Informazione
Berlin Wall: From Europe Whole And Free To New World Order
Rick Rozoff - Stop NATO - November 9, 2009
Stop NATO – 7 novembre 2009
Il 9 novembre segnerà il ventesimo anniversario della decisione da parte del governo della Repubblica Democratica di Germania di aprire valichi di passaggio nel muro che separava i settori orientali ed occidentali di Berlino.
Dal 1961 al 1989 il muro aveva costituito una linea di divisione nella -, un simbolo di -, e un metonimo per -, Guerra Fredda.
Una generazione successiva a questi eventi si incontrerà a Berlino per commemorare la “caduta del Muro di Berlino”, l’ultima vittoria che l’Occidente può rivendicare negli ultimi due decenni.
Tutti gli attori di questo dramma - Ronald Reagan, Mikhail Gorbachev, George H. W. Bush (N.d.tr.: Bush padre!), Vaclav Havel, Lech Walesa – e gli eventi che hanno condotto a questo, saranno con riverenza elogiati e considerati degni di celebrità.
Gorbachev assisterà (forse con qualche imbarazzo?) alla festa di anniversario alla Porta di Brandenburgo e le pagine di editoriali di tutto il mondo, dense di deferenza, ripeteranno la litania di banalità, di cose pietose, di elogi auto-gratificanti e di grandiose rivendicazioni, come ci si deve aspettare per l’occasione.
Quelli che non verranno riportati sono i commenti come quello pronunciato il 6 novembre da Mikhail Margelov, Presidente della Commissione per gli Affari Esteri della Camera Alta del Parlamento Russo, il Consiglio della Federazione. Vale a dire, che “il Muro di Berlino è stato sostituito da un cordone sanitario di nazioni ex-Sovietiche, dal Mar Baltico al Mar nero.” [1]
Non solo l’ex Germania Est veniva assorbita dalla NATO, ma negli ultimi dieci anni anche altri alleati del Patto di Varsavia entravano come membri di diritto del blocco NATO - Bulgaria, la Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia.
La Russia è stata attaccata dall’Occidente per due volte, dai più imponenti eserciti di invasione mai assemblati nel continente Europeo e a un tempo nel mondo (nonostante le valutazioni iperboliche di Erodoto relative all’armata di Serse), quello di Napoleone Bonaparte nel 1812 e di Adolf Hitler nel 1941. Il primo esercito consisteva di 700.000 uomini e il secondo di 5 milioni.
Le preoccupazioni di Mosca per l’accerchiamento invasivo militare a cui è sottoposta e il suo desiderio di assicurarsi almeno delle zone neutre tampone attorno ai suoi confini occidentali sono invariabilmente dipinte negli Stati Uniti e nelle capitali Occidentali alleate degli USA come una qualche combinazione di paranoia Russa e di trama per far rivivere l’“Impero Sovietico”.
Con l’espansione del blocco militare, dominato dagli USA, nell’Europa Orientale nel 1999 e nel 2004, in quest’ultimo caso non solo i restanti stati non-Sovietici dell’ex Patto di Varsavia ma tre delle repubbliche ex-Sovietiche sono divenute membri effettivi della NATO, attualmente esistono cinque nazioni NATO che confinano con la Russia. Tre direttamente adiacenti alla sua terraferma – Estonia, Lettonia e Norvegia – e due più contigue all’exclave di Kaliningrad, la Lituania e la Polonia.
La lunghezza del Muro di Berlino che separava la Berlino Ovest dalla Repubblica Democratica Tedesca era di 96 miglia. Il cordone militare NATO dalla Norvegia nord-orientale all’Azerbaijan settentrionale andrebbe ad estendersi oltre le 3.000 miglia (più di 4.800 chilometri).
Di recente, un notiziario Russo commentava così la spesa di 110 milioni di dollari da parte degli USA per migliorare due delle sette nuove basi militari che il Pentagono ha acquisito sul Mar Nero di fronte alla Russia : “Le installazioni in Romania e in Bulgaria sono in linea con il programma di rilocazione delle truppe Americane in Europa annunciato nel 2004 dall’allora Presidente George Bush. Il principale obiettivo è la dislocazione il più vicino possibile ai confini della Russia.” [3]
Il muro che sta per essere eretto e allacciato attorno a tutta la Russia Europea non è una ridotta difensiva, una barriera di protezione. Si tratta di una falange di basi e di strutture militari in avanzamento senza tregua.
Il mese scorso, il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen era in Lituania per ispezionare la Base Aerea Siauliai, dalla quale gli aerei da guerra della NATO hanno condotto ininterrottamente pattugliamenti sopra il Mar Baltico per più di cinque anni, navigando sopra le coste della Russia, a tre minuti di volo da St. Pietroburgo.
In questa occasione, la nuova Presidente della Lituania Dalia Grybauskaite ha dichiarato: “Noi abbiamo ricevuto assicurazioni che la NATO è tuttora interessata ad impegnarsi nella difesa della regione Baltica... Sono contenta di vedere qui, in Lituania, il Segretario Generale della NATO, nell’unica, ma molto importante base aerea della NATO presente negli stati Baltici. Questo è uno dei punti cruciali di difesa NATO nella regione Baltica.” [4]
Nella contigua Polonia, un servizio giornalistico dello scorso aprile ha fornito dettagli sul grado dello sviluppo sempre crescente dell’Alleanza Atlantica nella nazione:
“La Polonia è forse l’area del più largo volume di investimenti della NATO nel mondo.
“Al presente, sono vicini al completamento lavori di costruzione o di ammodernamento su sette aeroporti militari, due porti marittimi, cinque depositi di carburante, come su sei basi strategiche radar a lungo raggio. Progetti di posto comando di difesa aerea a Poznan, Varsavia, e Bydgoszcz hanno già ricevuto il benestare inizio lavori, come pure un progetto di comunicazioni radio a Wladyslawowo.
“Fra le altre cose, i nuovi investimenti includeranno l’equipaggiamento di aeroporti militari a Powidz, Lask e Minsk Mazowiecki con nuove installazioni di logistica e difesa.” [5]
La Polonia, presto, ospiterà qualcosa come 196 missili Americani intercettori Patriot e 100 militari incaricati del loro funzionamento, ed esiste un sito analogo per il dispiegamento di batterie di missili Americani anti-balistici SM-3.
Il 28 ottobre si trovava in Romania il Gen. Roger Brady, comandante delle Forze Aeree USA in Europa, per sovrintendere alle manovre di addestramento militare congiunte, durante le quali “la Forza Aerea USA effettuava 100 missioni, metà delle quali avvenivano in collaborazione con la Forza Aerea della Romania.” [7]
Il Pentagono conduce esercitazioni annuali NATO “Brezza di Mare” in Ucraina, nella Crimea, dove è di base la Flotta Russa del Mar Nero.
Pochi giorni fa, si trovava in Georgia il Generale Comandante dell’Esercito USA in Europa, Generale Carter F. Ham, per “informarsi sull’addestramento di “Immediate Response 2009” in corso fra l’esercito USA e quello della Georgia” e per “visitare la Base Militare di Vaziani e sovrintendere alle esercitazioni.” [9]
Un ufficiale Russo, Dmitry Rogozin, parlava di queste esercitazioni militari congiunte e metteva in guardia che “Noi tutti abbiamo presente che simili attività avvenute lo scorso anno hanno avuto un seguito con gli avvenimenti di questo agosto.” [10]
In un giornale Georgiano, un editoriale sulle manovre militari confermava le apprensioni Russe reiterando questo collegamento: “La Georgia sta combattendo in Afghanistan per la pace e la stabilità, in modo da assicurare alla fine pace e stabilità in Georgia, perché chi semina bene raccoglie senza dubbio meglio, nella pienezza dei tempi.” [11]. Che è come dire, dato che la Georgia assiste militarmente gli USA in Afghanistan, allora gli USA forniranno appoggio alla Georgia in qualche futuro conflitto con i suoi vicini nel Caucaso.
Quantunque, ciò che ha suscitato maggiori controversie è stato il suo discorso ad una conferenza sponsorizzata dal Centro Internazionale di Studi Strategici (CSIS), dal titolo “Gli Stati Uniti e l’Europa Centrale: interessi strategici convergenti o divergenti?”
Naturalmente, il principale motivo della conferenza era il ventesimo anniversario della fine della Guerra Fredda simbolizzata dallo smantellamento del Muro di Berlino.
L’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski presentava una relazione densa di riferimenti alle supposte “aspirazioni imperiali” della Russia, alle minacce Russe contro la Georgia e l’Ucraina e alle intenzioni della Russia di diventare una “potenza mondiale imperiale.” [14]
Sikorski, non un estraneo a Washington, qui essendo stato membro residente presso l’American Enterprise Institute e direttore esecutivo del New Atlantic Initiative dal 2002-2005, prima di ritornare in patria per diventare Ministro della Difesa della Polonia, suggeriva che le recenti manovre militari congiunte Bielorusso-Russe necessitavano di impegni più decisi della NATO nel Nord-Est dell’Europa.
Successivamente, il governo Polacco ha negato che il suo Ministro degli Esteri esplicitamente avesse invocato un dispiegamento di truppe Americane, e di fatto non l’aveva chiesto, ma i suoi commenti erano in linea con diversi altri avvenimenti e dichiarazioni recenti.
Per esempio, lo scorso ottobre la Polonia dichiarava pubblicamente che era stato pianificato un imponente miglioramento delle sue forze armate per 60 miliardi di dollari.
Successivamente, un’altra nave da guerra Americana, il cacciatorpediniere lanciamissili USS Cole dotato di missili teleguidati di tipo Aegis, che aveva partecipato alle manovre navali congiunte in Scozia “Joint Warrior 09-2”, attraccava in Estonia.
Agli inizi di questo mese, la fregata lanciamissili USS John L. Hall che vedeva imbarcati “uomini di marina del Nono Distaccamento dello Squadrone 48 di Elicotteri Anti-Sottomarino” [20] arrivava in Lituania.
A dimostrazione di come navi da guerra Americane reiterassero la loro “presenza continua nel Mar Baltico”, il Ministro della Difesa dell’Estonia affermava che “la NATO possiede piani di difesa per i Paesi Baltici, e questi piani sono in pieno sviluppo” [22], e il suo collega Lituano ribadiva: “Per la Lituania è importante che il nuovo Concetto di Alleanza Strategica vada ad includere punti che prevedono l’unità collettiva per l’applicazione della sicurezza strategica nella regione del Mar Baltico e la comune responsabilità per il futuro delle operazioni militari dell’Alleanza.” [23]
Il Ministro della Difesa Estone Jaak Aaviksoo dichiarava all’Associated Press “che il suo paese vedeva all’orizzonte nuove minacce, dal momento che la Russia aveva invaso la Georgia l’anno passato e dal fatto che nel 2007 un attacco cibernetico aveva preso di mira l’Estonia.”
“Aaviksoo progetta di incontrare il Ministro della Difesa degli USA Robert Gates” il 10 novembre. [24]
Il Presidente dell’Estonia Toomas Hendrik Ilves, un espatriato Americano ed ex attivista della Radio Libera Europa, proponeva che manovre NATO si tenessero negli stati Baltici.
Recentemente, il Ministro della Difesa Imants Liegis confermava che “nella prossima estate la Lituania avrebbe condotto esercitazioni militari su larga scala, in risposta alle manovre strategiche Russo-Bielorusse.” [25] Senza dubbio, non da sola!
Il catalogo soprastante delle attività militari e delle dichiarazioni bellicose fa supporre un alt alle ottimistiche aspettative risultanti dalla fine della Guerra Fredda, che di fatto non è mai terminata ma ha spostato le sue operazioni, in buona sostanza, verso Oriente.
Comunque, coloro i cui i nomi saranno evocati ed invocati il 9 novembre in occasione dell’anniversario dell’abbattimento del Muro di Berlino non hanno avuto successo nell’immediato periodo successivo.
Tre anni dopo la caduta del Muro, George H. W. Bush senior, perfino un anno dopo l’Operazione “Tempesta sul Deserto”, è diventato solo il terzo Presidente Americano, a partire dall’Ottocento, a perdere il tentativo di una rielezione.
Quattro anni dopo la caduta, Mikhail Gorbachev concorreva alla Presidenza della Russia e riceveva solo lo 0.5% dei voti.
Nella sua ultima corsa alla Presidenza della Polonia nel 2000, Lech Walesa, visto che il suo elettorato nazionale aveva finalmente capito qualcosa sul suo conto, ha ricevuto l’1% dei consensi.
Ma lui e i suoi camerati Occidentali eroi della Guerra Fredda marciano ancora e sempre per affrontare la Russia durante l’attuale fase di un nuovo conflitto.
In luglio, in quella che è stata intestata come “Una lettera aperta all’Amministrazione Obama dall’Europa Centrale e Orientale”, campioni della vecchia/nuova Guerra Fredda, come Lech Walesa, Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Alexander Kwasniewski e Vaira Vike-Freiberga – Adamkus ha vissuto per diversi decenni negli USA e Vike-Freiberga in Canada – hanno inchiodato la loro retorica anti-Russa a toni che non si erano mai più uditi dall’epoca dell’Amministrazione Reagan.
“Noi abbiamo operato per costruire rapporti d’amicizia e relazioni bilaterali. Noi rappresentiamo voci dell’Atlantismo all’interno della NATO e dell’Unione Europea. Le nostre nazioni si sono sempre impegnate a fianco degli Stati Uniti nei Balcani, in Iraq, e attualmente in Afghanistan... Nubi tempestose hanno cominciato ad ammassarsi all’orizzonte della politica estera”
“Le nostre speranze per un miglioramento delle relazioni con Mosca e che finalmente Mosca si capacitasse del tutto della nostra completa sovranità ed indipendenza, dopo il nostro ingresso nella NATO e nell’Unione Europea, non si sono pienamente realizzate. Al contrario, la Russia è ritornata ad essere una potenza revisionista inseguendo un programma Ottocentesco, però con tattiche e metodi del XXI secolo.”
“Il pericolo è che la strisciante intimidazione di Mosca e i tentavi di allargare la sua influenza nella regione possano portare fuori tempo ad una neutralizzazione de facto della regione.”
“La nostra regione ha patito quando gli Stati Uniti hanno dovuto sottostare al ‘realismo’ di Yalta.
“Nel momento in cui l’Europa ricorda la vergogna del patto Ribbentrop-Molotov del 1939 e gli accordi di Monaco del 1938, e quando si prepara a celebrare la caduta del Muro di Berlino e lo smantellamento della Cortina di Ferro del 1989, una questione ci sorge nella mente: “Abbiamo veramente imparato le lezioni della storia?”
“Vent’anni dopo l’emancipazione di mezzo continente, un nuovo muro sta per essere innalzato in Europa – questa volta attraverso il territorio sovrano della Georgia.
“Noi facciamo appello urgente ai 27 leaders democratici dell’Unione Europea di definire una attiva strategia opportuna ad aiutare la Georgia a riguadagnare pacificamente la sua integrità territoriale e ad ottenere il ritiro delle forze Russe illegalmente stazionanti sul suolo Georgiano... Diventa essenziale che l’Unione Europea e i suoi stati membri inviino un chiaro ed inequivocabile messaggio all’attuale dirigenza Russa.” [27]
Nel pieno stile degli “interventi umanitari” degli anni Novanta del secolo scorso, queste campagne sono la loro merce in vendita.
Ma la richiesta di una maggior “potenza decisa” che gli Stati Uniti dovrebbero fornire in Europa, così come nel Caucaso e di una espansione della NATO verso i confini della Russia, può provocare una catastrofe, che il continente e il mondo erano stati abbastanza fortunati da avere scampato la prima volta.
1) Agenzia Russa di Informazioni Novosti, 6 novembre 2009
2) Riportato da Bill Bradley, Foreign Policy (Politica Estera), 7 novembre, 2009
3) Voce della Russia, 22 ottobre 2009
4) Presidente della Repubblica di Lituania, 9 ottobre 2009
5) Warsaw Business Journal, 20 aprile 2009
6) Bulgaria, Romania: basi USA e NATO per la guerra ad Oriente. Stop NATO, 24 ottobre 2009
http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/25/bulgaria-romania-u-s-nato-bases-for-war-in-the-east
7) U.S. Air Forces in Europa, 29 ottobre 2009
8) Esercitazioni tattiche NATO in Georgia: minacce di una nuova guerra nel Caucaso.
9) Trend News Agency, 28 ottobre 2009
10) Rustavi2, 31 ottobre 2009
11) The Messenger, 3 novembre 2009
12) Deutsche Presse-Agentur, 28 ottobre 2009
13) Radio Polonia, 3 novembre 2009
14) Video
http://csis.org/multimedia/video-strategic-overview-us-and-central-europe-strategic-interests
15) Audio
http://csis.org/multimedia/corrected-us-and-central-europe-radoslaw-sikorski
16) Radio Polonia, 27 ottobre 2009
17) Radio Polonia, 28 ottobre 2009
18) Russia Today, 28 ottobre 2009
19) Radio Polonia, 28 ottobre 2009
20) Comando degli Stati Uniti per l’Europa , 2 novembre 2009
22) Baltic Business News, 27 ottobre 2009
23) Defense Professionals, 26 ottobre 2009
24) Associated Press, 2 novembre 2009
25) Russian Information Agency Novosti, 2 novembre 2009
26) Gazeta Wyborcza, 15 luglio 2009
27) The Guardian, 22 settembre 2009
NIJEMACIMA BILO BOLJE U DDR-U I KOMUNIZMU
objavljeno: 19. 08. 2009 | rubrika: Memorija sjećanja
Secondo un sondaggio del tedesco Institut Emnid, pubblicato nella Berliner Zeitung, la maggioranza dei tedeschi dell’Est rimpiange le conquiste socialiste e considera che l’ex DDR aveva “più lati positivi che negativi”. Il 49% risponde che “c’era qualche problema, ma nell’insieme vivevamo bene”. Un altro 8% ritiene che “ nella DDR c’erano soprattutto aspetti positivi e vivevamo contenti e meglio che nella Germania riunificata di oggi”.
In Ungheria, secondo l’istituto tedesco GFK-Hungaria, il 62% dei cittadini considera che l’epoca di Kadar (1957-1989) è stata “la migliore di tutta la storia ungherese” (era il 53% nell’analogo sondaggio del 2001); mentre il 60% considera i due ultimi decenni, dopo il 1989, “il periodo più infelice di tutto il XX secolo” (erano il 48% nel 2001).
(fonte: http://www.lernesto.it/ )
=== 3 ===
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=18560
Nell'Europa dell'est cresce la nostalgia del comunismo
di
su Reuters del 09/11/2009
Solo il 30% degli ucraini si dice a favore del passaggio alla democrazia, quando nel 1991 era il 72%. In Bulgaria e Lituania, il crollo del numero dei favorevoli al cambio di regime si è fermato poco sopra la metà della popolazione, quando nel 1991 i tre quarti degli abitanti erano favorevoli alla transizione. In Ungheria, uno dei paesi più colpiti dal peggioramento economico, il 70% di quelli che nel 1989 erano già adulti confessa di esser rimasto deluso dai risultati del cambio di regime.
Vent'anni dopo la caduta del comunismo, Belene (Bulgaria) è un posto ormai dimenticato e soltanto una piccola targa di marmo ne ricorda la storia. Mentre la nostalgia del passato cresce nel piccolo paese balcanico e nell'ex blocco sovietico. Il fallimento del capitalismo nel migliorare le condizioni di vita (della popolazione), nell'imporre lo stato di diritto e nell'arginare la corruzione dilagante e il nepotismo ha aperto la strada a ricordi del tempo in cui il tasso di disoccupazione era a zero, il cibo era economico e la sicurezza sociale era alta.
"Le cose negative sono state dimenticate", dice Rumen Petkov, 42 anni, un tempo guardia e oggi impiegato nell'unica prigione che ancora funziona sull'isola di Persin. "La nostalgia è palpabile, soprattutto tra i più anziani" dice. Alcuni ragazzi della povera cittadina di Belene, unita all'isoletta da un pontile, rievocano il passato: "Un tempo vivevamo meglio", dice Anelia Beeva, 31 anni. "Andavamo in vacanza al mare e in montagna, c'erano abiti, scarpe e cibo in abbondanza. Mentre adesso spendiamo quasi tutto il nostro stipendio in generi alimentari. Quelli che hanno una laurea sono disoccupati e se ne vanno all'estero", aggiunge.
In Russia, negli ultimi anni hanno aperto molti ristoranti che si ispirano al periodo comunista, soprattutto a Mosca: molti organizzano "serate della nostalgia", in cui i giovani si vestono da pionieri, la versione sovietica dei boy scout e delle guide, e ballano i classici del periodo comunista. Champagne sovietico e i cioccolatini "Ottobre rosso" rimangono i più richiesti per festeggiare i compleanni. In estate, in tutto il paese s'incontrano magliette e cappellini da baseball con la scritta "Urss".
DISINCANTO
Nei paesi ex comunisti dell'Europa orientale, c'è un diffuso disincanto nei confronti della democrazia e i sondaggisti dicono che la sfiducia nei confronti delle elite che li hanno resi cittadini dell'Unione Europea è impressionante. Un sondaggio regionale svolto a settembre dal centro di ricerca americano Pew ha evidenziato che in Ucraina, Bulgaria, Lituania e Ungheria c'è stata una drastica caduta della fiducia nella democrazia e nel capitalismo. Il sondaggio ha fatto emergere che soltanto il 30% degli ucraini si dice a favore del passaggio alla democrazia, quando nel 1991 era il 72%. In Bulgaria e Lituania, il crollo (del numero di coloro favorevoli al cambio di regime) si è fermato poco sopra la metà della popolazione, quando nel 1991 i tre quarti degli abitanti erano favorevoli (alla transizione).
Le analisi elaborate dall'organizzazione americana per i diritti umani Freedom House confermano l'arretramento o la stagnazione per quanto riguarda (la lotta alla) corruzione, la capacità di governo, l'indipendenza dei media e la società civile nei nuovi membri Ue.
La crisi economica globale che ha colpito la regione e ha messo fine a sei-sette anni di crescita, sta mettendo in crisi i rimedi del capitalismo neoliberalista prescritto dall'occidente. Le speranze di raggiungere il tenore di vita dei ricchi vicini occidentali sono state rimpiazzate da un senso di ingiustizia, provocato dall'allargarsi della forbice tra ricchi e poveri.
Secondo un sondaggio svolto a ottobre da Szonda Ipsos, in Ungheria, uno dei paesi più colpiti dal peggioramento economico, il 70% di quelli che nel 1989 erano già adulti confessa di esser rimasto deluso dai risultati del cambio di regime.
Gli abitanti dei paesi dell'ex Jugoslavia, segnati dalle guerre etniche degli anni Novanta e non ancora ammessi nell'Unione Europea, coltivano nostalgie del periodo socialista di Josip Tito, durante il quale -- diversamente da quanto accade oggi -- per loro era possibile viaggiare in Europa senza bisogno di visti. "All'epoca tutto era meglio di oggi. Non c'era la criminalità di strada, i posti di lavoro erano sicuri e i salari erano sufficienti per garantire una condizione di vita decente" dice Koviljka Markovic, 70 anni, pensionato belgradese. "Io oggi con la mia pensione di 250 euro al mese riesco a malapena a sopravvivere".
PAO JE NA POGREŠNU STRANU!
Drugarice i drugovi,
dvadeset godina posle pada Berlinskog zida Evropa i svet prolaze kroz realne posledice katastrofe njegovog pada na pogrešnu stranu. Sadašnja kriza kapitalizma, munjevit porast armije nezaposlenih i narastajuća beda svuda gde caruje kapitalizam potvrđuju tragičnost tog pogrešnog pada, ali i nužnost vraćanja socijalizma i njegovog „dizanja iz ruševina“ (baš kao u tekstu himne NDR-a).
Daleko od toga da mi Skojevci podržavamo ideju o bilo kakvom deljenju ljudi zidovima, već upravo suprotno, mi naglašavamo da su najdeblji oni zidovi koje među ljudima diže klasni poredak. Na mesto jednog zida koji je srušen pre dvadeset godina podignuti su milioni novih zidova koji otuđuju ljude, kako u bivšem NDR-u, tako i u drugim bivšim socijalističkim zemljama.
Naravno da slučaj pada Berlinskog zida ima pun smisao samo ako se promotri simbolika tog istorijskog trenutka, t.j. najave propsti čitavog bloka istočnoevropskih socijalističkih zemalja. Posledice su više nego ponižavajuće i katastrofalne za ogromnu većinu stanovništva tih zemalja. Tiranija zapadnog imperijalizma je željna „sveže krvi“, t.j. novog tržišta, veštom prpagandom i uz pomoć svojih poslušnika u Istočnoj Evropi, učinila sve da svrgne socijalizam ne obazirući se na cenu. Cena su bile hiljade i hiljade mrtvih (to mi najbolje znamo iz primera bratoubilačkih ratova vođenih na tlu naše zemlje, a oni su vođeni i drugde), rasparčavanje država, totalno ukidanje i revidiranje socijalnih povlastica garantovanih svima u socijalizmu, ogromna nezaposlenost, pad industrijske proizvodnje u nekim slučajevima i za više od 70%, gubitak bilo kakve političke i državne autonomije pod pretnjama pesnica krupnog kapitala NATO-a i EU, pad broja obrazovanih i pismenih ljudi, neofašizam i klerikalizam, drastičan pad prirodnog priraštaja ... Mnoge nvladine institucije, kao i institucije SR Nemačke će danas, 9-tog novembra, likovanjem obeležiti dvadesetogodišnjicu ove velike humanitarne katastrofe podsmevajući se svim žrtvama i radnom narodu koji grca u bedi i poniženju svuda gde vlada kapitalistički varvarizam. Zato je 9-tog novembra važno istaći suštinsku činjenicu vezanu za ovaj datum – PAO JE NA POGREŠNU STRANU!
Beograd, 09.11.2009
Toponimi slavati
La questione è stata menzionata dall'attuale presidente della Repubblica Bamir Topi, durante una sua visita routine in un villaggio del sud-est del paese. Sembrava una gaffe pronunciata da un presidente trovatosi a corto di idee in un una visita di poco conto. Ma pochi mesi dopo, della toponimia slava si è ricordato anche il premier Berisha il quale discutendone in una delle prime riunioni del nuovo governo non ha esitato a spingersi anche oltre. “Dobbiamo installare una commissione che si occupi della sostituzione di tutta la toponimia slava del paese, con i toponimi rispettivi albanesi prima dell'invasione slava”.
La questione della toponimia slava è stata menzionata da Berisha mentre il neoformato governo albanese stava discutendo sulla necessità di utilizzare obbligatoriamente denominazioni albanesi per le attività e le compagnie private riconosciute come persone giuridiche in Albania. Al riguardo il premier ha proposto l'istituzione di una commissione che passi al setaccio le denominazioni applicando l'eventuale censura. In tale ambito Berisha si è spinto anche oltre passando all'albanizzazione della toponimia.
Tale dichiarazione arriva inattesa ed è di difficile comprensione. Ma non si tratta affatto di una novità. La numerosissima toponimia slava che caratterizza l'intero territorio albanese è sempre stata una preoccupazione per gli intellettuali nazionalisti albanesi, poiché va a minare proprio la tesi dell'autoctonia e della continuità illirico-albanese su cui si basa tale nazionalismo, di cruciale importanza per legittimare l'esistenza dello stato-nazione albanese.
Altresì l'affermazione del premier deriva da una tesi diffusa presso il nazionalismo classico albanese secondo cui la schiacciante presenza della toponimia slava nel paese è frutto dell'invasione e della repressione che gli albanesi hanno subito da parte dei vari stati vicini slavi che si sono espansi nel corso del tempo fino ad inglobare i territori attuali dell'Albania.
L'opinione vigente tra i politici e gli intellettuali nazionalisti albanesi, vuole che la toponimia slava nelle terre albanesi sia stata in realtà imposta per verdetto dei sovrani etnicamente slavi che hanno dominato di volta in volta questa parte dei Balcani. Con tale tesi si vuole prendere per scontata la continua e ininterrotta presenza degli albanesi, in quanto autoctoni e continuamente vittime delle ondate di migrazione di altri popoli nei Balcani. E in particolar modo si vuole escludere fermamente, in risposta ai nazionalismi espansivi dei vicini, la presenza in questi territori delle popolazioni slave.
Come in altri dibattiti sulla cultura e storia albanese spicca la visione della staticità nel tempo degli albanesi etnicamente e culturalmente immutati tanto da coincidere con la nazione albanese in senso moderno.
Ma la questione è molto complessa, poiché il territorio albanese è stracolmo di toponimia slava, e addirittura la toponimia non slava tra cui albanofona, greca, turca, e italiana risulta una ridotta minoranza al confronto. L'idea del premier Berisha di istituire addirittura una commissione con lo scopo di provvedere alla sostituzione con toponimi albanesi sembra un'iniziativa mastodontica, costosa oltre che fuori luogo e ridicola per il suo primitivismo da nazionalismo ottocentesco. Non sembrano per ora dare molto fastidio invece la toponimia greca al sud dell'Albania, quella di origine turca in isolate regioni e quella latina e italiana nelle zone costiere.
La proposta ha lasciato indifferenti gli analisti albanofoni, senza riuscire a scaturire alcun tipo di dibattito. Gli unici commenti discordanti sono stati quelli di alcuni giornalisti che nel riportare la notizia ironizzavano sul fatto che il premier dovrà iniziare il processo della deslavizzazione della toponimia dal suo villaggio natale, Viçidol. La notizia è stata invece accolta e salutata con entusiasmo dalla blogosfera albanofona nei numerosissimi forum. I forumisti albanesi considerano l'albanizzazione della toponimia una misura necessaria, fondando tale opinione su diverse politiche applicate agli albori dello stato-nazione in diversi paesi.
Ma la pratica non è nuova in Albania. Anche il nazional-comunismo di Enver Hoxha registra diversi tentativi di deslavizzazione in particolar modo nelle regioni sud-orientali del paese, mentre alle misure sulla toponimia era stata aggiunta anche l'albanizzazione dei cognomi degli appartenenti alle minoranze slavofone, cambiando le loro tipiche desinenze, con quella più albaneggiante -llari, o sostituendoli radicalmente con sostantivi albanesi. Gli strumenti e la motivazione non sembrano molto lontani da quelli del regime di Hoxha, intento a interpretare il passato albanese secondo i propri criteri e convenienze e a plasmare l'identità nazionale secondo i canoni del nazional-comunismo.
Il fatto che la questione della toponimia slava risorga anche oggi è discordante con le continue affermazioni che puntualmente i governi albanesi usano proclamare a livello internazionale, sulla volontà di contribuire ai buoni rapporti con gli stati vicini ed è lontano dall'essere rimesso in discussione il vittimismo tipico del nazionalismo albanese, che vede il territorio dell'Albania come in continua contrazione per colpa dei vicini.
Ma la questione non riguarda solo il territorio dello stato albanese, bensì è molto più pronunciata nel vicino Kosovo, dove la sostituzione della toponimia slava, con quella albanese, costituisce negli ultimi anni uno degli strumenti antiquati di nation-building, del più giovane stato balcanico. Oltre all'introduzione di nuovi toponimi di villaggi e regioni, non poco problematico è stato lo stesso nome della nuova repubblica, che il defunto leader, Ibrahim Rugova, proponeva di sostituire con quello dell'antica regione illirica, Dardania.
Nella grande moltitudine di problemi che caratterizzano la scena politica albanese in pochi prendono sul serio le iniziative del premier su una questione di così scarsa importanza. Ma il messaggio mediatico delle affermazioni di Berisha non fa che alimentare ed enfatizzare i cliché del nazionalismo albanese.
Intervento di Stevan Mirkovic in occasione del 65-mo anniversario della Giornata della liberazione di Belgrado
Belgrado e’ l’ unica capitale europea occupata nelle due Guerre mondiali, che e’ stata liberata dal proprio popolo ed esercito, con l’ aiuto della gloriosa Armata Rossa. Nelle battaglie per Belgrado i cittadini hanno dato il pieno sostegno e praticamente tutto l’ aiuto possibile alle unita’ dell’ Esercito Popolare di Liberazione Jugoslava e all’ Armata Rossa. Migliaia di giovani belgradesi, sin dalla lotta sulle strade durata per 7 giorni entrano nelle file dell’ EPLJ. Era il 1941 della nostra generazione. La vittoria belgradese ha cosi affermato la concezione della lotta della resistenza in generale, la piu’ efficace per i piccoli popoli. Purtroppo a cio’ abbiamo rinunciato facilmente, fin troppo, percio’ oggigiorno cerchiamo la sicurezza del paese patteggiando con le grandi potenze.
Alla vigilia della lotta per la liberazione a Belgrado operavano piu di 150 unita’ di resistenza e piu’ di 2000 combattenti armati (precedentemente formati dall’ organizzazione del PCJ di Belgrado contro l’ occupatore tedesco e contro i collaborazionisti nella citta’ occupata). Tutto quello che Belgrado e i belgradesi avevano fatto durante i 3 anni sotto l’ occupazione, combattendo contro i tedeschi e i quisling locali, il lavoro di massa politico, propagandistico e organizzativo del PCJ e della SKOJ (Lega dei giovani comunisti jugoslavi) nella preparazione della resurrezione, la mobilizzazione e l’inserimento dei cittadini nella GLP (Guerra di liberazione popolare), con oltre 50 sabotaggi e azioni sovversive – nel luglio e agosto del 1941, la raccolta e invio di materiale e aiuto finanziario, materiale sanitario ai reparti partigiani, con la partecipazione della gente, e cosi via -, lo hanno fatto con una delle forze motrici della GLP (Guerra di Liberazione Popolare). Questo infatti dovrebbe svolgere ogni citta’ capitale del paese invaso, come e’ oggi la Serbia... Purtroppo la Belgrado odierna non e’ per niente tale, il che si vede dal misero o quasi nessun impegno nella liberazione del Kosovo-Metohija occupato.
La liberazione di Belgrado ha avuto una grandissima importanza per la Serbia. Essa e’ arrivata passo passo fino alla ricostruzione dell’ unita’ territoriale. Le terre del Kosovo e Metohija, dello Srem, Banato, Backa, i comuni di Bosilevgrad, e Pirot, strappati nel 1941 verranno presto uniti alla madrepatria. La storia ricordera’ per sempre che queste terre sono state liberate dal popolo serbo e dalle altre nazionalita’ che ivi vivono, sotto la guida del PCJ e di Tito.
Finalmente fu annientato il piano per la formazione di uno Stato danubiano tedesco particolare (“Donaustaat”, “Donauschwabenland”, ”Prinz Eugene – Gau”) con Belgrado come fortezza nazionale tedesca e tramite la repressione etnica, cioe’ la cacciata dei serbi nello spazio territoriale nel quale si trovava la Serbia di Kumanovo e Banat. Questo dimostrava che il concetto nella formazione di una Nuova Europa del Terzo Reich non era la formazione della Serbia come Stato, e questo e’ stato un ulteriore argomento contro la firma del Patto con l’ Asse. Il Patto e’ stato un atto contro la propria nazione, firmato dal governo traditore Cvetkovic – Macek.
Questo deve essere un insegnamento anche per l’attuale situazione, perche’ nel nuovo ordine mondiale creato dagli USA, non esistera’ la Serbia odierna ma una prekumanova o simile, in ogni caso senza il Kosovo-Metohija.
Il 20 ottobre 1944 e’ stata anche la sconfitta del sistema quisling del governo Nedic e delle sue forze militari. I suoi miserabili resti (i membri del governo, gli agenti speciali di polizia) scappavano con i loro padroni tedeschi in panico dalla Serbia, verso l’ Austria e l’ Italia, cercando lì aiuto anche dai nuovi padroni, allora nostri amici - inglesi e americani. Quelli che non sono riusciti scappare, sono stati imprigionati e condannati per i loro crimini. Nedic e’ stato arrestato dagli Inglesi e poi restituito a Belgrado perche il popolo lo processasse. Bisogna ricordare che la maggior parte di quelli che in qualche modo collaboravano con i tedeschi, ma non avevano commesso crimini, sono stati amnistiati su intervento del Maresciallo Tito e per decisione dell’ AVNOJ (Consiglio antifascista popolare jugoslavo) venendo amnistiati l’ 11 novembre 1944. Percio’ le storie di vendetta e di uccisioni in massa dei nemici ideologici del PCJ dopo la Liberazione sono una pura menzogna
Molti industriali, bancari, commercianti, possidenti di terre ed altri ricchi che dell’ occupazione hanno approfittato per aumentare la propria ricchezza, e che hanno lavorato per la macchina della Germania, hanno seguito la strada dell’ Austria, dell’ Italia e della Germania. Percio’ una delle prime risoluzioni del nuovo governo fu la confisca dei beni di questi servi dei tedeschi. Beni che loro si sono guadagnati sulle spalle del popolo, dei comunisti e dei partigiani. E' una vergogna che i beni di questi profittatori, conseguiti sulla sofferenza e le morti di migliaia di vittime del fascismo, vengano oggi denazionalizzati e restituiti ai loro eredi.
I tentativi dopo il 1991 di cancellare dalla memoria dei belgradesi e del popolo serbo la lotta partigiana e le sue conquiste con menzogne e diffamazioni, e nel presentare Nedic e Draza (Mihajlovic) quali bravi, coscienziosi capi che collaboravano coll’ occupatore soltanto per salvare il proprio popolo, sono falliti. Soltanto gli ksenomani e gli eredi dei quisling tedeschi rinnegano quei giorni gloriosi e chiamano occupazione l’ ingresso dei partigiani e dei soldati dell’ Armata Rossa nella citta’ di Belgrado. Non si accoglie un occupatore straniero cosi’ come fecero i belgradesi e tutta la Serbia, coi partigiani ed i soviet, ma soltanto un amico, un compagno.
Il nostro ingresso a Belgrado fu un incubo per quelli che avevano salutato l’ arrivo dei tedeschi a Belgrado il 12.4.1941 alle ore 17 con il saluto hitleriano (non erano cosi pochi, lo posso personalmente testimoniare) e che avevano iniziato “la ricostruzione nazionale della patria” sotto il protettorato del Terzo Reich, che fedelmente servirono fino al giorno della fuga delle loro truppe, il 22.10. 1944.
Non sono forse in pericolo anche oggi i nostri governanti, servi fanatici dell’ UE e della NATO che in queste vedono qualche salvezza per la Serbia, di commettere lo stesso errore ed entrare nella storia nello stesso modo? Purtroppo la mentalita’ e la psicologia servile e ubbidiente, fatta di sommissione ed inferiorita’, l’ incapacita’ di prendere decisioni autonome per il proprio avvenire - cose che i comunisti ed i partigiani della guerra di Liberazione hanno completamente distrutto facendo ritornare al popolo serbo la fiducia nelle proprie forze – si sono risvegliate nelle nostre anime trasformandoci di nuovo, di fronte alle grandi potenze, in sottomoneta di scambio.
Non sono sicuro che la Belgrado odierna, ufficiale, rispecchi la citta’ eroica della II guerra Mondiale e del dopo. Purtroppo lo spirito dei quisling locali e dei collaborazionisti ancora si aggira per Belgrado. L’ accoglienza data ai rappresentanti delle forze occidentali, che ci hanno bombardato nel 1999 e ci hanno tolto il 15% del territorio, mi sembra l’ accoglienza data ai plenipotenziari di Hitler nel 1941! Non c'è differenza tra i bombardamenti del 1999 e la successiva rapina, rispetto quelli del 1941 di Hitler! E di nuovo viene lanciata la tesi che il calcio del cornuto non si puo’ combattere, perche’ bisogna salvaguardare la gente e non il territorio e cosi via. Riabilitando i vari traditori vicini a Draza (Mihajlovic) e Nedic, il governo odierno cerca di ottenere il consenso per il proprio tradimento degli interessi nazionali.
Anche questa Giornata, la festa piu’ solenne per la citta’ di Belgrado, il regime la usa per discreditare i comunisti ed i partigiani. L’ ultimo “can-can”, l'ultimo intrigo di questo governo contro i comunisti ed i partigiani in occasione dell’ imminente visita di Medvedev alla Serbia, e’ il tentativo di metterci in discordia con l’ Armata Rossa con questa storiella, scritta dai piu’ alti vertici del governo: ”... La liberazione di Belgrado non sarebbe stata possibile senza l’ aiuto russo”, ritenendo quasi che la liberazione non soltanto di Belgrado ma addirittura di tutta la Jugoslavia fosse merito soltanto della Russia! Il che si sente approvare, spero involontariamente da alcuni amici russi! Non citano da nessuna parte le eroiche unita’ combattenti dell’ EPLJ (Esercito di Liberazione di Jugoslavia) e i suoi comandanti eroi Tito e Peko (Dapcevic). Malgrado cio’ essi non riusciranno a distorcere la verita’: che ci siamo liberati con le nostre proprie forze, e l’ Armata Rossa ci ha aiutato a Belgrado. La avremmo liberata anche senza il loro aiuto. Naturalmente con piu’ vittime e perdite, ma in ogni caso non siamo meno grati ai combattenti sovietici, particolarmente a quelli che ci hanno consacrato il piu’ alto valore che avevano – la loro vita. Il loro ricordo, il ricordo dell’ Armata Rossa e dell’ URSS, rimarra’ per sempre nel cuore del popolo serbo.
Intervento di Stevan Mirkovic, general-colonnello in pensione ed ex Capo sezione Stato maggiore serbo della RSFJ alla tribuna „Operazione Belgrado“ del 16.10.2009
Beograd je jedina okupirana evropska prestonica u 2.SR , koju je oslobodila njena vojska i njeno stanovništvo uz pomoć slavne Crvene Armije. U borbama za Beograd građani su masovno pružali punu podršku i svestranu praktičnu pomoć jedinicama NOVJ i Crvene Armije. Hiljade mladih Beogradjana i Beogradjanki , još tokom sedmodnevnih uličnih borbi, stupilo je u redove NOVJ. To je bila 1941. naše generacije .Tako je i beogradska pobeda potvrdila koncepciju opštenarodnog odbranbenog rata kao najuspešniju za male narode. Toga smo se olako odrekli i bezbednost zemlje tražimo danas u paktiranju sa velikim silama.
Uoči borbi za oslobodjenje u Beogradu je dejstvovalo više od 150 borbenih grupa otpora ( koje je beogradska organizacija KPJ još ranije formirala za borbu protiv nemačkih okupatora i njihovih pomagača u okupiranom gradu) sa preko 2000 naoružanih boraca. Sve ovo, kao i ono što su Beograd i Beogradjani radili tri godine pod okupacijom boreći se protiv Nemaca i njegovih kvislinga( masovni političko propagandni i organizacioni rad KPJ i SKOJ na pripremi i podizanju ustanka, mobilizaciji i uključivanju gradjana Beograda u NOB, sabotaže i diverzije – u julu i avgustu 1941.preko 50 , prikupljanje i slanje materijalne i finansijske pomoći i sanitetskog materijala partizanskim odredima, njihova popuna ljudstvom itd.) činilo ga je jednim od motora NOB u celini. To, inače, treba da bude svaka prestonica grad zemlje koja je napadnuta, kao što je, recimo, danas slučaj sa Srbijom.Nažalost , današnji Beograd to nije ni izdaleka, što se najbolje vidi iz jadnog ili skoro nikakvog angažovanja na oslobodjenju okupiranog KiM.
Oslobodjenje Beograda bio je dogadjaj od ogromnog značaja za Srbiju. Ona je došla na korak do obnove svoje teritorijalne celovitosti. Uskoro će, 1941. oteti krajevi : KiM, Srem, Banat,Bačka, bosilegradski i pirotski srez biti opet u sastavu matice. Istorija će večito pamtiti da je te krajeve oslobodio i vratio u sastav matice sam srpski narod i narodnosti koje u njoj žive predvodjeni KPJ i Titom.
Konačno su onemogućeni nemački planovi o formiranju posebne nemačke podunavske države / „Donaustaat“, „Donauschwabenland“, „Prinz Eugen – Gau“...) sa Beogradom kao nemačkom nacionalnom tvrdjavom i etničko potiskivanje i progon Srba na prostoru predkumanovske Srbije i Banata. Ovo pokazuje da Treći Rajh u svom konceptu Nove Evrope nije imao Srbiju kao državu, što je još jedan argument da je potpisivanje Trojnog pakta 25.3.1941. bio štetan i anacionalni potez izdajničke vlade Cvetković – Maček. To je pouka i za danasnju situaciju jer u novom svetskom poretku ,koga kreiraju SAD, neće biti današnje Srbije već neke pretkumanovske i slično, a u svakom slučaju bez KiM.
2o oktobar 1944. bio je i slom Nedićevog kvislinškog sistema i njegovih oružanih snaga. Njihovi bedni ostatci( članovi vlade, agenti specijalne policije) panično su bežali iz Srbije sa svojim gospodarima Nemcima ka Austriji i Italiji , tražeći tamo spas , a kasnije i nove gospodare, tada naše saveznike – Engleze i Amerikance. Oni koji nisu uspeli pobeći , zarobljeni su i osudjeni za svoje zločine. Nedića su uhvatili Englezi i vratili ga u Beograd da mu narod sudi. Treba istaći, da je najveći broj onih koji su na neki način „šurovali“, sa Nemcima ali nisu činili zločine, na predlog maršala Tita, amnestiran je Odlukom AVNOJ od 11.11.l944. pa su priče o osveti i masovnim ubistvima ideoloških protivnika KPJ posle oslobodjenja obična laž.
Put Austrije, Italije i Nemačke hrlili su i brojni industrijalci, bankari,veletrgovci, veleposednici i drugi bogataši koji su okupaciju iskoristili za povećanje svog bogatstva radeći za potrebe Hitlerove ratne mašine. Zato je konfiskacija imovine ovih nemačkih slugu bila jedna od prvih mera nove vlasti. I njih su komunisti i partizani skinuli sa grbače naroda.Sramota je da se imovina ovih profitera ,sticana na patnjama i smrti hiljada žrtava fašizma ,danas denacionalizuje i vraća njihovim naslednicima !
Pokušaji, posle 1991.godine, da se lažima i klevetama partizanska borba i njene tekovine izbrišu iz svesti Beogradjana i srpskog naroda a Nedić i Draža, prikažu kao brižne vodje , koji su saradjivali sa okupatorom samo da bi zaštitili svoj narod, ne uspevaju. Samo ksenomani i naslednici nemačkih kvislinga odriču se tih slavnih dana i ulazak partizanskih i boraca Crvene Armije u Beograd nazivaju okupacijom. . Onako kako su Beogradjani i cela Srbija dočekali partizane i crvenoarmejce ne dočekuje se okupator , stranac već svoj čovek,prijatelj,drug.
U neku ruku su i u pravu. Naš ulazak u Beograd bila je mora za one koji su Nemce u Beogradu 12.4.1941 u 17.00 na ulicama dočekali hitlerovskim pozdravom( nije ih bilo baš tako malo ,što sam svojim očima gledao ) i započeli „ nacionalnu obnovu otadžbine“ pod tutorstvom Trećeg Rajha, kome su ,do početka bežanije njegovih trupa 22.10.1944., verno služili. Nisu li u opasnosti i današnji vlastodršci , što fanatično služe EU i NATO i u tome vide nekakav spas za Srbiju,da učine istu grešku i udju istoriju na isti način.? Nažalost, ropski, poslušnički mentalitet i psihologija, pokornost, inferiornost ,nesposobnost da se samostalno odlučuje o svojoj sudbini, što su komunisti i partizani NOB i revolucijom razbili u paramparčad i srpskom narodu vratili samopouzdanje u sopstvene snage - vratili su se u naše duše i učinili nas ponovo monetom za potkusurivanje velikih sila.
Nisam siguran da današnji zvanični Beograd liči na grad heroj iz 2.svetskog rata i posle njega. I da s pravom nosi ime glavnog grada slobodarske Srbije. Nažalost, kvislinški i kolaboracionistički duh još luta Beogradom. Dočeci predstavnika zapadnih sila, koje su nas bombardovale 1999. i otele 15 odsto teritorije, meni liče na dočeke Hitlerovih opunomoćenika tokom 2.svetskog rata. Nema razlike izmedju tog bombardovanja i otimanja i onog Hitlerovog iz 1941! I opet se lansira teza da šut s rogatim ne može da se tuče, da treba čuvati ljude a ne teritorije itd. Rehabilitacijom izdajnika Draže i Nedića sadašnja vlast želi da dobije atest za sopstvenu izdaju nacionalnih interesa .
I ovogodišnju proslavu nekadašnjeg najvećeg praznike Beograda, režim koristi da diskreditujen komuniste i partizane. Najnovija ujdurma vladajućeg režima protiv komunista i partizana i pokušaj da nas „zavade“ sa Crvenom Armijom je ova priča, napisana u najvišem krugu vlasti, :„ Oslobodjenje Beograda ne bi bilo moguće bez ruske pomoći“ a u njoj , verujem nenamerno, učestvuje i neki naši ruski prijatelji govoreći ovih dana, povodom posete Medvedeva Srbiji, kako su maltene Rusi oslobodili ne samo Beograd nego i Jugoslaviju! Nigde se ne spominju slavne jedinice NOVJ i njeni komandanti heroji Tito i Peko. To neće promeniti istinu da smo našu zemlju oslobodili sopstvenim snagama a da nam je Crvena Armija pomogla da to učinimo i sa Beogradom. Oslobodili bi ga i bez njihove pomoći ,uz veće žrtve i gubitke ,ali ni u kom slučaju nismo zbog toga manje zahvalni sovjetskim borcima a naročito onima koji su nam poklonili najvrednije što su imali – svoje živote. Sećanje na njih, Crvenu Armiju i SSSR živeće večito u srcu srpskog naroda.
Stevan Mirković, general – pukovnik u penziji i bivši Načelnik Generalštaba OS SFRJ na tribini „Beogradska operacija“, 16.10.2009
Unione Europea: integrazione o annessione?
di Andrea Catone
su Marxismo Oggi del 09/11/2009
La crisi svela il rapporto di dominio/dipendenza A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino le potenze capitalistiche occidentali sono riuscite ad annettersi vasti territori con una popolazione di 100 milioni di persone, integrate nelle sue istituzioni e nel mercato della UE. . Siamo di fronte non all’unificazione di paesi con pari dignità, ma ad un’espansione del nucleo forte della UE verso Est, una conquista e un’annessione compiuta con le armi del moderno imperialismo. Come la DDR nel 1990 non fu “unificata” con la Germania di Bonn, ma annessa ad essa in un rapporto dipendente e subordinato, per cui non vi fu alcuna nuova Costituzione alla base di un nuovo Stato, ma si mantenne la Legge fondamentale della RFT.
Nel marzo di quest’anno Olli Rehn, commissario europeo per l'allargamento, nella prefazione ad un opuscolo propagandistico redatto a cura della Direzione generale dell’allargamento, annunciava trionfalisticamente:
“L'anno 2009 segna un doppio anniversario storico. In autunno, saranno già venti anni dalla caduta del muro di Berlino. Nel mese di maggio celebreremo il quinto anniversario dell'allargamento dell'Unione europea, che ha permesso di riunificare l'Europa dell'Est e l’Europa dell’Ovest. Per cinque anni, l'allargamento della UE ha dato benefici sia ai cittadini dei vecchi Stati membri che a quelli dei nuovi. Sul piano economico, l'allargamento ha offerto nuove opportunità per l'esportazione e gli investimenti, creando nuovi posti di lavoro per i cittadini dei vecchi Stati membri, migliorando al contempo le condizioni di vita nei nuovi Stati membri”[1][1].
L’opuscolo procede a suon di cifre esaltanti:
“Gli scambi commerciali tra i vecchi e i nuovi membri sono quasi triplicati in meno di 10 anni (da 175 miliardi di euro nel 1999 a circa 500 miliardi di euro nel 2007). L’aumento di cinque volte del commercio tra i nuovi Stati membri è ancora più eloquente (è passato da 15 a 77 miliardi di euro nello stesso periodo). È un fattore chiave che ha contribuito ad una forte crescita annuale dell'occupazione dell’1,5% nei nuovi Stati membri nel corso del periodo compreso tra la loro adesione nel 2004 e lo scoppio della crisi finanziaria.[…] L'integrazione in un mercato di più 100 milioni di consumatori con un crescente potere d'acquisto ha aumentato la domanda di beni di consumo prodotti nelle imprese dei vecchi Stati membri, contribuendo a mantenere e creare posti di lavoro a livello locale. Come ogni macchina venduta in Polonia da una società tedesca fornisce un beneficio per i cittadini tedeschi, ogni transazione effettuata da una banca olandese nei nuovi Stati membri apporta benefici per l'economia olandese nel suo insieme”[2][2].
A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino le potenze capitalistiche occidentali sono riuscite ad annettersi vasti territori con una popolazione di 100 milioni di persone, integrate nelle sue istituzioni e nel mercato della UE. E si prospetta a breve l’inclusione di altri paesi, in primis i “Balcani occidentali” (e cioè i piccoli stati prodotti dallo smembramento della martoriata Jugoslavia, e l’Albania[3][3]), oltre alla Turchia. Dunque, un bilancio entusiastico del “grande allargamento” della UE, che apre la strada ad ulteriori adesioni di paesi che bussano insistentemente alle sue porte quasi fossero quelle del paradiso.
Il vantaggio, secondo l’opuscolo propagandistico, sarebbe reciproco, tanto per i vecchi membri che per i nuovi arrivati. Tuttavia, altre fonti ufficiali, della Banca centrale europea, del FMI, della Banca d’Italia, di fronte alla grande crisi capitalistica suonano una musica piuttosto diversa. Le “magnifiche sorti e progressive” dell’allargamento cedono il posto ad un paesaggio pesantemente in crisi, anche dopo i risultati meno negativi del secondo trimestre 2009:
“I principali Stati membri della UE che si trovano nell’Europa centrale e orientale, fatta eccezione per la Polonia, hanno registrato una contrazione significativa del PIL in termini reali nel primo trimestre. Il calo sul periodo precedente è stato pari al 2,5 per cento in Ungheria, 3,4 per cento nella Repubblica Ceca e 4,6 per cento in Romania. […] All’interno della UE, i paesi baltici hanno registrato la flessione maggiore dell’attività negli ultimi trimestri. Tali economie avevano accumulato, negli ultimi anni, ampi squilibri interni ed esterni. […] Negli ultimi trimestri, un netto aumento della disoccupazione a circa il 15 per cento ha contribuito a far scendere i consumi. […] In Bulgaria – che era stata finora meno colpita dalla crisi rispetto alle altre economie più piccole dell’Europa centrale e orientale – alcuni indicatori congiunturali (ad esempio delle vendite al dettaglio o del clima di fiducia delle imprese industriali) hanno continuato a deteriorarsi negli ultimi mesi”[4][4].
La crisi colpisce più pesantemente, anche se in modo differenziato da paese a paese, le economie dei cosiddetti “paesi emergenti europei”, rivelando altresì la fragilità dei relativamente alti tassi di crescita degli anni precedenti, che si convertono oggi in tassi negativi, con forte aumento della disoccupazione e il rischio di bancarotta.
Una delle cause – se non la principale – che si può rinvenire a chiare lettere nei freddi rapporti dei grandi centri della finanza internazionale, è nella dipendenza del sistema bancario e industriale dei nuovi membri della UE (e di quelli in procinto di diventare tali) dai grandi gruppi capitalistici dell’Occidente. “La maggior parte dei paesi emergenti europei sono altamente dipendenti dalle banche occidentali europee, che possiedono la maggior parte dei sistemi bancari in questi paesi” - scrive il rapporto del FMI di aprile 2009, paventando la possibilità di un effetto boomerang sulle grandi banche europee occidentali, fortemente esposte al rischio di insolvenza dei “paesi emergenti” debitori: “le case madri sono in gran parte concentrate in pochi paesi (Austria, Belgio, Germania, Italia e Svezia), e in alcuni casi, i crediti delle banche dell'Europa occidentale verso i paesi emergenti europei sono di grandi dimensioni rispetto al PIL del paese di origine (Austria, Belgio e Svezia)”[5][5]. Le banche creditrici hanno chiuso il rubinetto del credito, lasciando in panne i nuovi arrivati, con pesanti conseguenze su tutta la loro attività economica:
“I paesi emergenti europei sono stati colpiti molto duramente dalla diminuzione dei flussi internazionali lordi di capitale e dalla fuga di essi davanti al rischio. Molti di loro erano fortemente dipendenti dagli afflussi di capitali delle banche occidentali per sostenere l'espansione del credito locale. Gli impegni internazionali intraeuropei delle banche erano notevoli e, nei paesi emergenti d’Europa, molte banche erano tenute da imprese straniere in difficoltà. La situazione si è fortemente deteriorata nell’autunno 2008: c'è stato un aumento generalizzato dei margini sui titoli sovrani e le monete si sono rapidamente svalutate nei paesi con regimi di tasso di cambio flessibile. Il riflusso della domanda di importazione nei paesi avanzati, combinato con il crollo dei prezzi degli immobili, la penuria di credito e il deprezzamento delle valute in un contesto di marcata asimmetria dei bilanci, ha portato a pesantissimi aggiustamenti, addirittura, in alcuni paesi, a vere e proprie crisi. Di fronte al crollo delle esportazioni e della produzione e alla diminuzione delle entrate statali, molti paesi hanno ricevuto un aiuto dal FMI e da altre istituzioni finanziarie internazionali per finanziare la loro bilancia dei pagamenti”[6][6].
Il bollettino di ottobre 2009 della Banca d’Italia riassume così:
“La recessione sta proseguendo nella maggior parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale, che hanno risentito pesantemente della crisi a causa degli ampi disavanzi delle partite correnti e della loro dipendenza dai finanziamenti dall’estero. Il calo del PIL nel 2009 sarà particolarmente marcato nei paesi baltici, in Romania e in Bulgaria (con tassi di variazione compresi tra il -7 e il -19 per cento)”[7][7].
Non sono dei marxisti, ma i centri delle più importanti istituzioni finanziarie, quelle che disegnano i destini del mondo e di miliardi di esseri umani, a dichiarare a chiare lettere che nella sfera delle relazioni economiche della UE non vi è un rapporto paritario tra i suoi membri, ma di dipendenza dalle banche “occidentali”[8][8] dei nuovi arrivati dell’Europa centro-orientale, che facevano parte fino al 1989 del COMECON. Siamo di fronte, allora, non all’unificazione di paesi con pari dignità, ma ad un’espansione del nucleo forte della UE verso Est, una conquista e un’annessione compiuta con le armi del moderno imperialismo. Come la DDR nel 1990 non fu “unificata” con la Germania di Bonn, ma annessa ad essa in un rapporto dipendente e subordinato (per cui non vi fu alcuna nuova Costituzione alla base di un nuovo Stato, ma si mantenne la Legge fondamentale della RFT), così i paesi che nel 2004 e nel 2007 sono entrati a far parte della UE, e quelli dei “Balcani occidentali” di cui si prospetta l’ingresso tra qualche anno, si configurano alla stregua di una “colonia interna”: un mercato finalmente del tutto aperto agli investimenti di capitali, in primis del capitale bancario – che oggi controlla praticamente la vita economica di questi paesi – e del capitale industriale, per impiantare (in diversi casi delocalizzando dall’Occidente) produzioni a medio-basso contenuto tecnologico[9][9], impiegando una forza-lavoro acquistabile sotto costo e usufruendo di condizioni fiscali molto favorevoli; nonché un mercato di sbocco per le merci “occidentali”.
Il peso economico dei 27 paesi aderenti alla UE (di cui 16 adottano la moneta unica) presenta grandi differenze. Il paese più forte per PIL e popolazione è la Germania, con un PIL nel 2007 di 2.422,9 miliardi di euro, il 26,9% del PIL complessivo della UE (12.353 miliardi di €). Francia (21%), Italia (17,2%), Spagna (11,7%) costituiscono le economie più rilevanti dell’eurozona, mentre il Regno Unito (16,6%) è di gran lunga la principale economia della UE fuori area euro[10][10].
I nuovi arrivati tra il 2004 e il 2007 erano, salvo Malta e Cipro, economie di tipo socialista fino al 1989, che la grande borghesia “europeista”, con la sua politica di “allargamento”, ha avuto la capacità di trasformare, nel tempo storicamente piuttosto breve di un decennio, in “economie di mercato”, compatibili e integrabili nel capitalismo occidentale. Si è trattato però di un’integrazione subordinata e dipendente dal grande capitale finanziario europeo. Il peso complessivo dei nuovi arrivati dell’Europa centro-orientale è piuttosto ridotto: pur contando essi su una popolazione che supera il 20% di quella di tutti i paesi UE (102,2 milioni su 496 milioni), la percentuale del PIL dei 10 paesi ex socialisti sul totale del PIL della UE non supera il 7% e solo Polonia (col 2,5%), Repubblica ceca e Romania (entrambi con l’1%) superano l’1%.
Ma non si tratta solo di essere parenti poveri. Il disegno di integrazione subalterna dell’area dell’Europa centro-orientale – integrazione che prevede anche la sottomissione completa dei Balcani (e per questo nel 1999 si muove guerra alla Serbia che ha avuto il torto di opporsi) e la prospettiva di annettersi anche il ghiotto boccone dell’Ucraina (magari attraverso “rivoluzioni colorate”) – viene da lontano. Pianificato nei centri studi di Nomisma e dell’Unione Banche Svizzere, era stato esplicitato a chiare lettere alla fine degli anni 80, già prima della “caduta del muro di Berlino”. De Benedetti e Giscard d’Estaing parlavano di “piano Marshall” finanziato dalla Comunità europea per i paesi dell’Est per trovare nuovi mercati pieni di potenzialità per i “nostri capitalisti”, mercati senza i quali il sistema industriale capitalista non avrebbe potuto crescere[11][11]. “È nel nostro interesse egoistico che ci sia un’evoluzione sociale, culturale, politica, economica della parte orientale del continente. Servirà al nostro stesso sviluppo”, dichiarava nell’ottobre 1989 l’allora ministro De Michelis[12][12].
È la Germania di Kohl il principale beneficiario e artefice dell’espansione ad Est. Essa impone l’incorporazione della DDR (con cui ancora il 22 dicembre 1989 la CEE cominciava un negoziato per un accordo commerciale!), che entra così automaticamente a far parte della CEE e della NATO. L’OSCE, organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa, alla conferenza di Parigi del 21 novembre 1990 proclama la fine della divisione dell’Europa. La carta di Parigi crea un “ufficio delle istituzioni democratiche” che supervisiona la messa in opera degli impegni presi dai nuovi regimi “pluralisti”. Il 22 giugno 1993 i capi di stato e di governo riuniti a Copenhagen decidono l’allargamento della UE agli stati dell’Europa centrale e orientale, fissando le condizioni generali delle future adesioni: istituzioni stabili, che garantiscano la “democrazia”, lo “stato di diritto”, “diritti dell’uomo” e rispetto delle minoranze nazionali; “economia di mercato” capace di affrontare la concorrenza in seno all’Unione; ripresa e applicazione dell’acquis comunitario e adesione agli obiettivi dell’unione politica ed economica. Il “patto di stabilità” in Europa, proposto dalla Francia e assunto dalla conferenza di Parigi del 26-27 maggio 1994, ha l’esplicito obiettivo di favorire l’adesione degli stati d’Europa centrale e orientale disposti a regolare i loro contenziosi bilaterali relativi a frontiere e minoranze[13][13].
Tra il 1991 e 1999, con una terapia lacrime e sangue, si fanno le privatizzazioni: in media la quota che il settore privato apporta al PIL è pari a quella degli altri paesi della UE, in Ungheria raggiunge addirittura il 90% Le ristrutturazioni nelle campagne riducono la popolazione agricola a meno del 10% della popolazione attiva. Il commercio estero viene completamente riorientato dopo la scomparsa della precedente divisione del lavoro nel campo socialista[14][14]. Il primo decennio di transizione dal sistema di economie di tipo socialista, basate su un settore prevalente e determinante di proprietà di stato e sulla pianificazione, ad economie di mercato fondate sulla proprietà privata e la deregolamentazione neoliberista, è contrassegnato dagli effetti pesantissimi delle “terapie shock” che, pur tra differenze e peculiarità dei singoli paesi dell’ex COMECON, sono adottate, seguendo le ricette di FMI &C. In modo più o meno violento, gran parte della popolazione è privata del sistema di garanzie sociali di cui godeva e costretta a trottare al comando dei nuovi signori dell’Ovest, che si impadroniscono delle industrie migliori o smantellano quelle locali, pur valide, per imporre voracemente le proprie merci sui nuovi mercati aperti grazie alle “rivoluzioni” del 1989 (nella zona est di Berlino già nel 1991 non si trova più la birra delle industrie dell’est, a Bucarest gli ottimi succhi di frutta locali sono ben presto rimpiazzati da Parmalat).
Nel 1999, nel decimo anniversario della “caduta del Muro”, tutti gli indici dei paesi dell’est segnalavano che a 10 anni di distanza dal rovesciamento del socialismo le condizioni economiche della popolazione e dei paesi erano peggiori che nel 1989. Non c’era un solo indicatore fondamentale, in nessuno dei paesi che avevano avviato la “transizione dal socialismo al capitalismo”, che mostrasse un segno più rispetto alla situazione pre 1989, salvo il tasso di disoccupazione. “Ogni paese senza eccezione […] ha accompagnato la propria trasformazione con una profonda e in molti casi prolungata recessione (Kornai parla appunto di transformational recession), del 20% del PIL in Polonia, il paese meno colpito, del 40% nella media dell’ex Unione Sovietica, con punte del 65%, ad esempio in Georgia e Armenia […] non solo la recessione c’è stata veramente, ma è stata peggiore di quella mondiale del 1929”, scriveva Nuti, paragonando il passaggio all’“economia di mercato” alla “peste nera di cinque secoli fa, con la differenza che “la peste riduceva non solo la produzione ma anche la popolazione, e pertanto non riduceva il reddito e il consumo pro capite come è successo nella transizione” [15][15].
Perché si potesse attuare questa “terapia shock”, che avrebbe potuto prevedibilmente innescare forti tensioni sociali e crisi politiche nei nuovi gruppi di potere, occorreva uno stretto controllo politico e militare su questi paesi. L’integrazione di queste economie nella UE è preceduta dall’integrazione politico-militare di esse nella NATO, che deve avvenire con le buone o con le cattive. Chi resiste troppo è bombardato (aggressione e distruzione militare della RFJ nella primavera 1999). Si stabilisce così un condominio concorrenziale sui paesi ex socialisti tra gli USA, che hanno una prevaricante forza militare, e i paesi del nucleo forte europeo, in primis la Germania, in asse (non paritario) con la Francia e in concorrenza col Regno Unito, stretto alleato degli USA e per molti aspetti sua “quinta colonna” nella UE.
La conquista e assimilazione dei paesi ex socialisti dell’Europa centro-orientale e balcanica è un classico modello di politica imperialista e di “divisione del lavoro” tra potenze imperialiste: penetrazione economica e penetrazione militare si combinano in un’azione congiunta, e al contempo concorrenziale, tra le aree valutarie del dollaro e dell’euro. All’indomani della caduta del muro di Berlino, il presidente americano George Bush, nel suo intervento al summit Nato di Bruxelles il 4 dicembre 1989, afferma a chiare lettere che gli USA sarebbero rimasti una potenza europea. La strategia dell’allargamento ad Est della NATO si delinea al vertice di Londra del luglio ’90, quando viene accolta nella NATO la nuova Germania unificata e si consolida nei vertici di Roma (novembre 1991) e di Oslo (giugno 1992), quando la NATO si mette a disposizione per eventuali azioni di “pacificazione” richieste dal consiglio di sicurezza dell’ONU o dalla CSCE, fino al vertice di Bruxelles (gennaio 1994), in cui si sancisce la politica di allargamento a tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale, compresi i pezzi della Jugoslavia in via di smembramento, martoriato laboratorio insanguinato in cui si attizzano odi etnici, si armano forze separatiste, in modo da creare il casus belli che giustifichi la “mediazione” e l’intervento militare americano, dalle krajne serbe in Croazia, alla Bosnia – primo banco di prova degli interventi NATO fuori area -, alla Macedonia, all’Albania, al Kosovo[16][16].
Il processo di integrazione subordinata delle economie ex socialiste in transizione nella UE viene straordinariamente accelerato proprio a partire dalla guerra contro la Serbia del 1999, a mano a mano che gli USA, imponendo la loro supremazia militare, mostravano di poter essere gli unici a volere e poter intervenire militarmente in Europa.Tra il 1999 e il 2004 – anno del più grande allargamento della storia della Comunità europea – si gioca la grande partita tra imperialismi franco-tedesco-europeo e statunitense. La politica USA è particolarmente aggressiva in questa fase e punta, con accordi militari separati con i paesi dell’est candidati all’ingresso nella UE, a creare una “nuova Europa” filoamericana, contrapposta alla “vecchia Europa” franco-tedesca. Lo scontro nel condominio imperialista europeo diviene evidente, con un vero e proprio tentativo di spaccare l’Europa, tra il 2002 e il 2003, quando USA e Inghilterra aggrediscono l’Iraq, ma senza il consenso dei paesi europei del nocciolo duro franco-tedesco, che riesce, grazie alla tenace azione del ministro degli esteri francese de Villepin, anche ad evitare un pronunciamento favorevole del Consiglio di sicurezza dell’ONU, isolando gli USA.
Tra l’aggressione della NATO alla RFJ nel 1999 e quella anglo-americana all’Iraq nel 2003 si giocano anche i rapporti di forza all’interno dello scacchiere europeo. All’interventismo militare degli USA, il nucleo forte della UE risponde rilanciando l’integrazione accelerata dell’est, sfidando anche il rischio di ritrovarsi in casa delle “quinte colonne”. A tappe forzate, per realizzare la più grande operazione di conquista “consensuale” di territori e popolazioni dopo la seconda guerra mondiale, si impone ai parlamenti dei paesi candidati di trasporre nelle legislazioni nazionali, prima dell’adesione, ben 470 regolamenti comunitari, adottando oltre 100 leggi all’anno (su libera circolazione dei beni, mercati pubblici, assicurazioni, proprietà intellettuale, creando o riformando le strutture amministrative chiamate ad applicare le misure comunitarie, in particolare quelle giudiziarie). Il 13 dicembre 2003 a Copenhagen il Consiglio europeo dichiara chiusi i negoziati con i 10 paesi candidati, che entreranno il 1.5. 2004 nella UE (Bulgaria e Romania nel 2007)[17][17].
Tra i paesi ex socialisti entrati nell’Unione l’Ungheria mostra di aver subito i maggiori contraccolpi non solo della crisi finanziaria in corso, ma del modello di transizione ad un capitalismo dipendente. Essa negli anni ’90 ha rincorso più degli altri la politica di privatizzazioni e di conformazione delle proprie istituzioni giuridiche ed economiche a quelle richieste da un’organizzazione capitalistica della società ((diritto di proprietà, assicurazione degli investimenti, diritto fallimentare, diritto della concorrenza) in base agli standard europei. Ha visto perciò un afflusso massiccio di investimenti. «Fino alla metà degli anni 1990, grazie a questa politica di "profilo istituzionale", questo paese - popolato solo da 10 milioni di persone - assorbiva la metà degli investimenti diretti esteri (da UE e USA) per un’area economica che contava tuttavia quasi 100 milioni di abitanti. Prosperità artificiale e temporanea che ora si esaurisce: se Budapest continua a ospitare le sedi regionali di grandi imprese internazionali, la stragrande maggioranza del paese attraversa una crisi profonda. Gran parte dell'economia nazionale è nelle mani di stranieri che desiderano ora raccogliere i frutti dei loro investimenti originari»[18][18]. Il 70% degli istituti ungheresi è di proprietà di grandi gruppi europei[19][19], tra cui Unicredit, KBC e Intesa Sanpaolo.
La tempesta finanziaria che scuote il mondo nel settembre 2008 trova un’Ungheria dove è già pesantemente in crisi il modello di capitalismo dipendente. La grande crisi sembra assestarle il colpo di grazia: a ottobre 2008 è a rischio di bancarotta e devono correre in suo soccorso ai primi di novembre la BCE (per la prima volta con un intervento in un paese fuori dell’eurozona, con un prestito di 6,5 miliardi di euro),il FMI (€ 12,5 mld.) e la Banca mondiale (€ 1 mld.). Ma il problema rimane, come denuncia Gergely Romsics, ricercatore presso l’Istituto ungherese per gli Affari Internazionali, “l’eccessiva dipendenza dell’Ungheria dagli investimenti e dal capitale straniero nella rincorsa al modello di sviluppo occidentale”[20][20]. Ma se quello dell’Ungheria e dei paesi baltici, infeudati al capitale scandinavo, può essere un caso limite, la questione generale che la crisi svela chiaramente è, come scrivono a chiare lettere anche i reportage giornalistici che : “i sistemi economici dei paesi dell'Europa dell'est presentano una dipendenza eccessiva rispetto agli investimenti privati stranieri che ora, a causa della crisi finanziaria, stanno progressivamente svanendo”. E svaniscono anche le illusioni alimentate dalla dolce maschera dell’Europa.
(questo articolo uscirà sul prossimo numero di Marxismo Oggi)
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[1] Cfr. Bon à savoir à propos de - L’ELARGISSEMENT DE L’UE, Luxembourg, Office des publications officielles des Communautés européennes, marzo 2009, p. 1. Corsivo mio, A.C. La brochure è reperibile anche in http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/publication/screen_mythfacts_a5_fr.pdf.
[2] Ivi, pp. 2-3. Corsivo mio, A.C.
[3] Cfr. ivi, pp. 11-12.
[4] Cfr. BCE, Bollettino mensile, Settembre 2009, traduzione e pubblicazione a cura della Banca d’Italia, pp. 12-13, http://www.bancaditalia.it/eurosistema/comest/pubBCE/mb/2009/settembre/bce_0909. Il corsivo è mio, A.C.
[5] International Monetary Fund, 2009, Global Financial Stability Report: Responding to the Financial Crisis and Measuring Systemic Risks (Washington, April), p. 9. https://www.imf.org/external/pubs/ft/gfsr/2009/01/pdf/text.pdf.
[6]FONDS MONÉTAIRE INTERNATIONAL RAPPORT ANNUEL 2009, Washington, p. 19, http://www.imf.org/external/french/pubs/ft/ar/2009/pdf/ar09_fra.pdf. Il corsivo è mio, A.C.
[7] Banca d’Italia, Bollettino Economico n. 58, Ottobre 2009, p. 18, http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/bollec/2009/bolleco58 . Il corsivo è mio, A.C.
[8] Il rapporto annuale del FMI – forse meno preoccupato della retorica europeista della BCE – riprende, non sappiamo quanto inconsapevolmente, la nozione di “Occidente” in termini non geografici, ma economico-politici, quando questa nozione indicava un sistema politico-sociale e di valori contrapposto all’URSS e ai paesi socialisti. Cfr. il già citato RAPPORT ANNUEL, p. 19.
[9] Cfr. B. Landais, A. Monville, P. Yaghlekdjan, L’idéologie européenne, Ed. Aden, Bruxelles, 2008, pp. 211-213.
[10] Per questi dati e i seguenti, cfr. European Central Bank, Statistics Pocket Book, April 2009, pp. 39 sgg.
[11] Cfr. W. Goldkron in L’Espresso, 17 aprile 1988.
[12] Cfr. intervista all’Unità del 23.10.1989.
[13] Cfr. C. Zorgbibe, « Le «grand élargissement» de 2004, in Histoire de l’Union européenne, Albin Michel, Parigi, 2005, pp. 261 267.
[14] Ivi.
[15] Cfr. D. M. Nuti, “1989-1999: la grande trasformazione dell’Europa centrorientale”, in Europa/Europe, numero 4/1999. L’evidenziazione in corsivo è mia, A.C. Nuti cita qui il saggio di “un autore al di sopra di ogni sospetto, Bob Mundell” nel volume a cura di M. Skreb e M. Blejer, Macroeconomic stabilisation in transiton economies, Cambridge 1998.
[16] Si veda La Nato nei Balcani, Editori Riuniti, Roma, 1999, in particolare Sara Flounders: “La tragedia della Bosnia: il ruolo sconosciuto del Pentagono” e Gregory Elich: “L’invasione della Krajna serba”.
[17] Cfr. C. Zorgbibe, op. cit.
[18] Cfr. L’idéologie européenne, op. cit., p. 214.
[19] Felice Di Leo, Ungheria: prospettive dopo la crisi finanziaria e il maxi-prestito della BCE, in http://www.equilibri.net/articolo/10579/Weekly_Analyses_-_38_2008).
[20] Cfr. Fernando Navarro Sordo, L’Ungheria e la crisi: il cuore isolato dell’Europa, in http://www.cafebabel.fr/article/29718/budepest-ungheria-crisi-economica-vita-notturna.html.