Informazione




Al Consiglio superiore della magistratura
 
Al Consiglio della magistratura militare
 
Loro sedi
 
 
Premessa

Nell’ambito della missione Pesd in Kosovo, il Ministero per gli affari esteri ha chiesto la disponibilità di magistrati ordinari e militari. A quella richiesta (cd. call for contribution), è stato dato corso offrendo ai magistrati la possibilità di partecipare alla selezione.
Lo scopo del presente quesito – nel rispetto per le scelte individuali dei singoli magistrati e per le loro professionalità – è richiamare l’attenzione su alcune caratteristiche della missione Pesd in Kosovo, e sollevare alcune perplessità giuridiche e istituzionali. La missione in Kosovo, che la nota del Ministero per gli affari esteri del 14.1.2008 qualifica per dimensione «superiore ad ogni altra operazione civile Pesd in corso», si inserisce in una crisi locale ma con ampie ripercussioni internazionali. Esiste la possibilità che quella missione leda principi del diritto internazionale e del diritto italiano.

 
La posizione dell’Unione Europea

Il Consiglio dell’Unione Europea il 10.4.2006 ha previsto «a possible EU crisis management operation in the field of rule of law and possible other areas in Kosovo», con l’obiettivo di una pianificazione in vista di una transizione in Kosovo, e precisamente di «a smooth transition between selected tasks of the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Unmik) and a possible EU crisis management operation in the field of rule of law and other areas»[1].

Successivamente, il 14.9.2006 il Consiglio dell’Unione Europea ha istituito un gruppo di lavoro in vista di una successiva missione in Kosovo[2].

Il 4.2.2008 il Consiglio dell’Unione Europea, nominando lo European Union Special Representative (Eusr) in Kosovo, ha stabilito: «The mandate of the Eusr shall be based on the policy objectives of the EU in Kosovo. These include to play a leading role in strengthening stability in the region and in implementing a settlement defining Kosovo's future status, with the aim of a stable, viable, peaceful, democratic and multi-ethnic Kosovo, contributing to regional cooperation and stability, on the basis of good neighbourly relations; a Kosovo that is committed to the rule of law and to the protection of minorities, and of cultural and religious heritage»[3].

Il 4.2.2008 il Consiglio dell’Unione Europea ha anche istituito la European Union Rule of Law Mission in Kosovo, Eulex Kosovo, stabilendone i compiti: «Eulex Kosovo shall assist the Kosovo institutions, judicial authorities and law enforcement agencies in their progress towards sustainability and accountability and in further developing and strengthening an independent multi-ethnic justice system and multi-ethnic police and customs service, ensuring that these institutions are free from political interference and adhering to internationally recognised standards and European best practices»[4].

Il 16.2.2008 il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso l’inizio della European Union Rule of Law Mission in Kosovo, Eulex Kosovo. Secondo il provvedimento, «The mission, which will be conducted under the European security and defence policy (Esdp), will assist Kosovo authorities, judicial authorities and law enforcement agencies in their progress towards sustainability and accountability and in further developing and strengthening an independent multi-ethnic justice system and multi-ethnic police and customs service, ensuring that these institutions are free from political interference and adhering to internationally recognised standards and European best practices»[5].

Nessuno di questi provvedimenti dell’Unione Europea fa esplicito riferimento alla creazione di uno Stato del Kosovo, ma con la promessa di assistenza – in cui si nomina il Kosovo ma non la Serbia, da cui il Kosovo il 16.2.2008 ancora non aveva dichiarato l’indipendenza – per la creazione di sistemi indipendenti nel campo giudiziario, doganale e di polizia, i provvedimenti dell’Unione Europea hanno oggettivamente incoraggiato il distacco del Kosovo.

Un documento importante in tema di strategia di sicurezza europea, e quindi in tema di Pesd, è Un’Europa sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di sicurezza, Bruxelles 12.12.2003[6] (noto anche come «documento Solana»), a cura dell’Ufficio del segretario generale del Consiglio dell’Unione Europea e alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. A proposito dei Balcani, vi si legge: «Grazie ai nostri sforzi in concertazione con gli Stati Uniti, la Russia, la Nato e altri partner internazionali, la stabilità della regione non è più minacciata dall'incombere di un grave conflitto», e «Dovremo continuare a lavorare per rendere più strette le nostre relazioni con la Russia, che rappresenta una componente di primaria importanza per la nostra sicurezza e la nostra prosperità». Ma più in generale il documento dice: «Siamo impegnati nella salvaguardia e nello sviluppo del diritto internazionale. Il quadro fondamentale in cui si collocano le relazioni internazionali è la Carta delle Nazioni Unite. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha la responsabilità primaria del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Rafforzare le Nazioni Unite e dotarle dei mezzi necessari perché esse assolvano alle loro responsabilità e agiscano con efficacia rappresenta una priorità dell'Europa». La missione Pesd in Kosovo, malgrado ciò che il documento Solana si riprometteva, non è stata concertata con la Russia, ed anzi gravi frizioni proprio con la Russia sono seguite alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo ed al suo riconoscimento da parte di alcuni Stati europei. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu non è stato coinvolto prima della dichiarazione di indipendenza del Kosovo, e l’integrità territoriale della Serbia ha subìto un’offesa, con compromissione del diritto internazionale e delle relazioni internazionali.

 

Il dovere della pace

Già dopo la prima guerra mondiale, il Trattato di Versailles del 28 giugno 1919[7], all’art. 227, accusando l’imperatore di Germania di «Supreme offence against international morality and the sanctity of treaties», tratteggia il crimine contro la pace. Prevedendo a suo carico un processo – mai svolto – il Trattato impone: «In its decision the tribunal will be guided by the highest motives of international policy, with a view to vindicating the solemn obligations of international undertakings and the validity of international morality. It will be its duty to fix the punishment which it considers should be imposed».
Successivamente – dopo il tentativo costituito dal progetto Shotwell, Outlawry of Aggressive War – il Trattato di Parigi del 27 agosto 1928[8] (cd. Patto Kellogg-Briand) afferma la proibizione assoluta della guerra come strumento di politica. Nelle premesse del Trattato (Treaty between the United States and other Powers providing for the renunciation of war as an instrument of national policy) gli Stati aderenti si dichiarano «Deeply sensible of their solemn duty to promote the welfare of mankind», e convinti che sia tempo di una «frank renunciation of war as an instrument of national policy» e che «all changes in their relations with one another should be sought only by pacific means and be the result of a peaceful and orderly process». All’art. 1 le parti dichiarano solennemente a nome dei loro popoli di condannare il ricorso alla guerra («The High Contracting Parties solemly declare in the names of their respective peoples that they condemn recourse to war for the solution of international controversies, and renounce it, as an instrument of national policy in their relations with one another»). Al Trattato di Parigi aderiscono oltre sessanta Stati, fra cui l’Italia, che gli dà esecuzione con il r.d.l. 31.1.1929 n. 154.

Lo statuto del Tribunale militare internazionale (cd. Tribunale di Norimberga), allegato all’atto che lo istituisce, ossia all’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, prevede, oltre ai crimini di guerra ed a quelli contro l’umanità, i crimini contro la pace. Li definisce l’art. 6 (a): «Crimes against peace: namely, planning, preparation, initiation or waging of a war of aggression, or a war in violation of international treaties, agreements or assurances, or participation in a common plan or conspiracy for the accomplishment of any of the foregoing».

La sentenza di Norimberga definisce la guerra essenzialmente un male, e insiste sul fatto che la guerra di aggressione non è solo un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo. Secondo la sentenza, «War is essentially an evil thing. Its consequences are not confined to the belligerent states alone, but affect the whole world. To initiate a war of aggression, therefore, is not only an international crime; it is the supreme international crime differing only from other war crimes in that it contains within itself the accumulated evil of the whole». (così Judgment of the International Military Tribunal for the Trial of German Major War Criminals - The Common Plan or Conspiracy and Aggressive War).

Con la risoluzione 95 dell’11.12.1946[9] l’Assemblea generale dell’Onu ha confermato i principi di diritto internazionale riconosciuti dallo statuto del Tribunale militare internazionale, cd. Tribunale di Norimberga («affirms the principles of international law recognized by the Charter of the Nürnberg Tribunal»). Inoltre, su incarico dell’Assemblea generale (risoluzione 177 del 21.11.1947[10]), nel 1950 la Commissione di diritto internazionale dell’Onu ha stabilito il testo dei Principi di diritto internazionale riconosciuti nello statuto e nel giudizio del Tribunale di Norimberga (cd. Nürnberg principles, Principi di Norimberga).

L’Assemblea generale dell’Onu (risoluzione 488 del 12.12.1950[11]) ha preso atto dei Nürnberg principles e ha incaricato la Commissione di predisporre il Draft Code of offences against the peace and security of mankind. Il Draft Code è stato predisposto nel 1954. L’art. 1 ribadisce la responsabilità delle persone fisiche: «Offences against the peace and security of mankind, as defined in this Code, are crimes under international law, for which the responsible individuals shall be punished». L’art. 2 elenca i fatti che costituiscono offesa alla pace e alla sicurezza dell’umanità, fra cui:

 

(2) Any threat by the authorities of a State to resort to an act of aggression against another State.
(5) The undertaking or encouragement by the authorities of a State of activities calculated to foment civil strife in another State, or the toleration by the authorities of a State of organized activities calculated to foment civil strife in another State.
(6) The undertaking or encouragement by the authorities of a State of terrorist activities in another State, or the toleration by the authorities of a State of organized activities calculated to carry out terrorist acts in another State.
(9) The intervention by the authorities of a State in the internal or external affairs of another State, by means of coercive measures of an economic or political character in order to force its will and thereby obtain advantages of any kind.
(10) Acts by the authorities of a State or by private individuals committed with intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnic, racial or religious group as such…
(13) Acts which constitute:
(i) Conspiracy to commit any of the offences defined in the preceding paragraphs of this article; or
(ii) Direct incitement to commit any of the offences defined in the preceding paragraphs of this article; or
(iii) Complicity in the commission of any of the offences defined in the preceding paragraphs of this article; or
(iv) Attempts to commit any of the offences defined in the preceding paragraphs of this article.
 
Particolare importanza, proprio a tutela della pace, hanno dunque sia il divieto di fomentare un conflitto civile in un altro Stato (civil strife), sia il divieto di ingerenza nei suoi affari interni.
Un lungo lavoro ha portato alla formulazione della Declaration on Principles of International Law concerning Friendly Relations and Co-operation among States in accordance with the Charter of the United Nations, approvata con la risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu 2625 del 24.10.1970[12]. Nel suo preambolo, oltre a ribadire lo scopo del mantenimento della pace internazionale e delle buone relazioni fra gli Stati, la Dichiarazione afferma che quello scopo prescinde dai sistemi politici, economici sociali, e dai livelli di sviluppo («irrespective of their political, economic and social systems or the levels of their development»). Inoltre, ribadisce il divieto di ingerenza negli affari di un altro Stato («the practice of any form of intervention not only violates the spirit and letter of the Charter, but also leads to the creation of situations which threaten international peace and security»), e sottolinea l’importanza del principio di autodeterminazione per la pace («the subjection of peoples to alien subjugation, domination and exploitation constitutes a major obstacle to the promotion of international peace and security») e per il diritto internazionale («the principle of equal rights and self-determination of peoples constitutes a significant contribution to contemporary international law»).
Nell’ambito del principio di non intervento (the principle concerning the duty not to intervene in matters within the domestic jurisdiction), la Dichiarazione vieta l’intervento negli affari di un altro Stato per qualsiasi ragione («No State or group of States has the right to intervene, directly or indirectly, for any reason whatever, in the internal or external affairs of any other State»), ed afferma il diritto inalienabile di scelta del sistema politico, economico, sociale e culturale, senza interferenze («Every State has an inalienable right to choose its political, economic, social and cultural systems, without interference in any form by another State»). Nell’ambito del principio di autodeterminazione dei popoli (the principle of equal rights and self-determination of peoples), afferma che i popoli sono legittimati all’autodeterminazione, contro le azioni che lo offendono («In their action against, and resistance to, such forcible action in pursuit of the exercise of their right to self-determination, such peoples are entitled to seek and to receive support in accordance with the purposes and principles of the Charter»).
La Dichiarazione è stata preceduta da altre risoluzioni dell’Assemblea generale, nello stesso ambito: la 1815 del 18.12.1962[13], la 1966 del 16.12.1963[14], la 2103 del 20.12.1965[15] (successiva all’interessamento a questi principi da parte della seconda conferenza dei Paesi Non Allineati, svolta al Cairo nel 1964), la 2181 del 12.12.1966[16], la 2327 del 18.12.1967[17], la 2533 dell’8.12.1969[18].
Il punto 3 del testo approvato nel 1970 afferma che i principi della Carta dell’Onu incorporati nella Dichiarazione costituiscono principi fondamentali del diritto internazionale. Lo conferma il fatto che le risoluzioni 1966 del 1963 e 2103 del 1965 richiamino la risoluzione dell’Assemblea generale 1505 del 12.12.1960[19] sulla codificazione del diritto internazionale. Quest’ultima richiama a sua volta le risoluzioni dell’Assemblea generale 1236 del 14.12.1957[20] e 1301 del 10.12.1958[21]. La prima sottolinea l’importanza della pace fra gli Stati «irrespective of their divergences or the relative stages and nature of their political, economic and social development»; la seconda invita gli Stati a rivolgersi all’Onu per la soluzione pacifica delle controversie.
La risoluzione 3314 del 14.12.1974[22] dell’Assemblea generale dell’Onu definisce l’aggressione, a seguito del lavoro di un comitato istituito con la risoluzione 2330 del 18.12.1967[23] dell’Assemblea (Special Committee on the Question of Defining Aggression). Dopo aver osservato nel preambolo che «aggression is the most serious and dangerous form of the illegal use of force, being fraught, in the conditions created by the existence of all types of weapons of mass destruction, with the possible threat of a world conflict and all its catastrophic consequences», la risoluzione del 1974 definisce l’aggressione come «the use of armed force by a State against the sovereignty, territorial integrity or political independence of another State, or in any other manner inconsistent with the Charter of the United Nations». L’art. 5 vieta l’aggressione, in ogni caso: «No consideration of whatever nature, whether political, economic, military or otherwise, may serve as a justification for aggression», e precisa la natura del crimine di aggressione: «A war of aggression is a crime against international peace. Aggression gives rise to international responsibility».
L’art. 5 dello statuto della Corte penale internazionale (Convenzione di Roma, 17.7.1998), include il crimine di aggressione (the crime of aggression) fra i crimini più gravi (the most serious crimes) su cui la Corte ha giurisdizione.

In tema di tutela della pace, e di rispetto delle singole nazionalità europee e dei singoli poteri pubblici locali, ha rilevanza anche la Carta di Nizza del 7 dicembre 2000. Secondo il suo Preambolo, «I popoli europei nel creare tra loro un’unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni». Inoltre, «L’Unione contribuisce al mantenimento e allo sviluppo di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell’identità nazionale degli Stati membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale».

La Carta di Nizza ha efficacia anche nel diritto interno italiano. Della Carta ha tenuto conto più volte la Corte costituzionale: sent. 8.11.2006 n. 394 del 2006; sent. 23.10.2006 n. 393 del 2006; sent. 3.5.2006 n. 190 del 2006; sent. 24.10.2002 n. 445 del 2002; sent. 11.4.2002 n. 135 del 2002. Della Carta ha tenuto conto anche la Cassazione in sede penale: Cass. SS. UU. 30.1.2007, dep. 5.2.2007 n. 4614; Cass. 15.11.2006, dep. 15.1.2007 n. 564; Cass. SS. UU. 26.3.2003, dep. 13.5.2003 n. 21035. La stessa Cassazione ha tenuto conto della Carta anche in sede civile: Cass. 5.3.2003, dep. 6.4.2004 n. 6759; Cass. 5.3.2003, dep. 6.4.2004 n. 6760; Cass. 20.12.2001, dep. 10.12.2002 n. 17564. Anche gli statuti di alcune Regioni italiane, contengono riferimenti alla Carta di Nizza.

Il ripudio della guerra è stato accolto fra i principi fondamentali della Costituzione italiana, e la primaria importanza della pace come valore costituzionale è stata ribadita dalla Corte costituzionale[24].

 

La risoluzione 1244, gli Accordi di Rambouillet, l’autogoverno provvisorio

La risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu 1244 del 10.6.1999[25] aveva l’obiettivo di risolvere «the grave humanitarian situation in Kosovo, Federal Republic of Yugoslavia», e – pur prevedendo «the establishment, pending a final settlement, of substantial autonomy and self-government in Kosovo, taking full account of annex 2 and of the Rambouillet accords (S/1999/648)» – riaffermava «the commitment of all Member States to the sovereignty and territorial integrity of the Federal Republic of Yugoslavia…». Quindi, malgrado una previsione di autonomia, la risoluzione non prevedeva il distacco del Kosovo dallo Stato di cui faceva parte (prima la Repubblica federale di Jugoslavia, poi la Serbia), ma anzi tutelava l’integrità di quest’ultimo. 

Anche negli Accordi di Rambouillet[26], cui faceva più volte riferimento la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu 1244 del 10.6.1999, le premesse ribadiscono «the commitment of the international community to the sovereignty and territorial integrity of the Federal Republic of Yugoslavia». Negli stessi Accordi, l’art. 1.2 dell’Interim Agreement for Peace and Self-Government in Kosovo dispone che «The national communities […] shall not use their additional rights to endanger the rights of other national communities or the rights of citizens, the sovereignty and territorial integrity of the Federal Republic of Yugoslavia…». E fra le premesse della Constitution, si esprime il desiderio di «establish institutions of democratic self-government in Kosovo grounded in respect for the territorial integrity and sovereignty of the Federal Republic of Yugoslavia».

Il Constitutional Framework for Provisional Self-Government in Kosovo del 15.5.2001[27] prevede: «Kosovo is an entity under interim international administration which, with its people, has unique historical, legal, cultural and linguistic attributes. Kosovo is an undivided territory throughout which the Provisional Institutions of Self-Government established by this Constitutional Framework for Provisional Self-Government (Constitutional Framework) shall exercise their responsibilities». Quindi neppure le norme delle istituzioni provvisorie prevedono che il Kosovo diventi uno Stato, e si limitano invece a configurare una «entity». Oggi, invece, vi è il rischio che la garanzia del Constitutional Framework, secondo cui «No person shall be obliged to declare to which Community he belongs, or to declare himself a member of any Community», venga travolta proprio dalla dichiarazione di indipendenza, che verosimilmente costringerà i serbi del Kosovo a cercare tutela in una più spiccata dichiarazione di identità.

La dichiarazione di indipendenza del Kosovo non è prevista neppure dai provvedimenti dell’Unione Europea, anche se alcuni di essi possono essere interpretati con qualche ambiguità. Infatti, senza programmare il distacco del Kosovo dalla Serbia, sembrano consentire un oggettivo sostegno a quell’obiettivo.

Di fatto, alla dichiarazione unilaterale di indipendenza sono seguiti riconoscimenti di alcuni Stati, fra cui quello dell’Italia, ma non di altri, ed è stata esasperata una conflittualità locale già esistente, creando contrasti internazionali più vasti. La creazione o l’esasperazione di conflitti è ormai da anni il percorso con cui si giunge alla guerra, anche in Europa. Peace-keeping, peace-enforcing, peace-making, unilateralismo interventista (un caso di scambio fra sostantivo e aggettivo), ingerenza umanitaria, guerra umanitaria, intervento umanitario, guerra preventiva, guerra chirurgica, guerra al terrorismo, sono tra le voci più frequenti della recente tassonomia bellica. E purtroppo la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, come riportato da tutti gli organi d’informazione, è stata seguita da violenze, incendi, sommosse, anche con perdite di vite umane, e da prese di posizione – fra cui quelle di potenze come la Russia e la Cina – i cui toni perplessi o addirittura ostili inducono alla massima preoccupazione. Non è da escludere che persino alle recentissime, sanguinose vicende in Tibet – pur dipendenti da altre cause – abbia offerto un indiretto contributo politico l’incoraggiamento all’indipendenza del Kosovo.

 

Conclusioni

Appare utile che il Consiglio superiore della magistratura ed il Consiglio della magistratura militare possano riconsiderare la richiesta formulata dal Ministero per gli affari esteri e, tenuto conto degli altri elementi qui indicati, approfondire il tema valutando se sia compatibile con la legalità internazionale la partecipazione di magistrati italiani alla missione in Kosovo.

 

Roma, 21 marzo 2008

                                                  dott. Luca M. Baiada

                                    giudice del Tribunale militare di Roma

 

 

 

                                                  dott. Domenico Gallo

                                 consigliere della Corte di cassazione, Roma

 



[4] eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:042:0092:0098:EN:PDF
[8] www.yale.edu/lawweb/avalon/imt/proc/judcont.htm.
[9] accessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/033/46/IMG/NR003346.pdf?OpenElement
[10] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/038/84/IMG/NR003884.pdf?OpenElement
[11] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/060/86/IMG/NR006086.pdf?OpenElement
[12] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/348/90/IMG/NR034890.pdf?OpenElement
[13] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/193/23/IMG/NR019323.pdf?OpenElement
[14] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/186/41/IMG/NR018641.pdf?OpenElement
[15] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/218/66/IMG/NR021866.pdf?OpenElement
[16] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/004/84/IMG/NR000484.pdf?OpenElement
[17] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/236/62/IMG/NR023662.pdf?OpenElement
[18] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/256/67/IMG/NR025667.pdf?OpenElement
[19] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/152/79/IMG/NR015279.pdf?OpenElement
[20] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/120/19/IMG/NR012019.pdf?OpenElement
[21] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/747/45/IMG/NR074745.pdf?OpenElement
[22] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/739/16/IMG/NR073916.pdf?OpenElement
[23] daccessdds.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/236/65/IMG/NR023665.pdf?OpenElement

[24] La Corte cost. (sent. 28.6.1985 n. 193 del 1985), dichiarando l’illegittimità costituzionale del reato di illecita costituzione di associazioni aventi carattere internazionale (art. 273 c.p.), ha rilevato che secondo l’art. 11 Cost. «l'Italia promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte, fra l'altro, allo scopo di ripudiare la guerra... come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e di affermare (persino limitando la propria sovranità) un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. Ebbene, l’idea di un “Parlamento mondiale per la sicurezza e la pace” e di una “Confederazione europea dell'ordine giudiziario”, oggetto dell’imputazione, nel processo penale da cui è sorto l’incidente di legittimità in esame, sembra effettivamente corrispondere – indipendentemente dalla sua effettiva efficacia – allo scopo che la Costituzione tutela».

[25] daccessdds.un.org/doc/UNDOC/GEN/N99/172/89/PDF/N9917289.pdf?OpenElement.
[26] documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N99/168/81/img/N9916881.pdf?OpenElement.


(Iniziamo con questo articolo una serie di contributi sul tema dei secessionismi anticinesi. 

Non è per mera urgenza di cronaca che ci addentriamo in questo tema: da anni abbiamo messo in evidenza come gli strumenti utilizzati dai paesi imperialisti per spaccare la Cina e ricolonizzarla siano spesso analoghi a quelli già usati per squartare la Jugoslavia, e non solo: dall'Iraq alla Russia, le consorterie occidentali sostengono apertamente il differenzialismo etnico o pseudo-etnico e quelle minoranze bigotte, oscurantiste, fasciste, razziste e reazionarie utili a destabilizzare ed applicare il "divide ed impera".
In questo gli imperialisti si giovano dello zelo di certa intellettualità sciovinista occidentale ignorante sulle questioni strutturali ma carica di "estremismo dei diritti umani". Questi "intellettuali di servizio" non sono solo accademici o giornalisti ben pagati: ci sono purtroppo anche militanti di una "sinistra" ingenua, privata di valori, radici o memoria storica e fattuale, ma imbevuta di idealismi astratti ed irrazionalismo "new age" fino all'odio fanatico.

I passati articoli sul tema dei secessionismi anticinesi sono raccolti alla pagina:
A cura di I. Slavo)


Per il popolo del Tibet e contro il feudalesimo lamaista

di Jose Antonio Egido *


Cosa era il Tibet prima dell'avvento del socialismo?

Il Tibet è uno dei luoghi più remoti del pianeta. E' un altopiano nel cuore dell'Asia, separato dal sud Asia dalle più alte montagne del mondo, l'Himalaya. Sei catene montuose dividono la regione in valli isolate. Il Tibet era appartenuto alla Cina da circa 700 anni, ma la mancanza di comunicazioni l'aveva isolato dalla Cina e dal mondo.

Il buddismo penetrò nel Tibet nel secolo VII [1]. Il principe Strong-tsan-gampo, artefice dell'unità del Tibet, usò questa religione nella sua opera di unificazione. Per molto tempo il buddismo fu la religione dell'aristocrazia feudale mentre il popolo praticava riti di sciamani e di clan (religione Bon o Bon-po).

A partire dal secolo IX il buddismo si diffuse nel popolo sotto la forma mahayana. All'inizio del secolo X il partito antibuddista sostenuto dalla vecchia aristocrazia feudale diede vita a persecuzioni contro i buddisti. Ma i buddisti riuscirono ad assassinare il re Lang-darma e vincere.Nel secolo XI il buddismo vinse definitivamente sotto la forma di una nuova corrente denominata tantrismo. Durante i secoli XI e XII furono costruiti in Tibet numerosi monasteri buddisti con una moltitudine di monaci denominati lama. Nel 1271 Kublai Khan, fondatore della dinastia mongola degli Yuan (1270-1370), nominò ministro degli affari civili e religiosi il capo della setta buddista più importante del Tibet. La dinastia cinese dei Ming, che regnò dal 1368 al 1644, protesse similmente la religione buddista ma attuò una politica di frammentazione del paese che la indebolì. Sorse una corrente buddista riformatrice che impose una disciplina monacale severa e l'obbligo portare vestiti e protezioni gialle. Tutto il potere si concentrò nelle mani di due gerarchi supremi: il Panchem-rimpoche e il Dalai-rimpoche (futuro Dalai Lama). Entrambi furono dichiarati incarnazioni delle divinità buddiste più venerate.

Nominalmente l'autorità massima del Tibet era rappresentata dagli imperatori cinesi che riscuotevano le tasse e nominavano funzionari incaricati prelevarle, però i gerarchi buddisti avevano localmente molta influenza. Nel 1639-1640 il mongolo Gushi assassinò il principe locale e trasferì tutto il potere secolare al Dalai Lama. All'inizio della dinastia dei manchú la Cina ristabilì la relativa sovranità sul Tibet ma il potere reale rimase nelle mani del Dalai Lama e, pricipalmente, nelle mani dei lama supremi che lo circondavano. Nel Tibet si affermò una forma particolare di regime feudale nella quale i grandi signori (monaci e secolari) dominavano una massa di contadini privati dei diritti e il potere politico era monopolizzato dai gerarchi buddisti. Al vertice della gerarchia c'era il Panchem-Lama considerato padre spirituale del Dalai Lama che era quello che esercitava il potere temporale. Un autore cinese ha scritto che "solo 626 persone possedevano il 93% della terra e della ricchezza nazionale e 70% dei yakes [2] nel Tibet. Fra loro 333 erano capi dei monasteri e autorità religiose e 287 autorità secolari (contando la nobiltà e l'esercito) e sei ministri di gabinetto [3]. La classe alta era formata da circa il 2% della popolazione e il 3% erano i loro agenti: soprintendenti, amministratori della loro proprietà e comandanti dei loro eserciti privati. L' 80% erano servi, il 5% gli schiavi e 10% erano monaci poveri che lavoravano come contadini per gli abati e pregavano. Nonostante la presunta regola lamaísta della non violenza questi monaci erano frustati continuamente.

Oggi, l'attuale Dalai Lama si presenta al mondo come un uomo sacro al quale non interessano le cose materiali. La realtà è che era il proprietario principale dei servi del Tibet. Secondo la legge era proprietario di tutto il paese ed i relativi abitanti. In pratica la sua famiglia disponeva di 27 proprietà immobiliari, 36 prati, 6.170 servi e 102 schiavi.

Le orribili condizioni di vita delle masse popolari.

La vita dei servi di tibetanos prima di 1949 era breve e durissima. Tanto gli uomini che le donne lavoravano nelle mansioni più sacrificate e nel lavoro forzato, chiamato ulag, per 16 o 18 ore al giorno. Dovevano dare ai proprietari (che non lavoravano) il 70% della raccolta. Non potevano usare le stesse sedie, le stesse parole, né gli utensili dei proprietari. Erano puniti con le frustate se toccavano una certa cosa del proprietario. Non povano sposarsi né lasciare una proprietà senza permesso del padrone. I servi e le donne erano considerati animali parlanti che non avevano diritto di guardare in faccia i padroni. L'esperto studioso del Tibet A. Tom Grunfeld riferisce di una una figlia dei proprietari i cui servi la alzavano per farla salire e scendere le scale [4]. Gli schiavi erano percossi, non li nutrivano e li uccidevano di lavoro. Nella capitale Lhasa i bambini si compravano e si vendevano.

La parola donna, kimen, significava stato inferiore di nascita. Le donne dovevano pregare "che io abbandoni questo corpo femminile e rinasca come uomo". I gerarchi religiosi impedivano loro di alzare gli occhi oltre il ginocchio di un uomo. Era comune bruciare le donne per essere "streghe", spesso perché esse praticavano i rituali della religione Bon. Partorire gemelli era prova che una donna si era accoppiata con uno spirito malvagio e nella campagna era frequente che bruciavano la madre e i gemelli appena nati. Un uomo ricco poteva avere molte spose e un nobile con poca terra doveva dividere una donna con i propri fratelli.

Il popolo ha sofferto costantemente di freddo e di fame. Prima della liberazione nel Tibet non c' era elettricità nè strade nè ospedali né quasi scuole. Molti servi diventavano malati a causa della denutrizione mentre alcuni monasteri accumulavano ricchezze ed bruciavano quantità elevate di alimenti come offerte. La maggior parte dei neonati moriva prima di compiere un anno. La mortalità infantile nel 1950 era del 43%. Il vaiolo colpiva un terzo della popolazione e nel 1925 sterminò 7 mila abitanti di Lhasa. La lebbra, la tubercolosi, il gozzo, il tetano, la cecità, le malattie veneree e le ulcere causavano grande mortalità. La speranza di vita nel 1950 era di 35 anni.

Le superstitioni diffuse dai monaci li convincevano ad essere contro agli antibiotici. Essi dicevano ai servi che le malattie e la morte erano causati dai peccati e che l'unica maniera di prevenire le malattie era pregare e dare i soldi ai monaci.

I signori feudali mantenevano il popolo nell'ignoranza più completa per meglio sottometterlo e per lavargli il cervello. Nel 1951 il 95% della popolazione era analfabeta. La lingua scritta serviva solo per il culto religioso.

Il sistema feudale impediva lo sviluppo delle forze produttive. Non permetteva l'uso degli aratri di ferro, estrarre il carbone, pescare, cercare, né realizzare innovazioni sanitarie di nessun tipo. Non c' erano nè comunicazioni nè commercio né nessuna industria pur elementare. Mille anni prima, quando il buddismo è stato introdotto, si calcola che nel Tibet vivevano 10 milioni di persone, ma nel 1950 ce n'erano solo due o tre milioni.

Come è arrivato il Socialismo nel Tibet?

Il partito comunista della Cina (PCC) si pose un problema rispetto al Tibet: il tremendo ritardo e la dominazione feudale rendeva impossibile lo scoppio di una ribellione dei servi senza un aiuto esterno. Ma era necessario intervenire nel Tibet prima che si trasformasse in un fortezza della controrivoluzione da dove le classi dominanti cinesi abbattute, i signori feudali locali e l'imperialismo potessero mettere in pericolo la giovane Repubblica Popolare Cinese (RPC). I feudali lamaisti erano stati compiacenti con i colonialisti britannici che entrarono a Lhasa nel 1904 dall'India e con il tentativo nordamericano di riconoscere il Tibet "indipendente" nel 1949 con una rappresentanza all'ONU. L'esperienza pratica lasciava prevedere che, come in altri posti, la classe dominante locale si sarebbe alleata con le forze imperialistiche per combattere il nemico comune, la rivoluzione socialista trionfante.

I comunisti sapevano che la rivoluzione non può essere esportata in un altro paese con le baionette di un esercito occupante ed è per questo che si adoperarono con tatto e prudenza per creare le condizioni di un movimento rivoluzionario ben radicato nelle masse popolari tibetane. L'esercito popolare di Liberazione (EPL), esercito di contadini rivoluzionari forgiati durante 20 anni di combattimenti e diretti dal PCC, avanzò verso le pianure tibetane nell' ottobre del 1950

Nel Chambo sconfisse facilmente l'esercito inviato dai feudali tibetani ma là arrestò la sua avanzata e trasmise loro un messaggio con una proposta: Se il Tibet si fosse integrato nella Repubblica popolare cinese (RPC) il governo dei proprietari dei servi (chiamato di Kashag) avrebbe potuto continuare a governare nel tempo sotto la direzione del governo centrale popolare. I comunisti non avrebbero abolito le pratiche feudali né avrebbero preso misure contro la religione fino a che la popolazione non avesse sostenuto i cambiamenti rivoluzionari. L' EPL avrebbe protetto le frontiere per evitare un intervento imperialistico. Il governo feudale accettò la proposta e firmò "l'accordo dei 17 punti" che riconosceva la sovranità cinese e si applicava nelle zone suttomesse al Kashag e non in altre zone tibetane, dove viveva la metà della popolazione [5]. I 26 di ottobre del 1951 l' EPL entrò pacificamente a Lhasa guidato dal generalei Zhang Guojua.

La cospirazione controarivoluzionaria dei lamaisti nobili.

Logicamente i feudali non accolsero i comunisti con le braccia aperte, ma cominciarono a cospirare per provare a perpetuare il loro sistema di dominazione. Fecero il possibile per rendere nemico ai lòro servi l' EPL: sparsero voce che i comunisti usavano il sangue dei bambini tibetani come combustibile per i loro camion, li accusavano di "uccidere i cani" per eliminare i cani rabbiosi che terrorizzavano la gente,... Determinati monasteri furono trasformati in centri di attività controrivoluzionaria e in magazzini segreti di armi che la CIA nordamericana inviava dall'India. La CIA stabilì un centro di addestramento degli agenti tibetani nel campo Hale delle Montagne Rocciose in Colorado per la sua grande altitudine. Inoltre tibetani mercenari furono addestrati nelle basi yanki di Guam e di Okinawa [6]. Complessivamente gli USA hanno addestrato militarmente 1.700 tibetanos durante gli anni 50 e 60.

L'EPL aveva l'ordine rigoroso di rispettare la popolazione, la sua cultura e le sue credenze, persino i suoi timori superstiziosi che non potevano essere sradicati rapidamente. I servi furono sorpresi quando furono contrattati per una paga per costruire una strada che collegasse il Tibet con le province centrali. Parecchi servi giovani furono incoraggiati ad istruirsi negli istituti per le minoranze nazionali nelle città dell' est della Cina e imparare la lettura, la scrittura e la contabilità. Cominciarono ad arrivare merci che migliorarono la vita della popolazione come tè e fosforo, arrivarono i primi telefoni, telegrafi, trasmettitori e le presse e le prime scuole. Nel 1957 6.000 allievi frequentavono 79 scuole primarie. Gruppi di medici cominciarono a trattare e curare la gente compresi i nobili e le mentalità cominciarono a cambiare.

I latifondisti feudali videro in pericolo il loro potere ed organizzarono le prime ribellioni armate nel 1956. Nelle zone in cui vigeva l'accordo dei 17 punti i comunisti incoraggiavano i servi a smettere di pagare il fitto ai monasteri ed ai nobili, la qualcosa esasperava questi ultimi. Nel marzo del 1959 avvenne una ribellione in grande scala sostenuta dalla CIA che che inviò i suoi agenti addestrati e lanciò carichi di munizioni e di mitragliatrici dai velivoli C-130 dell'aeronautica nordamericana. I monaci e i loro agenti armati attaccarono la guarnigione dell' EPL a Lhasa. I comunisti risposero non solo militarmente ma pricipalmente politicamente. Mille studenti tibetani ritornarono rapidamente dagli istituti per le minoranze nazionali per partecipare ad una grande campagna di cambiamenti rivoluzionari.

La sconfitta del feudalesimo nel Tibet.

Il governo del Kashag che aveva sostenuto la ribellione fu sciolto. In tutte le regioni si crearono degli organi di potere chiamati "uffici per reprimere la sommossa". Il nuovo governo si chiamò "comitato preparatorio per la regione indipendente del Tibet". Fu abolito l'ulag, il lavoro forzato e la servitù. Gli schiavi dei nobili furono liberati. I conspiratori principali furono arrestati. La donna fu liberata dalla poligamia e della poliandria. I servi smisero di pagare l'affitto ai monasteri e la metà di questi dovettero chiudere. I nomadi di un isolato accampamento chiamato Pala si levarono in armi contro il partito del Dalai Lama [7].La giornalista britannica Sara Flounders scrive che "milioni di contadini poveri si mobilitarono per espellere gli antichi latifondisti" [8]. I servi anziani hanno ricevuto 20 mila scritture e bestiame della terra, decorati con le bandierine rosse e l'immagine del presidente Mao.

Dopo la sconfitta della ribellione, il Dalai Lama numero 14, chiamato Tenzin Gyatso, fuggì in esilio accompagnato da 13 mila persone della nobiltà e dell'alto clero lamaista con i propri schiavi, guardie armate e carovane dei muli caricati di ricchezze. La CIA lo trasformò in un simbolo della guerra contro la rivoluzione socialista ed il Partito Comunista. Il Dalai Lama istituì nella città dell'India di Dharamsala "un governo in esilio". A partire dal 1964 figura nella lista dei salariati della CIA che gli assegnò un importo annuale di 180 mila dollari nel quadro di un programma per demolire i regimi comunisti. Il suo "governo" riceveva annualmente 1.7 milione dollari. Durante gli anni 90 continua a ricevere i soldi della CIA.

Da allora questo reazionario continua ad avere un grande supporto dalla lobby anticinese nordamericana, dall'industria di Hollywood che produce le pellicole della propaganda a suo favore [9], dalla Fondazione Nazionale per la Democrazia (schermo della CIA) che finanzia il Fondo Tibet, la radio Voce del Tibet e la campagna internazionale per il Tibet. Nel 1987 fu ricevuto dalla commissione "dei diritti umani" del senato nordamericano. Nell' agosto del 1999 il Dipartimento di stato nordamericano organizzò la sua visita a New York.

I settori anti-comunisti occidentali, come il giudice spagnolo Garzón, denunciano pubblicamente la Cina per il presunto "genocidio" commesso nel Tibet dal 1959. Questo "genocidio" compare nella propaganda anticinese ma nessuno ha fornito la più piccola prova. Tali settori sono quelli che spinsero nel 1989 affinché gli fosse assegnato il premio Nobel "della pace"[10], premio che hanno ricevuto criminali di guerra ben noti come il Henry Kissinger, Menahem Beguin e Simón Peres.

Anche se il buddismo proibisce uccidere e tutte le forme di violenza, l'attuale Dalai Lama ha sostenuto calorosamente la guerra della NATO contro la Iugoslavia del 1999. Durante quell'anno a Santiago del Cile si dichiarò contro la persecuzione del criminale Augusto Pinochet.

Egli si trova posizionato perfettamente nel campo degli sfruttatori e dei nemici del popolo. Anche se gode di un' aureola di santità ed è considerato un dio, non è più che uno strumento efficace della controrivoluzione e dell'imperialismo. Per essere accettato dai suoi alleati ha riformato alcune delle tradizioni più orribili ed ha adottato il discorso cinico "dei diritti umani" che ripetono anche gli assassini del governo d'Israele, i militari fascisti colombiani e altri vassalli degli statunitensi, ma il sistema politico che rappresenta è una dittatura religiosa nella quale non esistono diritti politici per le donne né per chi dubita della sua autorità. Per esempio, la setta tibetana dei Shugden formata da cento mila persone esiliate in India che non riconoscono questa autorità è sistematicamente emarginata e perseguitata. Molti occidentali afflitti e disorientati dalla società borghese, si sentono illusamente attratti dal misticismo lamaista, che provoca il beneficio di buoni commerci dei tibetani.

Le autorità cinesi gli offrono di aprire il dialogo in cambio del riconoscimento dell'appartenenza del Tibet alla RPC.

Il Tibet oggi.

Nel 1980 il segretario generale del PCC Hu Yaobang ha visitato Lhasa. Nel settembre del 1987 ebbe luogo a Lhasa un' insurrezione dei monaci nazionalisti che assalirono una stazione di polizia. Nel 1988 ci furono altri disordini. Nella primavera di 1989, nel contesto di un movimento controrivoluzionario in tutta la Cina, sostenuto dall'imperialismo, avvenne una nuova ribellione a Lhasa che portò ad arresti ed alla proclamazione della legge marziale. Nel 1996 e 1997a Lhasa esplosero bombe. La tragedia che hanno conosciuto le popolazioni dell'ex URSS alle quali la controrivoluzione capitalistica ha strappato tutti i propri diritti e che hanno subito guerre civili di devastazione (ci ricordiamo delle guerre di Chechenia, Daguestán, Moldavia, la Georgia, Tayikistán, Nagorno-Karabaj,....) è stata evitata dalla decisa determinazionee del PCC sostenuto dalle masse popolari.

L'accusa che la RPC forza la popolazione a limitare la sua crescita demografica è negata da entrambi gli antropologi nordamericani che abbiamo citato e che hanno fatto indagini nel Tibet nel 1985 e nel 1988 per incarico della National Geographic Society [11]. Le donne tibetane non sono forzate ad avere un unico figlio, come è il caso della maggioranza del popolo cinese.

Il Tibet è oggi una regione indipendente dell' ovest della RPC che, come tutta la parte occidentale del paese, conosce un minore sviluppo economico e sociale rispetto alle province della costa dell'est. Il 15% della popolazione è povero ma solo 3 distretti della regione appartiengonoe ai 63 più poveri della RPC. Un Fondo per la riduzione della povertà nel Tibet sviluppa programmi contro la povertà. Il governo prova a innescare il progresso economico di questa regione. Nel 1967 funzionavano 67 fabbriche in tutto il Tibet; nel 1975 250 aziende producevano beni di consumo di base: pentole a pressione, attrezzi, piccoli oggetti elettrici,... . Nel 1993 c' erano 41.830 piccole imprese. A Lhasa oggi sono attive parecchie fabbriche (di ceramica, di cemento e di birra) e numerosi stabilimenti e officine (tessile, di mobili, tappeti...). E' stata costruita la ferrovia più alta del mondo che mette fine all'isolamento storico tibetano. Dal 1999 al 2020 si prevede di aumentare la produzione elettrica 3 volte e quella industriale 14 volte. Internet permette agli abitanti delle valli più appartate, ubicate a 4.500 metri di altitudine, di collegarsi con il mondo. I militanti comunisti tibetani sono promossi [12]. L' 80% dei quadri dirigenti sono tibetani. La lingua e la cultura tibetana godono di protezione speciale. Si prova a dare impulso al turismo come fonte di sviluppo economico. I contadini tibetani, liberati della servitù feudale, sviluppano nel regime di contratto familiare, le parcelle di terreno che sfruttano per l'agricoltura e il bestiame.

Il PCC considera con ragione che la religione deve essere sottomessa all'ordine sociale socialista [13] e non essere un ariete per la controrivoluzione e la guerra civile come è accaduto nei vecchi paesi socialisti dei Balcani, della Polonia, del Caucaso, dell'Afghanistan e del centro dell'Asia. È per questo che la religione lamaista è autorizzata e rispettata purchè non si trasformi in in un centro organizzato della lotta contro l'ordine socialista che conseguentemente significa appartenenza del Tibet alla RPC.

Le donne tibetane godono di molti più diritti che nell'India, nel Pakistan, nel Nepal e nell'Afghanistan e di moltissimi più diritti che nell'antico Tibet feudale.

Le masse in generale similmente godono di più diritti: nel 1999 c'erano 2.632 medici, 95 ospedali comunali e 770 cliniche. La mortalità infantile è nel 1998 del 3%. La speranza di vita è di 65 anni. C' è un operatore sanitario ogni 200 abitanti. Nel 1997 a Lhasa è stato inaugurato un ospedale moderno. La scolarizzazione dei bambini arriva all' 82% e si realizza in cinese e tibetano. I cittadini cinesi della nazionalità di maggioranza si sono stabiliti nelle città del Tibet e i tibetani emigrano nelle zone più sviluppate alla ricerca di un maggiore benessere economico. E' possibile trovare degli oggetti di arte e decorativi tibetani nelle vie del centro di Chang-Chun, provincia cinese di Jilin (che si trova nella parte opposta della Cina n.d.t.). Ma il Tibet non è "invaso" da 2 milioni di coloni (di etnia) Han (la più numerosa tra le etnie che popolano la vasta Cina, n.d.t.) come dice la propaganda anticinese. Secondo il censimento dell' ottobre 1995 il Tibet conta 2.389.000 abitanti dei quali soltanto il 3.3% è di origine Han [14], meno che nel 1990 che era del 3,7% [15]. Nel 1949 si aveva l' 1% di Han. Secondo un rapporto del servizio di investigazione del congresso nordamericano la popolazione Han nel Tibet era nel 1989 del 5%.

Popolazione tibetana (in milioni) in base ai censimenti fatti dalla RPC.

1964 1982 1990 1995

Regione Autonoma Tibet 1.209 1.706 2.096 2.389

Popolazione tibetana 2.501 3.874 4.593


Jose Antonio Egido.
19 enero del 2004.
(Corregido en marzo 2008).

[1] Serguei Tokarev, Historia de la religión, Editorial Progreso, Moscú, 1990, p.338.
[2] Animales de montaña que parecen vacas peludas.
[3] Han Suyin, Lhasa, the Open City-A Journey to Tibet, Putnam, 1977.
[4] The Making of Modern Tibet, Zed Books, 1987.
[5] Aun hoy la mitad de la población tibetana no vive en el Tibet sino en las provincias de Ganshu, Sicuani y Qinghai.
[6] Chicago Tribune, "La guerra secreta de la CIA en el Tibet", 25 enero 1997, Newsweek,"La guerra secreta en el techo del mundo", 16 agosto 1999 que describe la intervención de la CIA en apoyo a los feudales tibetanos de 1957 a 1965.
[7] Según documentan los antropólogos de la Universidad de Cleveland expertos en Tibet Melvyn C. Goldstein y Cynthia M. Beall en su libro Nomads of Western Tibet,1990.
[8] "La CIA y el Dalai Lama", www.anti-imperialism.net/lai/
[9] Ya en los años 30 produjo "Horizontes perdidos". En 1997 Martin Scorses dirigio "Kundun" considerada una burda falsificación. La película "Siete años en el Tibet" se basa en el libro del nazi austriaco convencido Heinrich Harrer, asesor personal del Dalai Lama.
[10] Este premio, lejos de ser neutral, es concedido por una fundación privada apoyada por el gobierno noruego que representa los intereses de ciertas grandes industrias, que obtiene grandes beneficios de la venta de armas y de las inversiones en Bolsa y que expresa los intereses del capitalismo occidental. Léase "La otra cara de los Premios Nóbel", El País, 21 diciembre 2003.
[11] Dossier elaborado por estos científicos de la revista Asian Survey en 1991.
[12] En 1987 el PCC informó que tenía 40 mil militantes en Tibet.
[13] Véase el informe de Jian Zemin en el XVI Congreso del PCC en el 2003,www.china.org.cn.
[14] Han:nacionalidad ampliamente mayoritaria en China.
[15] Beijing Information, 2 septiembre 1996.
 

* studioso ed esperto dei problemi delle nazionalità, per diversi anni è stato il responsabile esteri di Herri Batasuna

da www.contropiano.org




(Un articolo estremamente critico nei confronti del summit NATO e della visita di Bush, apparso sul periodico croato Nacional)

 

ZLOĆE I POVRĆE

Bolje grob nego rob

Kada dođe NATO, kad u naše luke uđu njihovi brodovi, kad se iznad naših turističkih gradova budu probijali zvučni zidovi, kad nam izdaleka počnu stizati mladi hrvatski leševi, kad Hrvatska bude Bushu ono što je NDH bila Mussoliniju, tko će biti kriv?

Piše: Vedrana Rudan, 24.03.2008. | br. 645

 

Profesori i studenti Filozofskog fakulteta u Zagrebu na moju su veliku radost digli glas protiv ulaska Hrvatske u NATO. Kako između naših političara, američkih fašista i hrvatskih bitnih medija postoji tajna veza, glas hrvatske pameti jedva se čuje. Zato stalno slušamo kako ćemo u travnju, ako nam Bog da zdravlje, dobiti pozivnicu za ulazak u općepoznatu udrugu za širenje demokracije. Bitno je, presudno je znati što o tome misle studenti i profesori Filozofskog fakulteta. Evo najvažnijih razloga zašto su oni protiv ulaska u NATO. Ne žele da se Hrvatska kao pijun priključi anglo-američkom korporativnom imperijalizmu. SAD, svjetski siledžija, ubio je više od milijun Iračana od početka okupacije, podupire teroriste diljem svijeta, svrgava neposlušne vlade malih zemalja, izrabljuju financijski siromašne zemlje putem MMF-a i WTO-a. Ako uđemo u NATO, naši će nas se potomci sramiti onako kao što se neke zemlje danas srame svoje nacističke prošlosti Hrvatsku potresaju poskupljenja, financijska se situacija pogoršava, ulaskom u NATO Hrvatska će biti izložena dodatnim golemim troškovima, nužnima da se prilagodimo NATO-ovim (ne uvijek logičnim) standardima. Procjenjuje se da će nas ulazak u NATO u idućih nekoliko godina stajati najmanje 10 milijardi kuna! Hrvatska već sada, iako još nije u NATO-u, podupire američku okupaciju i iskorištavanje Afganistana te će ondje 2008. biti 300 hrvatskih vojnika. Na njihove će se plaće ove godine potrošiti najmanje 10 milijuna eura. Očekuju nas i druge “misije“.

Vlast nas zavarava da ćemo u NATO-u biti sigurniji. Istina je posve suprotna. Od susjeda nam ne prijeti nikakva opasnost, ali će zato islamski teroristi znati odgovoriti na sudjelovanje naših vojnika u NATO-ovim operacijama. A ako računamo da će Hrvatsku braniti NATO, sjetimo se kako je prošla obrana Srebrenice, Vukovara...Čelnici NATO-a planiraju većinu baza iz zapadne Njemačke prebaciti u nove zemlje članice te se u Sloveniji u Cerklju, odmah uz hrvatsku granicu, preuređuje aerodrom za prihvat NATO-ovih zrakoplova, premda je Sloveniji bilo obećano da se kod njih neće graditi baze. Želimo li doista NATO-ove baze pokraj Pule, Splita, Zadra ili Zagreba, kao što se najavljuje? Studenti i profesori Filozofskog fakulteta u Zagrebu navode u svom Otvorenom pismu kako pitanje koje treba postaviti nije “treba li Hrvatska ući u NATO?“ nego “što će se dogoditi ako Hrvatska ne uđe u NATO?“ Njihov odgovor je - ništa. Dapače, bit ćemo sigurniji, nećemo bacati milijune u vjetar, a savjest će nam biti čista. Oni stoga pozivaju hrvatsku javnost da digne svoj glas protiv ulaska Hrvatske u NATO. I to bi bilo to. Svi kojima je na srcu budućnost Hrvatske i kojima je dosta mrske “hrvatske šutnje“ mogu nakon čitanja ove Inicijative studenata i nastavnika Filozofskof fakulteta u Zagrebu protiv NATO-a uzviknuti presretno, aleluja! Najzad su umni ljudi u ovoj šutljivoj zemljici digli svoj glas, napisali prosvjed i potpisali ga. Za sreću generacija koje dolaze. Nisu jedini. Neki drugi mladi ljudi pripremaju sakupljanje 450 tisuća potpisa koji bi onda ovu besramnu vlast prisilili da o ulasku Hrvatske u NATO raspiše referendum. Ponosna sam što u mojoj zemlji žive ljudi koji misle svojom glavom i koji se brinu o budućnosti naše djece. Strašno je da im se ne daje prilika da preko medija njihov glas dođe i do onih koji ne lutaju bespućima interneta.

Moram priznati, poznavajući naše utjecajne medije, prije svega Hrvatsku televiziju i našu podaničku vlast kojoj je najmanje na duši sudbina građana ove zemlje, hrabri glas studenata i profesora zagrebačkog Filozofskog fakulteta neće se daleko čuti. Pa ipak, ne bismo trebali odustati. Nekad su ljudi prosvjedovali protiv rata i nepravde iako ih na ustanak nije dizala televizija, mnogi su u borbi za pravdu i istinu gubili živote. Zašto šutimo svi mi ostali? Još ima vremena. Organizirajmo se. Uključimo u akciju našu djecu, naše roditelje. Dijelimo letke po kućama. Kucajmo susjedima na vrata. Lijepimo proglase po školama. Iziđimo na cestu. Nosimo parole. Unajmimo megafone. Krenimo na Trg bana Jelačića, zauzmimo sve trgove svih hrvatskih gradova i sela. Ovo je naša zemlja, ona ne pripada ni Mesiću, ni Sanaderu, ni Šeksu, ni Jandrokoviću, ni zločincima koji žele izgraditi vojnu bazu blizu Dubrovnika. Kako nam nije jasno da nemamo što izgubiti? Sve su nam oteli, potpisivanjem pakta s Amerikom otet će nam i posljednji tračak ponosa koji još u nama tinja. Smijemo li svi mi mirno spavati samo zato što tamo neki studenti i profesori umjesto nas vrište?

Može li njihov hrabri glas oprati našu savjest u nekim gadnim, budućim vremenima? Kad dođe NATO, kad u naše luke uđu njihovi brodovi, kad se naši gradovi pretvore u njihove bordele a naše kćeri u kurve, kad se iznad naših prekrasnih turističkih gradova budu probijali zvučni zidovi, kad nam počnu stizati mladi hrvatski leševi u lijesovima odjevenim u američku zastavu, kad Hrvatska bude Bushu ono što je NDH bila Mussoliniju, tko će biti kriv? Mesić? Sanader? Zna li danas itko otprve tko je komade Hrvatske poklonio Italiji? I je li njegovo ime bitno? Smijemo li Pavelića kriviti za sve ili, htjeli ne htjeli, moramo priznati da su njegovu zločinačkom činu kumovali i naši preci, šutljivi Hrvati, kukavice kojih se danas stidimo. Povijest se ponavlja. I opet šutimo, mi bijednici, i radujemo se što će za koji tjedan našu zemlju posjetiti Hitler dvadeset i prvog stoljeća poznat po jednoj od milijun svojih mudrih izreka: “Većina uvoza potječe izvan zemlje.“ U našem slučaju Bush se prevario, o v a j uvoz potječe unutar naše zemlje. Možda još imamo vremena reći Hitleru ne, mi šutljivi nasljednici Pavelićevih šutljivaca, mi buduće ubojice vlastite djece.





(the original text, in english:

Independence in the Brave New World Order. NATO's Kosovo Colony
By DIANA JOHNSTONE - February 18, 2008

La version française:
Quand les médias oublient complètement ce qu'ils avaient dit du Kosovo

Quando i media non si ricordano più di ciò che avevano riferito sul Kosovo

di Diana Johnstone
 
18 febbraio 2008
 
testo originale in inglese, “Independence in the Brave New World Order. NATO's Kosovo Colony,
- Il Kosovo: una Colonia della NATO nello Splendido Nuovo Ordine Mondiale”, a
traduzione ed adattamento in francese di Jean-Marie Flémal per Investig'Action 
segnalato da
 
(Traduzione dal francese di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
 

Dovremmo credere nel Migliore dei Mondi Possibili! La macchina della propaganda occidentale ha girato a pieno ritmo per celebrare l’ultimo miracolo della NATO: la trasformazione del “Kosovo” Serbo in “Kosova” Albanese. 
Attraverso la potenza mediatica, il fatto che gli Stati Uniti si siano impadroniti senza vergogna alcuna di un territorio altrui di grande importanza strategica, per installarvi una gigantesca base militare (Camp Bondsteel), è stato trasformato in una leggenda edificante di “liberazione nazionale”.
Per i pochi sfortunati che si sono resi consapevoli della verità – complicata – sul Kosovo, valgono le parole di Aldous Huxley, che sembrano confarsi al meglio: “Tu conoscerai la verità e la verità ti renderà pazzo.” 
A proposito del Kosovo, la verità rassomiglia a lettere scritte sulla sabbia mentre sta arrivando mugghiando lo tusnami della propaganda.
La verità è disponibile, per esempio in un articolo molto istruttivo di George Szamuely, pubblicato di recente in CounterPunch (www.counterpunch.org/szamuely02152008.html). Frammenti di verità sono rintracciabili a volte nei grandi mezzi di informazione, soprattutto nelle lettere dei lettori. 
Ma, benché io sia priva di speranza su qualsiasi tentativo di opposizione contro questa marea propagandistica, nondimeno mi sia concesso di prendere in esame una sola goccia di questa irresistibile marea: un articolo di cronaca firmato da Roger Cohen, dal titolo “Un nuovo Stato in Europa”, pubblicato il giorno di San Valentino nell’International Herald Tribune. 
 
L'editoriale di Cohen è decisamente tipico del modo sfacciato con cui tratta di Milosevic, della Russia e dei Serbi. Cohen scrive: « Slobodan Milosevic, il dittatore scomparso, ha messo in movimento l’ondata nazionalista ed omicida della Serbia il 24 aprile 1987, quando si era recato in Kosovo per dichiarare che “gli antenati dei Serbi sarebbero stati umiliati” se i Kosovari di etnia Albanese avessero ottenuto partita vinta.» 
Io non so proprio dove Roger Cohen sia andato a pescare questa citazione, ma che non ha alcun riscontro nel discorso che Milosevic aveva pronunciato quel giorno in Kosovo. Ed è cosa sicura che Milosevic non si era recato in Kosovo per esporre proposizioni di questa fatta, ma al contrario per consultare i funzionari della locale Lega dei comunisti della città di Kosovo Polje sulle gravi problematiche economiche e sociali che investivano la provincia. Oltre alla povertà cronica della provincia, alla disoccupazione e alla deplorevole gestione dei fondi per lo sviluppo elargiti dal resto della Jugoslavia, il principale problema sociale consisteva nel permanente esodo dal Kosovo di abitanti Serbi e Montenegrini sotto la pressione dei Kosovari di etnia Albanese.
In quel periodo, di questo problema anche i principali mezzi di informazione occidentali erano costretti a prenderne atto. 
Per esempio, ben prima, il 12 luglio 1982, Marvine Howe scriveva nel New York Times che i Serbi abbandonavano il Kosovo a decine di migliaia sotto la spinta di discriminazioni ed intimidazioni da parte della maggioranza di etnia Albanese: “ Un segretario dell’esecutivo del partito comunista del Kosovo, Beci Hoti, afferma che i nazionalisti Albanesi hanno un piano di azione in due punti, primo, insediare quella che loro definiscono come una repubblica Albanese etnicamente pura, secondo, fondersi con l’Albania in modo da costituire la Grande Albania. Il signor Hoti, un Albanese, esprimeva inquietudini rispetto alle pressioni politiche che costringono i Serbi ad abbandonare il Kosovo: oggi, quello che importa di più è stabilire un clima di sicurezza e creare fiducia.” 
E, sette mesi dopo la visita di Milosevic in Kosovo, a sua volta David Binder riferiva sul New York Times (1novembre 1987): “I Kosovari di etnia Albanese nell’ambito del governo hanno manipolato i fondi pubblici e le regolamentazioni per impossessarsi delle terre appartenenti ai Serbi. Monasteri slavo-ortodossi sono stati attaccati e sono state calpestate e stracciate le bandiere. Sono stati avvelenati pozzi e i raccolti sono stati incendiati. Ragazzi slavi sono stati pugnalati e alcuni giovani di etnia Albanese sono stati incoraggiati dai più vecchi a stuprare le ragazzine Serbe.
In un’intervista, uno dei nazionalisti più radicali fra i Kosovari di etnia Albanese ha dichiarato che il loro obiettivo è la costruzione di una 'Albania etnicamente pura, comprendente la Macedonia occidentale, il Montenegro meridionale, una parte della Serbia meridionale, il Kosovo e la stessa Albania'. 
Man mano che gli Slavi se ne scappano per sfuggire alle violenze prolungate, il Kosovo va trasformandosi in quello che i nazionalisti di etnia Albanese reclamano da tanti anni e, con una particolare insistenza, dopo i tumulti sanguinosi del 1981 scatenati dai Kosovari Albanesi a Pristina, una regione 'etnicamente pura' dal punto di vista Albanese.” 
In effetti Pristina ha costituito il primo esempio di “purificazione etnica” nella Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale. È per questa natura che l’evento ha preso posto nelle pagine del New York Times e di altri mezzi di informazione occidentali, e le vittime della “pulizia etnica” erano i Serbi!
Il culto del “ricordo” è divenuto una religione del nostro tempo, ma certi ricordi sono da meno di altri. Negli anni Novanta, risultava evidente che il New York Times aveva dimenticato completamente ciò che era stato scritto nelle sue pagine sul Kosovo negli anni Ottanta. Perché? Forse perché, nel lasso di tempo, il blocco sovietico si era dissolto e l’unità di una Jugoslavia indipendente e non allineata non corrispondeva più agli interessi strategici degli Stati Uniti.   
 
Ritorniamo alla presenza di Milosevic a Kosovo Polje, il 24 aprile 1987.
Avveniva un incidente, quando la polizia locale (sotto la direzione della Lega dei comunisti, dominata dagli Albanesi) attaccava i Serbi che si erano riuniti per protestare contro l’assenza di protezione legale. È divenuta celebre la frase spontanea che Milosevic a questo riguardo aveva pronunciato: “Nessuno vi dovrà più colpire!”
Se Milosevic avesse avuto l’intenzione di comportarsi da “estremista nazionalista”, avrebbe potuto avvantaggiarsi dell’evento. Ma non si trovano tracce di queste intenzioni attribuite a Milosevic da parte di Cohen.
Nel suo discorso pronunciato in seguito ai delegati locali del partito – e che è disponibile pubblicamente – Milosevic alludeva a questo “increscioso incidente” e prometteva un’inchiesta. Quindi proseguiva, insistendo sul fatto che “noi non dovremmo permettere che le disgrazie della gente siano sfruttate da certi nazionalisti, che qualsiasi persona onesta è tenuta a combattere. Noi non dobbiamo dividere le persone in Serbi e in Albanesi, ma dovremmo piuttosto separare, da una parte, le persone ragionevoli che si battono per la fraternità, l’unità e la parità etnica e, da un’altra, i contro-rivoluzionari e i nazionalisti.”   
Una volta ancora mi ritorna in mente Aldous Huxley : “I fatti non cessano di esistere perché li si ignora.”
Ma Huxley ha anche dichiarato : “Grande è la verità ma, da un punto di vista pratico, più grande ancora è il silenzio sulla verità. Semplicemente per il fatto di non menzionare certi argomenti (...), i propagandisti totalitari hanno influenzato l’opinione pubblica ben più efficacemente di come avrebbero potuto fare ricorrendo alle denunce le più eloquenti.”
 
Il 12 febbraio, a Ginevra, il Ministro Russo per gli Affari Esteri, Sergueï Lavrov, ha tentato di trasmettere ai giornalisti le sue gravi preoccupazioni rispetto al modo in cui gli Stati Uniti hanno affrontato il problema del Kosovo: 
“Qui si sta parlando del sovvertimento all’incontrario di tutti i fondamenti e di tutti i principi del diritto internazionale che, in quanto pilastri dell’esistenza dell’Europa, sono stati ottenuti ed instaurati al prezzo di enormi fatiche e nel dolore, con tanti sacrifici e tanto sangue.
Nessuno è in grado di presentare piani precisi o di azione nel caso di una reazione a catena, quella di future dichiarazioni di indipendenza unilaterali. Stiamo verificando che gli Stati Uniti e i loro alleati nella NATO hanno l’intenzione di muoversi in una maniera disinvolta in una questione di importanza fondamentale. Tutto questo risulta semplicemente inammissibile ed irresponsabile. Sinceramente, non arrivo a comprendere i principi che guidano i nostri colleghi Americani e nemmeno quelli degli Europei che hanno adottato questa posizione”. 
 
Roger Cohen liquida queste considerazioni con qualche parola : “L'orso russo si sta agitando.”
E aggiunge: “La Russia sta lanciando alte grida. Ma ha puntato su un cavallo sbagliato.” Allora, non esistono questioni gravi, non esistono questioni di principio. Solamente “boatos” e la posta in palio.
Ancora, Cohen scrive: “ Milosevic ha gettato i dadi del nazionalismo che induce al genocidio ed ha perso!”. Questa affermazione non è solamente falsa, costituisce anche una metafora grottesca. Milosevic ha cercato di sopprimere un movimento secessionista armato (UCK), sostenuto segretamente e in modo efficace dalla vicina Albania, dagli Stati Uniti e dalla Germania, cosa che ha deliberatamente provocato per reazione l’assassinio, e dei Serbi, e degli Albanesi fedeli al governo. Sull’esempio degli Americani in analoghe circostanze, Milosevic ha troppo confidato sulla superiorità militare, trascurando le finezze diplomatiche. Comunque, lo stesso Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia, sponsorizzato dalla NATO, aveva dovuto abbandonare tutte le accuse di “genocidio” in Kosovo contro Milosevic, per la semplice ragione che non esiste l’ombra di una prova per suffragare questo genere di accuse.
 
Milosevic non è più di questo mondo e la Russia è tanto lontana. Ma che dire dei Serbi che vivono ancora nella parte storica della Serbia chiamata Kosovo? Cohen si fa carico di questo problema con poche parole: “Un buon numero dei 120.000 Serbi del Kosovo possono fare fagotto.”
Come faceva rimarcare Aldous Huxley, “lo scopo del propagandista è quello di fare dimenticare ad un gruppo di persone che altri gruppi di persone sono costituiti da esseri umani.”
E, dopo questo, andate voi a dire a quelli di fare fagotto! 
 

Un caso “unico” 

 
La Russia ha messo in guardia contro il fatto che l’indipendenza del Kosovo avrebbe ingenerato un precedente pericoloso, e quindi un incoraggiamento per altre minoranze etniche a seguire l’esempio degli Albanesi e a reclamare la secessione e uno Stato Indipendente. Gli Stati Uniti hanno disprezzato queste preoccupazioni, affermando in maniera netta che il Kosovo costituisce un caso “unico”.
Ebbene sì, il Kosovo costituisce un caso unico, e persino è l’unico riconosciuto dagli Stati Uniti,...fino a quando si presenterà il prossimo “caso unico”. Dal momento in cui i criteri del diritto internazionale sono stati gettati nella spazzatura, ci si è dovuti confrontare solo con “casi unici”, uno dopo l’altro.
Questa “unicità” messa in evidenza dagli Stati Uniti non è nient’altro che una montatura propagandistica, che poggia sulla pretesa “unicità” della repressione da parte di Milosevic di un movimento secessionista armato, che, in effetti, non aveva assolutamente nulla di unico. Si trattava della procedura seguita abitualmente lungo tutto il corso della storia e in tutto il mondo, in tali circostanze. Deplorevole, certamente, ma assolutamente non unica. Comunque dalle caratteristiche nemmeno confrontabili rispetto alle operazioni contro-insurrezionali interminabili e molto più sanguinose messe in atto in Colombia, nello Sri Lanka o in Cecenia, per non parlare dell’Irlanda del Nord, della Tailandia o delle Filippine. E, al contrario delle operazioni anti-insurrezionali portate avanti in Iraq e in Afghanistan, che hanno procurato un numero incomparabilmente maggiore di morti civili, questa procedura veniva applicata da un governo nel pieno diritto, democraticamente eletto dal paese, e non da una potenza straniera.
Questo carattere “unico” è una astrazione propagandistica. Effettivamente il Kosovo è unico, come lo è qualsiasi posto al mondo. Ma per delle ragioni che non hanno nulla a che vedere con il pretesto avanzato dagli Americani, per impadronirsi del Kosovo e trasformarlo in un avamposto dell’Impero.
 
Per capire ciò che rende unico un posto, è necessario interessarsene.
Io non mi sono più recata in Kosovo dopo la guerra della NATO del 1999. In una certa occasione, nell’agosto 1997, ho percorso la provincia a mie proprie spese, in una Skoda sgangherata, giusto per vedere. Percorrere il Kosovo in automobile poteva presentare qualche rischio, in parte a causa del grande numero di cani morti che ingombravano le strade, ma soprattutto per la indecente abitudine da parte dei conducenti locali di sorpassare i veicoli più lenti da ogni lato della strada, e in curva.  Nel nord del Kosovo, proprio all’uscita dalla cittadina di Zubin Potok, questa mania si è concretizzata attraverso una delle sue inevitabili conseguenze: uno scontro frontale – con feriti gravi– che ha bloccato la strada a due corsie per delle ore, durante le quali le ambulanze e la polizia tentavano di porre rimedio alla situazione. 
Nell’impossibilità di proseguire il mio viaggio verso Pristina, sono ritornata a Zubin Potok ed ammazzavo il tempo sulla terrazza ombreggiata di un ristorante ai bordi della strada. Ero la sola cliente e l’unico cameriere, un uomo giovane, alto ed elegante, che si chiamava Milomir, aveva accettato con piacere il mio invito a sedersi con me e a chiacchierare, mentre io sorseggiavo un bicchiere dopo l’altro di un delizioso succo di fragole.
Milomir era felice di scambiare due parole con qualcuno che conosceva bene la città francese di Metz, che aveva visitato quando era studente, e di cui si ricordava non senza commozione. Amava la lettura e viaggiare, ma, nel 1991, si era sposato e oramai aveva due figliolette da mantenere. Le prospettive di lavoro erano limitate, anche se era andato all’università, tanto che non aveva avuto altra scelta che quella di rimanere a Zubin Potok. Quanto all’Europa, anche se era arrivato ad ottenere un visto, (cosa impossibile per i Serbi), non poteva esprimersi in nessuna lingua dell’Occidente se non nella sua lingua madre, il serbo-croato. Aveva studiato il russo (amava la letteratura russa) e l’albanese come le sole lingue straniere. Aveva studiato l’albanese per essere in grado di comunicare con la maggior parte degli abitanti del Kosovo. Ma questa comunicazione risultava faticosa. Milomir era un grande sostenitore di una società bilingue e valutava con favore che tutta la gente del Kosovo dovesse apprendere sia il serbo che l’albanese, cosa che disgraziatamente non avveniva. Tutte le nuove generazioni di Albanesi si rifiutavano di imparare il serbo, preferendogli l’inglese.
La cittadina di Zubin Potok era situata nelle vicinanze della diga costruita sul fiume Ibar, alla fine degli anni Settanta, per ricavarne energia idro-elettrica. Io arrivavo da Novi Pazar e avevo costeggiato il lago artificiale creato dalla diga, e per 35 km avevo cercato invano un posto piacevole per fermarmi. Pensavo che avrebbero dovuto esserci dei villaggi lungo il fiume Ibar, prima della costruzione della diga, e quindi domandai a Milomir informazioni a questo riguardo. Sì, mi rispose, il lago artificiale aveva sommerso una ventina di vecchi villaggi, la cui popolazione era etnicamente mescolata, ma a maggioranza Serba. Le autorità comuniste albanesi di Pristina avevano reinsediato i Serbi, circa diecimila persone, al di fuori del Kosovo, attorno alla città di Kraljevo.
 
Si trattava solo di un piccolo esempio dei provvedimenti amministrativi assunti per ridurre la presenza della popolazione Serba durante il periodo precedente a Milosevic, quando gli Albanesi dirigevano la provincia attraverso il sotterfugio della locale Lega dei comunisti. 
Milomir non si commiserava, ma rispondeva con grande semplicità alle mie domande. Lui non si recava troppo di frequente (prendendo l’autobus, dato che non possedeva una vettura) nella città importante più vicina, Mitrovica, per il timore di essere aggredito dagli Albanesi.                                  Molto semplicemente, tutto questo faceva parte dell’esistenza, in un’epoca in cui, secondo i mezzi di informazione Occidentali, gli Albanesi del Kosovo erano terrorizzati dalla repressione dei Serbi.
Finché noi si chiacchierava, è spuntato un suo amico e la conversazione si era indirizzata sulla politica. Era in corso una campagna elettorale per la Presidenza. I due giovani desideravano conoscere quale fra i candidati reputassi migliore per la Serbia, agli occhi del mondo. Milomir era un estimatore di Vuk Draskovic e il suo amico per Vojislav Kostunica. Nessuno dei due avrebbe immaginato di votare per Milosevic o Seselj, il dirigente nazionalista del partito Radicale. 
 

Zubin Potok, attualmente

 
Io non ho alcuna idea dove siano andati a finire Milomir, sua moglie, le sue due bambine, ed anche il suo amico. 
Zubin Potok è la municipalità più ad ovest nel Kosovo settentrionale, con una popolazione predominante Serba. Da Internet, ho appreso che la popolazione della municipalità di Zubin Potok (compresi i villaggi circostanti) è quasi raddoppiata dopo il mio passaggio. Attualmente rasenta i  14.900 abitanti, compresi i 3.000 Serbi profughi interni (originari da altre regioni del Kosovo, dove la maggioranza Albanese li ha cacciati dopo l’arrivo della NATO), i 220 rifugiati Serbi provenienti dalla Croazia e 800 Albanesi. L'Assemblea locale è dominata da una maggioranza schiacciante del Partito Democratico di Serbia, di Kostunica, ma comprende anche due rappresentanti degli Albanesi del Kosovo.  
Fino a questo momento, le scuole, gli ospedali, e gli altri servizi pubblici, e in definitiva tutta l’economia locale, hanno continuato a funzionare grazie in gran parte ai sussidi di Belgrado. La dichiarazione Albanese di indipendenza del Kosovo sta creando una crisi, vista la pretesa che sia posto un termine alla concessione vitale di questi aiuti, anche se un “Kosovo indipendente” si dimostra incapace di rimpiazzarli. Per di più, gruppi di nazionalisti Albanesi dichiarano che Zubin Potok “è Albanese” e che deve essere “liberato dalla presenza Serba”. Questo si può vedere su You Tube, e questi Albanesi utilizzano come simbolo la Statua della Libertà e minacciano i Serbi attraverso musiche rap in Albanese. 
L'Unione Europea sta per intervenire in modo da imporre la legge e l’ordine. Ma l’“ordine” che pretende di assicurare è quello stesso che vorrebbero imporre i nazionalisti Albanesi.
Cosa potrà significate tutto questo per persone come Milomir e la sua piccola famiglia?
Per Roger Cohen, la risposta è facile: “Fate fagotto!”
La Serbia, comunque sia, ospita già il numero più imponente di rifugiati in Europa, le vittime delle “pulizie etniche” in Croazia e in Kosovo. E i Serbi non possono ottenere ne’ visti ne’ lo status di rifugiati nell’Europa occidentale. Sono stati etichettati come “cattivi soggetti”. Solo i loro nemici possono essere catalogati come “vittime”.
 

Prima e dopo

 
Prima della guerra e dell’occupazione della NATO, il Kosovo era tuttavia una società multietnica. L'accusa di “apartheid” era molto semplicemente un elemento della propaganda albanese, visto che i dirigenti Albanesi aveva scelto di utilizzare questo termine, pesante di significati, per descrivere l’effettivo loro boicottaggio dei Serbi e delle istituzioni Serbe. Qualsiasi azione di polizia nei confronti di un Albanese, qualsiasi fosse la ragione, che si trattasse di ribellione armata o di un reato ordinario, veniva descritta come una “violazione dei diritti dell’uomo” attraverso la rete di comunicazioni Albanesi sui diritti dell’uomo, finanziata dal governo degli Stati Uniti.
Si trattava di una situazione paradossale: i governi di Serbia e Jugoslavia consentivano ad un “governo del Kosovo”, separatista ed illegale, sotto la direzione di Ibrahim Rugova, di tenere banco nel centro di Pristina e di ricevere regolarmente i giornalisti stranieri per regalar loro sproloqui maligni sul modo in cui il Kosovo veniva oppresso da questi orribili Serbi.   
Ma le leggi erano le stesse per tutti i cittadini, c’erano Albanesi in seno al governo locale e nella polizia e, se si verificavano casi di brutalità poliziesche (e qual’è il paese dove non ce ne sono?), gli Albanesi, quanto meno, non avevano nulla da temere dai loro vicini Serbi.  
Invece, in quello stesso periodo, erano i Serbi che avevano paura degli Albanesi. Bisognava essere lontani dal Kosovo per credere seriamente che fossero gli Albanesi che vivevano sotto la minaccia di una “pulizia etnica” (o addirittura di un “genocidio”). Un progetto simile era molto semplicemente e manifestamente fuori di proposito. Erano i Serbi ad avere paura, che parlavano di inviare i loro bambini in posti sicuri, ammesso che ne avessero avuto i mezzi, o che si ripromettevano di restare coraggiosamente, “qualsiasi cosa fosse avvenuta”.  
Più tardi, nel marzo del 1999, quando la NATO cominciò a bombardare il Kosovo, gli Albanesi fuggirono a centinaia di migliaia e la loro fuga temporanea dal teatro della guerra fu presentata come la giustificazione dei bombardamenti che l’avevano provocata.
Allora, la stampa mondiale non si preoccupò minimamente di parlare anche dei Serbi e di tutti gli altri che ugualmente erano stati costretti a fuggire dai bombardamenti.   
 
Nel 1987, in Kosovo, e in particolare a Pristina e a Pec, avevo potuto osservare un comportamento di gruppo curioso, che mi ricordo di avere visto solamente nei cortili per la ricreazione delle scuole del Maryland della mia infanzia.  Una frotta di bambini si riunisce e, con l’aiuto di segni diversi e di un minimo di parole, fanno sapere ad altri esterni al gruppo di volerli escludere e dileggiare. Ho visto degli Albanesi comportarsi nello stesso modo con dei Serbi isolati, e specialmente con delle donne anziane. Questa sorte di vessazioni veniva praticata senza violenza, nel 1987, ma questo non fu più il caso dopo l’occupazione del territorio da parte della NATO. La violenza fu incoraggiata quando la NATO suggellò ufficialmente la sua approvazione dell’odio degli Albanesi nei confronti dei Serbi, e questa ufficialità, furono precisamente le bombe della NATO a fornirla, nella primavera del 1999. 
Sicuramente, ci saranno ben stati dei Serbi che odiavano gli Albanesi! Ma nella mia esperienza limitata e data dal caso, quello che mi colpiva era l’assenza di odio verso gli Albanesi nei Serbi che ho incontrato. La presenza del timore, sì, ma non dell’odio. E molte considerazioni mi hanno lasciato perplessa.  Ad esempio, suor Fotina, del monastero di Gracanica, aveva una spiegazione molto cristiana della cosa. “Noi cerchiamo di aiutare gli Albanesi nel prendersi cura dei loro numerosi bambini, e purtroppo loro si rivoltano contro di noi. Deve essere il modo con cui Dio punisce noi Serbi per il fatto che ci siamo scostati dal cristianesimo all’epoca del comunismo.” La suora biasimava i suoi concittadini Serbi piuttosto che gli Albanesi. 
 
Comunque, il... castigo divino non si è limitato solo ai cristiani. Nel punto più meridionale del Kosovo vive una antica popolazione denominata i Gorani, gli uomini delle montagne, che sotto l’Impero Ottonano, come la maggior parte degli Albanesi, si erano convertiti all’Islam. Ma la loro lingua è il Serbo, e questo, per gli Albanesi, è inaccettabile. Le valutazioni variano, ma tutti sono concordi nel dire che per lo meno due terzi dei Gorani sono dovuti scappare dopo “la liberazione” del Kosovo da parte della NATO.
Le pressioni e le intimidazioni sono state esercitate in forme diverse.
Certi Albanesi si sono installati nelle case temporaneamente  abbandonate dai Gorani, che erano emigrati in Austria e in Germania per guadagnare il denaro che avrebbe loro assicurato una pensione di vecchiaia. 
Le autorità Albanesi, con la protezione della NATO, si sono inventati i modi per privare i bambini Gorani dell’insegnamento in lingua Serba.
Nella principale cittadina Gorani di Dragash, una banda di Albanesi ha attaccato il centro sanitario e ha costretto gli operatori medici alla fuga. 
In seguito, lo scorso 5 gennaio, una potente esplosione ha distrutta la banca di Dragash. Si trattava dell’ultima banca Serba ancora autorizzata ad operare nel Kosovo meridionale, che serviva soprattutto a trasferire le pensioni che consentivano ai Gorani del posto di sopravvivere.
 

Come di abitudine, il crimine rimane impunito

 
Nel novembre 2007, David Binder, che scriveva sulla Jugoslavia per conto del New York Times, prima di farsi espellere in quanto sapeva e parlava troppo a riguardo, ha redatto un articolo (*) su una lunga inchiesta commissionata dalla Bundeswehr, l’esercito Tedesco, sulle condizioni nel Kosovo.
L’esistenza di questo rapporto prova che, per quanto si pretenda pubblicamente che il Kosovo sia “pronto per l’indipendenza”, i governi Occidentali sono assolutamente consapevoli che questo non è il caso. Fra le altre cose, Binder scrive:
“Gli autori ufficiali dell’inchiesta, Mathias Jopp e Sammi Sandawi, hanno passato sei mesi ad intervistare 70 esperti e a studiare sodo sulla letteratura attualmente disponibile relativa al Kosovo per preparare il loro lavoro. Secondo la loro analisi, le agitazioni politiche e gli attacchi della guerriglia degli anni Novanta sono sfociati in cambiamenti fondamentali che vengono individuati nel ‘mutamento delle strutture sociali degli Albanesi Kosovari’. Ne è derivata una ‘società da guerra civile’, in cui le persone sono inclini alla violenza, senza grande istruzione e facilmente influenzabili, dove è possibile fare enormi salti sociali nell’ambito di una soldataglia raccogliticcia su due piedi.
Ci si trova in presenza di una società mafiosa, che poggia sull’occupazione dello Stato da parte di elementi criminali.” 
Secondo la definizione degli autori, “le attività criminali in Kosovo sono gestite da organizzazioni messe in piedi a colpi di pacchetti di milioni di euro, che sono dotate di esperienza di guerriglia e di capacità esecutive in campo spionistico.” Essi citano un rapporto dei servizi di intelligence Tedeschi in cui si prendeva atto dei “collegamenti molto stretti fra i dirigenti di punta della classe politica e quelli della classe criminale”; e fanno i nomi di Ramush Haradinaj, Hashim Thaci e Xhavit Haliti come dirigenti compromessi, “protetti sul piano interno dall’immunità parlamentare e su quello estero dalle legislazioni internazionali”.
Gli autori parlano anche, non senza disprezzo, del Comandante dell’UNMIK, (la Missione delle Nazioni Unite per il Kosovo), dal 2004 al 2006, Søren Jessen-Petersen, che tratta Haradinaj come un “amico stretto e personale”. Lo studio critica severamente gli Stati Uniti per avere “incoraggiato l’evasione di criminali” in Kosovo e di “impedire agli inquirenti Europei di operare”.
L’inchiesta fa nello stesso modo il punto sui “centri di detenzione segreti della CIA” a Camp Bondsteel e denuncia l’addestramento di natura militare, alla Statunitense, che la famigerata agenzia DynCorp impone alla polizia Albanese del Kosovo, con l’autorizzazione del Pentagono. 
In una nota annessa, si cita un ufficiale non identificato che avrebbe detto del Comandante Aggiunto (Statunitense) dell’UNMIK: “Il compito principale di Steve Schook consiste nell’ubriacarsi una volta alla settimana con Ramusj Haradinaj”.
 

Chi se ne va e chi resta

 
Schook è stato trasferito dall’UNMIK, i cui compiti stanno tuttavia per essere ripresi arbitrariamente dall’Unione Europea. La “missione” dell’UE consiste in una sorta di governo coloniale che, in compagnia della NATO,  prevede di governare un territorio Albanese di fatto ingovernabile. Ed infatti, movimenti di patrioti Albanesi armati stanno già preparando la loro prossima “guerra di liberazione” contro gli Europei. 
Quindi, dopo i Serbi, i Rom, i Gorani, anche gli Europei saranno obbligati a “fare fagotto”? Solo gli Americani sembrano sicuri di restare ! Installati con tutti i comfort nella loro gigantesca base di  Camp Bondsteel, gli Statunitensi controllano le vie di comunicazione strategiche dalla Serbia alla Grecia e, incidentalmente, forniscono alla massa di Albanesi Kosovari disoccupati delle opportunità di lavoro, in particolare in impieghi subalterni e pericolosi al servizio delle forze americane in Iraq o in Afghanistan.   
La realtà di questa sfacciata occupazione di un territorio è sotto gli occhi di tutto il mondo. Su questo argomento ho scritto io, ha scritto Binder, ha scritto Szamuely e ugualmente l’hanno fatto tanti giornalisti e scrittori Tedeschi. Anche i Russi, i Greci, i Rumeni, gli Slovacchi e tanti altri sanno di che si tratta. Ma, in questo che è il migliore dei mondi possibili, come viene presentato dal Nuovo Ordine Mondiale, questa realtà non esiste in via assoluta. La gente non sa nulla ! 
Lascio l’ultima parola a Aldous Huxley : 
“Molto spesso, è possibile venire a capo dell’ignoranza. Noi non sappiamo, perché noi non vogliamo sapere!”

 

Diane Johnstone è l’autrice di  “Fools' Crusade: Jugoslavia, Nato, and

Western Delusions – La Crociata degli Inganni: Jugoslavia, Nato e Allucinazioni Occidentali” pubblicato da Monthly Review Press.

 
(* Il contenuto dell’articolo di Binder può essere letto su http://www.balkanalysis.com/)