commenti, perplessità, questioni stimolate dalla lettura dei nostri
articoli. I lettori scrivono e l'Osservatorio risponde.

(10/05/2003)

----

LETTRICE

26 APRILE 2004

On meni: nema Bosne

Salve,

Colgo l'ultimo articolo di Andrea Rossini sui cittadini "non
costituenti" della Bosnia Erzegovina per ritornare sull'annosa
questione delle nazionalità dei cittadini bosniaci.

Nella prima mail che avete pubblicato, il lettore Tarik Srna obbietta
per il modo in cui chiamate coloro che per lui sono i bosniaci
"musulmani, cattolici ed ortodossi", e che invece per voi sono i
"Bosniaco Musulmani", i "Bosniaco Croati" ed i "Bosniaci Serbi".

Considerata l'autorevolezza del vostro stimato sito, dovrei darvi
ragione. Crederei, infatti, che sia come voi scrivete, se non fosse che
interviene un dettaglio, a rovinare il quadro, ed è l'episodio che
segue.

Mia madre torna a Sarajevo qualche anno dopo la guerra e vuole fare la
Carta d'Identità. Le chiedono di dichiarare la nazionalità: Croata,
Musulmana o Serba. Lei non si riconosce in nessuna delle tre, e intende
dichiararsi di nazionalità Bosniaca; non può farlo perchè quest'ultima,
le dicono, non esiste. Dunque si trova obbligata a dichiarare una
delle tre propostele perchè, altrimenti, non può ottenere la Carta
d'Identità. Dal nome, le dicono, deve essere Serba o Croata. La
religione dei suoi avi era cattolica, per questo motivo mia madre deve
dichiarare di essere di nazionalità Croata.

"Cosa c'entro io con la Croazia, a parte per quello che sarebbe dovuta
essere stata la religione dei miei genitori?", si chiede lei.

E ve lo chiedo ora io: illuminate finalmente me, e tutti quelli che
nutrono i miei stessi dubbi. E io poi, che ho la cittadinanza italiana,
se volessi prendere anche quella bosniaca, cosa sarei: Italo Bosniaco
Croata? Voi scrivete: "non vorremmo confondere caratteristiche
nazionali con caratteristiche religiose tout court." Ma in Bosnia
Erzegovina l'identificazione nazionale passa attraverso la religione!

Ditemi: cosa cambia, sennò, tra una persona di un'"etnia" e quella di
un'altra? Quale lingua e quali costumi, quali particolari tradizioni, a
parte la religione? E se poi una persona è atea, agnostica, o
semplicemente ritiene la religione un fatto del tutto privato che non
deve influire sulla propria vita pubblica?

Siccome a Lord Ashdown queste "sottigliezze" probabilmente non
interessano gli si può pure 'perdonare' qualora non le colga: ma a voi?
Proprio voi, che tanto auspicate una Bosnia Erzegovina laica?

Quando mia madre presentò poi ai suoi 'amici' (di tutt'è e tre le
possibili "etnie") questo problema, loro le risposero con imbarazzato
silenzio: imbarazzo perchè sono anni che loro si dichiarano Serbi,
Croati e Musulmani, senza riflettere, senza porsi alcun problema,
legittimando così questa lettura, più che rappresentativa, forzata e
imposta, della realtà.

Così non si fermerà il circolo vizioso: nazionalità inculcate in base
alle appartenenze religiose, le appartenenze religiose che inglobano la
vita quotidiana e che dunque rinforzano le nazionalità: dove vedete voi
lo spazio per lo sviluppo di una società laica, e dunque democratica?

Ormai avete, in pratica, quasi ragione, perchè ormai quasi tutti "sono"
Croati, Serbi o Musulmani. I nazionalisti, Serbi o Croati o Musulmani
che siano, tutt'insieme dannosi nel modo che ben conosciamo, sono
riusciti nel loro intento, questo è purtroppo l'evidenza dei fatti:
l'intento di imporre la loro legge e la loro lettura della realtà. E
voi, senza accorgervi, avete e state tutt'ora collaborando con loro. E
vi auspicate una strada verso la modernizzazione diversa da quella che
propongono gli economisti e i pragmatici. Mi chiedo come si faccia a
continuare a riproporre le interpretazioni dei nazionalisti, e a non
comprendere l'importanza di quello su cui insistiamo Tarik ed io (ma è
quello che probabilmente pensa anche il ragazzo della "generazione del
'73", oltre che ovviamente mia madre e pochi altri superstiti).

Che quella realtà l'avesse proposto Izetbegovic, o Tito, o chicchessia,
con tutto il rispetto, non toglie il dato di fatto che esistono persone
di cittadinanza Bosniaca non contemplate nelle vostre interpretazioni -
le quali, quindi, risultano sbagliate. Quasi tutti questi "superstiti"
sono ormai lontani dalla Bosnia, e quasi nessuno di loro ha la forza di
tornare indietro con lo sguardo e di insistere sul proprio ("nostro")
punto di vista.

C'è sicuramente da ringraziarvi per le vostre buone intenzioni e per lo
spazio che concedete per un'eventuale scambio di opinioni. Fino alla
prova contraria io insisto che in Bosnia Erzegovina ci sono solo due
popoli profondamente distinti: i vari nazionalisti "bosniaci" da una
parte e i cittadini bosniaci dall'altra. I primi non porteranno mai a
nulla di buono, i secondi non avranno modo di esistere finchè sono i
primi a scegliere le regole del gioco. E ai secondi è negata la
completa coscienza, la voce e la forza in quanto quella Costituzione,
scritta dai nazionalisti, non prevede la loro esistenza. I secondi,
quelli che non appartengono a nessuna parte e che non si schierano
dalla parte di nessun Dio, sono l'elemento scomodo che nessuna delle
tre "comunità" sa dove mettere e come trattare, tanto più che con la
loro presenza ricorda agli "appartenenti" la propria coscienza sporca.

Quello che io vorrei vedere, per iniziare, sarebbe la correzione di
quell'errore "teorico": una quarta casella da riempire compilando i
documenti: "cittadino bosniaco", punto. Affinchè i non nazionalisti
potessero riconoscersi prima davanti a sè, con questa possibilità di
scelta, e affinchè un giorno dei giovani avessero la possibilità di
riconoscersi in una società civile, e non venissero costretti ad
appartenere a delle comunità nazional-religiose. Ma finchè VOI non lo
capite, voi che dovreste, a cosa sperare?

Volli scrivere tutte queste cose 5 mesi fa, appena letta la vostra
risposta alla mail di Tarik. Ero sicura che non avreste accettato il
nostro punto di vista, perchè se non avete capito da soli una cosa (che
a noi pare semplice) non vi avrei di certo persuasi io. Proprio il
popolo Rom mi viene in aiuto evidenziando la realtà degli "emarginati",
loro che in effetti sono pure rappresentati da qualcuno e da qualcosa.
Noialtri siamo stati costretti a diventare più nomadi di loro, pur di
non cadere nella grande trappola.

Createci uno spazio almeno nelle vostre menti.

Cordiali Saluti,

Ana Martina

-----

Risponde l’Osservatorio

Cara Ana Martina,

La tua lettera riesce a spiegare in maniera molto più chiara ed
efficace la situazione di quanto evidentemente non riusciamo a fare nei
nostri articoli. Cogliamo l'occasione di questo tuo racconto per
cercare di precisare il nostro punto di vista.

Scopo dell’articolo " I Rom bosniaci, cittadini non costituenti ", cui
fai riferimento nella tua lettera, non è quello di sostenere la
creazione di un quarto o di un quinto popolo costituente, ma di mettere
a nudo la situazione di razzismo istituzionale che esiste nella Bosnia
di Dayton, dove la categoria dei cittadini (i Bosniaci) è stata
sostituita da categorie etniche (i Bosniaco Musulmani, i Serbo Bosniaci
ecc.).

Abbiamo utilizzato il caso dei Rom in Bosnia Erzegovina per
sottolineare questo paradosso. Non intendevamo evidentemente riferirci
solamente alla situazione dei Rom, ma rappresentare il quadro più
generale (v. laddove in quell'articolo si afferma che: " Queste
disposizioni, tuttavia, contrastano in maniera stridente con un assetto
istituzionale, quello bosniaco, tutto basato sui diritti dei "popoli
costituenti" e sulla emarginazione dei cittadini non appartenenti a
queste categorie etniche, cioè coloro che non sono né Serbi, né Croati,
né Bosgnacchi, o che non vogliono essere considerati appartenere a
questi gruppi. ")

Come Osservatorio pensiamo che si tratti di una situazione
inaccettabile nell'Europa di oggi, e che riguarda non solo i Rom ma
tutti coloro - come ad esempio tua madre - che rifiutano di fronte allo
Stato di dichiararsi appartenenti a questa o quella comunità etnica
oppure dichiarino di appartenere a una nazionalità – nella fattispecie
quella bosniaca – che secondo i funzionari dello Stato “non esiste”. Di
fronte allo Stato siamo e dobbiamo essere tutti uguali. Consideriamo
peraltro la situazione bosniaca molto pericolosa perchè stabilisce un
precedente con potenziali (devastanti) effetti di imitazione altrove in
Europa.

Tuttavia, un discorso è la cittadinanza, un altro la nazionalità. In
Bosnia, la cittadinanza dovrebbe essere una: quella bosniaca appunto, e
lo stesso dovrebbe valere in Italia e in qualsiasi altro Paese europeo.
Finchè non ci sarà, speriamo a breve, una vera e propria cittadinanza
europea, ma questo è un'altra questione ancora.

Per quanto riguarda la nazionalità, spesso nei nostri articoli facciamo
riferimento ai Bosniaco Serbi, Bosniaco Croati o Bosniaco Musulmani. Si
tratta di semplificazioni - e hai fatto bene a rimarcarlo - ma in ogni
caso non abbiamo mai inteso confondere quello che è un gruppo nazionale
all'interno di uno Stato con la categoria dei cittadini di quello Stato.

Sulla questione in particolare delle nazionalità dei cittadini
bosniaci, della nazionalità bosniaca e delle altre differenti
nazionalità, probabilmente avete ragione tu e Tarik (l’altro lettore
cui fai riferimento nella lettera): l'unica differenza evidente è la
religione - per coloro che sono religiosi. Ma per gli altri? Ti rimando
la domanda.

Nonostante quello che noi – come Osservatorio – possiamo auspicare, non
possiamo far finta che in Bosnia non ci sia stata una guerra e che
differenze - artificiali quanto vuoi, siamo d'accordo - oggi non
esistano, perchè non contribuiremmo a far capire la situazione attuale
del Paese, che è uno degli scopi del nostro lavoro.

Soprattutto, non possiamo essere noi a stabilire se differenze esistano
oppure no, nel senso che ogni persona ha il diritto di potersi dire o
dichiarare di questo o quel gruppo nazionale o religioso, o
semplicemente cittadino del mondo.

Questa è una libertà che lo Stato deve garantire, la libertà di poter
scegliere oppure no – e di dichiararlo, se lo vogliamo - la nostra
appartenenza. A fronte di questa libertà sta il dovere dello Stato di
attribuire a tutti i suoi cittadini eguali diritti in nome, per
l’appunto, di una “cittadinanza” comune.

La nostra sensazione, sulla base del lavoro che facciamo, è che la
guerra - e la vittoria dei nazionalisti, di tutte e tre le parti –
abbia modificato violentemente la situazione precedente creando un
nuovo contesto per certi versi ancora in movimento e difficile da
fotografare. Ci sono nuove barriere, il riferimento a numi tutelari
esterni (Zagabria o Belgrado ad esempio), un intervento contraddittorio
della comunità internazionale, persone che sono state costrette ad
abbandonare il proprio Paese e che non lo riconoscono più, persone che
ritornano e devono affrontare nuove sfide, persone che credono ancora
in ideali che negli ultimi dieci anni sono stati calpestati, e non solo
in Bosnia. Ci sono ancora i nazionalisti, che dominano la scena
politica. L’incontro/scontro tra tutte queste forze produce un quadro
che, davvero, non è facile rappresentare.

Il nostro sforzo è proprio quello di cercare di capire e descrivere la
situazione attuale, e cerchiamo di farlo a partire dalle storie delle
persone e dal racconto delle loro esperienze personali. Con materiali
come ad esempio "Generazione 73", cui anche tu fai riferimento.
Certezze, da parte nostra, non ce ne sono.

Con questo cerchiamo di stimolare un dibattito per cercare di
approfondire cosa significhino - nella Bosnia e nell'Europa di oggi –
le appartenenze, che implicazioni comportino sul piano psicologico,
sociale e dei diritti di cittadinanza, a partire dalla descrizione di
quella che è la propria percezione di sè e di come questa percezione è
mutata - se è mutata - nel corso degli ultimi anni.

In questo senso, la tua lettera, e il racconto della vicenda subita da
tua madre, rappresentano un importante contributo di cui ti ringraziamo.

Spero che continuerai a segnalarci anche in futuro tutte le volte che
commettiamo disattenzioni o rischiamo di essere poco chiari.

A proposito di USAID

Ricordo come durante i bombardamenti NATO su Belgrado e Podgorica una
signora che rappresentava il presidente montenegrino Djukanovic era a
Washington presso gli uffici USAID per trattare un finanziamento al
governo montenegrino.
La trattativa (col nemico, in stato di guerra) portava al versamento di
10 milioni di dollari su di un conto corrente cifrato presso una banca
svizzera. La motivazione ufficiale era che il denaro serviva a pagare
le pensioni in Montenegro. Il versamento della somma è stata confermata
dal responsabile dell'USAID con lettera ad un giornalista italiano che
voleva scrivere un articolo sull'argomento. Nessuno ha parlato
ufficialmente di sostegno ai progetti separatisti di Djukanovic, ma il
semplice fatto avrebbe dovuto bastare per una condanna per alto
tradimento.
Tale conto fu poi congelato dalle autorità svizzere per un contenzioso
tra Djukanovic ed un broker italiano che vantava tale somma per una
prestazione mai pagata. Anche risalendo a questo affare la DDA di Bari
ha indagato sugli affari di Djukanovic e lo ha incriminato per reati
economici.

Marino Andolina