Informazione
Sul piano economico e sociale, è un disastro. Ufficialmente, quasi il 50% della popolazione è disoccupata sui 2 milioni di abitanti che conta il paese, in una popolazione in cui il 75% ha meno di 35 anni.
Le cifre della povertà sono spaventose: un terzo della popolazione vive con meno di 1,5 dollari al giorno, fatto che pone il Kosovo tra i paesi più poveri d’Europa e del mondo.
Infernale per il suo popolo, il Kosovo è certamente un paradiso per le imprese poiché il paese ha scelto la “flat tax”, un tasso di imposizione unico per le imprese e per i redditi (alti) al 10%.
Sul piano politico, è un paese sotto tutela. Ironia dell’indipendenza di facciata. Nel 1999, il primo segno di indipendenza del Kosovo è stato quello di adottare il…marco. Il Kosovo, ha potuto però entrare in seguito nell’euro, senza essere nell’UE, un caso unico.
Il paese è ancora completamente assistito, retto dalle potenze straniere: così l’Unione europea dirige ancora la polizia, la giustizia e le dogane del paese nell’ambito dell’EULEX messo in piedi nel 2008, dopo l’indipendenza.
La KFOR della NATO, esercito di occupazione del Kosovo, si incarica ancora di seguire l’aspetto militare a partire dalla preziosa base di Bondsteel, la più grande base americana nella regione.
Sul piano umanitario, si raggiunge il colmo. Il non rispetto della minoranza serba è stato palese sulla scia dell’intervento NATO nel 1999. Soprattutto dopo l’indipendenza, il Kosovo è divenuto lo snodo di traffici di tutti i tipi, della criminalità organizzata, sotto lo sguardo impotente o complice delle “autorità”dell’UE e della NATO.
E’ ormai accertato dopo il rapporto Marty rimesso nel 2010 al Consiglio d’Europa, che i leaders dell’UCK (esercito di liberazione del Kosovo) hanno organizzato un traffico di organi internazionale a partire dalle loro scorte di prigionieri serbi barbaramente torturati e poi uccisi sommariamente.
Si conosce bene l’ipocrisia dei paesi occidentali che classificarono l’UCK come organizzazione terrorista fino alla fine degli anni 1990…prima di celebrarli come i “liberatori del Kosovo” dopo il 1999, Bernard Kouchner in testa.
Tra gli altri traffici fiorenti, si può pensare: al traffico di armi, il Kosovo è la prima filiera di armi illegali verso la Francia!; al traffico di droga, l’eroina ha finanziato lo sviluppo dell’UCK. Oggi 60 tonnellate transitano ogni anno, riportando 3 miliardi di dollari. Nel 2000, le agenzie internazionali stimavano che il 40% dell’eroina consumata in Europa provenisse dal Kosovo; infine al traffico di donne, i canali kosovari alimentano la prostituzione illegale verso l’Europa occidentale. La prostituzione si era egualmente sviluppata in modo intenso nel Kosovo a causa…dell’appetito dei soldati della KFOR che, secondo un rapporto di Amnesty International, rappresentavano il 20% dei clienti delle prostitute kosovare nel 2003. Ragazze ridotte alla schiavitù sessuale, a volte fin dall’età di 11 anni, secondo le ONG.
By bombing Yugoslavia US wipes floor with int'l law - expert
15 years ago the United States cut up Yugoslavia's map. If prior to that Washington had played behind the scenes, in the situation of Serbia the Americans acted openly. Without the UN SC resolution, the NATO bombed peaceful cities for 11 weeks ruthlessly destroying the civilian and military infrastructure, thus in essence wiping the floor with international law.
What in the West would later be called "humanitarian intervention" has in fact nothing to do with humanism – 78 days of bombing took lives of 2,000 people, two thirds of whom were peaceful civilians. Over 10,000 people were wounded.
By late 1990s the USA finally took the leading position in the world politics. Back then Washington faced a new task – to install that fact firm in the minds of the world community. The American authorities picked Yugoslavia as the instrument of persuasion.
The antiterrorist operation of the Serbian Special Forces in the village of Račak in January 1999 was picked as the pretext for the bombings of that country. Portraying that case as a mass murder of civilian population the USA announced the beginning of the "humanitarian intervention" and started to ruthlessly destroy the civilian and military infrastructure of Yugoslavia without any decision made by the UN Security Council. By acting that way Washington practically wiped the floor with international law, thinks Vladimir Kozin, an expert at the Russian Institute for Strategic Studies.
"For 78 days the Americans and the NATO bombed Yugoslavia; they dropped 27,000 tons of various missile and bomb ammunition; 2,000 civilians were killed, of them 400 children; 40,000 houses were destroyed."
Only later it came to light that the mass burial of representatives of the civilian Albanian population reportedly shot by the Serbian troops was a falsification organized by the American special services. The majority of people found near the village of Račak were rebels of the Liberation Army of Kosovo.
The NATO aggression resulted in the fall of Yugoslavia. The economy of the countries that made up that entity was totally destroyed; the agriculture was eliminated by a wave of sanctions, while the industrial production was practically completely demolished.
Washington did not choose Yugoslavia as its victim accidentally. According to Elena Guskova, head of the Center for the Studies of Modern Balkans' Crisis at the Institute for Slavic Studies of the Russian Academy of Sciences, the military aggression against that country was a part of a complex operation to destroy the multinational state.
"The causes were the refusal of Yugoslavia's leadership to take orders and its unwillingness to accept the will imposed from the outside. The talks between Slobodan Milošević and Richard Holbrooke (who back then was the US Special Envoy to Cyprus and Yugoslavia) in October 1998 did not bring the desired results. Slobodan Milošević did not allow deploying NATO troops on his territory. Then he was told, "we will punish you"."
As a result of the NATO operation Kosovo declared its independence. That was what Washington was after. The Americans immediately built their military base Camp Bondsteel there – second largest in Europe. It allows the USA to control the area of the Mediterranean and the Black Sea and the routes in the Middle East, Northern Africa and in the Caucasus, as well as the transit of energy resources from the Caspian Region and Central Asia. For the USA its military base in Serbia is quite legal and beneficial. The Americans do not pay for the use of the land in Kosovo.
Ufficio per il Kosovo ha condannato il ferimento di tre poliziotti
L’ufficio dell’esecutivo serbo per il Kosovo ha condannato il ferimento di tre poliziotti di nazionalità serba nel villaggio Banje, nel comune di Zubin Potok nel Kosovo settentrionale. L’ufficio ha chiesto alla comunità internazionale di assicurare le condizioni per una vita normale a tutti gli abitanti del Kosovo. Chiediamo che siano trovati e puniti i delinquenti che nell’imboscata hanno aperto il fuoco contro il veicolo nel quale si trovavano i membri della polizia doganale. Condanniamo ogni forma di violenze contro i cittadini della regione, in primo luogo gli attacchi contro gli appartenenti delle forze di sicurezza, è stato precisato nel comunicato diffuso dall’ufficio dell’esecutivo serbo per il Kosovo. Tre membri della polizia kosovara sono stati feriti lunedì sera nella sparatoria nel comune di Zubin Potok.
Il presidente Ceco Zeman: “L’ armata kosovara” – riarmamento del UCK terroristico.
Zeman: "Kosovska armija" - ponovno naoružavanje terorističke OVK
Stvaranje takozvane "kosovske vojske" značilo bi ponovo naoružavanje pripadnika terorističke Oslobodilačke vojske Kosova, izjavio je predsednik Češke Miloš Zeman tokom posete Srbiji. S obzirom na to da je OVK za vreme ratnih sukoba u Pokrajini izvodila terorističke akcije, plašio bih se formiranja "kosovske vojske" koja ne bi predstavljala ništa drugo do ponovo naoružanu OVK - rekao je Zeman češkim novinarima. On je napomenuo da je raspuštanje OVK bilo jedan od glavnih zahteva tokom mirovnih pregovora o Kosmetu. Češki predsednik je podsetio i na dokument specijalnog izvestioca Saveta Evrope Dika Martija u kojem se navodi da su lideri OVK trgovali organima otetih i zarobljenih Srba. Ukazujući da samoproglašenu nezavisnost Kosmeta nije priznao veliki broj zemalja i da je on lično od početka bio protivnik takvog projekta, Zeman je ocenio da je reč o teritoriji na kojoj veliki uticaj ima narko mafija.
(izvor : Tanjug)
In Kosovo sta rinascendo l’esercito di liberazione che era stato messo al bando?
Di Redazione • 03 apr, 2014 • Categoria: MondoLa Repubblica ceca ha espresso una forte preoccupazione per il formarsi di una forza militare ufficiale nel paese che si è reso indipendente dalla Serbia nel 2008
Per il presidente ceco Milos Zeman, la creazione di regolari Forze armate del Kosovo, annunciata dalla dirigenza di Pristina, significherebbe in definitiva un riarmo di quello che era un tempo l’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) della guerriglia indipendentista albanese, responsabile di azioni terroristiche durante il conflitto armato con i serbi della fine degli anni novanta. «Considerando che durante la guerra nella ex Jugoslavia l’Uck si rese responsabile di una quantità di atti terroristici, io avrei paura di un Esercito indipendente in Kosovo, che altro non sarebbe che una Uck armata», ha detto Zeman ai giornalisti cechi al suo seguito nella visita degli ultimi due giorni a Belgrado.
Zeman, il cui Paese ha riconosciuto l’indipendenza di Pristina, ha ricordato che lo scioglimento dell’Uck era uno dei punti qualificanti degli accordi di pace. «Ora tuttavia quella forza viene in sostanza ripristinata. Io ritengo che il Kosovo sia un Paese a dir poco molto strano. Un Paese sotto il forte influsso del traffico di droga», ha affermato il presidente ceco, che ha ricordato al tempo stesso come l’Uck – uno dei cui leader era l’attuale premier kosovaro Hashim Thaci – è sospettato del traffico di organi umani, accuse presentate nel 2010 anche dal relatore del Consiglio d’Europa Dick Marty.
Messaggi di minacce sul portone del monastero serbo Dečani Alti
25. 04. 2014.Sul portone del monastero Serbo Decani Alti, nel Kosovo sud-occidentale, stamattiona sono apparse le iscrizioni UCK, cioè l’Esercito per la liberazione del Kosovo, ha comunicato l’eparchia di Raska della Chisa serba ortodossa. Questa è soltanto l’ultima provocazione della popolazione albanese che ha scritto messaggi simili anche sul muro della chiesa ortodossa a Djakovica, e sulle case serbe a Orahovac. Il portone del monastero Decani Alti, il quale è stato inserito nel 2005 nella lista dell’UNESCO del patrimonio mondiale, si trova a una decina di metri dal contingente italiano della Kfor. I messaggi del genere sono una minaccia ai sacerdoti e i monaci del monastero, i quali negli ultimi quindici anni sono stati attaccati quatro volte con le armi da fuoco e innumerevole volte verbalmente, ha comunicato l’eparchia di Raska della Chisa serba ortodossa.
Grafiti UČK ispisani na kapiji Manastira Visoki Dečani
Pet, 25/04/2014Na kapiji Manastira Visoki Dečani su osvanuli grafiti sa natpisom UČK, takozvane Oslobodilačke vojske Kosova, saopštila je Eparhija Raško-prizrenska. Ovo je poslednji u nizu sličnih provokacija albanskih ekstremista koji su prethodno poruke mržnje ispisivali na zidu crkve u Đakovici, a potom na srpskim kućama u Orahovcu na Kosovu i Metohiji. Ekstremisti su grafite ispisali na samoj manastirskoj kapiji u Visokim Dečanima i to svega nekoliko desetaka metara od italijanskog punkta KFOR-a. Eparhija Raško-prizrenska ovaj akt doživljava kao otvorenu pretnju Manastiru Visoki Dečani i njegovom bratstvu koji su u poslednjih 15 godina takozvanog međunarodnog mira na Kosovu i Metohiji četiri puta oružano napadani granatama od strane albanskih ekstremista, i kojima su više puta upućivane pretnje.
Kancelarija za KiM osudila ispisivanje grafita „OVK“
Kancelarija za Kosovo i Metohiju osudila je ispisivanje grafita sa natpisom „OVK“ na manastirskoj kapiji u Visokim Dečanima i zatražila da KFOR preuzme svu odgovornost za bezbednost monaha u toj srpskoj svetinji. To je još jedan vid pritiska na bratstvo Visokih Dečana i na bezbednost celokupnog srpskog kulturnog i verskog nasleđa na KiM, istaknuto je u saopštenju Kancelarije. Ukazuje se da je poruka jasna - proterati pravoslavne sveštenike sa KiM, a sa njima i celokupno srpsko stanovništvo, na čemu albanski ekstremisti rade već godinama. Kancelarija podseća da nisu pronađeni ni oni koji su nedavno ispisali poruke mržnje na crkvi u Đakovici i na srpskim kućama u Orahovcu. Parole su osvanule na manastirskoj kapiji pored koje se, na udaljenosti od svega nekoliko desetina metara, nalazi italijanski punkt KFOR-a. Manastir Visoki Dečani je od 2005. godine na spisku Svetske baštine UNESKO-a.
(Izvor: Tanjug, foto: radioKiM)
17.02.2014 10:07 CET
Kosovo, un Paese con poche speranze: bilancio di sei anni d’indipendenza
Gabriella Tesoro
Era il 17 febbraio 2008 quando il Parlamento del Kosovo, riunito in seduta straordinaria, dichiarò unilateralmente la propria indipendenza dalla Serbia, a 15 anni di distanza dal sanguinoso conflitto che coinvolse i due Paesi. Quel 17 febbraio, il primo Stato a riconoscere l'indipendenza di Pristina fu la Costa Rica, seguito il giorno dopo dai più importanti Paesi del mondo, come Germania, Italia, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Oggi, a sei anni di distanza, il Kosovo è riconosciuto come Stato sovrano da 105 Paesi del mondo, di cui 23 dell'Unione europea. A opporsi fortemente rimangono Spagna, Grecia, Cipro e Romania, che vedono in questo riconoscimento una gravissima minaccia interna a causa delle forti forze centrifughe che regnano in questi Paesi, senza contare ilsecco "no" di Russia e Cina, oltretutto membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ribadiscono la validità della risoluzione Onu 1244, che mette il territorio kosovaro sotto la sovranità della Serbia.
Un'indipendenza che lascia ancora oggi perplessa la comunità internazionale. Nel luglio del 2010, il caso finì al Tribunale dell'Aja in quanto, su iniziativa di Belgrado, venne chiesto alla Corte se la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo avesse violato le norme del diritto internazionale. I giudici dichiararono l'azione di Pristina non illegale, ma si guardarono bene dal definirla legittima, tant'è che il verdetto finale non formulò un diritto alla secessione. Insomma, punto e a capo.
Se da una parte il dibattito sullo status del Kosovo è ancora aperto, dall'altro il Paese sta facendo degli enormi sforzi per essere accettato a pieno titolo dalla comunità internazionale, ma, per fare questo, Pristina ha compreso che deve come minimo cercare di normalizzare i rapporti con i vicini di Belgrado che, volente o nolente, rimane comunque il Paese più influente e importante dei Balcani occidentali. Lo scorso aprile, i due acerrimi nemici hanno raggiunto un accordo di pace a Bruxelles, ma un riconoscimento ufficiale da parte della Serbia rimane molto, molto lontano. "Sono convinto che la Serbia riconoscerà l'indipendenza del Kosovo - ha affermato il premier kosovaro, Hashim Thaci - Quando accadrà? Dipende dalle autorità serbe. Non possiamo definire una data". Stesso problema è rappresentato dalla Russia, ma anche in questo caso, il premier pare ottimista: "Ho la speranza e la convinzione che anche la Russia cambierà posizione. Il Kosovo e la Russia non sono nemici. La Russia non riconosce ancora l'indipendenza del Kosovo, a causa di Belgrado, ma se lo farà, questo aiuterà anche la Serbia".
Il problema però consiste in due popolazioni estremamente divise che non vedono di buon occhio i progressi che i propri governi cercano di portare avanti. "I nostri popoli non sono abituati alla pace tra Kosovo e Serbia - ha continuato Thaci - Direi persino che ci avrebbero applaudito, a Pristina come a Belgrado, se l'accordo fosse fallito. Abbiamo firmato questo accordo nella prospettiva europea dei nostri Paesi, anche se ci sono state molte critiche in Serbia e in Kosovo. Maquale sarebbe l'alternativa? Dovremmo continuare con i conflitti, i problemi, le ostilità, le uccisioni, la violenza?".
E, difatti, normalizzati i rapporti con Pristina, Belgrado ha avviato i colloqui per entrare nell'Unione europea. La questione è molto più complicata per il Kosovo che non fa nemmeno parte dell'Onu proprio a causa del veto di Mosca e Pechino.
Inoltre, il Paese, ha una miriade di problemi interni. In primis, la situazione finanziaria. La disoccupazione ha raggiunto la cifra record del 45 per cento. Questo significa che un kosovaro su due è senza lavoro e tra i giovani la cifra sale persino al 70 per cento. Dati drammatici che hanno portato una gran parte della forza lavoro a emigrare, per lo più in Germania e in Svizzera. Benché stia cercando di costruire un sistema economico stabile e basato sul libero mercato, il Paese rimane fortemente dipendente dalla comunità internazionale. La maggior parte della popolazione continua a vivere nelle zone rurali, l'agricoltura è inefficiente a causa della mancanza di competenze tecniche, il sistema industriale è antiquato e utilizza attrezzature obsolete per i bassi investimenti e la fornitura di energia elettrica è limitata e inaffidabile per i continui problemi tecnici e finanziari. Nel luglio 2008, 37 Paesi promisero di fornire al Kosovo 1,9 miliardi per sostenere le sue riforme, ma la crisi finanziaria globale ha ridotto l'afflusso del denaro. La corruzione raggiunge livelli altissimi, tant'è che secondo l'Indice di Percezione della Corruzione pubblicato recentemente da Transparency International, il 75 per cento dei kosovari ritiene i partiti politici del Paese corrotti o molto corrotti.
E poi c'è l'enorme problema della minoranza serba che vive nel nord del Kosovo, al confine con la Serbia, che aumenta il rischio di creare una separazione nella separazione. Difatti, nel nord del Kosovo i serbi rappresentano la maggioranza e minacciano continuamente di separarsi da Pristina per ricongiungersi con Belgrado. Un'ennesima separazione che, se dovesse diventare reale, potrebbe paradossalmente spaccare a metà la città di Kosovska Mitrovica, abitata a nord dai serbi e a sud dagli albanesi. Lo scorso 12 febbraio, nel 22esimo incontro tra kosovari e serbi, svoltosi s Bruxelles sotto la supervisione del capo della diplomazia Ue, Catherine Ashton, è stato raggiunto un accordo, a cui manca però la firma ufficiale. Secondo quanto previsto, dovrebbe nascere un tribunale di Mitrovica che punterebbe a preservare gli interessi serbi, decisione a cui si è fortemente opposta la delegazione kosovara che non voleva dare alcuna connotazione etnica alla Corte. Al momento, il nord del Kosovo è di fatto controllato dalla Serbia, che gestisce la polizia, le dogane, la scuola, la moneta e la giustizia, ma presto alcune strutture, quali la giustizia e la polizia, passeranno sotto il controllo di Pristina.
La situazione però rimane tesa. La patata bollente è del Kosovo, che dovrà cercare in tutti i modi di integrare la minoranza serba. Il problema è che i serbo kosovari non sembrano intenzionati ad integrarsi e non accettano quello che la loro madrepatria, cioè la Serbia, ha negoziato.
Tuttavia, lo scorso anno si sono aperti i colloqui per la ratifica dell'accordo di stabilizzazione e associazione con l'Ue. Se dovessero andare a buon fine, per Pristina significherà ricevere fondi europei, stipulare accordi sulle dogane e rendere più semplice la concessione dei visti per l'espatrio. Un passo in avanti che potrebbe portare Pristina a risolvere molti dei suoi punti critici, ma senza un riconoscimento internazionale, soprattutto da parte di Serbia, Russia e Cina, al Paese rimangono poche speranze.
New York Times covers up fascist atrocity in Odessa
By Barry Grey
5 May 2014
The criminal character of the US-European Union intervention in Ukraine was tragically exposed for all to see Friday when supporters of the US-installed regime in Kiev, led by neo-Nazi Right Sector thugs, set fire to the Trade Unions House in the Black Sea port of Odessa, killing 38 pro-Russian demonstrators who had taken refuge in the building.
The anti-Kiev regime protesters had retreated into the building after the Ukrainian nationalist mob set fire to their nearby tent encampment. Authorities say 30 people died from smoke inhalation and another eight were killed when they jumped from windows and balconies in an attempt to escape the blaze.
According to eyewitness accounts, those who dropped from the building and survived were surrounded and beaten by Right Sector fascists. Videofootage shows bloodied survivors being attacked.
This massacre occurred on the same day that government military forces, including armored personnel vehicles and helicopter gunships, attacked towns in the southeast of the country under the control of pro-Russian opponents of the regime, which was illegally installed last February in a coup led by Right Sector paramilitaries and backed by Washington and the EU.
The Obama administration, along with the governments of Germany, France, Britain and the other European imperialist powers, bears political responsibility for Friday’s atrocity. They have sponsored the Right Sector, as well as the neo-fascist Svoboda party, and seen to it that they were integrated into the new anti-Russian regime in Kiev.
The US media, led by the so-called “newspaper of record,” the New York Times, shares political responsibility, having brazenly promulgated government propaganda and lies since the Ukraine crisis began last November. The Times, in particular, both in nominal “news” stories and in columns by State Department mouthpieces such as Andrew Higgins, C.J. Chivers, Roger Cohen, Nicholas Kristof and Thomas Friedman, has promoted the line that the incipient civil war in Ukraine is the result of Russian aggression, not US-European subversion.
In order to promote this grossly distorted version of events, the Times has gone so far as to publish an article with fabricated “evidence” and doctored photos supposedly proving that the rebellion in southeast Ukraine is the work of Russian military and intelligence forces—a story the newspaper was forced to retract—and dismissed as Russian propaganda warnings about the fascist and anti-Semitic politics of Washington’s ultra-right allies in Kiev. Chivers has also penned on-the-spot reports on the right-wing Maidan protests in Kiev sympathetically painting the ultra-nationalist paramilitaries as honest patriots and obscuring their fascist politics and pedigree.
Thus it is not surprising that the Times responded to the fascist murder of 38 people in Odessa on Friday by burying the story and deliberately obscuring the identity of the perpetrators. The only mention of the torching of the Trade Unions House and murder of 38 people holed up inside occurred in a story on page A7 of the Saturday edition of the newspaper—on the fourth page of the International section.
The reference to the massacre, moreover, was a fleeting mention well down in the article, carefully formulated to avoid attributing blame. The authors, C.J. Chivers (Who else?) and Noah Sneider, wrote: “Violence also erupted Friday in the previously calmer port city of Odessa, on the Black Sea, where dozens of people died in a fire related to clashes that broke out between protesters holding a march for Ukrainian unity and pro-Russian activists.”
The Sunday Times published a front-page on-the-spot report by Chivers and Sneider from Slavyansk on the anti-Kiev government insurgents. Despite being unable to produce any evidence of the presence of Russian spies or troops, the authors wrote that “one persistent mystery has been the identity and affiliations of the militiamen.”
To further bolster the US State Department line they wrote, in relation to a rebel leader named Yuri, whom they described as “an ordinary eastern Ukrainian of this generation,” that his background as a former Soviet special forces commander in Afghanistan “could make him authentically local and a capable Kremlin proxy.”
Mention of the torching of the Trade Unions House and murder of dozens of pro-Russian protesters in Odessa was once again relegated to the back pages. The article falsely stated that “it was not immediately clear who had started the blaze.”
The cover-up by the Times is consistent with the dishonest treatment provided by the rest of the so-called “mainstream” press in the US—only more crude than most. The Washington Post had a front-page article that featured the deaths in Odessa and acknowledged that the fire was set by supporters of the Kiev regime, but omitted any mention of the Right Sector.
The Wall Street Journal in a news report attributed the fire to “a clash between pro-government and anti-government mobs.” In an editorial published Saturday, the Journal actually implied that Russia was responsible for the mass murder. The editorial stated: “Pro-Ukraine demonstrations in the southeast are large, and the Russians have tried to beat them into silence. Some three dozen people died on Friday during clashes in Odessa.”
In downplaying the mass killing in Odessa and concealing the identity, politics and US connections of the perpetrators, the American media is not simply covering up for the fascists and the regime in Kiev, it is concealing the criminal responsibility of the Obama administration and American imperialism.
Even as Ukrainian military forces were attacking protesters in the east and fascist mobs allied to the government were burning and killing in Odessa, President Barack Obama was giving his unconditional support to the actions of the regime at a joint White House press conference with German Chancellor Angela Merkel. “The Ukrainian government has the right and responsibility to uphold law and order within its territory,” he declared, and went on to praise Kiev for its “remarkable restraint.”
At a meeting Friday of the United Nations Security Council, US Ambassador Samantha Power put the entire blame for the violence on Moscow and called the military crackdown in the east “proportionate and reasonable.”
Nothing of any significance that the US puppet regime in Kiev does is independent of its masters in Washington. That the US is calling the shots in the mass repression of anti-government forces in eastern Ukraine was highlighted by the separate visits to Kiev of Central Intelligence Agency Director John Brennan and Vice President Joseph Biden, after each of which the regime launched new attacks on the rebels in the east.
The United States has worked closely with the neo-fascist Svoboda party as well as the Right Sector, and signed off on their incorporation into the government it installed in Kiev after the February 22 putsch that overthrew the elected, pro-Russian president, Viktor Yanukovych. Initially, the head of Right Sector, Dmytro Yarosh, was offered the post of deputy head of internal security, but he turned it down in order to operate more freely while providing the regime with a pretense of separation from the fascist militia.
Nevertheless, the Kiev government set up a new National Guard, recruited largely from the Right Sector and other ultra-nationalists and fascists, and has thrown it, as well as the Right Sector directly, against pro-Russian oppositionists in the east to supplement the operations of the Ukrainian military.
In an interview last month with the German publication Spiegel Online, Yarosh boasted of state support for his forces, saying, “Our battalions are part of the new territorial defense. We have close contact with the intelligence services and the general staff.”
The handprints of Washington are all over the fascist massacre in Odessa, and the New York Times, along with the rest of the “mainstream” media, is exposed as an accomplice. The cover-up of this crime by the Times is a guarantee that it will whitewash even greater crimes of US imperialism in the days and weeks to come.
The German media and the massacre in Odessa
By Peter Schwarz
6 May 2014
A politically conformist media has long been considered a characteristic of dictatorships. Not any more. One can also speak of such a conformist press in the coverage of Ukraine in the German media.
Last Friday, over 40 opponents of the Kiev regime fell victim to a fascist massacre. Although German television stations and newspapers have many correspondents on the ground, you will not find a serious report concerning the background to this terrible crime. Instead, the events are falsified, downplayed or simply ignored.
From the outset it was clear that the victims who lost their lives, burning to death in the Odessa trade union hall, suffocating or jumping out the window, were opponents of the government in Kiev. Despite this, the media has deliberately left the origins of the victims and the culprits in the dark.
On the day of the events, Spiegel Online reported untruthfully that dozens of people had “died in clashes between Ukrainian nationalists and pro-Russian activists.”
Two days following the massacre, the Frankfurter Rundschau reported: “Violence escalated in the port city on Friday between hundreds of supporters of the government in Kiev and Moscow. In street battles, both sides threw Molotov cocktails, a trade union building was set alight. Four people died in the fighting, a further 38 lost their lives in the probably deliberate fire.”
To date, there has still been no word on the website of the Rundschau about who started the fire in the union hall and who was killed as a result. And this is despite the fact that the date of the fire alone—May 2—should surely have brought to mind dire memories in the editorial offices. On May 2, 1933, the Nazis stormed trade union buildings in Germany and murdered or arrested numerous union leaders.
The events in Odessa do not conform to the flood of propaganda pumped out daily by the Rundschau and other media. According to their narrative, the regime in Kiev stands for “western values” and “democracy”, while the opposition is being directed by Russian agents and Putin personally.
That is a lie, as even the Ukrainian interim president Alexander Turchynov had to angrily admit. He agreed that his government is meeting with widespread rejection in the east of the country.
“Let’s be honest”, Turchynov told the Kiev broadcaster TV5, “the citizens in this region support the separatists, they support the terrorists, which has considerably impeded the anti-terror operation”. He said the fact that the police also sympathised with the pro-Russian forces was a “colossal problem”.
Because it is rejected by broad layers of the population, and even by sections of the security apparatus, the putschist regime in Kiev rests on murderous fascist gangs in order to defend its power. Far-right militias such as the “Right Sector”, the so-called “self-defence” of the Maidan, and members of Svoboda brought the regime to power on February 22. The same forces are now responsible for the murder of dozens of their opponents in Odessa.
According to reports of local activists, members of these militias travelled to Odessa last Friday under the cover of a soccer game between Odessa and Kharkov. They mingled with the football fans and marched through the city undisturbed by the police. It was here that the first bloody clashes occurred between about 1,000 armed fascists and 250 opponents who stood in their way.
The fascists carried on to the union building and set fire to a tent camp that had been built earlier by opponents of the regime. The occupants fled into the union building, which the right-wing militias also set on fire. The grisly scenes of the burning union house, surrounded by jeering nationalists, in which regime opponents burned alive, died from smoke inhalation or jumped out of the window in panic have been captured on film. As have scenes showing the seriously injured being mistreated by the fascists.
The German media are deliberately hiding these facts from the public.
Like the Rundschau, the pro-Green Party taz has not said a word about the identity of the victims and culprits. Three days following the massacre, the online edition of taz reported: “At least 46 people were killed in a serious fire in the town’s trade union house and in street battles on Friday, with more than 200 injured.” The day after the fire, they said the fire was the result of “criminal arson”, citing the transitional government in Kiev.
On Monday, when the circumstances and background of the massacre were long known, the Süddeutsche Zeitung asked, referring to the “chaotic situation” in the country: “Who can know who is concretely responsible for the rampage?”
The conservative Die Welt reported that at least 42 died “in clashes between pro-Russian activists and government supporters in Odessa”. Instead of naming victims and culprits, they cite the nationalist politician Julia Tymoshenko, who accused Moscow of trying to drive a wedge between the population and of being responsible for the deaths.
Germany’s public television broadcasters, subsidised with a monthly contribution of 18 euros from every household, and which are legally bound to report objectively, match the propaganda of the print media in every respect.
On Monday, the morning show on ARD provided extensive airtime to Ukrainian Prime Minister Arseny Yatseniuk, who claimed the dead in Odessa were “provocateurs who acted on behalf of the Kremlin”. “This was a well-prepared commando action”, he declared. “It’s all part of the Russian plan to get its hands on Ukraine and destroy it. Well-trained agents initiated the conflict and then quickly disappeared.”
Although ARD correspondent Golineh Atai reported daily from Donetsk, nothing regarding the true background to the political events was explained. And when the news anchors Thomas Roth and Caren Miosga ranted against Russian president Putin, they brought to mind the infamous Cold War propagandists of the 1960s, Gerhard Löwenthal on West German television channel ZDF, and Karl-Eduard von Schnitzler on East German television.
In response to the angry protests of their viewers, the news programme switched its editorials to their website, “as a result of overload”, they said.
The political conformity of the media is part of a fundamental change of course in German foreign policy. Faced with growing social tensions and a continuing crisis of the European economy, the German government has abandoned its previous military reticence and is again following an aggressive militarist policy. Together with the US administration, they have organised the putsch in Kiev and are now provoking a dangerous confrontation with Russia.
The media support this course. They have ditched all moral scruples and are helping through their lies to prepare future wars.
Da: "Solidarnost" <solidarnost @ yunord.net>Oggetto: JugoslovenstvoData: 30 aprile 2014 17:44:27 GMT+01:00A: "C.N.J." <jugocoord @ tiscali.it>Jugoslovenstvo = Raditi i živeti zajedno = Razvoj Srbije, … i YU!U proteklih skoro 100 godina mnoge velike sile su radile na podeli, svojatanju jugoslovenskih prostora, pozivajući se na razloge geopolitičke strategije, ali se u suštini uvek radilo o ekonomskim i kolonijalnim interesima. Početkom XXI veka kada je u Subotici pokrenut proces formiranja Pokreta Mini Jugoslavije, više hiljada građana iz domovine i sveta u jedan glas je poručilo: "Ne damo gumicom izbrisati ime 'Jugoslavija' – Jugoslovena je bilo i biće ih!" Tako je i bilo i danas taj pokret ima svoje baze u Subotici, Bačkom Gračacu, Novom Sadu, Beogradu, Smederevu, Lajkovcu, pa sve do Niša.Kada se radi o ideji opredeljenja za Jugoslovenstvo, za život zajedno na ovim prostorima, u proteklih 25 godina izgubljena je samo jedna bitka, iz koje moramo izvući pouke. Kontrarevolucija sa ciljem profitiranja samo nacionalističkih elita odnela je prevagu. Na ovim našim, južnoslovenskim prostorima krize su uvek bile proizvedene izazivanjem pucanja na nacionalnim šavovima, po matrici nacional-šovinizma: "Podeli (zavadi), pa vladaj". Ne smemo to više dozvoliti, tolerisati, jer je očigledno ko su žrtve, ko snosi posledice takvog stanja. Dok su se elite obogatile, velika većina građana iz svih nacionalnih zajednica je osiromašila, životari u besperspektivnosti, nezaposlenosti, egzistencijalnoj i duhovnoj bedi. U svim članicama bivše južnoslovenske federacije manje ili više jačaju neofašističke opcije, ultradesničari koji promovišu teze nacional-šovinizma i deluju sa tih pozicija. Slaba ekonomija, nikakva privreda, sa oko 28 % nezaposlenih, pogodno je tlo za restart nekih novih "Majn Kamf"-ova i njihovih primitivnih liderčića. Dok god od šest članica jugoslovenske federacije samo njih dve u EU, a ostale četiri na putu da to postanu, svi mi živimo jedni pored drugih, u samoizolaciji ili u dirigovanoj izolaciji, uz "mudru" parolu svake vlasti: "mi sada moramo gledati svoj interes".Svi mi u samoupravnoj i socijalističkoj Jugoslaviji imali smo priliku da budemo ravnopravni sa svim drugim narodima i narodnostima, da učestvujemo u njenoj izgradnji i razvoju, da zajedno sa svima drugima razvijamo svoje sposobnosti, besplatno se školujemo i lečimo, imali smo priliku da živimo u zemlji u kojoj čovek stajao ispred profita, u društvu u kome je drugarstvo i solidarnost bilo važnije od krutih i nacionalističkih stega. Jugosloveni nepokolebljivo veruju u kreativnost i pozitivnu dinamiku jugoslovenskih prostora i nisu opterećeni pečatima istorijskog nasleđa i neznatnih razlika među ljudima, nego daju prednost elementima koji povezuju evropske kulturne tradicije, a kao rezultat takvih nastojanja i pogleda pojavljuje se specifičnost zajedničkog identiteta koji je apsolutno nezavistan od nekih starih ili novih granica, te time po ko zna koji put na delu dokazuje da granice ne postoje na kartama, već isključivo u glavama ljudi. Ljudske, prijateljske i drugarske društvene veze i saradnju mnogi građani nisu prekidali ni nakon tragičnog egzodusa Jugoslavije. To se održava i razvija u mnogim elementima savremenih komunikacionih tehnologija, a najneposrednije se izražavaju prilikom ličnih susreta. Rad i život zajedno, tamo gde korzo ili šetalište nisu podeljeni po nacionalnoj osnovi sklapaju se mešoviti brakovi koji su cement i čvrst temelj života zajedno. U Subotici je, na primer, svaki drugi brak bio mešovit. Postoje i rade mnoga udruženja i društvene organizacije i klubovi Jugoslovena, mediji koji sarađuju i imaju zajedničke akcije. Mi Komunisti Srbije smo ponosni na to što smo inicirali i dve godine predsedavali radom Koordinacionog odbora komunističkih i radničkih partija sa jugoslovenskih prostora koji sada funkcioniše u Zagrebu pod koordinacijom Socijalističke radničke partije Hrvatske.Ove 2014. godine naša ekonomija je blizu bankrota, privreda u većini članica jugoslovenske federacije je skoro do kraja uništena korupcionaškom i pljačkaškom privatizacijom. U Srbiji nismo dostigli ni 60 % BDP iz 1989. godine. Dok su organi jugoslovenske federativne republike ostvarivali ustavom zagarantovane nadležnosti, vodilo se računa o strateškom razvoju privrede, o komplementarnosti i dohodovnoj povezanosti udruženog rada iz svih republika, kao i solidarnom i bržem razvoju nerazvijenih. Tragično je da se ta međusobna upućenost naših preduzeća zbog zatvorenosti, političkih i ideoloških razlika, interesa velikih sila, ne koristi u punoj meri. Takva društveno-ekonomska aktivnost značajno bi osnažila i unapredila privrednu aktivnost naših republika. Pošto novac ne poznaje granice, neki veliki tajkuni imaju velike investicije u našim članicama, ali ne sa punim racionalnim ciljem, nego se radi o kupovini zemljišta ili o trgovini, često sa namerom izvlačenja profita iz Srbije. Tu ima puno debalansa, disproporcije i politički dirigovanog neoliberalnog mešetarenja.Uprkos razlikama u veri, etnosu, jeziku, stalno se izgrađuje i jača duh zajedništva u prosveti, sportu i kulturi. To dokazuju i u praksi ostvaruju mnogi kulturni poslenici i značajni stvaraoci umetnosti sa svih prostora. Srbija u celini je mnogo zanemarila i zapustila kulturno-umetničko stvaralaštvo pod izgovorom da nema para, dok se novac poreskih obveznika troši na beznačajne, mizerne, prečesto partijske i lično-grupne interese a ne subvencioniše se kulturna saradnja. Sport i kultura uvek su bili lokomotive zbližavanja ljudi i jačanja jugoslovenskog zajedništva, sa kojima smo "bili na vrhu sveta" jer smo "pucali u nebo". Koprodukcije u filmskom i pozorišnom stvaralaštvu, pesnici i književnici, slikari, muzičari, iznova utiru put i pioniri su na putu jačanja duha jugoslovenskog zajedništva.Sa formiranjem nacionalnog saveta Jugoslovena već se puno kasni. Na formiranje tog nacionalnog saveta imamo pravo prema Ustavu i Zakonu o nacionalnim savetima. Mi smatramo da bi formiranje nacionalnog saveta Jugoslovena bio snažan odgovor prema nacionalizmima, koji još dominiraju, stvaraju tenzije i usporavaju izlazak Srbije iz krize. Jugosloveni žele da grade progresivnu, demokratsku Srbiju za sve ljude koji u njoj žive, da zajedno pomognemo Srbiji da ide napred, jer svi mi smo većinom za mir, ravnopravnost, toleranciju i život zajedno (a ne jedni pored drugih) u Srbiji. Hladne statističke brojke pokazuju da je broj Jugoslovena sa 80.721 iz popisa 2002. godine pao na 22.300 prema popisu u 2011. godini. Taj pad nije svugde isti: na primer u Subotici je broj Jugoslovena je sa 8.562 pao na 3.100. Zbog svega napred rečenog, prilikom popisa u 2011. godini kao Jugosloveni su se izjasnili samo oni najhrabriji, jer klima nije išla na ruku Jugoslovenima. Isto tako mora se imati u vidu i "eksplozija" odnosno višestruko povećanje broja izjašnjenih pod "ostali" ili se nisu izjasnili. U Srbiji postoje nacionalni saveti nacionalnih zajednica sa manjim brojem pripadnika nego što ima Jugoslovena (na primer Rusini, Bunjevci i drugi). Nacionalni saveti su nadležni za obrazovanje, kulturu, informisanje i primenu jezika i pisma nacionalnih zajednica. Zakon koji sve ovo reguliše mora se delom izmeniti, jer na primer u obrazovanju i vaspitanju izoluje decu međusobno različite nacionalnosti u istoj školi, potpuno ih razdvaja, umesto da ih kroz različite nastavne i vannastavne aktivnosti spaja. Ako u toku dana deca žive i rade zajedno, zašto bi tokom 6 sati provedenih u školi bili nacionalno razdvojeni. Za formiranje nacionalnog saveta Jugoslovena u opštinama gde oni žive valja oformiti inicijativne odbore koji bi na formularu odobrenom od strane ministarstva skupili ukupno 1115 sudski overenih potpisa u Srbiji (5 %).Jugosloveni ne žele Srbiju u kojoj bi nacionalne zajednice "pokorno slušale" i živele u torovima stvorenim od strane njihovih elita. Mi priznajemo i prihvatamo čoveka bez obzira na njegovu nacionalnu i versku pripadnost, boju kože, polno ili bilo koje drugo opredeljenje i borimo se za ravnopravnost, jednakost i prosperitet svih koji žive na jugoslovenskim prostorima. Istovremeno ne tražimo ništa više, ali ni ništa manje, nego tolerantan odnos i akceptiranje prava na pripadnost nacionalnosti Jugosloven. Jugosloveni ne žele da budu oružje u rukama drugih koji se bogate na način nama stran i nedozvoljen, ne želimo da nas se svojata i postavlja čas na ovu , čas na onu stranu, kako to kome u određenom trenutku odgovara.Mi smo bili, ostali i želimo sutra da budemo Jugosloveni.Olajoš Nađ Mikloš,član rukovodstva Komunista Srbije iz Subotice
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