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(italiano / english)

NO WAR Assembly of July 15, 2006


=== ITALIANO ===


Assemblea NO WAR del 15 luglio 2006 

Straordinario il successo dell'assemblea autoconvocata dei movimenti contro la guerra "senza se e senza ma", per il ritiro delle truppe dall'Iraq e dall'Afghanistan, che si è svolta al centro congressi Frentani di Roma il 15/7/2006. Hanno preso parte all'assemblea oltre 1000 persone in un clima di caloroso entusiasmo. Applauditissimi, tra gli altri, gli interventi di Claudio Grassi (senatore, area PRC Essere Comunisti), Cannavò (deputato, area PRC Sinistra Critica), Cremaschi (noto sindacalista), Bulgarelli (Verdi) e di Gino Strada (Emergency), in collegamento telefonico da Kabul. Oltre a quelli di Beppe Grillo (attore) e padre Alex Zanotelli, è giunto a sorpresa l'intervento dal palco di Dario Fo (premio Nobel per la Letteratura) che ha catalizzato l'entusiasmo generale dell'assemblea, conclusasi con l'approvazione di un documento finale che riportiamo di seguito. A giudizio di tutti i presenti l'assemblea ha rilanciato in grande stile il movimento contro la guerra. Ne sentivamo davvero il bisogno! Mentre le pressioni sui senatori continuano a crescere, il dibattito parlamentare è iniziato lunedi 17 luglio.


Documento conclusivo dell’assemblea autoconvocata di Roma del 15 luglio

“NO alla guerra senza se e senza ma. Via dall’Iraq, via dall’Afghanistan”

Ci siamo riuniti oggi in tanti, pacifisti e pacifiste, esponenti dei movimenti e delle associazioni contro la guerra, sindacalisti, parlamentari, uomini e donne di partito, per dire una cosa semplice e netta: no alla guerra “senza se e senza ma”.
Il nostro grido giunge mentre in Medio Oriente una nuova, vecchia, guerra riemerge violentemente con l’uso indiscriminato delle bombe sui civili, con il terrore di Stato, con la chiusura unilaterale del dialogo e della trattativa. Una guerra che si aggiunge alle tante contro cui ci battiamo da sempre, dall’Iraq all’Afghanistan. La guerra, sempre più, si presenta come strumento privilegiato degli Stati più forti e dei potenti della Terra, a partire dalle grandi multinazionali, per costruire un “ordine” internazionale fondato sul dominio e l’oppressione che a loro volta generano morte, miserie e sempre più marcate povertà. La guerra si erge, quindi, a sistema politico globale sia nella sua versione più spregiudicata, l’unilateralismo statunitense, sia nella versione temperata del multilateralismo a copertura Onu e a guida Nato.
È contro questa guerra che noi intendiamo batterci senza mediazioni perché sulla guerra non si può mediare né, tanto meno, ridurre il danno. Se la guerra è un sistema di dominio e di oppressione – che non serve a ridurre o a depotenziare i fenomeni terroristici come la storia degli ultimi cinque anni dimostra – il NO alla guerra è fondativo di un’identità politica collettiva che ha preso le mosse nelle manifestazioni contro la guerra del Kosovo e poi contro la “guerra infinita e preventiva” in Afghanistan e in Iraq.
C’è un filo che lega queste mobilitazioni, un filo che non intendiamo spezzare.
Per questo vogliamo proporre a tutto il movimento un nuovo corso, un rilancio della nostra iniziativa per non rassegnarci né smobilitare, per mantenere una coerenza di fondo anche nelle scelte politiche contingenti siano esse di natura istituzionale o meno. Un nuovo corso che sia basato su alcuni punti essenziali:
1) Solidarietà al popolo palestinese per la costituzione di uno Stato laico e democratico sui Territori occupati nel 1967 e con Gerusalemme capitale. Questo obiettivo per essere realizzato ha bisogno di alcune condizioni sostanziali: l’immediato cessate il fuoco, il ritiro di Israele dai Territori occupati, lo smantellamento del Muro, lo sblocco degli aiuti europei al legittimo governo palestinese. Il governo italiano deve impegnarsi su questi punti a cominciare dalla revisione dell’accordo di cooperazione militare con Israele e dalla richiesta di un intervento di interposizione dell’Onu nei Territori occupati.
2) Via dall’Iraq e via dall’Afghanistan. L’occupazione militare di questi Paesi non costituisce la soluzione di un problema ma rappresenta il problema. L’Italia deve farsi portavoce di un’iniziativa di pacificazione e di impegno in direzione della cooperazione e della solidarietà civile. Questo significa contrastare il ruolo di gendarme mondiale della Nato a cominciare dalla revisione degli accordi di Washington del 1999.
3) Via le basi militari e via il nucleare dal suolo italiano;
4) Riduzione delle spese militari con la completa revisione del nuovo modello di Difesa che prevede l’incremento di missioni militari all’estero, per una politica di disarmo e per la riconversione dell’industria bellica senza penalizzazioni per i lavoratori e le lavoratrici.

Questo appello deve vivere nelle iniziative che sapremo realizzare sia a livello parlamentare sia, soprattutto, a livello sociale, a cominciare dalle mobilitazioni delle prossime settimane. Il movimento per la pace rappresenta ancora oggi la maggioranza civile di questo paese. È nostro dovere dargli voce, offrirgli gli strumenti per esprimersi, costruire un nuovo slancio unitario e radicale perché la guerra sia bandita dalla Storia.


ALTRI REPORTAGE, FOTO, ED ALCUNI DEGLI INTERVENTI IN ASSEMBLEA, AL SITO:

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=395


Le adesioni internazionali 

Con l'assemblea di Roma e, più in generale, con la battaglia che stanno conducendo gli 8 senatori "no war" contro il rifinanziamento della missione militare italiana in Afghanistan, hanno solidarizzato singoli, associazioni e formazioni politiche di ogni parte del globo. 

Tra gli  intellettuali impegnati contro la guerra si è espresso per primo Noam Chomsky, che apprezzando la "coerenza" della presa di posizione degli 8 senatori, ha voluto ricordare l'arbitrarietà con cui la NATO  dopo la fine della Guerra Fredda si è auto-affidata compiti che peraltro contravvengono ai patti stipulati al momento della caduta del Muro di Berlino. Una lettera di Walden Bello, premio Nobel alternativo 2003, indirizzata "ai nostri 8 coraggiosi senatori", scende in dettaglio sul ruolo delle forze di occupazione straniere in Afghanistan, ruolo che viene duramente stigmatizzato. Anche secondo l'economista e studioso della globalizzazione Samir Amin, "è il tempo delle scelte nette e della coerenza". I noti intellettuali francesi Georges Labica e Patrick Theuret hanno espresso anche loro solidarietà e sostegno.

Alcune organizzazioni di spicco nell'ambito del movimento internazionale per la pace, oltre ad esprimere il loro sostegno a questa lotta in corso in Italia hanno contribuito alla diffusione delle notizie su  di essa nei loro rispettivi contesti.  L'International Action Center, organizzazione trainante del movimento per la pace negli USA presieduta dall'ex ministro della giustizia  Ramsey Clark, ritiene che "c'è una alleanza tra gli USA e le potenze coloniali dell'Ottocento che attualmente costituiscono la NATO, la quale cerca di imporre il dominio straniero sul popolo dell'Afghanistan", e saluta il grande movimento di massa che in Italia fa sentire la sua voce contro la guerra in ogni occasione importante. Il Consiglio Mondiale per la Pace, storica struttura cui afferiscono centinaia  di organizzazioni di moltissimi paesi,  ha aderito sia nella sua veste internazionale,  ricordando come "il diritto internazionale e la Carta dell'ONU sono stati violati più di una volta  (...) dal potente sceriffo mondiale  e dai suoi alleati", sia attraverso le sue diramazioni locali, dal Bangladesh (Peace Council "Mukti  Bhaban"), al Brasile (CEBRAPAZ), al Canada. Il Congresso per la Pace del Canada  chiede che anche tutte le truppe canadesi siano ritirate dall'Afghanistan, e annuncia che "i canadesi manifesteranno in tutto il paese il 28 ottobre 2006 con lo slogan: Fuori dall'Afghanistan, fuori da Haiti, riportiamo le truppe a casa adesso!". 

Il Centro Anti-NATO dei Balcani (BAN-c), che rappresenta movimenti  attivi in Albania, Bulgaria, Grecia, Romania, Serbia e Turchia, ha inviato un messaggio di sostegno, così come una sua filiazione rumena, i Sibienii Pacifisti - pacifisti di Sibiu, militanti antimilitaristi della città capoluogo della omonima  provincia della Romania. Quest'ultima associazione, oggi attiva soprattutto in  battaglie anti-imperialiste quale quella contro l'allargamento ad est  della NATO (la Romania è in procinto di entrarvi), è fortemente radicata tra i lavoratori e gli operai di questo importante centro tessile e minerario. Ancora dalla Romania si sono mobilitati l'associazione Critica Sociala e numerosi esponenti del Partito dell'Alleanza Socialista (affiliato alla Sinistra Europea). Tra i politici ricordiamo anche la significativa adesione di 3 europarlamentari greci. Alcuni partiti hanno fatto pervenire la loro solidarietà agli 8 senatori italiani; tra questi, forze importanti quali l'AKEL di Cipro, il Partito Comunista Indiano (Marxista), che è stato animatore del recente Forum Sociale di Mumbai,  il partito comunista di Ungheria. E poi le gioventù comuniste di Grecia (KNE), Repubblica Ceca (KSM), Austria (KJOe). Sempre dall'Austria è pervenuta l'adesione della Sinistra del Sindacato dei lavoratori dipendenti del settore privato, della importante Federazione della Stiria del locale partito comunista, e di Iniziativa Comunista dell'Austria.

Sono pervenute infine svariate adesioni da organizzazioni di movimento, ad esempio dalla Grecia (Campagna Genova 2001, coalizione Stop the war, ...) e dal Belgio (coalizione StopUSA, Movimento cristiano per la pace, ...).

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Assemblea NO WAR del 15 luglio - Intervento di Claudio Grassi


L'aggressione del governo di Israele al Libano e al popolo palestinese è una vergogna mondiale. Ed è una vergogna il fatto che tutti quelli che ci criticano poiché saremmo filopalestinesi, non dicano una parola sul veto che gli Usa hanno messo ancora una volta all'Onu per evitare una – seppur timidissima – condanna ad Israele. Esprimiamo vicinanza alla lotta del popolo palestinese, continueremo a batterci assieme a loro perchè abbiano una terra in cui vivere. Chiediamo che venga abbattuto il muro della vergogna. Chiediamo che il Governo italiano interrompa l'accordo militare con il Governo israeliano.

Si intima a noi, parlamentari che abbiamo espresso contrarietà al disegno di legge sulle missioni militari, di rispettare il programma dell'Unione. Noi rispondiamo che è il Governo che non sta rispettando il suo programma. Per due motivi:
1) Nel programma c'è scritto che le missioni militari non sarebbero più state votate in blocco come era avvenuto con il Governo Berlusconi. Questa è stata una pressante richiesta della sinistra di alternativa per tutta la passata legislatura. Perchè anche il Governo Prodi ce le fa votare tutte assieme? Perchè abbiamo rinunciato a mettere in pratica una cosa scritta nel programma? Quindi è il Governo e non noi che non rispetta il programma!
2) Nel programma, sull'Afghanistan, non vi è scritto nulla poiché si sapeva che su quel punto non vi era accordo tra le forze dell'Unione. Perchè dovremmo accettare un disegno di legge che ricalca quello del Governo precedente al punto che Fini lo considera praticamente uguale al suo? Si doveva fare una mediazione, ma questo disegno di legge non lo è. Non dimentichiamoci che nel programma c'è il rispetto dell'articolo 11 della Costituzione e la partecipazione alla guerra in Afghanistan è in contrasto con l'articolo 11!

Perchè siamo contrari a questo disegno di legge? Perchè non c'è un elemento di discontinuità con quello varato da Berlusconi. La conferma sta nel fatto che lo schieramento di destra ha deciso di votarlo. La nostra proposta era ed è semplice: anche per l'Afghanistan bisogna predisporre un calendario per il rientro delle truppe. Inseriamo questo nel disegno di legge e, automaticamente, non ci saranno i voti delle destre e l'Unione si ricompatterà. Ma proprio la “strategia d'uscita” è ciò che non si vuole, infatti D'Alema l'ha definita, con il suo solito modo raffinato, una stravaganza. A D'Alema che ci ha definito stravaganti e incoscienti vogliamo rispondere che siamo semplicemente contro la guerra. Siamo contro la guerra sia quando siamo all'opposizione, sia quando siamo al Governo. E non accettiamo lezioni di coscienza da chi ha bombardato la Serbia per oltre due mesi. Caro D'Alema vai a chiedere ai lavoratori della Zastava, che hanno avuto la fabbrica distrutta dalle bombe “umanitarie”, chi è incosciente.

Cari compagni e compagne,
chi come me in Rifondazione Comunista ha sempre sostenuto la necessità di una politica di alleanze per battere la destre non può essere accusato di insensibilità su questo. Ma ciò non giustifica il fatto che ad una missione di guerra voti contro se sei all'opposizione e a favore se sei al Governo. Questo è devastante per la nostra credibilità. Se poi il provvedimento lo vota la destra la cosa è ancor più grave.
L'iniziativa di oggi è importante per sottolineare che certe battaglie di principio non cambiano se cambia il Governo. Grazie per l'appoggio e l'aiuto che ci state dando. Il calore di questa sala ci compensa della freddezza che viviamo nelle aule parlamentari e anche dall'amarezza che ci provocano affermazioni pesanti di nostri compagni di partito. Grazie. Stiamo uniti. Ci vediamo tutti il 17 davanti al Parlamento.

15 luglio 2006


=== ENGLISH ===


NO WAR Assembly of July 15, 2006 

A big success: such has been the self-convened assembly of the movements against the war "with no IF and no BUT", for the withdrawal of the troops from Iraq and Afghanistan, which took place at the Frentani Conference Center in Rome, 15/7/2006. Beyond 1000 persons took  part to the meeting in an atmosphere of warm enthusiasm. So much of applause, among the others, for Claudio Grassi (senator of PRC - Party of the Communist Re-foundation, wing "To be Communists"), Cannavò (parliamentarian of PRC, wing "Critical Left"), Cremaschi (well-known trade-unionist), Bulgarelli (The Greens) and Gino Strada (Emergency), the latter linked by telephone live from Kabul. Beyond Beppe Grillo (actor) and father Alex Zanotelli, lots of attention was driven by the participation of Dario Fo (a Literature Nobel Prize) who catalyzed the general enthusiasm of the assembly. The meeting was concluded with the approval of a final document whose text is reproduced in an english translation below. Everyone among the assembly participants would agree that this has been a spectacular way to prompt anew the movement against the war... whose need had been felt so strongly by all of us!
While pressures on the "8 senators" still grow, the debate in Parliament has started on Monday, 17 July. 


Conclusive document of the self-convened assembly of Rome, July 15th 
"NO to the war - with no IF and no BUT. Back from Iraq, back from Afghanistan" 

We gathered today, so many of us - pacifists, exponents of movements and associations against the war, trade-unionists, parliamentarians, party men and women - in order to say just one, simple and clean thing: NO to the war "with no IF and no BUT". 
Our outcry rises while in the Middle East a new-old war is waged, making an indiscriminate use of bombs on civilians, with State terror, with dialogue and negotiations being unilaterally cut off. A war that comes after so many wars, and we have been always standing against each of them, from Iraq to Afghanistan. More and more, war is being used as a primary instrument by the strongest States and the powerful of the Earth, such as the great transnational corporations, in order to build an "international order" based on dominion and oppression, which both on their turn produce death, miseries, deeper and deeper poverty. War itself thus becomes a globalized political system, be it in its most unscrupulous version, i.e. U.S. unilateralism, be it in the more moderated version of multilateralism, under UN cover and NATO guide. 
Against such war we want to fight, with no mediations, because nobody can "mediate", neither "reduce the damage", when dealing with war. If the war is a system of dominion and oppression - that can neither reduce nor weaken any terroristic phenomena, like the history of the past five years is demonstrating -, saying NO to the war is the constitutive act of the collective political identity which was born first in the demonstrations against the Kosovo war, and afterwards against the "infinite and preventive wars" in Afghanistan and Iraq. 
There is a thread linking together all of these mobilizations, a thread that we do not intend to break. 
This is why we want to propose to the whole movement a new course, a reintroduction of our initiative in order not to resign ourselves neither to demobilize, in order to maintain a basic coherence even in the contingent political choices, be they of institutional nature or not. 
A new course which has to be based on some essential points: 

1) Solidarity to the Palestinian people, for the constitution of a secular, democratic State on the Territories which were occupied in 1967, and with Jerusalem as the capital city. For this objective to be realized some substantial conditions are needed: the most urgent one is to cease fire, withdrawal of Israel from the occupied Territories, dismantling the Wall, delivering of the European aids to the legitimate Palestinian government. The Italian government must engage itself on these points, starting from reconsidering the agreement of military cooperation with Israel and from the demand of a UN interposition force to be stationed in the occupied Territories. 

2) Back from Iraq and Afghanistan. The military occupation of these countries does not constitute the solution of a problem but makes the problem instead. Italy should become the mouthpiece of an initiative for pacification and engagement in the direction of cooperation and civil solidarity. This means, opposing to the "world-wide police" role of NATO, starting from the revision of the Washington agreements of 1999. 

3) No military bases, no nuclear installations on the Italian ground; 

4) Reduction of the military expenses and a complete revision of the current "new model of defense" which implies an increment of military missions towards foreign countries; for a disarmament policy and the reconversion of the war industry without detriment for its workers. 

This appeal has to get vitality in the initiatives that we may realize as well at the parliamentarian level as, and above all, at the social level, beginning with the mobilizations of the next few weeks. Today, the peace movement still represents the majority of this country's population. It is our task to give it a voice, to offer to it the necessary instruments in order for it to express itself, to construct a new, unitary and radical rush, so that the war be banned, away from History, forever. 


MORE REPORTS, PHOTOS AND SOME OF THE INTERVENTIONS AT THE ASSEMBLY CAN BE FOUND AT THE WEBSITE:


The international endorsements 

Individuals, associations and political organizations from every part of the globe solidarized with the Rome assembly as well as, more generally, with the battle that the 8 "no war senators" have been waging against the refinancing of the Italian military mission in Afghanistan. 

Among the intellectuals engaged against the war, Noam Chomsky was the first to take position. He appreciated the "coherence" of the 8 senators, and recalled the arbitrariness with which, after the end of the Cold War, NATO took tasks upon itself which do not even respect the agreements stipulated on the eve of the fall of the Berlin Wall. A letter by Walden Bello, alternative Nobel Prize 2003, addressed "to our 8 brave senators", goes into details about the role of the foreign occupation forces in Afghanistan: a role that he vehemently censures. In the opinion of Samir Amin, economist and expert of globalization, "this is the time for the clean choices and for coherence". The outstanding French intellectuals Georges Labica and Patrick Theuret expressed their solidarity and support, too. 

Leading organizations of the international peace movement expressed their support to this ongoing fight in Italy and also contributed to spreading the news in their respective contexts. The International Action Center (IAC), the leading organization of the peace movement in the USA which is chaired by the former attorney general Ramsey Clark, thinks that "there is an alliance of the U.S. and the 19th century colonial powers that currently make up NATO that is attempting to impose foreign rule on the people of Afghanistan". The IAC greets the big mass movement that in Italy rises its voice against the war on every important occasion. The World Peace Council, a historical structure which unites hundreds of organizations of several countries, joined the struggle both in its international capacity, recalling that "the international right and the UN Charta have been violated more than once (...) by the powerful world sheriff and its allies", and through its local representations, from the one in Bangladesh (Peace Council "Mukti Bhaban"), to Brazil (CEBRAPAZ) and Canada. The Canadian Peace Congress demands that also the Canadian troops be withdrawn from Afghanistan, and announces that "the Canadians will be demonstrating across the country on October 28th 2006 on the slogan, Out of Afghanistan, Out of Haiti, Bring the Troops Home Now!". 

The Balkans Anti-NATO Center (Ban-C), representing movements active in Albania, Bulgaria, Greece, Rumania, Serbia and Turkey, sent a message of support, just like its Rumanian branch, the Sibienii Pacifisti - pacifists of Sibiu, militant antimilitarists of the district capital of the Rumanian province with the same name. The latter association is today above all active in anti-imperialist battles like the one against the eastward expansion of NATO (Rumania is going to join NATO); it has strong roots among the workers of this important center of textile and mining industry. Again from Rumania, the association Critica Sociala and numerous exponents of the Party of the Socialist Alliance (associated to the European Left) mobilized in support. Among the politicians, we also recall the relevant adhesion of 3 Greek euro-parliamentarians. Some parties conveyed their solidarity to the 8 Italian senators; among them, important forces such as the AKEL of Cyprus, the Indian Communist Party (Marxist), which animated the recent Mumbai Social Forum, the communist party of Hungary. More support came from the communist youths of Greece (KNE), Czech Republic (KSM), Austria (KJOe). Still from Austria, adhesions came from the Left Block of the private sector employee workers' trade union, from the important Stirian Federation of the Communist Party, as well as from Communist Initiative of Austria. 

Finally, several endorsement messages arrived from movement organizations, for instance from Greece (Campaign Genoa 2001, Stop the war coalition ...) and Belgium (StopUSA coalition, Christian Movement for Peace ...).




Cancellati / Izbrisani


1. Velimir, il "clandestino" cancellato dal computer (La Repubblica)

2. Cancellati in Slovenia: una questione europea (Oss. Balcani)

Appendice: effetti della "cancellazione" sul piano dei diritti

3. Slovenia: il futuro incerto dei cancellati / I cancellati: discriminazione continua (F. Juri / Oss. Balcani)

4. Slovenia: il difficile percorso dei diritti civili dai "cancellati" alla riforma del diritto d´asilo (Equilibri.net)


=== 1 ===

http://www.repubblica.it/2005/b/rubriche/glialtrinoi/velimir-dabeti/velimir-dabeti.html

Velimir, il "clandestino"
cancellato dal computer


Qualche mese fa a Velimir Dabeti, 37 anni, è stato scoperto col permesso di soggiorno scaduto. Come prevede la legge, gli è stato impartito l'ordine di lasciare il paese. Non ha obbedito ed è stato arrestato. Routine giudiziaria dell'Italia della Bossi-Fini. Solo che Velimir non ha avuto difficoltà ad ottenere l'assoluzione. Per un motivo banalissimo: ha dimostrato che, se uscisse dall'Italia, non saprebbe dove andare. E' un fantasma anagrafico. Precisamente, in lingua slovena, un "izbrisano". Un "cancellato".

Assieme ad alcune migliaia di uomini e di donne, è rimasto vittima di un atto di violenza antichissimo ma realizzato con la più moderna delle tecnologie. Una "pulizia etnica" messa in atto attraverso il computer.

Storia complicata nel suo sviluppo, crudelmente semplice nelle conclusioni. Per comprenderla dobbiamo fare un salto indietro di quindici anni, al 25 giugno del 1991. Quel giorno la Slovenia dichiarò la propria indipendenza e divenne uno Stato autonomo. Con tutti i problemi di uno Stato di nuova fondazione: in primo luogo, l'individuazione dei suoi cittadini. Problema particolarmente complesso all'interno della disgregata federazione jugoslava. In Slovenia vivevano da anni migliaia di uomini e donne nati in altri Stati della federazione. Così, lo stesso giorno della proclamazione dell'indipendenza, fu promulgata la "legge sulla cittadinanza". Stabiliva che i cittadini delle altre repubbliche che risiedevano stabilmente in Slovenia - entro sei mesi - dovevano presentare la domanda per il conseguimento della naturalizzazione.

"Entro sei mesi". In queste tre parole c'è la causa fondamentale della tragedia di Velimir e degli altri "cancellati". Un numero imprecisato di persone (quasi ventimila secondo fonti governative, ma sessantamila secondo altre stime) che non presentarono la domanda per tempo. Si trattava di persone umili, poco informate, o di lavoratori emigrati all'estero.

Ma il caso di Velimir ha una particolarità in più. I genitori e i fratelli sono montenegrini mentre lui è nato in Slovenia. In pratica è diventato un "izbrisano" per un fenomeno di "attrazione anagrafica" della sua famiglia. Col risultato surreale che, mentre i genitori e i fratelli hanno l'opportunità di prendere la cittadinanza montenegrina, lui non può. E' montenegrino per gli sloveni, ed è sloveno per i montenegrini. Con l'aggravante d'essere emigrato in Italia.

E' venuto da noi nel 1990. Fino al 1996 ha lavorato nella provincia di Vicenza. Poi si è trasferito a Verona dove è rimasto fino al 2002 quando il suo unico documento - un passaporto della scomparsa federazione jugoslava - è scaduto definitivamente. Velimir era un "izbrisano" da anni ma, finché aveva avuto il passaporto, era riuscito a condurre un'esistenza normale. Dal 2002 è un clandestino. Vaga per l'Italia svolgendo saltuari lavori in nero. In questi quattro anni è stato prima a Trento, poi a Bolzano, quindi a Rimini. La sua ultima residenza è nei pressi di Senigallia.

Al contrario di altri "izbrisani" non ha potuto mettersi in regola attraverso le parziali modifiche alla legge sulla cittadinanza che la corte costituzionale slovena ha faticosamente imposto al governo. Attualmente, la sua unica opportunità per uscire dalla condizione di fantasma è che l'Italia lo riconosca come apolide. Infatti, ha presentato la domanda, ma dovrà attendere almeno un paio d'anni. Nell'attesa Velimir Dabeti non esisterà. Non potrà fare nulla. Il suo caso, assieme a quelli di altri otto "cancellati", è ora all'esame della Corte europea per i diritti dell'uomo.

(glialtrinoi@repubblica. it)

(16 luglio 2006)


=== 2 ===

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4961/1/51/

Cancellati in Slovenia: una questione europea

28.11.2005 - Un'analisi puntuale sulla situazione dei ‘cancellati' in Slovenia. Dopo l'indipendenza della Slovenia molti sloveni persero la cittadinanza. La loro colpa? Non essere etnicamente omogenei alla maggioranza nel Paese. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

A cura di: Civilna iniciativa izbrisanih aktivistov – Koper, Ptuj, Ljubljana 
Karaula MiR – MigrazioniResistenze – Friuli, Roma, Slovenija 
Društvo Dostje! - Ljubljana 


La Jugoslavia socialista: tre livelli di "cittadinanza" 

Nella Repubblica Federativa Socialista Jugoslava, lo status di cittadino si articolava su tre livelli. 

La cittadinanza Jugoslava era garantita a chiunque nascesse da genitori Jugoslavi. Grazie a essa si accedeva, in linea di principio, a tutti i diritti civili e politici. 

Vi era poi un'ulteriore istituzione, la "cittadinanza di una repubblica", in base alla quale le persone venivano formalmente iscritte nel Registro dei cittadini di una delle sei repubbliche (Slovenia, Serbia, Montenegro, Croazia, Macedonia, Bosnia-Herzegovina) che hanno costituito, fino al 1991, lo stato federativo Jugoslavo (nel biennio 1991 - 1992 la maggioranza di queste repubbliche sono diventate stati indipendenti). 

"L'istituzione legale chiamata "cittadinanza di una repubblica" era sconosciuta alla gente comune. Mateuž Krivic, che è stato uno dei giudici della Corte Costituzionale slovena, ha più volte dichiarato ufficialmente che nella Repubblica Federativa Jugoslava tale istituzione era del tutto ignota perfino a numerosi avvocati". [Zorn, p. 93] 

Moltissime persone erano completamente all'oscuro di quale fosse la loro effettiva classificazione burocratica in quanto "cittadini di una repubblica". Tale classificazione era invece registrata negli archivi di polizia, dove veniva integrata da un'ulteriore informazione relativa alla cosiddetta "identità etnica". 

Si incontrava infine un terzo livello, determinante sotto il profilo dei diritti civili, ma abbastanza sorprendente per chi non sia familiare con il contesto federativo, multi-nazionale e multi-culturale della Repubblica Jugoslava: la cosiddetta "residenza permanente" (stalno prebivališče). 

La "residenza permanente" era la chiave che consentiva di fruire della quasi totalità dei diritti civili: casa, lavoro, istruzione, assistenza sanitaria… Solo attraverso di essa i cittadini jugoslavi diventavano "cittadini" nel pieno senso del termine, secondo un'accezione di "cittadinanza" funzionale e relazionale e non "etnica", che si riferisce alla possibilità di vedersi effettivamente garantire i diritti civili e il rispetto dei diritti umani. 

In base alla "residenza permanente", e non all'iscrizione nel Registro dei cittadini di una Repubblica, quanti erano in possesso della cittadinanza jugoslava potevano esercitare il diritto di voto nei referendum e alle elezioni amministrative. 

La "residenza permanente" poteva essere concessa anche agli stranieri, estendendo loro i diritti civili (escluso il diritto di voto) dei cittadini della Repubblica Federativa Jugoslava. 


Tra due fuochi 

Il 25 giugno 1991 la Slovenia proclama la propria indipendenza dalla Repubblica Federativa Socialista Jugoslava. In quel momento, sul suo territorio risiedono stabilmente oltre 200.000 persone (il 10% della popolazione) che non risultano iscritte nel Registro dei cittadini della Repubblica Slovena. 

Fin dal 6 dicembre 1990 (quando fu indetto il plebiscito destinato a sancire, il 23 dicembre dello stesso anno, l'indipendenza del paese) i gruppi parlamentari avevano formalizzato un accordo che prometteva ai membri delle minoranze italiana e ungherese e ai cittadini delle altre repubbliche jugoslave che l'esito del plebiscito non avrebbe modificato il loro "status" politico e i loro diritti civili, invitandoli a partecipare alla votazione. Nelle "Linee guida per la nuova Costituzione slovena", varate dal parlamento il 25 giugno 1991, si legge: 

"La Repubblica di Slovenia garantisce la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali di tutte le persone che si trovano sul suo territorio, indipendentemente dalla loro origine nazionale, senza alcun tipo di discriminazione…" (art. 3) 

Immediatamente prima della proclamazione dell'indipendenza, inoltre, il governo aveva promesso che avrebbe reso possibile ai circa 200.000 "immigrati interni" provenienti dalle altre repubbliche l'acquisizione della cittadinanza slovena. Questo principio fu formalizzato nella Legge sulla cittadinanza (25 giugno 1991) e nella stessa Costituzione Slovena. 

Le condizioni per acquisire la nazionalità slovena erano tre: 
1) essere stati in possesso della "residenza permanente" in Slovenia alla data del 23 dicembre 1990 (quando ebbe luogo il referendum sull'indipendenza) 
2) tale residenza doveva essere effettiva 
3) presentare formale richiesta di acquisire la nazionalità slovena, entro il termine di sei mesi. 

Secondo i dati del Ministero dell'Interno, a circa 170.000 persone, provenienti dalle altre repubbliche, sarebbe stata conferita la nazionalità slovena sulla base delle condizioni sopra elencate. 

Rimanevano oltre 30.000 persone. Di queste 
- circa 11.000 avrebbero lasciato la Slovenia 
- 18.305 non avrebbero presentato la richiesta di acquisire la nazionalità slovena entro i termini fissati (che, come si è detto, erano di soli sei mesi), oppure avrebbero presentato domanda in tempo utile, ma essa sarebbe stata respinta (le istanze rigettate, secondo il ministero, sarebbero state 2.400). Tutti costoro, in ogni caso, erano in possesso della cittadinanza jugoslava e della "residenza permanente" in Slovenia. 

Dal balletto delle cifre rese pubbliche, in modo tardivo e reticente (nel 2002), dal Ministero degli interni, non si riesce a evincere la consistenza di un terzo gruppo di persone: coloro ai quali fu concessa in un primo momento, e in seguito inspiegabilmente revocata, la cittadinanza slovena. Va specificato inoltre che la cifra di 18.305 persone si basa su dati non verificati, comunicati dal Ministero dell'Interno molti anni dopo i fatti, sotto la pressione dell'opinione pubblica. Vi è il fondato sospetto che il numero dei soggetti che si sono trovati in questa condizione sia molto più alto. A Helsinki Monitor, un'organizzazione non-governativa molto attiva in Slovenia, lo stesso ministero aveva infatti riferito una cifra sensibilmente maggiore: 62.816 persone (Rapporto annuale, International Helsinki Federation for Human Rights, 2001 - basato su dati comunicati dal Ministero dell'Interno nel dicembre 2000). Le informazioni relative a questo aspetto sono, a tutt'oggi, secretate e non consultabili. 

In ogni caso, il dato "ufficiale" di "sole" 18.305 persone corrisponde a circa l'1% della popolazione slovena. 

Le ragioni per le quali un numero così elevato di persone non ha richiesto la nazionalità slovena sono diverse. Molti erano impossibilitati a reperire i documenti necessari, dal momento che nelle regioni d'origine era esplosa la guerra. Altri non furono informati per tempo, essendo malati o assenti dalla Slovenia. Diverse persone, sconcertate dalla rapidità con cui precipitava il processo di disintegrazione dello stato federale, non se la sentirono di rinunciare allo status di "cittadino della Repubblica Federativa Socialista Jugoslava" per adottare quello di "cittadino sloveno" - punto e basta. Alcuni confondevano il concetto di "cittadinanza" con la cosiddetta "appartenenza etnica" e si sentivano rom, o ungheresi, o "bosniaci", piuttosto che "sloveni". Altri infine, nati e cresciuti in Slovenia, erano certi che la nazionalità slovena sarebbe stata loro accordata automaticamente. 

Nessuna di queste persone, in ogni caso, poteva sospettare che la mancata acquisizione della nazionalità della neonata Repubblica Slovena avrebbe comportato la perdita di tutti i diritti civili e la sostanziale compromissione dei diritti umani. 


La cancellazione (Izbris) 

Il 26 febbraio 1992 con un'operazione segreta il Ministero degli interni della neonata Repubblica di Slovenia (retta da un governo di centro-destra) rimuove dai registri di residenza permanente tutti i cittadini jugoslavi (18.305 persone, secondo i dati diffusi diversi anni dopo dallo stesso Ministero degli Interni) che non hanno richiesto, o non hanno ottenuto la nazionalità slovena, privandoli con questo atto di ogni diritto civile e facendo venir meno le basi legali e materiali della loro esistenza. 

Nella Slovenia di oggi, infatti, come nel precedente stato federale jugoslavo, i diritti sociali (diritto al lavoro, alla scolarizzazione, alla casa, alla pensione, all'assistenza sociale e sanitaria – la possibilità stessa di aprire un conto corrente bancario…) sono strettamente legati al permesso di "residenza permanente", una sorta di "zoccolo duro" al quale sono ancorati i diritti delle persone. 

La rimozione avvenne senza la minima base legale e senza che le persone coinvolte fossero informate. I loro dati anagrafici furono spostati dal registro dei residenti permanenti della Repubblica Slovena a un altro elenco ("Neaktivna evidenza - Evidenza inattiva" – uno dei misteriosi "buchi neri" del Ministero degli Interni), che raccoglie i nominativi di quanti, non essendo più in vita o per altri motivi, hanno perso definitivamente l'esercizio dei diritti civili. 

Ha luogo, con questo atto, la "cancellazione" di oltre 18.000 persone. Un "genocidio virtuale" che si consuma davanti ai monitor dei computer, ma è destinato ad avere effetti devastanti su molte decine di migliaia di cittadini. Esso, infatti, non coinvolge solo i singoli "cancellati", ma l'insieme delle loro famiglie. 

Sul momento, tuttavia, in apparenza nulla accade. La vita procede normalmente, nella tranquilla Repubblica di Slovenia. Dovranno trascorrere mesi, oppure anni, prima che gli "izbrisani", i "cancellati", si rendano conto che è stata decretata la loro "morte civile". La rivelazione avviene in vari modi, con apparente casualità, secondo un copione che mira a dissimulare il carattere premeditato e sistematico dell'intera operazione. 

"Nel 1992 volevo rinnovare, a Dravograd, la mia patente di guida. L'impiegata mi aveva chiesto di portare anche il passaporto perché doveva registrare dei dati. Ha preso il passaporto, è andata in un'altra stanza e l'ha bucato. (…) Mi parve strano, perché era valido fino al 1995. Infine concluse: "Lei non può avere i nostri documenti." Così sono rimasto senza documenti e, ovviamente, la mia patente non è stata prorogata. L'impiegata mi disse che potevo farlo nel mio paese." 
[Zorn, p.104-105] 

E' una delle modalità classiche attraverso le quali puoi scoprire di essere stato "cancellato". Ti convocano in un ufficio pubblico con un pretesto, ti chiedono di portare il passaporto e gli altri documenti e poi, sotto il tuo sguardo esterrefatto, li distruggono. 
Esistono altri scenari: ti presenti per il rogito della casa, ma il notaio ti informa, ridacchiando, che non puoi acquistarla perché sei uno "straniero"… "illegale" per giunta, clandestino insomma. 
Oppure c'è stato un incidente stradale e all'ospedale si rifiutano di somministrarti le cure necessarie: non hanno diritto all'assistenza sanitaria, gli stranieri illegali. 
Non serve a nulla far presente che da vent'anni paghi i contributi, come gli altri lavoratori. 

Perdendo la "residenza permanente" non sei diventato solo, di punto in bianco, uno "straniero" - ma uno "straniero senza permesso di soggiorno". Anzi, sei precipitato ancora più giù, se possibile, perché non hai neppure una casa da qualche altra parte del mondo, né un'ambasciata alla quale rivolgerti. 

Era questa, la condizione degli "apolidi" che si aggiravano per l'Europa negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Fuggiti dalla Germania di Hitler senza un passaporto 

"…non avevano diritto di vivere da nessuna parte. Erano costretti a rimanere in movimento… una marcia infinita, interrotta solo dall'arresto per "ingresso illegale nel territorio dello stato", e dalla successiva deportazione in un altro paese dove li attendeva il medesimo destino. Questa è la storia della gente senza passaporto. Ha inizio a Vienna, nel 1937, prima dell'occupazione nazista dell'Austria". 

Comincia con queste parole il film "So ends our night", uscito negli Stati Uniti nel 1942, cinquant'anni prima dei fatti di cui si parla. 


Alcune conseguenze della cancellazione 

Un grande numero di "cancellati" fu costretto a emigrare. Diversi ottennero asilo politico in Italia, in Germania, in Jugoslavia, e perfino… in Slovenia. Accadeva a chi aveva la fortuna di imbattersi in un funzionario comprensivo, disposto a chiudere un occhio, che accettava di derubricarlo da "cittadino con residenza permanente" a "richiedente asilo": un primo passo nel durissimo cammino verso la ricostruzione di uno straccio di "visibilità civile". 

Moltissimi rimasero in Slovenia in condizioni di clandestinità, venendo spesso rinchiusi in carcere o in qualche Centro di Permanenza Temporanea. In alcune occasioni, la "cancellazione" ebbe conseguenze tragiche. Vi furono casi di suicidio, altri di morte nell'indigenza o perché era stata negata l'assistenza medica. 

Una ragazza, ricoverata d'urgenza per partorire, si vide sottrarre il figlio neonato perché l'assicurazione sanitaria era stata cancellata insieme a lei. Non poteva pagare il conto dell'ospedale e il bambino venne preso in "ostaggio". [Juri 1] 

Nella grande maggioranza dei casi i "cancellati" hanno perso il posto di lavoro, senza la possibilità di trovarne un altro. Molti sono rimasti senza pensione. Non potevano più guidare l'automobile, perché la patente di guida, rilasciata in Slovenia, era stata distrutta insieme agli altri documenti. Non erano in condizione di lasciare il paese, dal momento che non vi sarebbero potuti rientrare. Venivano spesso cacciati dalle proprie abitazioni, e anche quando ciò non accadeva, perdevano il diritto di riscattarle (nel processo di privatizzazione, gli appartamenti di proprietà dello stato potevano essere acquistati a un prezzo assai conveniente dagli inquilini – purché dotati di "residenza permanente"). 
Numerose famiglie sono state divise dalla "cancellazione", e ad alcuni genitori è stato impedito di formalizzare il proprio ruolo di padre. 


Dalla "residenza permanente" alla "permanenza temporanea" 

B.R. era arrivata in Slovenia negli anni '80 come giovane operaia dalla Bosnia. Era impiegata in una fabbrica tessile e viveva in un piccolo paese, dove aveva preso in affitto una stanza. All'inizio degli anni '90 perse il lavoro. 

Non avendo richiesto la nazionalità slovena, fu cancellata dal "registro di residenza permanente". Stava per perdere anche l'appartamento, perché non poteva più permettersi di pagare l'affitto. Un giorno - era il 1994 - si presentò la polizia a casa sua e le chiese i documenti. Non potendoli esibire, in quanto "cancellata", venne trasferita a Ljubljiana e rinchiusa nel Centro di Permanenza Temporanea. 

Per tutto questo tempo, B.R. ha "vissuto" nel Centro di Permanenza Temporanea, con l'eccezione di due o tre anni, passati in un "Centro profughi", e di un anno, trascorso all'ospedale psichiatrico. 
(Da una testimonianza raccolta da Jelka Zorn [Zorn, p. 122]) 


Terzo stato 

La Bosnia è costituita da tre entità: musulmana, serba e croata. D. P. era un serbo di Bosnia, anno di nascita 1959. La famiglia vive ancora in Slovenia (la figlia ha 27 anni). Aveva la residenza permanente in Slovenia. La polizia lo ha espulso in Croazia: il "terzo stato". I croati lo hanno accettato, e immediatamente deportato nello stato bosniaco (1992), dove fu consegnato all'enclave croata in Bosnia. 

Un serbo nell'enclave croata? All'epoca, equivaleva a una condanna a morte. Fu rinchiuso in diversi lager, e infine, probabilmente, ucciso. Pare sia stato identificato attraverso il DNA, in una fossa comune. (Documentazione Croce Rossa, UNHCR. Archivio Alexander Todorović.) 

"Questo procedimento era, all'epoca, usuale. I nostri poliziotti non lo hanno consegnato ai croati, gli hanno semplicemente ingiunto di attraversare il confine - prendendo un treno regolare." 
(Dichiarazione del capo di gabinetto del Ministero degli Interni, consigliere del governo. Nel 1998 è diventato direttore generale della polizia. Archivio Alexander Todorović.) 


Terra di nessuno 

M.B. ha vissuto in Slovenia dall'inizio degli anni '70. E' sposato con due figli. Negli anni '80 ha intrapreso un'attività commerciale. All'epoca della secessione ha richiesto la cittadinanza e nel 1992 è diventato cittadino sloveno. Per poter comprare l'appartamento in cui viveva con la famiglia, una casa popolare data in concessione dallo stato, ha dovuto vendere tutti i poderi che aveva in Bosnia. 
Quando nel 1993 si reca al Comune per rinnovare la carta d'identità, gli ritirano tutti i documenti e glieli invalidano. Scopre così che la cittadinanza gli è stata revocata ed è stato cancellato dal "registro di residenza permanente" – alla stessa stregua di coloro ai quali non era mai stata conferita la nazionalità slovena. 

All'improvviso la sua vita si capovolge. Non ha più diritto di comprare l'appartamento e tutto il denaro messo da parte viene usato per gli avvocati (per la denuncia per "espropriazione illegale del diritto di cittadinanza" e "cancellazione illegale dal registro dei cittadini"). 

Viene cacciato dalla Slovenia per due volte. Sebbene sia di origine serba (serbo bosniaco) è deportato al confine croato nel periodo peggiore della guerra. La polizia croata lo respinge alla frontiera; quella slovena sarebbe tenuta a riportarlo indietro. 

Durante il viaggio di ritorno, i poliziotti fermano la macchina nel territorio tra i due posti di blocco, che non appartiene a nessuno dei due stati. Lo trascinano fuori dall'automobile, gli ficcano una pistola in bocca: "Se ti azzardi a tornare, la prossima volta premiamo il grilletto". 

M.B. chiede aiuto ai poliziotti croati. Gli preparano un caffè, e gli spiegano che ogni giorno la polizia slovena consegna loro una dozzina di persone. I croati vengono accolti (c'è bisogno di combattenti); i serbi, rimandati indietro. Alla fine gli indicano il punto in cui può attraversare il confine clandestinamente.

Die Medien und der Krieg

Beim Angriff auf Jugoslawien 1999 marschierten Journalisten im
Gleichschritt mit den NATO-Aggressoren.
Diese Parteinahme hält bis heute an

Eckart Spoo

Als im Frühjahr 1999 die ersten NATO-Bomben auf Serbien fielen,
geschah es in Hannover, daß ein junger Patient der Medizinischen
Hochschule es ablehnte, von Frau Dr. Ljiljana Verner behandelt zu
werden. Seine Begründung: Die Oberärztin habe selbst zugegeben,
Serbin zu sein.

So erging es Serben am Ende eines Jahrhunderts, in dem Deutschland
schon zweimal Serbien überfallen hatte und nun an einem dritten
Angriffskrieg gegen dieses Land teilnahm.

Im Mai 2006 fanden im deutsch-niederländischen Grenzgebiet wie
alljährlich gemeinsame Veranstaltungen zum Gedenken an die Schrecken
des Zweiten Weltkrieges und zur Mahnung für den Frieden statt,
inspiriert von dem Komitee »Nooit meer – Nie wieder«. Dessen
Hauptgründer auf deutscher Seite war der evangelische Pfarrer Koch
(Emlichheim) gewesen, der im Widerstand gegen das Naziregime gekämpft
und im KZ gelitten hatte. Diesmal war als Rednerin Ljiljana Verner
eingeladen, und es sollte eine Fotoausstellung gezeigt werden, die
ein Kriegsverbrechen dokumentiert: die Zerstörung der Brücke von
Varvarin (Zentralserbien) durch NATO-Bomber am Pfingstsonntag 1999.
Die Ausstellung wurde vom Bürgermeister der niederländischen Gemeinde
Dinkelland abgesagt, und die deutsche Nachbarstadt Nordhorn beeilte
sich, dem Komitee »Nooit meer – Nie wieder« die Unterstützung zu
entziehen. Von den Opfern des NATO-Kriegs zu sprechen, erschien den
tonangebenden Kommunalpolitikern als unvereinbar mit dem Gedenken an
die Opfer des Zweiten Weltkriegs.

Und daß ausgerechnet Ljiljana Verner eingeladen worden war! Die
Serbin! Haben wir es etwa nötig, auch einmal die Gegenseite zu Wort
kommen zu lassen! Darüber empörte sich die Nordhorner Stadtverwaltung
und warf »Nooit meer – Nie wieder« allen Ernstes »Einseitigkeit« vor.

Eine Provinzposse? Nein, herrschende Meinung: Die Gegenseite, die
Seite der Opfer, muß ausgeblendet werden. So war es in den ersten
Jahrzehnten nach dem Zweiten Weltkrieg, bis endlich in den 1990er
Jahren die Ausstellung über die Verbrechen der Wehrmacht zeigte, was
50 Jahre zuvor in Serbien geschehen war. Und so ist es jetzt wieder
seit dem NATO-Krieg gegen Serbien. Wenn wir die Gegenseite zu Wort
kommen ließen, würde unsere schöne Selbstgerechtigkeit gestört. Über
die Kriegsverbrechen der NATO – und der Angriffskrieg selbst war das
Hauptverbrechen – muß eisern geschwiegen werden. Mit Serben zu reden,
sind wir allenfalls bereit, wenn sie sich der Siegerjustiz demütig
unterwerfen. Sie haben selbst im eigenen Land nicht mehr viel zu
sagen. Die dortige Presse ist weitgehend von deutschen Konzernen
übernommen worden. Realität ausgeblendet Man darf sich die
Kommunalpolitiker in Dinkelland und Nordhorn nicht als ungewöhnlich
beschränkt vorstellen. Ebensowenig die christlich-, frei-,
sozialdemokratischen und grünen Stadträte in Düsseldorf, die Peter
Handke als Heinrich-Heine-Preisträger ablehnten und rüde
beschimpften. Sie fühlten sich offenbar geradezu moralisch
verpflichtet, Düsseldorf und ganz Deutschland vor der Gefahr zu
schützen, daß plötzlich nicht mehr gilt, was bisher gegolten hat.
Darf denn ein Schriftsteller daherkommen und Zweifel daran säen, daß
die Serben urböse und wir Deutschen im Recht sind? Dürfen
verantwortungsbewußte Politiker staatstragender Parteien zulassen,
daß am Ende womöglich wir selber als Mitschuldige am Verbrechen eines
Angriffskriegs dastehen? Diese braven Grünen, Frei-, Sozial- und
Christdemokraten haben vermutlich einfach geglaubt, was sie auf dem
Bildschirm gesehen, im Radio gehört, in Zeitungen gelesen haben, sie
haben es für wahr gehalten, haben sich darauf verlassen und wollen
sich weiterhin darauf verlassen können. Dann liegt das Problem aber
nicht bei diesen Kommunalpolitikern, sondern bei den tonangebenden
Medien, die immer im Gleichschritt mit der Bundesregierung und der
NATO marschiert sind.

Als Rolf Becker und ich mit der Gewerkschaftergruppe »Dialog von
unten statt Bomben von oben« im Frühjahr 1999 während des
Bombenkriegs der NATO gegen Jugoslawien durch das angegriffene Land
reisten, selbst einige Bombardements erlebten und viele unvergeßliche
Begegnungen hatten, trafen wir in Belgrad auch den damaligen
Korrespondenten der Arbeitsgemeinschaft der Rundfunkanstalten
Deutschlands (ARD), Klaus Below. Man hätte annehmen müssen, daß er in
jenen Kriegswochen täglich auf dem Bildschirm erschienen wäre, um das
deutsche Fernsehpublikum zu informieren; doch gerade damals
verschwand er vom Bildschirm. Seine Berichte, so erfuhren wir von
ihm, wurden unterdrückt – nicht von jugoslawischer Seite, sondern von
den ARD-Verantwortlichen. Was er in Jugoslawien mit eigenen Augen
sah, paßte nicht in das Bild, das die NATO-Propaganda vermittelte.
Die öffentliche Meinung in den NATO-Ländern wurde damals fast
ausschließlich von der NATO gemacht, von den Regierungen der NATO-
Länder und vom damaligen Pressesprecher der NATO, Jamie Shea, der
später recht offen und sehr zynisch in einem Buch geschildert hat,
wie er damals für die rechte Kriegsstimmung sorgte – mit erfundenen
Geschichten und flotten Sprüchen. Realistische Kriegsdarstellungen
des ARD-Korrespondenten Below hätten da nur gestört. Unsere Gruppe
versuchte selbst mit äußerst geringem Erfolg, durch tägliche
Berichte, die wir deutschen Nachrichtenagenturen und Zeitungen
schickten, die Wirklichkeit dieses Krieges bekanntzumachen. Ähnlich
erging es Peter Handke, der damals und auch vorher und nachher zu den
wenigen gehörte, die sich an Ort und Stelle umsahen und umhörten.
Lügenpropaganda Die NATO bombardierte in Serbien neben
Chemiefabriken, Kraftwerken, Schulen, Krankenhäusern, Wohngebieten,
Eisenbahn- und Straßenbrücken auch Rundfunksender –
völkerrechtswidrig. Weil das serbische Fernsehen, in dessen Zentrale
bei einem nächtlichen Bombenangriff 16 Kollegen getötet wurden,
weiterhin Fotos und Filme von den Kriegszerstörungen ausstrahlte –
Zerstörungen, die es laut NATO-Propaganda nicht gab, allenfalls
sogenannte Kollateralschäden wurden zugegeben –, erwirkte der
damalige deutsche Außenminister Fischer bei der Eutelsat-Zentrale in
London die Abschaltung der Satellitenübertragung. Das Fernsehpublikum
in Deutschland und aller Welt sollte nicht erfahren, was die NATO in
Serbien anrichtete. Glatte Zensur! Verfassungswidrig!
Zensur und systematischer Mißbrauch der Medien zu Propagandazwecken
sind mit demokratischen Prinzipien unvereinbar. Was damals geschehen
ist – und dazu gehörte auch das Mikrofonverbot für einen
südwestdeutschen Rundfunkkollegen, der zutreffend den Krieg der NATO
gegen Jugoslawien einen Angriffskrieg genannt hatte –, muß endlich
aufgearbeitet werden. Es gab Ansätze dazu. So strahlte der
Westdeutsche Rundfunk (WDR) anderthalb Jahre nach dem Krieg eine
wohlrecherchierte Sendung unter dem Titel »Es begann mit einer Lüge«
aus. Der damalige Bundesverteidigungsminister Scharping wurde in
dieser Sendung mit mehreren krassen Lügen konfrontiert, mit denen er
versucht hatte, den Krieg zu rechtfertigen. Zum Beispiel hatte er
behauptet, »die Serben« hätten aus dem Stadion von Pristina ein KZ
gemacht. Daran war nichts Wahres. Peinlich für Scharping, peinlich
für alle, die solche Behauptungen kritiklos übernommen und
weiterverbreitet hatten. Politiker der damaligen Regierungskoalition
gingen mit Verleumdungen gegen die Sendung vor, an der aber nicht das
Geringste zu beanstanden war. Die Kunst des Fragens In der
Berichterstattung über jedweden Konflikt müßten Journalistinnen und
Journalisten auf nichts so sehr bedacht sein wie darauf, daß beide
Seiten zu Wort kommen. Eigentlich eine Selbstverständlichkeit. Aber
gerade in Kriegszeiten und schon in den Zeiten der Vorbereitung von
Kriegen, also dann, wenn es am meisten darauf ankommt, vergessen die
Journalisten das Gelernte, sammeln sich unter der Fahne und machen
Propaganda; viele merken nicht einmal, wozu sie sich hergeben – so
stark ist der Erwartungsdruck, unter dem sie arbeiten.
Die Justiz kennt seit vielen Jahrhunderten den Grundsatz, daß kein
gerechtes Urteil gefällt werden kann, ehe nicht beiden Seiten Gehör
gegeben wurde. Auch der Souverän in der Demokratie kann sich kein
zutreffendes Urteil bilden, wenn er nur einseitig informiert ist. Aus
den Erfahrungen in Jugoslawien habe ich den Schluß gezogen, daß
Journalisten (ich meine solche, die überhaupt selbst recherchieren,
das sind nicht viele) den offiziellen Angaben grundsätzlich nicht
trauen dürfen, vor allem nicht den Angaben der eigenen
beziehungsweise befreundeten Seite – im Zweifelsfall eher den Angaben
der anderen Seite. Deren Darstellung hat zumindest den Wert, daß sie
uns kritikfähig gegenüber der Darstellung der eigenen Seite machen
kann. Die Gefahr, aus Leichtgläubigkeit mitschuldig zu werden,
besteht in der Regel nur auf der eigenen Seite. Die wichtigste
Wahrheit in einem militärischen Konflikt ist ohnehin immer die über
den Gegner, zum Beispiel über seine Motive und seine Stärke.
»Embedded journalists«, wie die US-Streitkräfte sie im jüngsten Irak-
Krieg auf Panzern mitfahren ließen, erfahren von dieser wichtigsten
Wahrheit nichts.

Während des Bombenkriegs gegen Jugoslawien und schon lange vorher kam
Slobodan Milosevic, der demokratisch gewählte Staatspräsident
Serbiens und Jugoslawiens, in den deutschen Medien niemals im
Originalton zu Wort. Der Prozeß gegen ihn in Den Haag hätte
Gelegenheit zur Wahrheitsfindung geben können, aber unsere
Wahrnehmungsschwäche hielt an. Berichtet wurde immer wieder, die
Chefanklägerin Carla del Ponte verfüge nunmehr über Beweise für die
Schuld Milosevics. Wie sie dann im Verhandlungssaal mit ihren
angeblichen Beweisen regelmäßig scheiterte, interessierte anscheinend
nicht. Der Prozeß endete mit dem Tod des Angeklagten, nicht mit einem
Schuldspruch, zu dem es nur unter Verdrehung der Fakten hätte kommen
können.

Weil Milosevic nicht verurteilt wurde, muß er nach einem
unaufgebbaren Rechtsprinzip als unschuldig gelten. Doch das Feindbild
»die Serben« steckt fest im deutschen Schädel – seit Generationen.
»Die Serben« sind Täter und müssen mit Sanktionen belegt werden. Sie
müssen schuld gewesen sein an den Kriegen, die wir gegen sie geführt
haben. Namentlich Milosevic. Frage ich nach, fällt allen dasselbe
Stichwort ein: Srebrenica. Was dort geschah? Was vorausgegangen war?
Was Milosevic damit zu tun hatte (nämlich gar nichts)? Das wollen sie
nicht so genau wissen. Und Kragujevac? Das interessiert schon gar
nicht. Bei diesem größten Massaker auf dem Balkan während des Zweiten
Weltkriegs (7000 Tote) waren Deutsche die Täter gewesen. Das wissen
wir nicht und wollen es nicht wissen. 1999 zerbombte die NATO fast
alle 50000 industriellen Arbeitsplätze in Kragujevac und beschädigte
auch die Gedenkstätte am Ort des Massakers von 1941. Nein, das müssen
wir nicht wissen. Kragujevac kennen wir nicht. Uns genügt Srebrenica.
Keine weiteren Fragen.

Peter Handke hat in den Auseinandersetzungen der letzten Wochen an
uns alle appelliert: »Lernen wir die Kunst des Fragens.« In der
Pariser Libération vom 10. Mai hat er davor gewarnt, über Jugoslawien
mit »ausschließlich präfabrizierten Worten, unendlich oft wiederholt,
gebraucht wie automatische Waffen« zu sprechen und zu schreiben. »Als
Einzelner«, so kommentierte am 31. Mai Cornelia Niedermeier im Wiener
Standard, »als Einzelner verteidigt er den Willen zum eigenen Blick
gegen den entliehenen Massenblick der Medien«.

Verantwortungsbewußte Journalisten sollten das als eine
Herausforderung begreifen. Peter Handke, auch und gerade mit seinen
Büchern über Serbien, fordert die Medien in den NATO-Ländern, nicht
zuletzt in Deutschland, zum Nachdenken über ihre Rolle heraus – und
nicht nur die Medien als Apparate, sondern jeden einzelnen Journalisten.

Die Kunst des Fragens wird täglich gebraucht. Nur der eigene Blick
kann uns davor bewahren, in immer neue Katastrophen hineingezogen zu
werden. Mit tatsächlichen oder vermeintlichen Gegnern müssen wir
reden, wenn wir neue Kriege vermeiden wollen. Mundtot gemacht Wo
Regierungen aufhören, den friedlichen Interessenausgleich zu suchen,
wo sie aufhören zu verhandeln, wo sie alle Kommunikation abbrechen
und wo die tonangebenden Medien die Gegenseite nur noch verteufeln
(Milosevic, »der Diktator«, »der Schlächter«, »der neue Hitler«), da
ist Krieg nicht fern. Wenn mit der Hamas, der demokratisch gewählten
Regierungspartei der Palästinenser, nicht gesprochen werden darf,
droht die physische Vernichtung der Palästinenser. Ähnlich
beängstigend ist es, daß die westliche Welt sich darauf festgelegt
hat, nicht mit dem gewählten Präsidenten von Belarus, Alexander
Lukaschenko, und anderen Vertretern des Landes zu sprechen. Im Mai
fand in Berlin ein Europäisches Friedensforum statt; der Vertreter
der Friedensbewegung von Belarus mußte fernbleiben, weil ihm
Deutschland das Visum versagte. Völker werden mundtot gemacht, bevor
sie Opfer von Bomben werden. Und die Überlebenden müssen mundtot
bleiben, damit die Täter nicht an ihre Verbrechen erinnert werden.
Mitte Juni führte die Neue Zürcher Zeitung ein ausführliches
Interview mit Peter Handke, nachdem er in Deutschland schon fast zur
Unperson geworden war. Zum Schäbigsten, was ich hierzulande
gelegentlich über ihn las, gehörten Sätze von der Art, daß er zwar
kein schlechter Schreiber sei, aber eben einen »Spleen« habe, den
»Jugoslawien-Spleen« (Frankfurter Rundschau). Das sollte einfach
heißen: Handke sei nicht ernst zu nehmen. Aber der Autor läßt sich
nicht von seinem Thema trennen. So kommen wir nicht davon. So können
wir uns der Herausforderung dieses Mannes nicht entziehen.
In einer Pressekonferenz im Berliner Theater am Schiffbauerdamm, in
der über den Berliner Heinrich-Heine-Preis für Peter Handke
informiert wurde, sagte die Initiatorin Käthe Reichel drastisch-
sarkastisch: »Keine Meinungsfreiheit, zumindest für Handke, wenn er
von Deutschland – das immer noch mit Auschwitz am Hals belastete –
erwartet, ›daß man Milosevic bitte nicht mit Hitler vergleichen‹
möge. Das ist aber zuviel verlangt. Das geht nicht. Wenn Deutschlands
Volk nicht lernt, Milosevic mit Hitler zu vergleichen, dann versteht
es die Bomben aus Deutschland auf Frauen und Kinder in Belgrad nicht
… Die Wahrheit ist dem Krieg nicht zumutbar. An ihr muß er verrecken.
Darum wünschte sich dieser Krieg, daß die Deutschen vergessen sollen,
daß die Serben sich selbst von Hitler befreit haben. An den Krieg
gegen Hitler soll man in Deutschland sich nicht mehr erinnern –
jetzt, wo Auschwitz nicht mehr in Auschwitz liegt, sondern in Serbien
und, was noch toller ist, das ganze Deutschland am Hindukusch liegt
und künftig in der ganzen Welt.«
Ein 08/15-Journalist meinte prompt, den Berliner Heinrich-Heine-
Preis, dessen Geldbetrag nach Handkes Wunsch dazu verwendet werden
soll, auf die Situation der Serben in den letzen Enklaven im Kosovo
aufmerksam zu machen, in »Milosevic-Preis« umbenennen zu sollen.
Käthe Reichel antwortete schlagfertig: »Hitler-Preis. Eigentlich
wollten Sie doch sagen: Hitler-Preis.«
Der Intendant des Theaters am Schiffbauerdamm, Claus Peymann,
Mitunterzeichner des Aufrufs für den Preis, erhielt inzwischen »Sieg
Heil«-Zuschriften. Anfang 2007 wird dort ein neues Stück von Peter
Handke uraufgeführt werden.


Eckart Spoo ist verantwortlicher Redakteur von Ossietzky.
Zweiwochenschrift für Politik, Kultur und Wirtschaft. Den Artikel
entnahmen dem aktuellen Heft (Nr. 14) der Zeitschrift (Einzelpreis
2,50 Euro, Bestellungen an ossietzky @ interdruck.net)

Wir danken der Redaktion Ossietzky für die freundliche Genehmigung
zum Nachdruck

Dokumentiert: »Berliner Heinrich-Heine-Preis für Peter Handke«


"Berliner Heinrich-Heine-Preis für Peter Handke"

»...und es fehlt nicht an gelehrten Hunden, die das blutende Wort als
gute Beute heranschleppen.« Heinrich Heine

Eigensinnig wie Heinrich Heine verfolgt Peter Handke in seinem Werk
seinen Weg zu einer offenen Wahrheit. Den poetischen Blick auf die
Welt setzt er rücksichtslos gegen die veröffentlichte Meinung und
deren Rituale.« Mit dieser Begründung erkannte die Jury dem
Schriftsteller Peter Handke den Düsseldorfer Heinrich-Heine-Preis zu.
Doch sofort reagierten einflußreiche Medien und einzelne Politiker
mit heftigen Attacken, die dazu geführt haben, daß die Düsseldorfer
Stadtratsfraktionen von SPD, FDP und Grünen die Vergabe des Preises
verweigern und verhindern.

Der Fall erinnert an die mehrjährigen Auseinandersetzungen, deren es
bedurfte, um die Benennung der Düsseldorfer Universität nach Heinrich
Heine durchzusetzen. Der in Düsseldorf geborene Dichter und
Journalist, der für die Ideen der Französischen Revolution Partei
nahm, wurde zeitlebens und über den Tod hinaus von deutschen
Zensurbehörden verfolgt. (...)
Peter Handke mahnt seit Jahren immer wieder »Gerechtigkeit für
Serbien« an. Er hat den ihm als Unverfrorenheit ausgelegten Mut, auch
auf die serbischen Opfer des Krieges hinzuweisen, die in der
deutschen Öffentlichkeit nach wie vor kaum wahrgenommen werden, da
die Medien und die führenden Politiker fast unisono den Serben
kollektiv die Täterrolle zuschreiben.

Am 18. März sagte Peter Handke in Požarevac bei der Beerdigung von
Slobodan Milosevic: »Die Welt, die vermeintliche Welt, weiß alles
über Slobodan Milosevic. Die vermeintliche Welt kennt die Wahrheit.
Eben deshalb ist die vermeintliche Welt heute nicht anwesend, und
nicht nur heute und hier. Ich kenne die Wahrheit auch nicht. Aber ich
schaue. Ich begreife. Ich empfinde. Ich erinnere mich. Ich frage.
Eben deshalb bin ich heute hier zugegen.« Diese Worte drücken ein
anderes Verhältnis zur Wahrheit aus als Rudolf Scharpings frei
erfundene Kriegsgründe, Joseph Fischers Auschwitzvergleiche und das
bedauernde Lächeln des NATO-Pressesprechers Jamie Shea über
»Kollateralschäden«. Keiner der Verantwortlichen wurde für die
Manipulationen und die Kriegspropaganda zur Rechenschaft gezogen,
noch gab es jemals eine öffentliche Debatte darüber (auch nicht nach
der verdienstvollen WDR-Sendung »Es begann mit einer Lüge« anderthalb
Jahre nach dem Beginn der NATO-Bombenangriffe auf Jugoslawien), aber ü
ber den Heinrich-Heine-Preis an Peter Handke ereifern sich Medien und
Politiker, die verbergen wollen, was er aufzudecken bemüht ist: »Denn
was weiß man, wo eine Beteiligung beinah immer nur eine (Fern-)
Sehbeteiligung ist? Was weiß man, wo man vor lauter Vernetzung und
Online nur Wissensbesitz hat, ohne jenes tatsächliche Wissen, welches
allein durch Lernen, Schauen und Lernen, entstehen kann? Was weiß
der, der statt der Sache einzig deren Bild zu Gesicht bekommt, oder,
wie in den Fernsehnachrichten, ein Kürzel von einem Bild, oder, wie
in der Netzwelt, ein Kürzel von einem Kürzel?«

Völkerverständigung kann nicht auf Propaganda gedeihen, sondern nur
auf Aufklärung. Ein trauriges Beispiel hierfür ist Kosovo – wo die
angebliche »humanitäre Intervention« der NATO ein System geschaffen
hat, in dem Serben, Roma und Juden, soweit sie trotz
Massenvertreibung noch dort ausharren, sich nicht frei bewegen
können. »Gerechtigkeit für Serbien« – 1996, drei Jahre vor dem NATO-
Krieg, hat Peter Handke diese Zeile auf einer Jugoslawienreise
notiert, ahnend, was drohte: Krieg, unter deutscher Beteiligung, als
Folge der Zerschlagung der Bundesrepublik Jugoslawien, zu der die
deutsche Außenpolitik maßgeblich beigetragen hat. 1999 war Peter
Handke wieder in Serbien, während des Krieges, miterlebend und -
erleidend, wovor er vergeblich gewarnt hatte.

Der Heinrich-Heine-Preis gehört Peter Handke! Nicht der Preis der
Stadt Düsseldorf, der entwertet ist, sondern der Berliner Heinrich-
Heine-Preis, verbunden mit einem Preisgeld in Höhe von 50000 Euro,
verliehen von allen, die Peter Handke einer Auszeichnung im Namen
Heinrich Heines für würdig halten.

Die Unterzeichner übernehmen gern die Kriterien des Düsseldorfer
Heinrich-Heine-Preises, mit dem Persönlichkeiten geehrt werden
sollen, »die durch ihr geistiges Schaffen im Sinne der Grundrechte
des Menschen, für die sich Heinrich Heine eingesetzt hat, den
sozialen und politischen Fortschritt fördern, der Völkerverständigung
dienen oder die Erkenntnis von der Zusammengehörigkeit aller Menschen
verbreiten«.

Am 10. Juni, nach Erscheinen des Aufrufs in Ossietzky, schreibt uns
Peter Handke: »Wer verdient solch einen Aufruf in die Freund- und
Freundschaftlichkeit? Ich bin berührt von Ihrer Geste, zugleich
möchte ich aber beiseitestehen und sie, die Geste, vorbeilassen für
etwas anderes, für ein Zeichengeben über mich hinaus. Warum also
nicht ein Preisgeld, wenn es zustandekäme, an die serbischen
Enklaven, die letzten, im Kosovo, übermitteln, an Dörfer, die,
allseits umzingelt, im Elendstrichter von Europa vegetieren müssen,
beschützt und bewacht von jenen Staaten, den westeuropäischen, die
ihnen mit Bombengewalt den eigenen Staat = Jugoslawien geraubt,
gebrandschatzt haben? So oder so: danke! Und, bitte, kein
Alternativpreis für mich.«

Wir werden uns gemeinsam mit Peter Handke bemühen, den Vorschlag
umzusetzen – wir teilen sein Anliegen, »ein nicht nur episodisches
Aufmerksamwerden« für alle Opfer des Jugoslawienkrieges zu bewirken.


Friedrich-Martin Balzer, Hartmut Barth-Engelbart, Ben Becker, Jürgen
Becker, Meret Becker, Rolf Becker, Hermann Beil, Esther Bejarano,
Peter Betscher, Rule von Bismarck, Daniela Dahn, Gruppe »Dialog von
unten«, Jutta Ditfurth, Evelyn Hartmann, Ralph Hartmann, Jutta
Hercher, Diana Johnstone, Dietrich Kittner, Peter Kleinert, Arno
Klönne, Monika Köhler, Otto Köhler, Kurt Köpruner, Joochen Laabs,
Otto Meyer, Werner Mittenzwei, Claus Peymann, Käthe Reichel, Renate
Richter, Karl Heinz Roth, Hans Georg Ruf, Cathrin Schütz, Hans See,
Rachel Seifert, Eckart Spoo, Peter Urban, Hanne Vack, Klaus Vack,
Michael Weber, Manfred Wekwerth, Jörg Wollenberg, Ingrid Zwerenz,
Gerhard Zwerenz

Zuschriften an: rolf.becker @ comlink.de, Fax 040 – 2803214

Treuhandkonto: Rolf Becker/Berliner Heine-Preis, Hamburger Sparkasse
(BLZ 20050550), Konto-Nummer: 1001212180 bislang sind 20000 Euro auf
dem Konto eingegangen; es fehlen also noch 30000 Euro, um Peter
Handkes Wunsch entsprechen zu können. Spenden sind also weiterhin
erbeten!


Junge Welt, 11.07.06

(Quelle: P. Betscher ü. truth@ public-files.de)

I MONDIALI NELLA TESTA


editoriale di http://www.radiocittaperta.it/nuovo/index.php

Non sono ancora del tutto smaltiti gli effetti della sbornia per la
vittoria della nazionale italiana ai mondiali di calcio. Se riteniamo
legittimi i festeggiamenti, amplificati ed evocati oltre ogni limite
dalla società dello spettacolo, una volta metabolizzata la sbornia,
non possiamo rinunciare ad usare la testa. In questi mondiali c’è chi
l’ha usata poco, c’è chi la usata male e chi la usata per conciliare
la giusta ebbrezza di un evento sportivo con le ricadute ad esso
collegata ma teoricamente estranee.

Zidàne ha usato la testa in modo ambivalente. Per tirare in porta e
per colpire Materazzi. Si indaga ancora per capire cosa possa aver
detto il difensore italiano per far infuriare così un giocatore di
classe e di lunga esperienza. Il gesto rimane sbagliato ma le
motivazioni potrebbero essere plausibili.

In Senato si cerca disperatamente un senatore di testa dura che possa
replicare la testata di Zizou nei confronti del leghista Calderoli,
il quale dopo aver condiviso l’idea dell’uso della bandiera tricolore
come carta igienica, ha gioito per la sconfitta della Francia in
quanto squadra composta da “negri, islamici e comunisti”. Una testata
a Calderoli difficilmente lo farebbe rinsavire ma almeno farebbe
giustizia.

La testa di Berlusconi sembra invece aver perso i risultati della
ricrescita occultata dalla bandana. L’immagine dei campioni dentro
Palazzo Chigi, con Prodi gongolante e lui invece in ritiro nella sua
Villa in Sardegna, ha provocato una schiumante irritazione al
cavaliere. L’Italia vince i mondiali e lui non è più presidente del
Consiglio. Nel 2002 l’Italia fu buttata fuori ai quarti di finali e
agli europei del 2004 replicò la brutta figura. Sarà una coincidenza
ma l’effetto benefico della vittoria ai mondiali sul PIL indicato da
una banca d’affari olandese potrebbe andare a vantaggio dell’attuale
governo. Durante il governo Berlusconi una coincidenza malefica portò
male alla nazionale di calcio e al paese. Adesso sembra che tocchi
anche al Milan, alla Juventus e ad altri club.

La testa del ministro Mastella andrebbe invece registrata in più
punti. Con una logica apertamente dorotea, il ministro Clemente
vorrebbe approfittare dei Mondiali per passare un colpo di spugna –
pardon, di clemenza – sull’inchiesta che ha portato sul bando degli
accusati le grandi società calcistiche ree di aver inquinato e
corrotto i risultati delle partite e di interi campionati. Mastella
vorrebbe intercettare gli umori felici dello strapaese per impedire
una doverosa opera di pulizia dentro il business del calcio. C’è da
augurarsi che giudici sportivi e giudici penali mantengano la testa a
posto e non si lascino influenzare dal clima.

Infine c’è la testa di alcuni giocatori. In campo – e non sempre -
sembrano migliori di quanto siano alle prese con il mondo. Impacciati
e stonati di fronte alla folla festante sono sembrati dei dilettanti
allo sbaraglio. Quelli con più testa sono rimasti in silenzio, quelli
con la testa confusa non si sono voluti accorgere che sventolavano
uno striscione con una celtica. Una brutta immagine che qualche ora
dopo qualcuno ha replicato con pessime scritte e pessimi slogan nelle
strade di Roma.

Rimane solo la testa del paese. Il rischio è che la leadership
utilizzi al peggio quello che il presidente Napoletano ha chiamato
riscoperta dell’orgoglio nazionale. E’ un concetto che va usato con
il bilancino perché in passato ha portato a disastri storici che sono
stati pagati a gravissimo prezzo. L’idea di trasformare gli eventi
sportivi in manifestazioni di “fiera identità nazionale” è una
tentazione fortissima che va governata con grande attenzione perché
potrebbe generare mostri sopiti ma non sconfitti nel senso comune.
Non c’è da vergognarsi ad essere cittadini italiani, si tratta solo
di emanciparsi per sentirsi compiutamente cittadini del mondo,
soprattutto se si riesce a vincere un campionato mondiale. E’ una
questione di testa... appunto.