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www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 27-10-09 - n. 292

Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

 

Il luogo in cui più di 800 combattenti dell’Esercito Democratico Greco sono stati sepolti durante la guerra civile in Grecia (1946-1949), è diventato di proprietà del KKE

 

23/10/2009
 
Il Comitato Centrale del KKE ha annunciato ai militanti, ai sostenitori del partito e al KNE, ai combattenti dell'Esercito Democratico Greco (DSE), al popolo greco che, dopo molti anni di sforzi, l'area della fossa comune di oltre 800 combattenti del DSE, caduti eroicamente nella battaglia di Florina nel 1949, è diventata di proprietà del KKE.

 

"L'acquisizione di questa area permette al KKE di superare le difficoltà che hanno impedito la costruzione di un monumento degno di questo grande sacrificio. Abbiamo fatto un primo passo per adempiere al nostro dovere di dare importanza al contributo eroico dell’Esercito Democratico Greco nella battaglia impari che combatté per i diritti del nostro popolo", sottolinea il CC del KKE.

 

Il gruppo del Partito all’interno della Confederazione dei lavoratori edili ha deciso di offrire un lavoro volontario rosso di 250 giorni per la costruzione del monumento storico per i combattenti dell’Esercito Democratico Greco nel luogo del loro sacrificio. Questa decisione costituisce una minima risposta alla falsificazione anticomunista della storia e dimostra la consapevolezza del dovere di costruire questa opera commemorativa.

 


   
da Accademia delle Scienze dell'URSS, Storia universale vol. XI, Teti Editore, Milano, 1975
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
La guerra civile in Grecia 1946-1949
 
Durante la guerra e l’occupazione nazi-fascista la Grecia aveva subito notevolissime perdite umane e materiali: il numero dei caduti era stato pari all’8 per cento della popolazione; il 70 per cento della produzione industriale era stato portato via dagli occupanti. L’economia del paese era stata ridotta in uno stato disastroso.
Nel 1945 il livello della produzione rispetto a quello del 1939 era pari al 20 per cento per l’industria meccanica, al 30 per cento per l’industria tessile, al 17 per cento per la produzione del cemento, e del 15 per cento per la produzione della gomma.
Risultò notevolmente ridotta anche la superficie coltivata; gran parte degli impianti di miglioramento e di difesa dell’agricoltura era stata distrutta; enormi danni erano stati inferti all’allevamento e all’industria della pesca.
L’incremento catastrofico del deficit della bilancia commerciale, l’inflazione, il caro viveri avevano portato al disastro economico, alla fame e alla povertà la massa della popolazione del paese.
 
Una volta cacciati gli occupanti, il paese si trovò a dover affrontare problemi gravissimi, dall’approvvigionamento di prodotti alimentari e di abitazioni, al lavoro, alla ricostruzione dell’industria, dell’agricoltura, delle comunicazioni, eccetera.
 
Il governo del liberale Nicolaos Plastiras, nominato primo ministro ai primi di gennaio del 1945 sulla base di un accordo intervenuto tra Churchill e il re di Grecia, si propose innanzitutto di reprimere le forze democratiche di sinistra e di ristabilire l’ordinamento reazionario.
 
La complessità della struttura sociale rese difficile e contraddittoria la vita politica del paese in quel periodo.
Il ruolo predominante nella vita economica e politica apparteneva alla borghesia monopolistica industriale-commerciale strettamente collegata con la borghesia britannica e successivamente con il capitale americano.
Faceva blocco con queste forze un’altra classe di sfruttatori, quella dei grandi proprietari terrieri; le banche, i monasteri e la famiglia reale possedevano anch’essi milioni di stremma (1 stremma = 0,01 ha) di ottima terra e di pascoli.
 
La classe più numerosa in Grecia era quella dei contadini con pochissima terra e dei braccianti, soggetti a un intenso sfruttamento; i contadini erano costretti a prendere in affitto la terra dai proprietari terrieri a condizioni di asservimento (mezzadria, colonia, eccetera).
La classe operaia, anche se poco numerosa, aveva diretto la lotta di tutta la nazione greca contro gli occupanti e, dopo la guerra, apparve come la forza decisiva del movimento democratico.
 
Gli interessi delle diverse classi della società greca erano rappresentati da numerosi partiti politici.
In questo periodo i partiti di estrema destra si unirono in un blocco noto col nome di “Fronte nero”.
Il suo nucleo fondamentale era costituito dal partito popolare (populista) che rispecchiava gli interessi dell’aristocrazia greca, del capitale finanziario, dei grossi proprietari terrieri e del clero reazionario della cosiddetta Antica Grecia (Peloponneso, Attica e Beozia). Si aggregarono a questo partito anche gli speculatori, che si erano arricchiti durante la guerra, e i collaborazionisti di ogni risma.
Nel “Fronte nero” occupava il secondo posto il Partito nazionale-liberale, nato nel marzo del 1945, che raccoglieva i liberali che avevano collaborato con gli occupanti.
Fondatore di questo partito era stato il generale Stilianos Gonatos, organizzatore dei “battaglioni di difesa” fascisti che durante l’occupazione avevano combattuto a fianco degli occupanti hitleriani contro l’Armata di Liberazione Nazionale della Grecia (ELAS).
Faceva parte del “Fronte nero”, anche il Partito nazionale di Napoleon Zervas che organizzava gli elementi di orientamento monarchico.
Del “Fronte nero” facevano parte anche gruppi fascisti e semifascisti di militari e un’organizzazione reazionaria di ufficiali.
 
Tra i partiti di centro c’era-innanzitutto il Partito liberale che rispecchiava gli interessi della media e piccola borghesia e di parte dei contadini.
Dopo la guerra intorno a questo partito si raggrupparono ceti borghesi, orientati verso la Gran Bretagna che speravano di essere prescelti dalla Gran Bretagna, per lottare contro le forze democratiche del paese, al posto dei monarchici.
 
Anche i partiti democratico-progressista, democratico-socialista e unionista erano orientati verso il centro e riflettevano gli interessi di alcuni ceti della borghesia greca.
I partiti centristi, che si erano rifiutati di combattere contro gli occupanti durante la guerra, avevano perso la fiducia delle masse e non rappresentavano una forza seria.
Tuttavia l’imperialismo americano e quello britannico tentarono in ogni modo di consolidare i ranghi della borghesia per la lotta contro il movimento democratico.
 
La reazione e il centro si opponevano al Fronte di Liberazione Nazionale (EAM) e all’armata di liberazione nazionale.
Il ruolo decisivo in queste organizzazioni apparteneva al Partito comunista greco; il numero degli aderenti al PCG [KKE n.d.r.] era cresciuto durante la guerra fino a raggiungere i 400 mila iscritti.
 
Lo seguiva, dal punto di vista numerico, il Partito agrario che all’inizio del 1946 contava 250 mila membri. La base di questo partito era costituita dai contadini poveri. Si trattava di un partito molto popolare con una propria rete organizzativa che copriva tutto il paese.
Infine facevano parte del Fronte di liberazione nazionale circa 1 milione di persone che non aderivano ad alcun partito. Si trattava soprattutto di contadini che si contentavano di appartenere all’EAM che per loro significava lotta per gli interessi nazionali e per obiettivi sociali.
All’inizio del 1945 l’ELAS controllava i 2/3 del territorio del paese; le altre regioni, compresa l’Attica con Atene, il Pireo e il porto di Salonicco, erano sotto il controllo delle truppe britanniche.
Le forze dell’ELAS erano consistenti. La coalizione dell’EAM contava circa 2 milioni di aderenti. Il Comitato centrale dell’EAM dava la preferenza alle soluzioni politiche e tendeva a far cessare la guerra civile iniziata nel dicembre del 1944.
 
Il governo non aveva però alcuna intenzione di risolvere per vie pacifiche i problemi venuti a maturazione.
L’accordo di Varkiza raggiunto con i rappresentanti dell’EAM il 12 febbraio 1945 prevedeva la cessazione del regime di guerra, l’epurazione dei collaborazionisti dall’esercito, dalla polizia e dall’apparato statale, garanzie di libertà di parola, di stampa, di riunione, la libertà sindacale e la fine della guerra civile; si trattava di sciogliere non soltanto l’ELAS ma anche le altre organizzazioni armate.
Il governo invece lanciò le proprie forze contro l’ELAS.
Cominciarono gli arresti degli appartenenti all’EAM e i licenziamenti di operai e impiegati per scarso affidamento; furono sciolti i sindacati.
Intanto con le armi tolte all’ELAS venivano armate bande fasciste.
 
La reazione si appoggiava alle forze armate britanniche. La Gran Bretagna assunse il compito di scudo che consentì alla reazione greca di organizzare nel paese la campagna contro le forze democratiche.
Fu scatenata una campagna di odio contro l’EAM-ELAS e il Partilo comunista greco. Moltissimi democratici perirono per mano di assassini e moltissimi altri furono rinchiusi in carcere e nei campi di concentramento.
 
I colpi sferrati contro l’EAM provocarono una crisi all’interno delle forze democratiche.
Elementi piccolo-borghesi e indecisi si affrettarono ad abbandonare il campo.
Il movimento operaio continuò tuttavia a svilupparsi.
Il plenum del Comitato centrale del Partito Comunista greco, nell’aprile e nel giugno del 1945, e il VII congresso, nell’ottobre 1945, invitarono i lavoratori a lottare per l’unità nazionale, per la cessazione della guerra civile, per l’allontanamento delle truppe britanniche e per uno sviluppo democratico del paese.
 
Il 22 novembre 1945 veniva formato il governo del liberale Themistoclis Sofulis.
Tuttavia, l’ingresso dei liberali nel governo non favorì la normalizzazione della situazione. Al contrario lasciò mani libere al “Fronte nero” dal momento che la politica del terrore trovava ora la copertura di un governo cosiddetto democratico.
 
Il governo Sofulis indisse le elezioni parlamentari per il 31 marzo 1946.
La campagna elettorale si svolse in un clima dominato dal terrore e dalle sopraffazioni della reazione. In molte località furono falsificate le liste elettorali.
Le “elezioni” consegnarono perciò il potere alle forze più reazionarie. Il nuovo governo fu capeggiato dal leader del Partito popolare Constantinos Tsaldaris, una creatura degli imperialisti inglesi.
Il governo britannico aveva ripetutamente affermato che avrebbe ritirato le proprie truppe subito dopo le elezioni; ora però si rifiutava di mantenere la promessa e inviò al governo degli Stati Uniti un “memorandum” col quale chiedeva il consenso americano all’effettuazione di un plebiscito a proposito del rientro del re in Grecia, ritorno previsto per il 1948 e che i britannici invece premevano perché avvenisse al più presto.
Il plebiscito fu effettuato il 1° settembre 1946 alla fine di una furiosa campagna sciovinista organizzata dai circoli dirigenti e “rafforzata” con provocazioni ai confini tra la Grecia e la Bulgaria, la Jugoslavia e l’Albania. Scopo di queste provocazioni era quello di distrarre la popolazione dai gravi problemi economici e politici all’interno del paese. Queste provocazioni prefiguravano inoltre i progetti annessionisti della reazione greca nei confronti delle democrazie popolari confinanti.
I risultati del plebiscito furono falsificati (70 per cento alla monarchia, 30 per cento per la repubblica).
Il re Giorgio II arrivò ad Atene il 27 ottobre 1946 sotto la protezione dell’aviazione anglo-americana. In seguito a trattative segrete tra Giorgio II, Tsaldaris e gli ambasciatori britannico e americano, la partenza delle truppe britanniche dalla Grecia fu rimandata “sine die”.
 
In queste condizioni cominciò a intensificarsi la resistenza popolare alle forze della reazione.
Nel giugno 1945 il Comitato centrale del Partito comunista greco aveva invitato i comunisti a organizzare gruppi di autodifesa contro le bande monarchiche. Intanto sui monti si andavano concentrando i democratici sfuggiti alle spedizioni punitive.
Nelle province più colpite dal terrore si formarono reparti partigiani che il 26 ottobre 1946 si unificarono nell’Esercito Democratico Greco [DSE n.d.r] guidato da Markos Vafiadis, ex vice-comandante del raggruppamento di Macedonia dell’ELAS. In novembre l’esercito democratico conseguì sulle truppe governative numerose vittorie che il governo greco utilizzò per appellarsi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
La reazione greca e mondiale fece molto rumore a proposito della “minaccia da nord” accusò i paesi di democrazia popolare di interferenza negli affari interni della Grecia. Si trattò di una manovra propagandistica nello spirito della “guerra fredda” scatenata proprio in quei mesi dai circoli imperialisti contro l’URSS e gli altri paesi che avevano imboccato la via del socialismo.
 
Né il governo greco né i suoi protettori occidentali riuscirono a dimostrare l’esistenza di una “minaccia da nord” per la Grecia.
 
La bancarotta politica del governo sia in politica estera (le pretese sull’Albania meridionale e su parte del territorio bulgaro non trovarono alcun appoggio) sia in politica interna era ormai evidente.
Il gabinetto Tsaldaris non riuscì d’altro canto a stabilizzare la situazione economica del paese.
Nel dicembre del 1946 la produzione industriale era giunta al 60 per cento di quella prebellica e quella agricola non superava il 55 per cento.
La situazione politica continuava a essere molto tesa.
 
Il 24 gennaio 1947 veniva formato un nuovo gabinetto capeggiato dall’altro leader 347 del partito popolare, Dimitrios Maximos.
La politica sanguinaria di questo governo provocò l’intervento del Consiglio di sicurezza dell’ONU che inviò in Grecia una Commissione di inchiesta perché si ponesse fine alle fucilazioni di persone che avevano partecipato in qualità di testimoni ai processi contro i seguaci dell’EAM.
In febbraio, la commissione del Consiglio di sicurezza ascoltò le comunicazioni dei rappresentanti del Comitato centrale dell’EAM, della Confederazione generale del lavoro, dei partiti di sinistra e centristi i quali confermarono che la situazione politica in Grecia era il risultato delle interferenze della Gran Bretagna e della violazione da parte delle destre degli accordi di Varkiza.
Queste dichiarazioni suscitarono notevole preoccupazione a Londra. Il governo britannico chiese aiuto a quello statunitense.
 
La “dottrina Truman” fu il risultato dell’accordo tra Gran Bretagna e Stati Uniti a spese dei popoli della Grecia e della Turchia.
Sulla base di questa a dottrina gli americani concentrarono nelle proprie mani tutto il controllo sulla vita politica ed economica della Grecia e la direzione delle operazioni militari contro l’esercito democratico.
 
Ottenuto un appoggio materiale e morale esplicito, i circoli monarchici reazionari capeggiati dal re Paolo, che era succeduto a Giorgio II alla morte di questi, intrapresero una nuova offensiva contro le forze democratiche e una nuova campagna ostile nei confronti dell’Unione Sovietica e dei paesi di democrazia popolare.
Gli organi del governo sollecitavano gli estremisti invitandoli alla “campagna contro il nord”.
Le cose arrivarono al punto da costringere l’Unione Sovietica a ritirare, il 6 aprile 1947, tutto il personale dell’ambasciata di Atene e lo stesso ambasciatore.
 
Nel 1947 fu dato inizio a una grossa operazione militare contro l’esercito democratico per la quale furono concentrati nella Grecia centrale 60 mila soldati e ufficiali dotati di carri armati, aerei, mortai e artiglierie.
Le forze dell’esercito democratico in quel periodo non superavano le 15 mila unità e nella regione erano 10 mila. Nonostante la chiara superiorità di forze la prima e la seconda fase della spedizione punitiva, nell’aprile e in maggio del 1947, si conclusero con un insuccesso.
L’esercito democratico riuscì a portare alcuni colpi decisi sia in Rumelia che nella Macedonia occidentale.
L’operazione delle truppe governative nella regione dei monti Grammos (giugnoluglio 1947), dov’era dislocata la base più importante dell’esercito democratico, finì anch’essa con un insuccesso.
 
Il governo, nel tentativo di salvare il proprio “prestigio” agli occhi dei propri seguaci e dei protettori americani, dichiarò che alle azioni dei partigiani aveva preso parte una “brigata internazionale” e indirizzò una protesta al Consiglio di sicurezza nella quale affermava che in Grecia erano penetrate consistenti forze straniere.
Questo falso tuttavia fu smascherato.
Il fallimento della spedizione punitiva seppellì anche il compromesso governo Maximos.
Il 7 settembre nasceva un governo di coalizione sostenuto dal partito liberale e dal partito popolare.
 
Alla fine del 1947 questo governo approvava una serie di leggi che vietavano l’attività del Partito comunista greco e dell’EAM.
Su Consiglio degli americani circa 800 mila contadini greci furono allontanati dalle loro terre; intorno alle zone d’operazioni dell’esercito democratico furono create immense “aree morte”.
 
Il comando dell’esercito democratico oltre alle organizzazioni di difesa cominciò a creare organi di governo popolare nelle regioni liberate. Questi organi procedettero alle elezioni dei comitati popolari; le terre dei grossi proprietari furono assegnate ai contadini poveri.
Il 23 dicembre 1947 fu creato il governo provvisorio democratico greco composto in gran parte da comunisti. Fu nominato primo ministro il generale Markos Vafiadis, comandante in capo dell’esercito democratico.
 
Nella primavera del 1948 l’esercito del re, con la diretta partecipazione di gruppi di consiglieri militari americani, lanciò una grossa operazione offensiva contro le regioni liberate controllate dall’esercito democratico. Anche questa offensiva fu bloccata dai reparti partigiani che riuscirono a portare i loro attacchi alle spalle delle truppe governative e nelle regioni vicine.
Il governo, inasprito dagli insuccessi militari, diede inizio alle esecuzioni in massa di prigionieri politici. Ad Atene e al Pireo fu imposta la legge marziale.
 
Il 16 giugno 1948 ebbe inizio una nuova offensiva delle truppe governative.
In quel periodo affluirono in Grecia dagli USA 210 mila tonnellate di armi e munizioni.
Il governo di Atene ricevette carri armati, aerei, artiglierie, 5.800 mitragliatrici, 1.920 mortai, 70 mila fucili, 3.250 stazioni radio, 6.700 automezzi, eccetera.
L’esercito democratico nella regione dei Grammos disponeva soltanto di 11 mila uomini, dotati quasi esclusivamente di armi leggere.
 
Ci furono scontri cruenti su tutto il fronte. La situazione per l’esercito democratico si fece difficile e il territorio da esso controllato si ridusse notevolmente.
La notte del 21 agosto 1948 le unita più importanti dell’esercito democratico si aprirono una breccia e riuscirono a sfuggire all’accerchiamento nella regione di Vitsi-Grammos.. A Creta le forze partigiane furono annientate nel luglio 1948. Nella regione centrale del Peloponneso i reparti dell'Esercito democratico respinsero gli attacchi delle forze governative fino al 20 gennaio del 1949.
 
Forze ancora capaci di combattere dell'esercito democratico si erano concentrate nella regione di Vitsi-Grammos, circondata dal nemico. L’esercito democratico non aveva modo di ottenere rinforzi. In questa regione il numero dei combattenti non superava le 20 mila unita. Nell’estate del 1949 le truppe governative concentrarono il grosso delle loro forze contro la regione di dislocazione dell’esercito democratico. A metà agosto occuparono Vitsi dopo feroci combattimenti.
Gli ultimi scontri avvennero nella regione dei monti Grammos il 28-30 agosto 1949. Le forze dell’esercito democratico furono costretta ad abbandonare il territorio greco.
 
Il movimento di liberazione nazionale in Grecia era stato sconfitto.
L’imperialismo internazionale e reazione greca soffocarono nel sangue le conquiste del popolo greco.
La Grecia fu trasformata in una roccaforte della reazione imperialista nell’Europa sud-orientale.
 
 


(Una analisi della situazione venti anni dopo lo... spostamento del Muro di Berlino verso il confine russo!)


http://rickrozoff.wordpress.com/2009/11/07/1989-2009-berlin-wall-moves-to-russian-border

Stop NATO - November 7, 2009

1989-2009: Moving The Berlin Wall To Russia’s Borders

Rick Rozoff


November 9 will mark the twentieth anniversary of the government of the German Democratic Republic opening crossing points at the wall separating the eastern and western sections of Berlin.

From 1961 to 1989 the wall had been a dividing line in, a symbol of and a metonym for the Cold War.

A generation later events are to be held in Berlin to commemorate the “fall of the Berlin Wall,” the last victory the West can claim over the past two decades. Bogged down in a war in Afghanistan, occupation in Iraq and the worst financial crisis since the Great Depression of the 1930s, the United States, Germany and the West as a whole are eager to cast a fond glance back at what is viewed as their greatest triumph: The collapse of the socialist bloc in Eastern Europe closely followed by the breakup of the Soviet Union. 

All the players in that drama and events leading up to it – Ronald Reagan, Mikhail Gorbachev, George H. W. Bush, Vaclav Havel, Lech Walesa – will be reverently eulogized and lionized.

Gorbachev will attend the anniversary bash at the Brandenburg Gate and the editorial pages of newspapers around the world will dutifully repeat the litany of bromides, pieties, self-congratulatory praises and grandiose claims one can expect on the occasion.

What will not be cited are comments like those from Mikhail Margelov, Chairman of the Committee on Foreign Affairs of the upper house of the Russian parliament, the Federation Council, on November 6. To wit, that “The Berlin Wall has been replaced with a sanitary cordon of ex-Soviet nations, from the Baltic Sea to the Black Sea.” [1]

With the unification of first Berlin and then Germany as a whole, the Soviet Union and its president Mikhail Gorbachev were assured that the North Atlantic Treaty Organization would not expand eastward toward their border. Gorbachev insists that in 1990 U.S. Secretary of State James Baker told him “Look, if you remove your troops and allow unification of Germany in NATO, NATO will not expand one inch to the east.” [3]

Not only was the former East Germany absorbed into NATO but over the past ten years every other Soviet ally in the Warsaw Pact has become a full member of the bloc – Bulgaria, the Czech Republic, Hungary, Poland, Romania and Slovakia.

Russia has twice before been attacked from the West, by the largest invasion forces ever assembled on the European continent and indeed in the world at one time (Herodotus’ hyperbolical estimates of Xerxes’ army notwithstanding), that of Napoleon Bonaparte in 1812 and of Adolf Hitler in 1941. The first consisted of 700,000 troops and the second of 5 million.

Moscow’s concerns about military encroachments on its western borders and its desire to insure at least neutral buffers zones on them are invariably portrayed in the U.S. and allied Western capitals as some combination of Russian paranoia and a plot to revive the “Soviet Empire.” What the self-anointed luminaries of Western geopolitics feel about neutrality will be seen later.

With the expansion of the U.S-dominated military bloc into Eastern Europe in 1999 and 2004, in the latter case not only the remaining non-Soviet former Warsaw Pact states but three ex-Soviet republics became full members, there are now five NATO nations bordering Russia. Three directly abutting its mainland – Estonia, Latvia and Norway – and two more neighboring the Kaliningrad territory, Lithuania and Poland. Finland, Georgia, Ukraine and Azerbaijan are being prepared to follow suit and upon doing so will complete a belt from the Barents to the Baltic, from the Black to the Caspian Seas. 

The total length of the Berlin Wall separating all of West Berlin from the German Democratic Republic was 96 miles. A NATO military cordon from northeastern Norway to northern Azerbaijan would stretch over 3,000 miles (over 4,800 kilometers). 

As a Russian news commentary recently noted in relation to the U.S. spending $110 million to upgrade two of the seven new military bases the Pentagon has acquired across the Black Sea from Russia, “The installations in Romania and Bulgaria go in line with the program of relocation of American troops in Europe announced on 2004 by then president George Bush. Its main goal is the maximum proximity to Russian borders.” [3]

The wall being erected (and connected) around all of European Russia is not a defensive redoubt, a protective barrier. It is a steadily advancing phalanx of bases and military hardware.

Last month NATO Secretary General Anders Fogh Rasmussen was in Lithuania to inspect the Siauliai Air Base from where NATO warplanes have conducted uninterrupted patrols over the Baltic Sea for over five years, skirting the Russian coast a three-minute flight from St. Petersburg.

New Lithuanian President Dalia Grybauskaite said at the time “We have been assured that NATO is still interested in investing in defence of the Baltic region….I am happy to see the NATO Secretary General here, in Lithuania, in the only and most important NATO air force base in the Baltic states. This is one of the main NATO defence points in the Baltic region.” [4]

In neighboring Poland a newspaper report of last April provided details on the degree of the Alliance’s buildup in the nation:

“NATO’s investments in defense infrastructure in Poland may amount to over 1 euros (4.3 zlotys) billion over the next five years….

“Poland is already the site of the largest volume of NATO investment in the world.

“Currently, construction or modernization work on seven military airports, two seaports, five fuel bases as well as six strategic long-range radar bases is nearing completion. Air defense command post projects in Poznan, Warsaw and Bydgoszcz have already been given the go-ahead, as has a radio communication project in Wladyslawowo.

“New investments will include, among other things, the equipping of military airports in Powidz, Lask and Minsk Mazowiecki with new logistics and defense installations.” [5]

The nation will soon host as many as 196 American Patriot interceptor missiles and 100 troops to man them as well as being a likely site for the deployment of American SM-3 anti-ballistic missile batteries.

As mentioned earlier, Washington and NATO have secured the indefinite use of seven military bases in Bulgaria and Romania, Russia’s Black Sea neighbors, including the Bezmer and Graf Ignatievo airbases in Bulgaria and the Mihail Kogalniceanu airbase in Romania. [6]

Gen. Roger Brady, U.S. Air Forces in Europe commander, was in Romania on October 28 to oversee joint military trainings where “the U.S. Air Force flew about 100 sorties; half of those sorties were flown with the Romanian air force.” [7]

The Pentagon leads annual NATO Sea Breeze exercises in Ukraine in the Crimea where the Russian Black Sea Fleet is based.

It also conducts regular Immediate Response military drills in Georgia, the largest to date ending days before Georgia’s attack on South Ossetia and the resultant war with Russia in August of 2008 and one currently just being completed. This May the U.S. led the annual Cooperative Longbow 09/Cooperative Lancer NATO Partnership for Peace war games in Georgia with 1,300 servicemen from 19 countries. [8] 

The Commanding General of U.S. Army Europe, General Carter F. Ham, was in Georgia a few days ago and “got acquainted with the carrying out of the Georgian-US military training Immediate Response 2009″ which included “visit[ing] the Vaziani Military Base and attend[ing] military training.” [9] 

A Russian official, Dmitry Rogozin, spoke of the joint military exercises, warning that “We all remember that similar activities carried out last year were followed by the August events.” [10]

A Georgian commentary on the drills confirmed Russian apprehensions by reiterating this link:

“Georgia is fighting for peace and stability in Afghanistan in order to eventually ensure peace and stability in Georgia, as one good turn will undoubtedly deserve another in the fullness of time.” [11]. Which is to say, as Georgia assists the U.S. militarily in Afghanistan, so the U.S. will back Georgia in any future conflicts with its neighbors in the Caucasus.

The world press has recently reported on Polish Foreign Minister Radoslaw Sikorski’s three-day visit to the U.S. to among other things “meet with US Secretary of State Hillary Clinton…to discuss Afghanistan and a new US proposal for a missile shield” [12] and attend a conference at the Brookings Institution where he said of the Polish-Swedish-European Union Eastern Partnership program to recruit Armenia, Azerbaijan, Belarus, Georgia, Moldova and Ukraine into the “Euro-Atlantic” orbit and of Moscow’s concerns that the West was moving to take over former Soviet space, “The EU does not need Russia’s consent.” [13]

What created the most controversy, though, was his address at a conference sponsored by the Center for Strategic and International Studies (CSIS) called The United States and Central Europe: Converging or Diverging Strategic Interests?

The main motif of the conference was, of course, the twentieth anniversary of the end of the Cold War as symbolized by the dismantling of the Berlin Wall.

Former U.S. National Security Adviser Zbigniew Brzezinski gave a presentation replete with references to Russia’s alleged “imperial aspirations,” its threats to Georgia and Ukraine and its intent to become an “imperial world power.” [14]

Sikorski, no stranger to Washington, having been resident fellow of the American Enterprise Institute and executive director of the New Atlantic Initiative there from 2002-2005 before returning home to become Poland’s Defense Minister, suggested that recent joint Belarusian-Russian military exercises necessitated stronger NATO commitments in Northeastern Europe. Saying that the Alliance’s Article 5 military assistance obligation – which is why, by the way, there will soon be almost 3,000 Polish troops in Afghanistan – was too “vague” and offered as a more concrete alternative something on the order of the 300,000 U.S. troops stationed in West Germany during the Cold War. [15]

The Polish government has subsequently denied that its foreign minister explicitly called for American troop deployments, and in fact he did not, but his comments are in line with several other recent events and statements. 

For example, Poland revealed in late October that it planned a massive $60 billion upgrading of its armed forces. “Minister of Defense Bogdan Klich announced a plan…to modernize the army within 14 programs: air defense systems, combat and cargo helicopters, naval modernization, espionage and unmanned aircraft, training simulators and equipment for soldiers....

“Klich announced plans to buy new LIFT combat training aircraft, Langust missile launchers, Krab self-propelled howitzers, Homar rocket launchers, as well as several more Rosomak tanks and 30 billion zloty will be spent on army modernization alone.” [16]

The arrival at the same time of the American destroyer USS Ramage and its 250 marines, fresh from NATO war games off the coast of Scotland, “to participate in a military exercise with Polish navy officers,” proves Sikorski’s wishes are not being ignored. [17] Before leaving, the USS Ramage “which was participating in joint US-Polish maneuvers…shelled the coast of Poland, local TV-channel TVN24″ reported. [18] Commander Tom Williamson at the U.S. embassy in Warsaw said “The USS Ramage crew is being interrogated in relation to the case.” [19]

Another American warship that had participated in the NATO naval maneuvers off Scotland, Joint Warrior 09-2, docked in Estonia afterward. The Aegis-equipped guided missile destroyer USS Cole.

The guided-missile frigate USS John L. Hall which included “embarked sailors of Helicopter Anti-Submarine Squadron 48 Detachment 9″ [20] arrived in Lithuania early this month. A U.S. navy officer said of the visit: “We are here as part of the United States Navy’s continuing presence in the Baltic Sea….We are also here to work with the Lithuanian Navy, who has been a valuable partner and our visit here is part of the ongoing relationship between our two countries and our two navies.” [21]

As American warships were demonstrating their “continuing presence in the Baltic Sea,” Estonia’s defense minister affirmed that “NATO has defence plans in the Baltics and they’re being developed” [22], and his Latvian counterpart said, “It is important for Latvia that the new Alliance Strategic Concept will include points about the collective unity for the enforcement of the strategic security in the Baltic Sea region and the common responsibility for the future of Alliance military operations.” [23]

Estonian Defense Minister Jaak Aaviksoo told The Associated Press “that his country sees new threats since Russia’s invasion of Georgia last year and a cyber attack that targeted his country in 2007.

“Aaviksoo plans to meet with U.S. Secretary of Defense Robert Gates” on November 10. [24]

Estonian President Toomas Hendrik Ilves, an American expatriate and former Radio Free Europe operative, offered to hold NATO drills in the Baltic states.

Defense Minister Imants Liegis recently confirmed that “Latvia is to hold large-scale military exercises in summer, in response to the Russian-Belarusian strategic exercises.” [25] Not alone, no doubt.

The above catalogue of military activities and bellicose statements should put to rest sanguine expectations resulting from the end of the Cold War, which never in fact ended but shifted its operations – substantially – eastwards.

Those whose names will be evoked and invoked on November 9 on the occasion of the anniversary of the dismantling of the Berlin Wall didn’t fare well in the immediate aftermath.

Three years afterward Georgia H. W. Bush, even a year after Operation Desert Storm, became only the third American president since the 1800s to lose a reelection bid.

Four year after that Mikhail Gorbachev ran for the Russian presidency and received 0.5% of the vote.

In his last race for the Polish presidency in 2000 Lech Walesa, when his nation’ electorate had finally seen through him, got 1% of the vote.

But he and fellow Cold War heroes of the West march ever onward in confronting Russia during the current phase of the new conflict.

In July, in what they titled An Open Letter to the Obama Administration from Central and Eastern Europe, old/new Cold War champions like Lech Walesa, Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Alexander Kwasniewski and Vaira Vike-Freiberga – Adamkus lived for several decades in the U.S. and Vike-Freiberga in Canada – ratcheted up anti-Russian rhetoric to a pitch not heard since the Reagan administration.

Their comments included:

“We have worked to reciprocate and make this relationship a two-way street. We are Atlanticist voices within NATO and the EU. Our nations have been engaged alongside the United States in the Balkans, Iraq, and today in Afghanistan….[S]torm clouds are starting to gather on the foreign policy horizon.”

“Our hopes that relations with Russia would improve and that Moscow would finally fully accept our complete sovereignty and independence after joining NATO and the EU have not been fulfilled. Instead, Russia is back as a revisionist power pursuing a 19th-century agenda with 21st-century tactics and methods.”

“The danger is that Russia’s creeping intimidation and influence-peddling in the region could over time lead to a de facto neutralization of the region.”

“Our region suffered when the United States succumbed to ‘realism’ at Yalta. And it benefited when the United States used its power to fight for principle. That was critical during the Cold War and in opening the doors of NATO. Had a ‘realist’ view prevailed in the early 1990s, we would not be in NATO today….”

“[W]e need a renaissance of NATO as the most important security link between the United States and Europe. It is the only credible hard power security guarantee we have. NATO must reconfirm its core function of collective defense even while we adapt to the new threats of the 21st century. A key factor in our ability to participate in NATO’s expeditionary missions overseas is the belief that we are secure at home.” [26]

The collective missive also resoundingly endorsed U.S. interceptor missile plans for Eastern Europe and held up the Georgia of Mikheil Saakashvili (another former U.S. resident) as the cause celebre for a new confrontation with Russia.

On September 22 Britain’s Guardian published a similar group Open Letter, this one from Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Mart Laar, Vytautas Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn Bendit, Timothy Garton Ash, André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik and Josep Ramoneda, called Europe must stand up for Georgia, which featured these topical allusions ahead of the seventieth anniversary of the beginning of World War II and the twentieth of the demise of the Berlin Wall:

“As Europe remembers the shame of the Ribbentrop-Molotov pact of 1939 and the Munich agreement of 1938, and as it prepares to celebrate the fall of the Berlin wall and the iron curtain in 1989, one question arises in our minds: Have we learned the lessons of history?”

“Twenty years after the emancipation of half of the continent, a new wall is being built in Europe – this time across the sovereign territory of Georgia.”

“[W]e urge the EU’s 27 democratic leaders to define a proactive strategy to help Georgia peacefully regain its territorial integrity and obtain the withdrawal of Russian forces illegally stationed on Georgian soil….[I]t is essential that the EU and its member states send a clear and unequivocal message to the current leadership in Russia.” [27]

Georgia has become a new Czechoslovakia twice, that of 1938 and of 1968, a new Berlin, a new Poland and so forth. Eastern and Western European figures like the signatories of the above appeal, contrary to what they state, are nostalgic for the Cold War and anxious to launch a new crusade against a truncated and weakened Russia. 

Along with 1990s-style “humanitarian intervention,” such campaigns are their stock in trade.

But the demand for more American military “hard power” in Europe as well as the Caucasus and the expansion of NATO to Russia’s borders may provoke a catastrophe that the continent and the world were fortunate enough to be spared the first time around.

1) Russian Information Agency Novosti, November 6, 2009
2) Quoted by Bill Bradley, Foreign Policy, November 7, 2009
3) Voice of Russia, October 22, 2009
4) President of the Republic of Lithuania, October 9, 2009
5) Warsaw Business Journal, April 20, 2009
6) Bulgaria, Romania: U.S., NATO Bases For War In The East
  Stop NATO, October 24, 2009
  http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/25/bulgaria-romania-u-s-nato-bases-for-war-in-the-east
7) U.S. Air Forces in Europe, October 29, 2009
8) NATO War Games In Georgia: Threat Of New Caucasus War
  Stop NATO, May 8, 2009
  http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/28/nato-war-games-in-georgia-threat-of-new-caucasus-war
9) Trend News Agency, October 28, 2009
10) Rustavi2, October 31, 2009
11) The Messenger, November 3, 2009
12) Deutsche Presse-Agentur, October 28, 2009
13) Polish Radio, November 3, 2009
14) Video
   http://csis.org/multimedia/video-strategic-overview-us-and-central-europe-strategic-interests
15) Audio
   http://csis.org/multimedia/corrected-us-and-central-europe-radoslaw-sikorski
16) Polish Radio October 27, 2009
17) Polish Radio. October 28, 2009
18) Russia Today, October 28, 2009
19) Polish Radio, October 28, 2009
20) United States European Command November 2, 2009
21) Ibid
22) Baltic Business News, October 27, 2009
23) Defense Professionals, October 26, 2009
24) Associated Press, November 2, 2009
25) Russian Information Agency Novosti, November 2, 2009
26) Gazeta Wyborcza, July 15, 2009
27) The Guardian, September 22, 2009

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Stop NATO
http://groups.yahoo.com/group/stopnato



Rifacciamo il muro di Berlino

1) Un altro mito della guerra fredda: la caduta del Muro di Berlino 
(William Blum)
2) Perché erano ormai necessarie le misure adottate a Berlino
La Repubblica democratica tedesca era l'unico paese a tenere senza controllo una parte dei suoi confini - Il provvedimento era stato rimandato per non acuire la tensione. (L'Unità del 14/08/1961)
3) Anna Seghers e la DDR - 1949 - 1989 – 2009
(Davide Rossi)
4) Il muro di Karl 
(Paolo  Pietrini)


Francesco Baccini: Rifacciamo il muro di Berlino

Erich Honecker: Discorso-Autodifesa pronunciato davanti al Tribunale di Berlino

Il muro di Berlino: un altro punto di vista (Adriana Chiaia, Kurt Gossweiler)

La costituzione della Repubblica Democratica Tedesca


=== 1 ===

(en francais: Le mur de Berlin, un autre mythe de la guerre froide
in english at: http://killinghope.org/ or


www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 20-10-09 - n. 291

Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Un altro mito della guerra fredda
  
La caduta del Muro di Berlino
 
di William Blum
 
C’è da aspettarsi che entro poche settimane molti dei media occidentali mettano in moto le loro macchine propagandistiche per commemorare il 20° anniversario della caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989. Tutti i luoghi comuni della guerra fredda sul Mondo Libero contro la tirannia comunista verranno rispolverati e sentiremo per l’ennesima volta la favola del muro e di come è caduto: nel 1961, i comunisti di Berlino Est avevano costruito un muro per impedire ai propri cittadini oppressi di fuggire a Berlino Ovest e verso la libertà. Perché? Perché ai commies (gli sporchi comunisti) non piace che la gente sia libera, ai commies non piace che il popolo apprenda la "verità". Quale altra ragione poteva esserci?
 
Innanzitutto, prima che il muro fosse costruito, migliaia di tedeschi dell'est facevano i pendolari, andando ogni giorno a lavorare nella Germania occidentale e poi tornando all’est ogni sera. Chiaramente non erano imprigionati nella Germania orientale contro la loro volontà. Il muro è stato costruito principalmente per due motivi:
 
I poteri occidentali assillavano la Germania dell’Est con una vigorosa campagna di reclutamento diretta ai loro professionisti e ai loro lavoratori qualificati, cioè le persone che avevano ricevuto una formazione a spese del governo comunista. A lungo andare ciò ha determinato una grave crisi di mano d’opera e di produzione nella Germania orientale. Il New York Times nel 1963 corrobora questa analisi, scrivendo: "Berlino Ovest ha sofferto economicamente dalla costruzione del muro con la perdita di circa 60.000 operai qualificati, che arrivavano tutti i giorni dalle loro case in Berlino Est verso i loro posti di lavoro a Berlino Ovest". (New York Times, 27 giugno 1963, p.12)
 
Nel corso degli anni Cinquanta, i fautori statunitensi della guerra fredda nella Germania Ovest hanno istituito una rozza campagna di sabotaggio e di sovversione contro la Germania dell’Est, ideata per ostacolare i processi economici e amministrativi del Paese. La CIA e altri servizi segreti e gruppi militari degli Stati Uniti hanno reclutato, attrezzato, addestrato e finanziato individui e gruppi di attivisti tedeschi, dell’ovest e dell’est, in modo che essi potessero compiere azioni che andavano dagli atti di terrorismo alla delinquenza minorile; qualunque cosa per rendere la vita difficile alla popolazione della Germania dell’Est e indebolire il loro sostegno al governo – qualunque cosa che metteva i commies in cattiva luce.
 
È stata un impresa notevole. Gli Stati Uniti e i suoi agenti hanno adoperato l'esplosivo, l’incendio doloso, i cortocircuiti e altri metodi per danneggiare le centrali elettriche, i cantieri navali, i canali, le zone portuali, gli edifici pubblici, le stazioni di benzina, i trasporti pubblici, i ponti, ecc; hanno deragliato treni merci, ferendo gravemente dei lavoratori; hanno bruciato 12 vagoni di un treno e hanno distrutto i manicotti di aria compressa di altri; hanno usato degli acidi per danneggiare le macchine di vitale importanza nelle fabbriche; hanno messo della sabbia nella turbina di una fabbrica in modo che non potesse funzionare; hanno incendiato uno stabilimento dove venivano prodotte tegole; hanno istigato degli scioperi bianchi nelle fabbriche; hanno ucciso 7.000 mucche di un caseificio cooperativo con l'avvelenamento; hanno messo sapone nel latte in polvere destinato alle scuole della Germania dell’Est; alcuni sono, al momento dell'arresto, erano in possesso di una grande quantità di veleno Cantharidin, che avrebbero usato nella produzione di sigarette per avvelenare personaggi di spicco della Germania dell'Est; hanno fatto esplodere bombette puzzolenti per interrompere riunioni politiche; hanno tentato di bloccare il Festival Mondiale della Gioventù a Berlino Est, con l'invio di inviti falsi, false promesse di vitto e alloggio gratis, false comunicazioni di cancellazione, ecc; hanno aggredito i partecipanti al Festival con esplosivi, bombe incendiarie, hanno forato le gomme delle loro auto; hanno contraffatto e distribuito grandi quantità di tessere per il razionamento del cibo per creare confusione, indurre all'accaparramento di genere alimentari, e provocare risentimento; hanno contraffatto e inviato cartelle d’imposta, hanno falsificato e inviato direttive governative e altri documenti per produrre disorganizzazione e inefficienza all'interno dell'industria e nei sindacati ... tutto questo e molto altro ancora. (Cfr. Killing Hope, p.400, nota a piè pagina n. 8, per un elenco delle fonti relativi agli atti di sabotaggio e di sovversione.)
 
Durante tutti gli anni Cinquanta, i tedeschi dell'Est e l'Unione Sovietica hanno più volte presentato denunce ai paesi occidentali, che pochi anni prima erano stati alleati dei sovietici, e alle Nazioni Unite contro degli specifici atti di sabotaggio e specifiche attività di spionaggio e hanno chiesto la chiusura degli uffici nella Germania occidentale che ritenevano responsabili, con nomi e indirizzi. Le loro denunce sono rimaste inascoltate. Inevitabilmente, i tedeschi dell'Est hanno istituito più controlli sulle persone provenienti dall’Ovest.
 
Non dimentichiamo che l'Europa dell’Est è diventata comunista perché Hitler, con l'approvazione dei paesi occidentali, l’aveva utilizzata come strada per raggiungere l'Unione Sovietica e distruggere per sempre il bolscevismo. Alla fine della guerra i sovietici erano determinati a chiudere quella strada.
 
Nel 1999, il giornale USA Today ha riferito: "Quando il Muro di Berlino è caduto, i tedeschi dell'Est immaginavano una vita di libertà in cui i beni di consumo sarebbero stati abbondanti e i disagi sarebbero svaniti. Dieci anni più tardi, oltre il 51% degli abitanti sostengono che erano più felici con il comunismo." (USA Today, 11 ottobre 1999, p.1.)
 
All'incirca nello stesso periodo è nato un nuovo proverbio russo: "Se quello che dicevano i comunisti sul comunismo non era vero, tutto quello che hanno detto del capitalismo si è rivelato fondato".
 
William Blum è l’autore di Killing Hope: US Military and CIA Interventions Since World War II (Uccidere la Speranza: gli Interventi Statunitensi Militari e Spionistici Dalla Fine della Seconda Guerra Mondiale); di Rogue State: a Guide to the World's Only Super Power (Stato Canaglia: una Guida all’Unica Superpotenza del Mondo); e di West-Bloc Dissident: a Cold War Political Memoir (Un Dissidente del Blocco Ovest: una Biografia Politica della Guerra Fredda).
 
Si può contattarlo all'indirizzo: BBlum6 @ aol.com
 

=== 2 ===

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 29-10-09 - n. 293

da L'Unità del 14/08/1961
 
Dopo una lunga attesa e numerose proposte rivolte alle potenze occidentali
 
Perché erano ormai necessarie le misure adottate a Berlino
 
La Repubblica democratica tedesca era l'unico paese a tenere senza controllo una parte dei suoi confini - Il provvedimento era stato rimandato per non acuire la tensione.
 
Berlino, 13/08
 
Le odierne misure adottate dal governo della RDT, in accordo con i paesi del Trattato di Varsavia sono di una legittimità evidente.
In effetti non si vede come si possa negare ad uno stato sovrano come ls RDT il diritto – e qui sta il nocciolo giuridico della questione – di prendere alle proprie frontiere i provvedimenti che ritiene più opportuni. Ma il problema non è solo giuridico e il diritto di cui si è detto non è soltanto tale è anche una necessità, giacché non si ha notizia di paesi che tengano sguarnita e priva di ogni garanzia e di ogni controllo una parte dei loro confini.
 
Se le misure sono state rinviate sino ad oggi è stato soltanto per non apportare altri elementi di tensione ad una situazione tutt'altro che semplice. Ma ormai la misura era veramente colma. «Abbiamo voluto operare col massimo di pazienza», ha detto un funzionario governativo.
 
Da quasi tre anni il problema di Berlino Ovest è stato posto sul tappeto, da quando cioè nel novembre del 1958 il governo di Mosca inviò alle potenze occidentali una nota con la quale proponeva una trattativa per eliminare i resti della seconda guerra mondiale e trasformare Berlino Ovest in città libera e smilitarizzata. La anormalità della situazione berlinese, si noti, venne ammessa da varie personalità occidentali, ma le proposte sovietiche furono lasciate cadere.
 
La conferenza di Ginevra del 1959 si concluse senza accordo. Nel giugno di quest'anno il primo ministro sovietico ha di nuovo sottolineato l'urgenza di raggiungere un accordo per allontanare i pericoli che con il passare del tempo venivano addensandosi minacciando la pace mondiale. Ma anziché avanzare proposte – Mosca come noto aveva lasciato un margine di sei mesi per negoziare – gli occidentali sciolsero le briglie alle centrali della propaganda anticomunista della provocazione e dello spionaggio operanti a Bonn e a Berlino Ovest.
 
La campagna per attirare gente dell'Est all'Ovest raggiunse una inaudita intensità, tutti gli strumenti del terrorismo morale e del ricatto materiale vennero posti in opera. Adenauer e i suoi ministri si diedero a parlare quasi ogni giorno ai cittadini della RDT come a propri sudditi dicendo loro quel che dovevano e non dovevano fare.
 
Alla radio e alla televisione gli annunciatori e i commentatori si rivolgono alla RDT ammonendo, consigliando ed incoraggiando. Ancora ieri il ministro Lemmer – dal quale dipendono tutte queste attività – annunciava ai cittadini della RDT che in aggiunta a quelle del campo di Marienfelde sarebbero state erette numerose e vaste baracche anche nello stadio di Berlino Ovest per raccogliere i «profughi».
 
A tutte le proposte sovietiche l'occidente ha risposto negativamente respingendo l'invito dell'URSS di aprire una discussione. Tutte le denuncie e i richiami all'Occidente a non violare gi accordi quadripartito sulla Germania e su Berlino sono stati tenuti in non cale. Tutti gli accordi sono stati sistematicamente violati.
 
Gli occidentali hanno unilateralmente spezzato la Germania creando la repubblica di Bonn; hanno lacerato gli impegni presi contro la rinascita del militarismo tedesco, contro la rinascita delle concentrazioni industriali e finanziarie dell'imperialismo tedesco. Hanno creato la Bundeswehr e la riforniscono di armi atomiche. Di Berlino Ovest hanno fatto un avamposto del militarismo, una base di attività di spionaggio e di provocazione.
 
E oggi proprio la propaganda occidentale osa accusare la RDT e l'URSS di violazione dei trattati. Ma a questo punto non sarà male ricordare che Berlino Ovest anzitutto non fa giuridicamente parte della Repubblica Federale, che allorché gli alleati conclusero gli accordi sull'occupazione della Germania, Berlino non fu staccata dalla zona di occupazione: si richiesero soltanto una occupazione e una amministrazione comuni nel suo territorio. A Berlino, come in tutta la Germania, l'occupazione da parte delle potenze vittoriose aveva uno scopo preciso e dichiarato: assicurare la rinascita di una Germania democratica e pacifica, denazificata e smilitarizzata.
 
Nelle zone occidentali questi impegni sono stati grossolanamente violati e proprio grazie al regime di occupazione delle tre potenze è stato fatto rinascere il militarismo tedesco e Berlino Ovest ne è diventata una delle principali basi. Parlare a questo punto di violazioni dei trattati da parte dell'URSS è evidentemente assurdo.
 
Ove l'Occidente tentasse con simili pretesti di aggravare la situazione con misure provocatorie anziché di porsi finalmente sul terreno del negoziato, assumerebbe di fronte al mondo una terribile responsabilità.
 
Mai come oggi è apparsa tanto urgente una trattativa che regoli finalmente i problemi ancora aperti, da sedici anni, dalla fine della seconda guerra mondiale.
 
G.C.


=== 3 ===

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 05-10-09 - n. 289

Anna Seghers e la DDR - 1949 - 1989 – 2009
 
03/10/2009
 
di Davide Rossi
 
Enzo Collotti ha tracciato nel ’92 in una pagina del libro dedicato proprio al passaggio “Dalle due Germanie alla Germania unita” per Einaudi un ritratto brevissimo eppure preciso e puntuale di Anna Seghers e del suo rapporto con la DDR. Scrive Collotti: al VII congresso dell’unione degli scrittori della DDR, che si svolse a Berlino nel novembre del 1973, …, in Anna Seghers, amata e rispettata figura del vecchio umanesimo antifascista che era stato il sigillo primo della rinascita culturale della DDR, era presente la tensione tra una scelta ideale, che era una vera e propria scelta di vita, e il dialogo con le generazioni più giovani. Del resto la dichiarazione di identificazione con la DDR contenuta nelle parole della Seghers, insieme alla risonanza delle difficoltà che avevano rafforzato i vincoli con la DDR, era più che legittima: “con il nostro lavoro abbiamo partecipato ala costruzione del nostro stato. Con il nostro lavoro festeggiamo la sua esistenza spesso negata, spesso contestata, spesso diffamata, finalmente riconosciuta dal mondo, ora venticinquennale.”
 
Noi del centro studi, in questo anno in cui ricorrono il 60° anniversario della nascita della DDR avvenuta il 7 ottobre 1949 e il 20° della caduta del muro (9 novembre 1989), constatiamo come prevalga ancora e sempre l’atteggiamento ideologico della guerra fredda che in Occidente ha come solo obiettivo la criminalizzazione di quella esperienza e di quella nazione. È una constatazione sconfortante ma inevitabile. Berlino è stata uno dei luoghi principali della guerra fredda, il suo cuore e il suo centro. È stato anche il luogo, non solo simbolico, della vittoria dell’Occidente che ha utilizzato le armi della propaganda, del consumismo e della pubblicità per attaccare e ridicolizzare l’esperienza socialista, la quale seppur tra mille contraddizioni e difficoltà si sviluppava nell’altra parte di città che era capitale della DDR.
 
Avremo modo di ritornare in maniera ampia e articolata, in dibattiti pubblici e in forma scritta per esprimere il nostro pensiero. Valgano - per tutte - tre considerazioni. Al di là della propaganda di allora che anche in campo ambientalista leggeva nei paesi dell’est e nella DDR dei mostri ecologici, l’emergere di analisi e ricerche serie ed approfondite sta portando ad una totale rivalutazione delle scelte ecologiche della DDR. Una legislazione stringente contro l’inquinamento, la raccolta differenziata praticata a Berlino e largamente diffusa nel resto della nazione e ad esempio allora sconosciuta a Berlino Ovest, la prevalenza del trasporto pubblico, metro, bus, treni, su quello decisamente più inquinante di automobili e automezzi privati.
 
Secondo punto: la solidarietà internazionale, non indifferente alla luce di un presente, nel 2009, in cui le disuguaglianze tra nord e sud del mondo sono uno dei temi centrali della crisi del pianeta.
 
La DDR sosteneva gli esuli cileni, sudamericani e di larga parte del mondo, dando loro ospitalità lavoro e accesso agli studi universitari. In Cile ancor oggi vi sono donne e uomini che vivono grazie all’integrazione della pensione che viene loro da quanto ricevuto dopo 15 anni di lavoro in DDR. Per non parlare del caffé nicaraguese, dello zucchero cubano, di una rete di scambi economici internazionali fondata sul giusto prezzo (anche in questo caso praticata ben prima della nascita in Occidente del commercio equo e solidale), sul rispetto dei popoli e sul loro diritto a poter vivere, crescere, studiare, svilupparsi senza dover emigrare.
 
Terza considerazione, i diritti civili. Nella DDR a partire dai primissimi anni ’60 si sviluppa una campagna di educazione sessuale, di rispetto della sessualità dei giovani e del loro diritto ad avere fin dalla adolescenza rapporti sessuali prematrimoniali, fatti del tutto inimmaginabili nella bacchettona Europa occidentale dell’epoca. Per non dire dei diritti alla pillola anticoncezionale, al divorzio, allora ottenibile in tempi brevi e di fatto gratuito, e all’aborto.
 
Da ultimo doloroso per la coscienza europea, ma da ripetere e da considerare, la DDR aveva cacciato docenti, funzionari pubblici e militari nazisti, i quali hanno facilmente trovato collocazione, in molti casi, ancora nelle scuola, nelle università, nei ministeri e nell’esercito, ovviamente della Repubblica Federale Tedesca e in alcuni casi dell’Austria.
 
L’autodifesa del 1992 di Erich Honecker, che si trova in traduzione italiana su internet [ http://digilander.libero.it/lajugoslaviavivra/CRJ/DOCS/honeck.html ] è un testo da leggere con attenzione e che in taluni passaggi sottolinea verità incontestabili.
 
Sono quindi molte le ragioni per portare rispetto ad un’esperienza che non ha luci o ombre superiori o inferiori a quelle delle nostre democrazie, sempre più precarie nel rispetto dei diritti, civili e sociali, e che diventano del tutto imbarazzanti quando pretendono di esportare “la democrazia” a mano armata in giro per il mondo, con un fine neppure troppo occulto che è quello di impadronirsi delle materie prime di quei popoli.
 
La DDR è stata una parte importante della storia del movimento socialista del Novecento. Noi del centro studi “Anna Seghers” cerchiamo di unire memoria e ricerca storica con la serietà, l’impegno e la determinazione che sempre più tante persone e tanti studiosi, di pensieri e orientamenti politici differenti, ci riconoscono.
 
3 ottobre 2009
 
Davide Rossi, direttore del Centro Studi “Anna Seghers”(www.annaseghers.it)
 

=== 4 ===

Il muro di Karl 

                                             A Karl  prof. emerito della DDR  
  
C’era il Muro, mi dicevi Karl,
il muro di un mondo diviso,  
speranza di uomini uniti. 
C’ era il Muro, mi dicevi Karl,
la dignità degli oppressi,
la libertà degli uguali,   
la parte giusta della Storia.
Il Muro in pezzi è all’asta
il mondo in pezzi combatte 
cento guerre della pace calda.
I padroni del mondo offrono 
libertà di crepare ai dannati
della terra e galloni dorati 
ai loro eterni domestici,
esportano la democrazia 
delle bombe intelligenti, 
mungono pozzi e gasdotti
con i loro affari di morte.
Colonne di nuovi schiavi 
alzano piramidi inutili 
alla gloria del Mercato,
bevono illusioni e coca cola 
nelle miniere di cemento 
delle città saccheggiate, 
incatenati da ceppi catodici 
ai teleschermi di Goebbels.
Avevi ragione, Karl, c’era 
il Muro, la dignità degli uguali,  
speranza di uomini uniti.  
Ricostruiamo il Muro, Karl, 
il muro degli uomini in lotta,
la parte giusta della Storia. 
                 

                        Novembre  1999  

                              Paolo  Pietrini   
                               e-mail:  paulpierre @ libero.it   

(segnalato da A. Chiaia)



(english / francais.
Voir aussi / read also / sullo stesso argomento:
http://tv.repubblica.it/copertina/clinton-eroe-del-kosovo/38586?video&ref=hpmm
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6554 )

Bill Clinton inaugure sa propre statue à Pristina

1) Clinton unveils statue to (guess who?) in Kosovo
2) Kosovo : Bill Clinton inaugure sa propre statue à Pristina
3) Former President Clinton unveils statue in Kosovo
4) Bill Clinton in Kosovo to unveil statue


=== 1 ===

http://russiatoday.com/Politics/2009-11-02/clinton-unveils-statue-kosovo.html/print

Russia Today - November 2, 2009

Clinton unveils statue to (guess who?) in Kosovo

Robert Bridge


Albanians on Sunday jammed into Pristina’s main square to welcome Bill Clinton, the guest of honor at his statue-unveiling ceremony commemorating the former US president's role in the Yugoslavian war of 1999.

“I never expected that anywhere, someone would make such a big statue of me,” Clinton told the cheering crowd after removing a red cover over the monument, revealing a bronze likeness of himself, thus proving that not all commissioned works of art are awarded posthumously.

Clinton’s live appearance next to his larger-than-life metal replica is the latest effort by Kosovo – which is commemorating the 10-year anniversary of NATO’s war against Yugoslavia – to attract international attention to its quest for formal independence.

Kosovo unilaterally declared its independence from Serbia last year, but Serbia has vowed never to recognize the statehood of the breakaway territory. Meanwhile, the province continues to be administered by NATO forces.

The visiting former US president then drew attention to his wife Hillary Clinton, the U.S. Secretary of State.

“This morning when I talked to my wife, she said I had to make a photograph in front of it [the statue] and send it to her to make sure it was true and I didn’t make the whole thing up.”

The bronze statue, which stands 3.5 meters (11 feet), depicts the former American president with his left arm raised while holding documents bearing the date when NATO launched its aerial bombardment of Yugoslavia – 24 March, 1999 – a date that lives in infamy for some and in victory for others.

The statue sits in front of an unremarkable apartment complex on, you guessed it, Bill Clinton Boulevard.

Not everybody jubilant

On March 24, 1999, NATO – and without full consent of the UN Security Council – launched an attack on the government of Yugoslavian President Slobodan Milosevic over claims of heavy-handedness against Kosovo’s majority Albanians.

In the moments leading up to the NATO attack, Bill Clinton was fighting for his political life amidst an embarrassing sex scandal involving a young intern named Monica Lewinsky; scoring an easy victory in Yugoslavia was one way to divert public attention away from the scorching issue. Thus, Clinton's refusal to authorize ground troops in and around Kosovo.

In other words, by relying solely on an aerial bombardment to “liberate” Kosovo, the US president was guaranteed a big political win with minimal losses for US troops.

Over the course of the 10-week conflict, NATO aircraft flew over 38,000 combat missions; even the German Luftwaffe had its first taste of combat over the skies of Yugoslavia since having its wings clipped in World War II.

The ensuing 78-day aerial bombardment campaign, which grew continuously more aggressive and reckless, spared little infrastructure: factories, bridges, roads and power stations were all bombed with deadly accuracy. As a result, thousands of innocent civilians suffered great deprivation on both sides of the battle.

The Cold War military bloc even knocked out Serbia’s state television broadcasting tower, which observers point to as a direct breach of Geneva Convention rules, which provides for the ability of combatants to have the freedom to “express themselves” in wartime.

Despite NATO pledges that the war would be “a clean one,” the aerial campaign proved that a military strategy of “surgical strikes” can never be implemented without fatal flaws.

In perhaps the worst public relations disaster for NATO during the conflict, five US “smart” bombs severely damaged the Chinese Embassy in Belgrade, killing three Chinese journalists. NATO officials, in an effort to cool Chinese outrage, blamed the error on outdated maps. Chinese officials rejected both the apologies and explanations.

About the same time, a NATO fighter jet, believing it had discovered a Yugoslav military convoy, hit a bus carrying Albanian refuges instead, killing 50 civilians.

It has been estimated that about 200 Kosovo civilians were indiscriminately killed by NATO forces, while Human Rights Watch was able to verify 500 civilian deaths in Yugoslavia (that is, outside Kosovo).

The hostilities came to an end on June 10, 1999 when Milosevic accepted the conditions of surrender.

Needless to say, NATO's “illegal” bombing campaign – the first military conflict in its history – sparked an outpouring of international criticism, and was especially unpopular in Russia where talk of defending the “Slavic brotherhood” filled the air.

The tension spilled over at the end of March 1999 when a gunman driving a stolen vehicle attempted to fire a grenade launcher at the US embassy in Moscow during a public protest of the facility. Then-president Boris Yeltsin ordered an investigation into the incident and three men were later arrested.

What next for Kosovo?

Some people are wondering why Kosovo chose this particular moment to dedicate a public memorial to a still living, breathing, former American president. After all, such honors are usually paid posthumously.

One good reason is that Kosovo is presently fighting something of a public relations war against Serbia in its bid for independence.

The United States and a number of other western countries have supported Kosovo’s claims to independence, whereas other countries, including China, India and Russia, continue to regard Kosovo as an integral part of Serbia.

Russia announced that it will support Serbia’s case in an upcoming UN court hearing on the legitimacy of Kosovo’s declaration of independence, Foreign Minister Sergey Lavrov announced last month.

“We will insist that international law and UN Security Council decisions be respected and any unilateral decisions running counter to the UN Charter and OSCE principles be avoided,” Lavrov said following talks with his Serbian counterpart, Vuk Jeremic.

Belgrade brought Kosovo’s unilaterally declared independence to the UN’s International Court of Justice in The Hague where a case will open on Dec. 1.

Remembering the Pristina dash

In the context of the Yugoslavian war, Russians will always remember Pristina for something else besides a bronze tribute to the former American president Bill Clinton, for Pristina is the place where Russia staked everything on securing a peacekeeping sector for itself outside of NATO command.

On June 11-12, about 200 Russian SFOR troops stationed in Bosnia made a spectacular dash through Belgrade into Kosovo after Serbian troops began their withdrawal and, more importantly, after Russia got the word that it would not receive its own peacekeeping sector.

The result was that Russia, much to the consternation of NATO leaders (most notably, US General Wesley Clark who, upon ordering the British to block the approaching Russian tanks, was told by British General Michael Jackson, "I will not start World War III for you.") became the first official peacekeeping force in Kosovo – ahead of advancing NATO troops. The audacious gesture reinforced Russia’s image as Serbia’s “blood ally” that will always be there through good or bad.

And perhaps even longer than a bronze statue in the public sqaure.

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Stop NATO
http://groups.yahoo.com/group/stopnato


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BIRN

Kosovo : Bill Clinton inaugure sa propre statue à Pristina


Traduit par Philippe Bertinchamps
Mise en ligne : dimanche 1er novembre 2009
En visite ce dimanche à Pristina pour l’inauguration d’une statue en son honneur, le Président Bill Clinton a déclaré que son échec au Rwanda l’avait conduit à une intervention rapide au Kosovo.

Par Lawrence Marzou

Le Président Bill Clinton a déclaré que le sentiment de culpabilité dû à son échec à stopper le génocide au Rwanda a conduit les USA à une intervention rapide au Kosovo.

L’ancien Président américain a fait cette déclaration lors d’un discours devant le Parlement du Kosovo ce dimanche. Il s’était déplacé au Kosovo pour l’inauguration d’une statue en son honneur.

Il s’est dit être tellement préoccupé par la Bosnie qu’il a « manqué » le massacre des Tutsis par leurs voisins hutus en 1994 : « J’ai manqué le génocide du Rwanda. En 90 jours, c’était fini ».

« Cela explique pourquoi nous avons été si prompts à intervenir ici », a-t-il ajouté.

Il a également affirmé que les progrès du Kosovo étaient au-delà de toute attente : « Vous avez fait mieux que ce à quoi vos ennemis s’attendaient. Mais vous avez aussi fait mieux que ce à quoi vos amis s’attendaient ».

Une statue de l’ancien président Bill Clinton a été inaugurée en sa présence ce dimanche à Pristina.

Bill Clinton est considéré comme un héros parmi les Albanais du Kosovo en raison de son soutien à l’intervention militaire de l’OTAN en 1999.


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http://www.google.com/hostednews/ap/article/ALeqM5ha8MuMrIGkjBIisRvRF45wyT4DGQD9BMPOPO2

Associated Press - November 1, 2009

Former President Clinton unveils statue in Kosovo

By NEBI QENA 

PRISTINA, Kosovo: Thousands of ethnic Albanians braved low temperatures and a cold wind in Kosovo's capital Pristina to welcome former President Bill Clinton on Sunday as he attended the unveiling of an 11-foot (3.5-meter) statue of himself on a key boulevard that also bears his name.

Clinton is celebrated as a hero by Kosovo's ethnic Albanian majority for launching NATO's bombing campaign against Yugoslavia in 1999....

This is his first visit to Kosovo since it declared independence from Serbia last year.

Many waved American, Albanian and Kosovo flags and chanted "USA!" as the former president climbed on top of a podium with his poster in the background reading "Kosovo honors a hero."

Some peeked out of balconies and leaned on window sills to get a better view of Clinton from their apartment blocks.

To thunderous applause Clinton waved to the crowd as the red cover was pulled off from the statue.

The statue is placed on top of a white-tiled base, in the middle of a tiny square, surrounded by communist-era buildings.

"I never expected that anywhere, someone would make such a big statue of me," Clinton said of the gold-sprayed statue weighing a ton (900 kilograms).

He also addressed Kosovo's 120-seat assembly, encouraging them to forgive and move on from the violence of the past.

The statue portrays Clinton with his left arm raised and holding a portfolio bearing his name and the date when NATO started bombing Yugoslavia, on March 24, 1999.

An estimated 10,000 ethnic Albanians were killed during the Kosovo crackdown and about 800,000 were forced out of their homes. They returned home after NATO-led peacekeepers moved in following 78 days of bombing.

Leta Krasniqi, an ethnic Albanian, said the statue was the best way to express the ethnic Albanians' gratitude for Clinton's role in making Kosovo a state.

"This is a big day," Krasniqi, 25 said. "I live nearby and I'm really excited that I will be able to see the statue of such a big friend of ours every day."

Clinton last visited Kosovo in 2003 when he received an honorary university degree. His first visit was in 1999 — months after some 6,000 U.S. troops were deployed in the NATO-led peacekeeping mission here.

Some 1,000 American soldiers are still based in Kosovo as part of NATO's 14,000-strong peacekeeping force.

Police in Kosovo upped security measures ahead of Bill Clinton's arrival by adding deploying more traffic police and special police.

NATO officials said the peacekeepers were also on alert, although no additional security measures were taken.


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http://www.euronews.net/2009/11/01/bill-clinton-in-kosovo-to-unveil-statue/

Euronews - November 1, 2009

Bill Clinton in Kosovo to unveil statue


Link: http://www.euronews.net/2009/11/01/bill-clinton-in-kosovo-to-unveil-statue


A statue of Bill Clinton has been unveiled in Kosovo in the presence of the former US President himself. 

Clinton is considered a hero by Kosovo’s ethnic Albanian majority for launching the NATO airstrikes that stopped a Serb crackdown, 10 years ago. 

He told the thousands who braved bitter temperatures in Pristina to see him: 

“I never expected that anywhere someone would make such a big statue of me. And this morning, when I talked to my wife who said to tell you ‘hello’, she said I had to make a photograph in front of this and send it to her to make sure it was true and I did not make this whole thing up.” 

The US is one of dozens of countries to have recognised Kosovo’s self-declared independence. Some other nations including Russia still see it as a province of Serbia. 

That argument aside, the statue means Bill Clinton’s contribution to Kosovo’s history will never be forgotten.