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Versione turca: http://www.yeniozgurpolitika.org/index.php?rupel=nuce&id=83646
La Nato e la Jihad
L’alleanza dell’esercito turco con Al Qaeda non è uno scivolone. La Nato si serve da 40 anni di jihadisti come truppe ausiliarie.
All’attacco dell’esercito turco al cantone di Afrin nel nord della Siria prendono parte numerosi gruppi combattenti jihadisti. Molte di queste formazioni, che agiscono sotto le insegne dell’Esercito Libero Siriano (ESL), presentano una vicinanza ideologica o perfino organizzativa alla rete del terrorismo che agisce a livello internazionale. La sua propaggine ufficiale in Siria, il Fronte al-Nusra, per motivi tattici nel 2013 ha preso le distanze da Al Qaeda per avere più facile accesso a aiuti militari dall’estero, ma intanto nei suoi obiettivi di uno Stato islamico in Siria è cambiato tanto poco, quanto non è cambiato il modo di procedere omicida contro chi la pensa diversamente o appartiene a una fede diversa.
Dal 2017 il Fronte Al-Nusra è la forza guida dell’alleanza jihadista Hayat Tahrir Al-Sham (HTS), che tiene sotto il proprio controllo la provincia di Idlib. In base all’accordo di Astana con la Russia e l’Iran a Idlib sono stazionate truppe turche, ufficialmente per controllare la creazione di una zona libera da conflitti nella regione. Ma come ha riferito il giornalista Fehim Tastekin, per il portale di notizie Al-Monitor, facendo riferimento a fonti HTS, l’esercito turco ha garantito a HTS che l’operazione era rivolta solo contro i curdi a Afrin. Di fatto l’esercito turco, il cui ingresso a Idlib nell’ottobre 2017 è stato scortato da combattenti HTS, così è diventato forza protettrice di Al Qaeda.
Tra alcuni commentatori di orientamento liberale nei media occidentali, il patto dell’esercito NATO turco con gli islamisti ha provocato un grido di indignazione. Questa indignazione è fondamentalmente comprensibile. In effetti la NATO dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli USA conduce dichiaratamente a livello mondiale una “guerra contro il terrorismo” e gli USA dall’estate 2014 sono al vertice di un’alleanza internazionale contro il cosiddetto Stato Islamico (IS). Tuttavia è sorprendente quanto appare corta la memoria di queste aree liberali, se lì ora risuona la richiesta di un’esclusione della Turchia dalla NATO per via della sua collaborazione con Al Qaeda. Perché il rapporto dell’alleanza militare con i “guerrieri di dio” jihadisti non è affatto stata sempre caratterizzata da aperta inimicizia, anzi, il contrario.
Nascita di Al Qaeda da una banca dati
La storia è iniziata nel 1979, quando il Presidente USA Jimmy Carter ha ordinato un sostegno coperto da parte di oppositori islamisti al governo laico di sinistra in Afghanistan. L’obiettivo sarebbe stato quello di provocare in questo modo un ingresso sovietico, perché i russi cadessero così “nella trappola afgana” e avessero “la loro guerra del Vietnam”, ha poi schiettamente riconosciuto il consulente del Presidente USA per le questioni di sicurezza nazionale, Zbigniev Brzezinski. Il piano è riuscito. La decennale guerra con molte perdite sull’Hindu Kush ha contribuito in modo sostanziale al crollo del dominio sovietico.
Sotto il successore di Carter, Ronald Reagan, il sostegno ai mujaheddin con armi e denaro è cresciuto fino a diventare la più grande operazione sotto copertura nella storia della CIA, i servizi segreti degli USA. La CIA in questo evitò di avere contatti diretti con i jihadisti, dato che questi nella loro concezione di sé erano sia anti-americani che anti-comunisti. Il sostegno con armi e aiuti nell’addestramento si svolse attraverso la mediazione dei servizi segreti pakistani ISI.
Tra il 1982 e il 1992 furono reclutati circa 35.000 jihadisti da 40 Stati del mondo islamico per la “Jihad” contro l’Unione Sovietica. In scuole coraniche wahabite in Pakistan, finanziate con denaro saudita, i volontari vennero istruiti ideologicamente. Successivamente nei campi di addestramento gestiti dai servizi segreti pakistani, passarono l’addestramento alla guerriglia guidato dalla CIA. Un procacciatore di successo per i nuovi guerrieri di Dio fu l’agiato saudita figlio di un imprenditore, Osama bin Laden. Con il suo ufficio di reclutamento per i mujaheddin MAK, dalla metà degli anni ’80 esisteva la base operativa dalla quale all’inizio degli anni ’90 nacque Al Qaeda come organizzazione di bin Laden.
“Al Qaeda, letteralmente `la banca dati´, originariamente era un archivio computerizzato con migliaia di mujaheddin che erano stati reclutati e addestrati con l’aiuto della CIA per vincere i russi”, ha scritto l’ex Ministro degli Esteri britannico Robin Cook il 7 luglio 2005 sul Guardian. Il MAK, con il centro profughi Al-Kifah nella moschea Al-Farook a Brooklyn aveva perfino una base di appoggio negli USA, dove sotto la copertura di un’organizzazione di aiuti venivano reclutati combattenti per una “legione straniera arabo-afgana”.
Se non si fosse pentito di aver passato armi e know-how a futuri terroristi, chiese il giornale francese Le Nouvel Observateur nel 1998 dallo stratega US Brzezinski. “Cosa sarà più significativo nel corso della storia mondiale? I talebani o il crollo dell’impero sovietico? Qualche musulmano confuso o la liberazione del Centro-Europa e la fine della guerra fredda?”, fu la risposta.
Globalizzazione dei guerrieri di Dio
Dopo la fine dell’URSS, la CIA continuò a servirsi dei mujaheddin, che ora trovavano impiego nel Vicino Oriente, in Asia Centrale, nei Balcani e nel sudest asiatico. Dal 1992 i combattenti jihadisti accorsero nella Yugoslavia che si andava disfacendo in una sanguinosa guerra civile, per prestare sostegno ai musulmani bosniaci. Come in precedenza in Afghanistan, gli interessi tattici degli USA e di Al Qaeda si incontrarono. Perché per costringere in ginocchio il resto resistente della Yugoslavia, sotto il Presidente serbo Milosevic, la NATO intervenne militarmente nella guerra civile al fianco dei musulmani bosniaci.
L’amministrazione USA in cambio tollerò anche la rottura di un embargo sulle armi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU da parte del suo arcinemico Iran, nonché della Turchia e dell’Arabia Saudita. Attraverso la Third World Relief Agency con sede a Vienna, Al Qaeda reclutò combattenti per la Bosnia. A Osama bin Laden venne perfino rilasciato un passaporto bosniaco dal governo filo-occidentale di Alija Izetbegovic. Con il benestare del Presidente USA, Bill Clinton, i combattenti di Al-Qaeda, il cui numero venne stimato in almeno 4000 da osservatori occidentali, vennero armati e addestrati dall’esercito musulmano-bosniaco, mentre gli aerei da combattimento della NATO davano sostegno aereo.
Invero i mujaheddin impiegati come truppe di sfondamento ebbero un’influenza piuttosto ridotta sullo svolgimento della guerra per via del loro fanatismo e delle atrocità che commettevano, incontrarono un aperto rifiuto da parte della popolazione musulmana locale. Ma attraverso la loro missione in Bosnia i “guerrieri di dio”, dopo l’Afghanistan furono in grado di assicurarsi un punto d’appoggio europeo per ulteriori operazioni. Il Partito Repubblicano statunitense in un rapporto al congresso del 1997 accusò quindi il governo Clinton di “aver contribuito a creare in Bosnia una base per islamisti militanti”.
A tutt’oggi in Bosnia interi villaggi sono sotto il controllo di jihadisti radicali. Da nessun altro Paese europeo si è unita alla jihad in Siria una percentuale di volontari così alta rispetto alla popolazione come dalla Bosnia. Se l’intervento dell’amministrazione Reagan, di destra, in Afghanistan negli anni ’80 aveva creato i mujaheddin, il governo liberal dell’amministrazione Clinton con il suo intervento aperto nei Balcani negli anni ’90, ha contribuito in modo sostanziale alla globalizzazione dei “guerrieri di dio”. Dalla Bosnia alcuni jihadisti proseguirono verso la Cecenia e più tardi nel Kosovo, dove la NATO intervenne nel 1999 con massicci attacchi aerei al fianco dell’esercito di liberazione del Kosovo UCK contro la Serbia.
Dichiarazione di guerra contro gli USA
Naturalmente Al Qaeda non si è mai concepita come truppa mercenaria degli USA e della NATO. Gli USA venivano piuttosto considerati come “nemico strategico”, cosa che non escludeva alleanze tattiche come in Afghanistan e in Bosnia. Nel 1996, tramite Osama bin Laden, partì una dichiarazione di guerra ufficiale di Al Qaeda contro gli USA. Nel 1998 ci furono attacchi simultanei all’ambasciata USA in Kenia e alla portaerei USA USS Cole nel porto di Aden. Gli attentati al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 vennero usati dal Presidente USA George W. Bush come motivazione per una “guerra contro il terrorismo” a livello mondiale.
Con questo pretesto la NATO intervenne in Afghanistan, dove con i talebani, quindi gli “allievi” delle madrasse pakistane create con l’aiuto dei sauditi e della CIA negli anni ‘80, era stato costruito un regime del terrore.
Nel 2003 l’esercito USA fece ingresso in Iraq, il cui dittatore Saddam Hussein aveva usato gas tossico contro i curdi, ma non presentava alcun tipo di vicinanza con Al Qaeda. Con il crollo dello Stato irakeno, in precedenza dominato dai sunniti, e l’installazione di un governo a guida sciita a Bagdad, che ora procedeva in modo sanguinario contro i sunniti, gli USA contribuirono in modo determinante al terreno di coltura sul quale Al Qaeda poté stabilirsi in Iraq come “vendicatore dei sunniti”. Che Al Qaeda con attacchi a moschee sciite abbia iniziato una guerra di religione settaria, proprio mentre iniziava ad avvicinarsi la resistenza sunnita e sciita contro l’occupazione, dovrebbe essere stato quantomeno nell’interesse degli USA. Mentre l’amministrazione Obama inaspriva sempre di più la guerra di droni contro Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan con numerose vittime civili, dal 2011 nel Medio Oriente in Nord-Africa si arrivava di nuovo a uno spalleggiamento tra NATO e Al Qaeda.
Da Guantanamo al fianco della NATO
Nel 2011 in Libia si è disfatto il regime del colonnello Muammar al-Gheddafi. Seguaci di Al-Qaeda, dei quali alcuni in precedenza avevano combattuto contro gli USA nel gruppo combattente libico-islamico LIK o in Afghanistan e in Iraq, formarono la punta di lancia militarmente più esperta dei ribelli. Anche del “Consiglio Nazionale Transitorio” che si era formato nei primi giorni della rivolta, oltre a golpisti comandati dalla CIA e ai transfughi del regime di Gheddafi, facevano parte persone vicine a Al-Qaeda. Obiettivo dichiarato della NATO era la caduta di Gheddafi che si contrapponeva continuamente agli interessi degli Stati imperialisti per la ri-colonizzazione del Paese ricco di petrolio. Con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1973 sull’imposizione della zona di non sorvolo, la NATO ottenne il via libera per una guerra aerea contro la Libia e con questo agì di fatto come l’aviazione di Al Qaeda.
I rapporti cinici della NATO con Al Qaeda li chiariscono alcune generalità tra i ribelli libici. Abdel Hakim Belhadj negli anni ’80 aveva combattuto al fianco dei mujaheddin di Osama bin Laden in Afghanistan. Negli anni ’90 guidò il gruppo combattente libico islamico LIK che in Libia combatteva in armi per uno Stato islamico. Alla fine degli anni ’90 Belhadj fuggì dalla Libia. Dato che il LIK dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 era nella lista delle organizzazioni terroristiche degli USA, nel 2003 venne arrestato da agenti britannici e della CIA in Malaysia per sospetta appartenenza a Al-Qaeda. Dopo interrogatori in Thailandia e a Hong Kong, Belhadj l’anno successivo venne consegnato ai servizi segreti libici. Dopo un internamento di sei anni in un carcere noto per le torture, nel marzo 2010 venne liberato a seguito di trattative tra LIK e il regime. In quel momento era emiro del LIK che dal 2007 si era ufficialmente fuso con Al Qaeda nel Maghreb islamico. Con l’inizio della rivolta in Libia nel 2011, il LIK venne subordinato al Consiglio Transitorio e Belhadj diventò Presidente del potente Consiglio Militare di Tripoli. Invano Belhadj, che dopo l’uccisione di Gheddafi era diventato capo del partito islamico conservatore Watan in Libia e negava ogni legame con Al Qaeda, chiese delle scuse per il suo sequestro di un tempo.
Un altro ex militante del LIK, Abu bin Qumu, per via della sua appartenenza a Al-Qaeda venne incarcerato per cinque anni nel carcere USA di Guantanamo. Nel 2007 venne espulso in Libia, dove dopo un anno venne liberato a seguito di un’amnistia. Nel 2011 Qumu, con la sua “Brigata Darnah” combatté al fianco dei ribelli sostenuti dalla NATO.
Emirato salafita in Siria
Anche in Siria gli USA e i loro alleati – in particolare la Turchia e gli Stati del Golfo – non esitarono ad armare bande di mercenari jihadisti per l’agognata caduta del regime del Presidente Bashar al-Assad. Mentre larga parte della stampa occidentale descriveva come nobili ribelli l’opposizione armata che si presentava con il nome di Esercito Siriano Libero (ESL), i servizi segreti USA non si facevano illusioni su cosa animasse questi combattenti. Questo lo dimostra un rapporto del 2012 dei servizi informativi della difesa (DIA) delle forze armate USA. Che “l’allargamento della rivolta in Siria” avrebbe preso sempre di più una “direzione settaria”, in cui “i salafiti, i Fratelli Musulmani e AQI (Al-Qaeda in Iraq) sono le principali forze motrici della rivolta in Siria”, si legge nel documento, nel quale si prevede “la possibilità della creazione di un costituendo o non ufficialmente dichiarato califfato salafita nell’est della Siria”. “E questo è proprio quello che vogliono i sostenitori dell’opposizione per isolare il regime siriano e arginare l’espansione sciita in Iraq da parte dell’Iran”, faceva notare la DIA con riferimento all’opportunità strategica per gli obiettivi geopolitici dell’occidente, degli Stati del Golfo e della Turchia.
Quando tuttavia da una parte di Al-Qaeda/Al-Nusra nacque Stato Islamico (IS) e proclamò il suo califfato che oltrepassava i confini, gli USA nel 2014 si misero ai vertici di una coalizione internazionale anti-IS. Perché ora si trattava di arginare i “guerrieri di dio” diventati incontrollabili, che con i loro attentati mettevano in pericolo gli interessi di sicurezza del mondo occidentale anche all’estero. Che la Turchia, partner della NATO, sostenesse IS nella battaglia per Kobane e anche dopo, mantenendo aperti i confini per i “guerrieri di dio” e attraverso aiuti logistici, almeno verso l’esterno non veniva considerato una contraddizione rispetto all’appartenenza ufficiale della Turchia all’alleanza anti-IS.
Dal 2015 gli USA hanno costituito ufficialmente una buona mezza dozzina di punti di appoggio militari in Siria per sostenere le Forze Siriane Democratiche (FSD) nella lotta anti-IS. Tuttavia l’alleanza tra le FSD e l’esercito USA, per via di opposte ideologie, viene intesa da entrambe le parti solo come un’alleanza tattico-militare contro IS. Ma che la regione ricca di materie prime controllata dalle FSD resti sottratta al potere del regime a Damasco, è assolutamente negli interessi strategici di Washington. È quindi prevedibile che anche dopo la liberazione di Raqqa e Deir ez-Zor una persistente minaccia da parte di IS sia funzionale a uno stazionamento a lungo termine di truppe USA in Siria. Ma con questo IS, nella cui creazione e diffusione gli USA hanno avuto la loro parte, avrebbe assolutamente assolto il suo dovere per i piani geostrategici di Washington.
Mentre IS è stato combattuto militarmente, è continuato il sostegno politico e militare ai gruppi vicini a Al-Qaeda in Siria, ripuliti come “ribelli moderati” dai governi e dai media occidentali. Oltre 30 milizie appartenenti nominalmente all’ESL lo scorso anno sono state riunite sotto guida turca in un Esercito Nazionale Siriano che pare conti 22.000 uomini. Di questa truppa ora firmante come mercenaria della Turchia, fanno parte raggruppamenti jihadisti come l’associazione Ahrar Al-Sham, soccombente a al-Nusra nelle lotte per l’egemonia a Idlib, Harka Nur Al-Din Al-Zenki e Ahrar Al-Sharkija.
“Tutti i gruppi che predono parte all’offensiva turca, una volta o l’altra sono stati sostenuti e approfonditamente verificati dagli USA”, ha confermato Charles Lister del Think Tank di Washington Middle East Institute, che da tempo fornisce una lettura positiva di Al-Qaeda in Siria, rispetto ai gruppi che ora combattono per la Turchia a Afrin. Questa constatazione non dovrebbe suscitare stupore. USA e NATO fin dagli anni ’80 si sono continuamente serviti di jihadisti come truppe ausiliarie per far passare i propri interessi geopolitici. Questo non esclude affatto che gli islamisti radicali verranno di nuovo arginati militarmente se dovessero andare fuori controllo. La lotta contro il terrorismo viene poi a sua volta usata dalla NATO per interventi militari e per la creazione di nuove basi d’appoggio in tutto il mondo. Chi si aspetta dalla NATO una lotta coerente contro Al Qaeda & C. o una presa di distanze dalla Turchia a causa del suo patto con gli jihadisti, non ha capito la natura di questa alleanza militare imperialista.
YENİ ÖZGÜR POLİTİKA
L'arresto di Sarkozy, che tra l'altro ci mostra il carattere feudale della immunità da noi riservata agli ex presidenti della Repubblica, ha riscoperto il verminaio della guerra di Libia del 2011. Secondo gli inquirenti, nel 2007 Sarkozy avrebbe ricevuto ben 50 milioni di euro per la sua campagna elettorale. Eletto presidente anche grazie a quei soldi, egli avrebbe poi scatenato la guerra di Libia per torbidi motivi, tra i quali non si può fare a meno di considerare anche quello di mettere a tacere un creditore scomodo. E Gheddafi fu puntualmente giustiziato.
Il 19 marzo del 2011 i jet francesi iniziavano i bombardamenti in Libia, senza alcun mandato formale dell'ONU, che si era limitata a condannare il governo libico. Ben presto Sarkozy riuscì a coinvolgere nella sua sporca guerra tutta la NATO e a tal fine fu decisivo il presidente italiano Giorgio Napolitano.
Ora che la Libia non è più uno stato, ora che motovedette non si sa di chi minacciano di uccidere chi salva i migranti in mare, ora che il governo italiano paga i tagliagole perché fermino quei migranti nel deserto, i colpevoli della sporca guerra di Libia dovrebbero essere chiamati a risponderne. Giorgio Napolitano per primo dovrebbe andare sotto inchiesta, anche se a differenza di Sarkozy non rischierebbe nulla vista l'immunità. E con lui dovrebbero essere messi sotto accusa Berlusconi e tutti coloro che, più o meno convinti, hanno coinvolto l'Italia nell'intervento militare in Libia. Gran parte della classe dirigente colpevole di quella sporca guerra è stata punita dall'ultimo voto. È positivo ma non basta. Bisogna che si faccia piena luce su quella vicenda le cui conseguenze ancora paghiamo. Il parlamento faccia una commissione d'inchiesta e non lasci nulla di impunito, almeno politicamente. E i colpevoli, a partire da Napolitano, di aver trascinato il paese in una azione militare totalmente illegale, paghino per ciò che hanno fatto.
L’arte della guerra. La rubrica settimanale a cura di Manlio Dinucci
A questa guerra partecipava l’Italia con cacciabombardieri e basi aeree, stracciando il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi.
Già prima dell’attacco aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali, in particolare qatariane. Veniva così demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo, registrava «alti livelli di crescita economica e alti indicatori di sviluppo umano» (come documentava nel 2010 la stessa Banca Mondiale). Vi trovavano lavoro circa due milioni di immigrati, per lo più africani..
Allo stesso tempo la Libia rendeva possibile con i suoi fondi sovrani la nascita di organismi economici indipendenti dell’Unione africana: il Fondo monetario africano, la Banca centrale africana, la Banca africana di investimento.
Usa e Francia – provano le mail della segretaria di stato Hillary Clinton – si accordarono per bloccare anzitutto il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa imposto dalla Francia a 14 ex colonie africane.
Demolito lo Stato e assassinato Gheddafi, il bottino da spartire in Libia è enorme: le riserve petrolifere, le maggiori dell’Africa, e di gas naturale; l’immensa falda nubiana di acqua fossile, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica; i fondi sovrani, circa 150 miliardi di dollari investiti all’estero dallo Stato libico, «congelati» nel 2011 su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Dei 16 miliardi di euro di fondi libici, bloccati nella Euroclear Bank in Belgio, ne sono già spariti 10 senza alcuna autorizzazione di prelievo. La stessa grande rapina avviene nelle altre banche europee e statunitensi.
In Libia gli introiti dell’export energetico, scesi da 47 miliardi di dollari nel 2010 a 14 nel 2017, vengono oggi spartiti tra gruppi di potere e multinazionali; il dinaro, che prima valeva 3 dollari, viene oggi scambiato a un tasso di 9 dinari per dollaro, mentre i beni di consumo devono essere importati pagandoli in dollari, con una conseguente inflazione annua del 30%.
Il livello di vita della maggioranza della popolazione è crollato, per mancanza di denaro e servizi essenziali. Non esiste più sicurezza né un reale sistema giudiziario.
La condizione peggiore è quella degli immigrati africani: con la falsa accusa (alimentata dai media occidentali) di essere «mercenari di Gheddafi», sono stati imprigionati dalle milizie islamiche perfino in gabbie di zoo, torturati e assassinati.
La Libia è divenuta la principale via di transito, in mano a trafficanti di esseri umani, di un caotico flusso migratorio verso l’Europa che, nella traversata del Mediterraneo, provoca ogni anno più vittime dei bombardamenti Nato del 2011.
Perseguitati sono anche i libici accusati di aver sostenuto Gheddafi.
Nella città di Tawergha le milizie islamiche di Misurata sostenute dalla Nato (quelle che hanno assassinato Gheddafi) hanno compiuto una vera e propria pulizia etnica, sterminando, torturando e violentando.
I superstiti, terrorizzati, hanno dovuto abbandonare la città. Oggi circa 40.000 vivono in condizioni disumane non potendo ritornare a Tawergha. Perché tacciono quegli esponenti della sinistra che sette anni fa chiedevano a gran voce l’intervento italiano in Libia in nome dei diritti umani violati?
Fra i suoi innumerevoli crimini impuniti, l'operazione della Nato in appoggio a gruppi armati antigovernativi in Libia nel 2011 può annoverare una pulizia etnica in piena regola.
Durante quei mesi di bombardamenti, le milizie islamiste della città di Misurata uccisero diversi abitanti della vicina Tawergha, la città dei libici di pelle nera, diedero fuoco alle case e spinsero alla fuga bambini, donne, uomini, anziani. Circa 40mila persone. L'accusa? "Erano dalla parte del governo di Gheddafi".
I più fortunati riuscirono a riparare in Tunisia o in Egitto. Gli altri da anni sopravvivono in alloggi di fortuna: capannoni, tende nei parchi pubblici, ma anche baracche in aree desertiche. Sette anni passati invano, come ha appena denunciato l'incaricata dell'Onu per gli sfollati, la filippina Cecilia Jimenez-Damary, dopo una visita in Libia.
Le condizioni dei cittadini di Tawergha sono terribili da tutti i punti di vista e gli aiuti internazionali agli sfollati possono appena alleviarle.
Due uomini sono morti nelle tende per via delle temperature notturne vicine allo zero.
Il ritorno a casa dei deportati continua a essere bloccato dalle milizie di Misurata e dalle complici autorità locali dell'area, malgrado un accordo approvato dasl governo di unità nazionale. Il quale si dimostra del tutto inerte.
Niente sembra scalfire l'impunità legale della NATO e dei terroristi ai quali fece da forza aerea.
Per non parlare dell'impunità politico-morale di chi riuscì a chiamare "rivoluzionari", "bravi padri di famiglia", "partigiani" quei gruppi armati razzisti ed estremisti. Adesso c'è il silenzio.
Il Fatto Quotidiano ricostruisce (10 febbraio, p.4) la riunione d’emergenza con la quale l’Italia ha deciso di partecipare alla guerra di aggressione alla Libia al fianco di Francia e Gran Bretagna.
È giovedì 17 marzo del 2011 e in una sala del Teatro dell’Opera di Roma, dove si tiene la rappresentazione del Nabucco diretto da Riccardo Muti per i 150 anni dell’unità d’Italia, il Presidente della Repubblica dell’epoca, Giorgio Napolitano, convoca una riunione d’emergenza, mentre è in corso all’Onu la discussione in merito alla risoluzione sulla Libia. Presenti, oltre al capo dello stato anche “ il premier Berlusconi, il suo consigliere diplomatico Bruno Archi, Gianni Letta, il presidente del Senato Renato Schifani, il Ministro della Difesa Ignazio La Russa, mentre quello degli Esteri Franco Frattini era collegato da New York”. Alla riunione partecipa anche Guido Crosetto, all’epoca sottosegretario alla Difesa.
E sono proprio le dichiarazioni di quest’ultimo a fare luce su una vicenda drammatica della storia recente della Repubblica, dove in barba all’art.11 della Costituzione si è dato il via ad una guerra di aggressione che ha seminato morte e distruzione (anche con l’uso di uranio impoverito), gettando il paese nel caos, che ha coperto il brutale assassinio di Gheddafi, ha permesso ai tagliagole dell’Isis e di altri gruppi di fanatici di controllare ampie aree del paese e costretto l’Italia a perdere i ricchi contratti petroliferi in essere e a dover gestire – quasi da sola in Europa - il carico dell’immigrazione in partenza dalle coste libiche.
“Mi buttarono fuori dalla stanza quando dissi che la guerra in Libia era una pazzia totale, ne avremmo pagato le conseguenze. In quel momento chi ricopriva la più alta carica istituzionale in quella stanza mi fece accompagnare fuori, ma non dico il nome. Quel nome fu Giorgio Napolitano”. E continua: “Io ero sottosegretario alla Difesa e ho detto vivacemente che ero contrario all’intervento e poi ho ricordato anche le perplessità dello Stato maggiore: gli unici contrari alla partecipazione italiana all’intervento eravamo io e Silvio Berlusconi. A quel punto Giorgio Napolitano mi ha detto di andarmene perché non avevo titolo a stare lì. Insomma, mi ha buttato fuori”. Il Fatto precisa che “Il 9 Marzo, peraltro, Napolitano aveva già convocato un Consiglio supremo di difesa che aveva messo nero su bianco la disponibilità italiana alla guerra”. Ben prima, quindi della riunione formale.
Infine l’articolo si conclude puntualizzando due episodi. Primo: “Berlusconi - anche per la contrarietà della Lega - trovò la forza di resistere a metà: l’Italia partecipò alla missione Onu, ma non agli attacchi. Un mese dopo, però, il buon Silvio calò definitivamente le braghe dopo una telefonata di Obama che gli “consigliava” di partecipare alla guerra. Napolitano commentò: “È il naturale sviluppo della scelta compiuta a metà marzo” (quando lui cacciava le voci contrarie).” Secondo: “Prodi, invece, dopo ha sostenuto che “nel 2011 a Berlusconi hanno poi fatto pagare la Libia e l’amicizia con Putin...”.
Marx21.it è stata tra le poche voci critiche che si sono levate contro la partecipazione italiana alla criminale guerra di aggressione alla Libia, sostenuta anche dal governo Berlusconi. E naturalmente questa tardiva confessione di Crosetto non alleggerisce certo le responsabilità del governo italiano nell’aggressione contro uno stato sovrano che ha fatto sprofondare la Libia nel caos. Ma serve comunque a illuminare con una luce diversa il ruolo di Napolitano e a demolirne l‘immagine di “salvatore della Patria“ che l’apparato mediatico e molte forze politiche hanno cercato di costruire.
Sul Presidente emerito Giorgio Napolitano sono stati scritti diversi libri ed innumerevoli articoli. Certamente rimane l’esigenza – su un piano storico, ma ancor di più su quello politico- di un bilancio della lunga attività politica e dei risultati da essa conseguiti. Migliorista, è stato tra coloro che ha dato il contributo principale allo snaturamento – e successivo scioglimento - del più grande Partito Comunista dell’Occidente capitalistico. Primo uomo del PCI ad essere invitato negli Usa e riceverne il visto e uomo che nel suo ruolo da Presidente ha usato energicamente i suoi poteri per promuovere governi e “riforme”; bel oltre – dicono in molti- le sue prerogative istituzionali. Re Giorno, come viene appellato sui giornali, ha usato tutto il suo potere per spingere l’Italia in guerra con la Libia di Gheddafi, assecondare le intenzioni di guerra di Obama e stralciare gli interessi nazionali assoggettandoli a quelli europei. Un presidente “con l’elmetto”, che caccia i dissidenti dalle riunioni e non tiene conto delle perplessità dello Stato Maggiore della Difesa. Figurarsi dell’art.11 della Costituzione che, invece, proprio la Presidenza della Repubblica ha il dovere di rispettare e garantire.
Libia, Saif al-Islam Gheddafi torna in campo?
Scarcerato a giugno 2017, dopo sei anni di detenzione in una prigione di al-Zintan (Gebel Nefusa) grazie alla legge di amnistia generale adottata dal Parlamento libico, Saif al-Islam Gheddafi ha subito fatto sapere che voleva giocare un ruolo nella futura Libia. Ha annunciato che si presenterà alle prossime elezioni presidenziali previste nel 2018, e che metterà in campo proprie milizie per una campagna militare contro i gruppi terroristi che imperversano nei dintorni di Tripoli (1).
di Laurence-Aida Ammour - Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement)
traduzione di Ossin, 19/02/2018
La sua liberazione precede di pochi mesi la dichiarazione di Ghassan Salamé, inviato speciale dell’ONU in Libia da luglio 2017, secondo il quale il processo politico di ricostruzione deve coinvolgere tutte le parti, e le elezioni parlamentari e presidenziali devono essere aperte a tutti, in quanto « l’accordo politico (non è) proprietà privata di questo o quello. Dunque anche Saïf al-Islam e anche i fautori del passato regime, che io ricevo apertamente nel mio ufficio ». (2)
Saif al-Islam ha promesso di riportare la stabilità e la sicurezza nel suo paese, in accordo con le diverse fazioni politiche. A questo scopo, intende promuovere un programma di riconciliazione nazionale sulla base di una piattaforma elaborata da lui stesso nel periodo in cui era prigioniero, e che conta di sottoporre alle Nazioni Unite per organizzare il periodo di transizione politica. (3)
Qualche risorsa reale…
Il suo primo punto di forza è di essere sostenuto dalle più influenti tribù libiche. A settembre 2015, molto prima della sua scarcerazione, Saïf Al-Islam era stato eletto capo del Consiglio Supremo delle tribù libiche, vale a dire rappresentante legale di tribù in maggioranza gheddafiane. Una decisione che dimostra la sua vicinanza ad attori imprescindibili della vita politica, in un paese dove le istituzioni tribali godono di un peso sociale formale e informale non trascurabile, e restano un fattore di stabilità. A dispetto del mandato di arresto della Corte Penale Internazionale (CPI) che vorrebbe tradurlo davanti alla giustizia internazionale per crimini contro l’umanità, questa assise tribale potrebbe giocare in suo favore nel duello in corso tra Khalifa Haftar e Fayez Al-Sarraj.
La tribù è considerata una componente essenziale della società libica e del sistema politico fondato più sulle alleanze tribali che sulle élite urbane. (4) Infatti le alleanze tribali hanno sempre consentito al governo libico di consolidare il suo potere e la sua potenza, anche se la fedeltà delle tribù è sempre stata fluttuante e occasionale: il colonnello Gheddafi stesso fu portato al potere da una giunta militare multi-tribale nel quale erano predominanti i Warfallah di Cirenaica e Tripolitania e i Meghara di Tripolitania, e questo gli ha consentito poi di dare risalto alla propria tribù, i Gheddafi (regione di Sebha). (5) Giacché la maggior parte delle tribù della Cirenaica restavano fedeli alla monarchia, il colonnello Gheddafi riuscì ad assicurarsi la fedeltà dell’est irredentista sposando una figlia del clan dei Firkeche, componente della tribù reale dei Barasa. (6)
Inoltre, sul piano finanziario, Saïf al-Islam avrebbe a sua disposizione 20 miliardi di dollari sfuggiti al sequestro dei beni di Gheddafi decretato dall’ONU, ammontanti nel complesso ad una fortuna familiare stimata in 300 miliardi di dollari.
La sua seconda risorsa sta nel programma di riforme economiche alle quali molti Libici erano e restano favorevoli. Egli è stato il promotore del processo di modernizzazione della Libia che portò ad una certa distensione con l’Occidente, e questo nonostante l’ostilità della sua famiglia. Ha realizzato una certa liberalizzazione del mercato per consentire all’economia libica l’apertura agli investimenti stranieri. Come notava nel 2011 un diplomatico statunitense: « Saïf al-Islam al-Gheddafi è davvero interessato a introdurre autentiche riforme in Libia, ma suo padre glielo impedisce. Muammar dice a Saif che, se continua a parlare di riforme, lo metterà da parte e nominerà al suo posto il fratello Qamis. E’ per questo che Saif ha improvvisamente cambiato registro e adesso minaccia i ribelli che la Libia non è né la Tunisia né l’Egitto, e che scorreranno fiumi di sangue se continueranno opporsi a suo padre. I rapporti tra Saïf e il padre peggiorano sempre di più. Qamis, che comanda le truppe di élite, è l’unico figlio sul quale Muammar può davvero contare. Saïf sembra essersi ritirato dalla scena anche se continua a fare delle apparizione nei media. E’ di umore scontroso e pensa che suo padre abbia sprecato un’opportunità storica di riformare il sistema per restituire vitalità al suo governo e guadagnarsi una legittimità popolare ». (7)
Avendo sempre difeso l’idea di una Costituzione, si era posto il problema di essere cooptato per acquisire la legittimità indispensabile a redigere questo testo. (8) Era favorevole alla nascita di media privati, e lui stesso fondò un gruppo mediatico, Al-Ghad, composto dalla prima emittente non governativa e dai due primi giornali privati della Libia.
A partire dal 2007, ha portato a buon fine il progetto di riconciliazione tra il governo e l’opposizione islamista attraverso la Fondazione Gheddafi per la Carità e lo Sviluppo, che dirigeva: fu avviato un dialogo col Gruppo Islamico combattente libico (GICL) per stimolare la de-radicalizzazione dei suoi membri. Nel giro di due anni di discussione, l’organizzazione jihadista ha corretto la propria visione religiosa in un « Codice » di 417 pagine intitolato Studi di rettifica nella comprensione del Jihad (9), nel quale i dirigenti del GICL riconoscevano che il ricorso alla lotta armata contro i correligionari – e dunque anche, all’epoca, contro il governo di Gheddafi – era contrario alla legge islamica, con l’unica eccezione dell’ipotesi di occupazione straniera. Per concretizzare la riconciliazione, ex elementi del GICL vennero cooptati nel gioco politico libico. Un simile mutamento di posizione è inedito in ambienti jihadisti.. Come contropartita, tra il 2009 e il 2011, il governo libico ha liberato quasi un migliaio di militanti del GICL – tra cui Abdelhakim Belhadj diventato nel 2011 governatore militare di Tripoli – detenuti nelle prigioni del regime, e Saïf al-Islam favorì l’indennizzo delle famiglie degli islamisti uccisi durante il massacro nella prigione di Abu Salim (1996). (10)
Convinto della necessità di avviare anche delle riforme politiche, contro l’opinione del padre, Saïf al-Islam aveva esposto le sue intenzioni in un discorso pronunciato durante la festa annuale della gioventù nel 2009: egli « ha implicitamente criticato le decisioni assunte dal regime di suo padre, ha auspicato cambiamenti profondi del sistema di governo, ha difeso il suo programma di riforme sociali, politiche ed economiche e ha dichiarato che intendeva ritirarsi dalla politica per concentrare la sua azione sulla società civile e lo sviluppo. Constatando che la Libia aveva sofferto una « stagnazione » nel periodo delle sanzioni, ha insistito sull’ambizioso programma governativo di sviluppo (…) Ha sostenuto la necessità di una società civile più forte, una riforma giudiziaria, un maggiore rispetto dei diritti umani, e maggiore libertà per la stampa » (11)
Tuttavia, di fronte all’opposizione di molti esponenti della sua famiglia, desiderosi di mantenere uno status quo politico, preferì ritirarsi dalla politica. Un telegramma diplomatico dell’epoca menziona questi disaccordi familiari come l’ostacolo principale ad una investitura da parte del padre: « Diversi avvenimenti recenti lasciano pensare he le tensioni tra i figli di Muammar Gheddafi crescano, e che Muatassim, Aisha, Hannibal, Saadi e forse anche la loro madre, siano alleati contro il potenziale erede, Saif al-Islam. Queste tensioni sembrano dipendere dal risentimento che provano per la popolarità di Saif al-Islam come personaggio pubblico del regime. (…) Disaccordi più profondi concernono, da una parte, le riforme politiche ed economiche proposte da Saïf al-Islam che potrebbero non conciliarsi con gli interessi familiari e, dall’altro lato, il modo in cui Saif al-Islam ha tentato di assumere il monopolio dei settori più lucrativi dell’economia ». (12)
Ad aprile 2011, nel pieno dell’intervento estero, il regime libico aveva accettato la road map proposta dall’Unione Africana (UA), di cui la Libia era uno dei maggiori contributori, che prevedeva l’immediata cessazione delle ostilità, il trasporto facilitato di aiuti umanitari, l’avvio di un dialogo tra le parti libiche e la sostituzione di Muammar Gheddafi con suo figlio Saïf al-Islam per promuovere una transizione politica. Ma la Francia aveva categoricamente rifiutato questa opzione.
La sua terza risorsa ha a che fare con la riattivazione delle reti filo Gheddafi in Libia e all’estero. Giacché per i Gheddafisti egli rappresenta l’unica figura politica capace di unificare la futura Libia. Per quanto alcuni di essi si siano avvicinati al maresciallo Khalifa Haftar dopo avere beneficiato dell’amnistia decretata dal Parlamento di Tobruk, quelli rimasti fedeli a Saïf al-Islam sembrano meglio organizzati e non esitano ad esaltare l’immagine modernista e la buona educazione del loro leader durante le campagne di promozione.
Ha anche partigiani nella regione del Fezzan, in particolare il generale Ali Kanna Souleyman, un Tuareg fedele a Gheddafi ed ex capo delle forze armate del sud, con base a Ubari. Nel 2011, Ali Kanna era scappato in Niger, per rientrare in Libia due anni dopo, come il suo compagno di squadra Ali Charif al-Rifi, ex capo dell’aeronautica militare, rientrato nel 2017, dopo sei anni trascorsi in Niger.
Kanna, che ha messo insieme un esercito del sud indipendente sia da Tripoli che da Tobruk, è pronto quando sarà il momento ad allearsi con chiunque riconosca la legittimità di un governo che si ispiri alla Jamahiriya. E’ stato nominato comandante delle « Forze armate della Libia del sud » da ufficiali gheddafisti nel 2016 (13) L’ascesa del generale Kanna coincide manifestamente con il ritorno del gheddafismo in Libia, che guadagna sempre più terreno. Quindi, per rendere efficace il suo piano di accerchiamento di Tripoli, Khalifa Haftar avrà bisogno dell’appoggio dei gheddafisti del Fezzan, una regione strategica che ospita i campi di gas e petroliferi di Murzuch, Charara e al-Fil, controllati dalle truppe di Ali Kanna dal maggio 2017. Attualmente in posizione di forza, quest’ultimo – che avrebbe rapporti stretti coi Servizi di informazione algerini – è in grado di offrire a Saïf al-Islam, non solo una solida protezione personale, ma anche un vivaio di veterani armati capace di farne una forza politica nel sud (14).
Oltre le frontiere libiche, Saïf al-Islam beneficia del sostegno di ex militari o di alcune etnie che lo considerano un degno successore di suo padre e l’unica possibilità di un ritorno alla grandezza di un tempo. Tahar Dahech, ex responsabile dei comitati rivoluzionari internazionali con Gheddafi, oggi esiliato in Tunisia, diceva nel 2016 che, sia nella cerchia militare che tra i seguaci di Haftar o di Al-Sarraj, Saïf al-Islam dispone di sostenitori che si preparano al suo ritorno: « Non si deve dimenticare che Gheddafi è popolarissimo all’estero. Abbiamo gente pronta a tornare per darci una mano, soprattutto dai paesi africani. Senza contare tutti i Libici esiliati in Egitto, Tunisia e altrove, sono almeno tre milioni di persone molte delle quali sono con noi, perché hanno vissuto un’esperienza amara negli ultimi sei anni » (15). Un altro gruppo di fedeli che si trova in Tunisia dal 2012 ed è guidato da un francese, Franck Pucciarelli, sostiene di poter contare su 20 000 aderenti in Libia e su 15-20 000 ex militari libici esiliati e pronti a rientrare nel paese.
Nelle zone tuaregh del Mali e del Niger, l’uccisione dell’ex guida libica è stata vissuta come una catastrofe perché Gheddafi aveva realizzato colossali investimenti in favore di quelle popolazioni. Nonostante l’ambiguità di Tripoli nei loro confronti, oscillante tra discriminazione culturale e sostegno alle loro ribellioni, erano stati molti i Tuaregh che si erano rifugiati in Libia, soprattutto a partire dalla fine degli anni 1970. L’uccisione del leader libico ha dunque avuto un impatto diretto su quelli che vivevano e lavoravano in Libia da una trentina d’anni. Molti ex soldati tuaregh dell’esercito libico si dicono pronti a battersi per il gheddafismo, al punto che ancora oggi, ad Agadez, si possono vedere dei ritratti del leader defunto. (16)
In Niger, a luglio 2017, alcuni rifugiati libici hanno fondato un comitato di sostegno a Saïf al-Islam e sono appoggiati da Nigerini della società civile, soprattutto studenti. Fanno azioni di sensibilizzazione a favore del secondo figlio di Muammar Gheddafi, di suo padre e di quanto ha fatto per l’Africa. In Burkina Faso il leader libico continua a essere considerato come un benefattore che ha fatto costruire strade, centri sociali, orfanatrofi, università e centri di educazione femminile, e che ha finanziato il quartiere Ouaga-2000 nella capitale.
… Ma anche enormi ostacoli
Il piano di azione, presentato a settembre 2017 da Ghassan Salamé al Consiglio di sicurezza dell’ONU per preparare le elezioni presidenziali, prevede diverse tappe istituzionali, in particolare una grande conferenza di riconciliazione nazionale che dovrebbe offrire « a tutti i Libici l’occasione di trovarsi insieme, di rinnovare una narrazione nazionale comune, e di accordarsi sulle tappe necessarie per avviare la transizione » . Sono previsti anche un referendum sulla Costituzione e il varo di una legge elettorale. La Francia, che tenta di imporre le elezioni nella primavera 2018, rischia di vedere la sua iniziativa già rovinata agli occhi dei Libici, screditata dall’arresto a Londra dell’uomo d’affari Alexandre Djouhri, nell’ambito dell’inchiesta sui finanziamenti libici alla campagna presidenziale di Nicolas Sarkozy del 2007. Questi nuovi sviluppi potrebbero favorire i gheddafisti « che tentano di utilizzare questo dossier nella loro agenda libica, lasciando intendere – come fanno da sette anni – di avere le prove del finanziamento » (17)
Se riuscisse a tornare sulla scena politica all’esito di elezioni trasparenti, Saïf al-Islam, uno dei dignitari dell’ex regime ancora in vita, (18) potrebbe tornare alla carica su questa vicenda. Nel marzo 2011, il clan Gheddafi aveva già minacciato rivelazioni, quando Parigi riconobbe il Consiglio nazionale di transizione come rappresentante legittimo del popolo libico. Saïf al-Islam chiese allora, in una intervista rilasciata a Euronews, che Nicolas Sarkozy « restituisse il denaro » che gli era stato prestato per finanziare la sua campagna del 2007.
Perché Saïf al-Islam non nasconde la sua intenzione di prendersi la rivincita sulla Storia se gli verrà data l’occasione. Ma a tre condizioni:
– di non essere vittima di interessi divergenti interni e/o esterni, capaci di bloccare la sua candidatura alla presidenza ;
– di non essere messo fuori gioco come suo padre da Stati stranieri o da gruppi armati libici che preferirebbero un governo libico debole ma docile ;
– che non venga screditato dai suoi nemici a causa del mandato di arresto internazionale della CPI.
Sul piano interno, la liberazione di Saïf al-Islam è ben più di una peripezia giuridica. Alcuni in Libia imputano la sua liberazione alle manovre del maresciallo Haftar che mirerebbe a consolidare la sua alleanza con le reti gheddafiste, con l’obiettivo di indebolire il governo di « unione nazionale » di Tripoli. Infatti la sua candidatura potrebbe pesare sugli equilibri politico militari precari di un paese ancora debole a causa della rivalità tra i governi di K. Haftar (appoggiato dall’Egitto, la Russia e gli Emirati Arabi Uniti) e di Al-Sarraj (sostenuto dall’ONU e dalle capitali occidentali). Il ritorno di Saïf al-Islam potrebbe ben ridistribuire le carte della conquista del potere.
Quali prospettive ?
Ma la vera questione riguarda le elezioni presidenziali in un paese in pieno caos, dove la violenza irrora tutta la società. In altri termini, le elezioni possono essere un obiettivo in sé, o devono essere l’ultima tappa di una preventivo processo di riconciliazione su scala locale e nazionale?
L’altra sfida importante sarà quella di garantire la sicurezza dei seggi in un paese in cui rapimenti e assassini sono diventati moneta corrente, come quello del sindaco di Misurata, Mohamed Eshtewi, il 17 dicembre scorso.
Infine, nel dicembre 2017, Khalifa Haftar ha unilateralmente decretato che l’accordo inter-libico di Skhirat (Marocco) del 17 dicembre 2015 era oramai decaduto e, con lui, anche il governo di Al-Sarraj. (19)
In un simile contesto, il processo elettorale che le capitali occidentale e le Nazioni Unite auspicano non sarà, ancora una volta, solo un miraggio democratico ? Non sarà solo un processo formale di cui l’Occidente ha il know how, escludente nei confronti del localismo tribale e incapace di arrestare la realtà di un conflitto africano se non attraverso le urne, lavorando sulle sue cause profonde? Perché le elezioni possono al contrario scatenare la violenza e sembrare un vettore di polarizzazione della società, come dimostrano tanti esempi in Africa.
Il riconoscimento da parte di Ghassan Salamé, al 30° summit dell’UA di gennaio 2018, della dimensione africana del conflitto libico cambierà qualcosa, quando nel 2011 la proposta di questa organizzazione a favore di una transizione politica in Libia venne puramente e semplicemente respinta dalla NATO e dalla Francia? (20) L’Unione africana, che ha chiesto al Presidente francese di astenersi da ulteriori iniziative parallele in Libia, non dovrebbe più essere tenuta in disparte da interventi esteri, perché la stabilità e la sicurezza del Maghreb e di tutta la striscia del Sahel ne dipendono direttamente (21).
Note:
1. « Gaddafi’s son Saif al-Islam to run for Libyan presidency », Middle East Eye, 19 dicembre 2017.
2. Ghassan Salamé, « Le processus politique en Libye est ouvert à tout le monde sans exception », France24, 22 settembre 2017.
3. Hanne Nabintu Herland, « Could Muammar Gaddafi’s son Saif al-Islam Solve the Libya Crisis? », Foreign Policy Jounal, 10 febbraio 2017.
4. Al punto che un centinaio di capi di tribù libiche venne invitato al Cairo nel maggio 2015 dal governo egiziano che temeva che il conflitto potesse debordare sulla sua frontiera occidentale.
5. Tra il 1975 e il 1993, l’alleanza Gheddafi-Warfallah si è trasformata in vera forza egemonica che ha consentito ai Warfallah di infiltrarsi nelle istituzioni dello Stato, nell’amministrazione, nell’esercito, nelle strutture diplomatiche, di sicurezza e nei Comitati rivoluzionari. Vedi: Mohammed Ben Lamma, La structure tribale en Libye: facteur de fragmentation ou de cohésion?, Observatoire du monde arabo-musulman et du Sahel, Fondation pour la Recherche Stratégique, luglio 2017.
6. Tuttavia, nel 1993, Gheddafi sarà oggetto di un tentativo di colpo di Stato per mano dei potenti Warfallah, che furono poi i primi a sollevarsi nel febbraio 2011.
7. Seif al Islam down, Khamees up in the battle of Ghadafi’s sons, Insight-Libya, 18 aprile 2011.
8. Telegramma diplomatico: Unconfirmed report that Qadhafi promotes Saif Al-Islam in « secret » meeting, Ref ID: 09TRIPOLI805, Tripoli, 10/7/2009.
9. GICL, Corrective Studies on the Understanding of Jihad, 2009.
10. Tra il 1995 e il 1998, il GICL tentò di assassinare Gheddafi in tre occasioni. La repressione del regime in risposta a questa ondata di attentati fu particolarmente violenta: bombardamenti nella regione di Derna ; campagne di arresti massicci, e soprattutto il massacro di più di 1 200 detenuti della prigione di Abou Selim a Tripoli, nel giugno 1996.
11. Telegramma diplomatico : Saif Al-Islam Al-Qadhafi calls for further reform, threatens to withdraw from politics, Canonical ID: 08TRIPOLI679_a, Tripoli, 28 agosto 2008.
12. Telegramma diplomatico : Libya’s succession muddled as the al-Qadhafi children conduct internecine warfare, Canonical ID: 09TRIPOLI208_a, Tripoli, 9 marzo 2009.
13. Andrew McGregor, « Europe’s True Southern Frontier: The General, the Jihadis, and the High-Stakes Contest for Libya’s Fezzan Region », CTC Sentinel, vol. 10, no.. 10, Combating Terrorism Center, Westpoint Military Academy, 27 novembre 2017.
14. Andrew McGregor, « General Ali Kanna Sulayman and Libya’s Qaddafist Revival », AIS Special Report, Aberfoyle International Security, 8 agosto 2017.
15. Mathieu Galtier, « Interview de Tahar Dahech: le fils de Kadhafi va sauver la nation libyenne, 2017 sera une année décisive », Libération, 19 dicembre 2016.
16. Laurence-Aïda Ammour, « L’après-Qaddhafi au Sahara-Sahel », Notes Internacionals, no. 44, CIDOB, Barcellona, gennaio 2012.
17. Simon Piel et Joan Tilouine, « Soupçons de financement libyen: Alexandre Djouhri, proche de Sarkozy, placé en garde à vue à Londres », Le Monde, 8 gennaio 2018. Vedi anche Fabrice Arfi e Karl Laske, Avec les compliments du guide, Fayard, 2017
18. Con Abdallah Senoussi (ex capo dei servizi di informazione militari e cognato di Muammar Gheddafi) e Baghdadi al-Mahmoudi (ex Primo Ministro dal 2006 al 2011)..
19. New Risks in Libya as Khalifa Haftar Dismisses UN-backed Accord, International Crisis Group, 21 dicembre 2017.
20. Michael Pauron, « L’ONU reconnaît la dimension africaine du drame libyen », Jeune Afrique, 28 gennaio 2018. » Sono stato in Niger, in Ciad, sono venuto qui all’Unione africana per una consultazione… Eccomi ancora accanto al segretario generale per dire che gli Africani possono ampiamente contribuire ad una uscita dalla crisi. (…) Nessuno Stato membro, nessuna organizzazione regionale – e in primo luogo l’Unione africana o la Lega degli Stati arabi (…) si è rifiutato di contribuire ad una uscita dalla crisi ».
21. Vedere il resoconto del Colloquio sulla crisi libica e l’Unione africana, organizzato dall’Istituto Robert Schuman e l’Istituto Prospettiva e Sicurezza in Europa, a Parigi, nel settembre 2017 (http://www.institut-robert-schuman.eu/2017/09/26/l-union-africaine-un-avenir-pour-la-paix-en-libye/)
CONOSCERE LA REPUBBLICA POPOLARE DEMOCRATICA DI COREA
Qual'è la storia dell'indipendenza nazionale coreana? Quali le caratteristiche del socialismo dello Juche? Da dove provengono i pericoli di guerra in Estremo Oriente e nel mondo intero? Ne discutiamo assieme a:
Jean-Claude Martini, presidente della Korean Friendship Association Italia
Andrea Marsiletti, direttore responsabile ParmaDaily.it, autore del libro fantapolitico “Se Mira, se Kim”
Roberto Gessi, del Comitato per le celebrazioni della nascita di Kim Jong Il istituito dal G.A..MA.DI.
Promuove:
G.A.MA.DI. (Gruppo Atei Materialisti Dialettici) – Comitato per le celebrazioni nell'anniversario della morte di Kim Jong Il
Organizzano:
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia Onlus
Comitato Ucraina Antifascista Bologna
https://italiacoreapopolare.wordpress.com
http://www.gamadilavoce.it/comitatoKimJongIl.html
1. Corea: dalla storia più antica a quella moderna: http://www..resistenze.org/sito/te/cu/st/custib12-020028.htm
2. Corea: Storia contemporanea (Parte prima): http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custib15-020042.htm
Corea: Storia contemporanea (Parte seconda): http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custib22-020077.htm
27. 03. 2018.
Noam Chomsky, američki lingvist, filozof, historičar i politički aktivist, potpisao je Deklaraciju o zajedničkom jeziku.
Na prvu godišnjicu od objavljivanja teksta Deklaracije, profesor emeritus sa najprestižnijeg univerziteta na svijetu MIT-a (Massachusetts Institute of Technology) odlučio je da je potpiše tekst u kojem se navodi da Bošnjaci, Srbi, Hrvati i Crnogorci govore zajedničkim policentričnim standardnim jezikom.
Naime, krajem marta 2017. godine, u Sarajevu je zvanično objavljena Deklaracija o zajedničkom jeziku, koju je odmah potpisalo više od 200 lingvista, književnika, naučnih i kulturnih radnika, aktivista i drugih ličnosti iz javnog života.
Potpisnici Deklaracije smatraju da je riječ o zajedničkom standardnom jeziku, a da korištenje četiri naziva za standardne varijante - bosanski, hrvatski, crnogorski i srpski - ne znači da su to četiri različita jezika. Dokument je izazvao veliku pažnju i brojne polemike.
Tekst deklaracije, kojeg je sastavilo 30 stručnjaka iz Srbije, BiH, Hrvatske i Crne Gore, a koji je rezultat projekta Jezici i nacionalizmi, je stavljen na uvid javnosti 1. aprila 2017. godine na internet-stranici projekta www.jezicinacionalizmi.com gdje svaka osoba saglasna s tekstom Deklaracije može da je potpiše.
Od aprila do novembra 2016. u okviru projekta Jezici i nacionalizmi konferencije su održane u Podgorici, Splitu, Beogradu i Sarajevu i eminentni stručnjaci iz oblasti lingvistike i drugih društvenih nauka sastavili su Deklaraciju o zajedničkom jeziku u namjeri da se podigne svijest i aktivno utječe na postojeće nacionalističke jezičke prakse u sve četiri države regiona u kojima se govorio srpsko-hrvatski ili hrvatsko-srpski jezik.
Deklaraciju o zajedničkom jeziku do sada je potpisalo više od 8.500 lingvista, književnika, naučnika, aktivista i drugih kredibilnih ličnosti iz javnog i kulturnog života Bosne i Hercegovine, Crne Gore, Hrvatske i Srbije.
En Bosnie-Herzégovine, en Croatie, au Monténégro, en Serbie, on parle bien la même langue standard commune, malgré les nombreuses variantes régionales. La Déclaration de Sarajevo a été présentée le 30 mars dernier : où en la mobilisation, comment poursuivre le combat contre le nationalisme linguistique ?
https://www.courrierdesbalkans.fr/Declaration-sur-une-langue-commune-ou-en-est-on
Krajem marta 2017. godine, u Sarajevu je zvanično objavljena Deklaracija o zajedničkom jeziku, koju je odmah potpisalo više od 200 lingvista, književnika, naučnih i kulturnih radnika, aktivista i drugih ličnosti iz javnog života.
Potpisnici Deklaracije smatraju da je riječ o zajedničkom standardnom jeziku, a da korištenje četiri naziva za standardne varijante - bosanski, hrvatski, crnogorski i srpski - ne znači da su to četiri različita jezika. Dokument je izazvao veliku pažnju i brojne polemike.
Šta se s Deklaracijom dešavalo proteklih mjeseci? O tome govori Ana Pejović, glavna koordinatorka udruženja „Krokodil“ iz Beograda, kao i cijelog projekta 'Jezici i nacionalizmi', odnosno stvaranja Deklaracije, čiji je potpisnik.
RSE: Na koji način se posljednjih mjeseci potpisuje Deklaracija o zajedničkom jeziku?
Pejović: Deklaracija se potpisuje preko online formulara koji je običan Google online formular, i u suštini je bila dostupna samo ljudima koji imaju malo više znanja što se tiče korišćenja kompjutera. Međutim, mi smo u nekoliko navrata, u različitim programima i projektima koje smo radili, takođe imali potpisivanje uživo, pre svega na festivalu Krokodil, u junu ove godine, gde su nam puno pomagali mladi volonteri koji su dežurali na štandovima. Tako je i tom prilikom, u tih nekoliko događaja, prikupljeno 400 i nešto potpisa. Danas imamo nešto malo manje od deset hiljada, 9.500 potpisa..
RSE: Do kad će trajati potpisivanje?
Pejović: Ona je stalno otvorena za potpisivanje, s tim što ćemo mi vrlo uskoro, verovatno već početkom sledeće godine, ući u drugu fazu ovog programa, odnosno ideje koja stoji iza Deklaracije o zajedničkom jeziku, a to je promovisanje književnosti, pre svega književnosti koja se stvara na jeziku koji nam je međusobno svima razumljiv, a koji zovemo ovim svačetiri imena.
RSE: Kako ste zamislili to predstavljanje? U više gradova, kao što su bile konferencije prije Deklaracije?
Pejović: Mi smo pre svega zamislili to kao jednu vrstu neobavezne lektire, odnosno preporuke prema mladim ljudima, pre svega osnovcima i srednjoškolcima, zatim i studentima, koji su, između ostalog, i bili jedni od inicijatora cele ideje oko Deklaracije o zajedničkom jeziku, koju mi prvobitno u projektu Jezici nacionalizma uopšte nismo ni planirali.
Mi smo smatrali da ćemo nakon četiri konferencije, koje smo radili u Splitu, Sarajevu, Beogradu i Podgorici, uraditi transkript događaja, uraditi jedan finalni tekst koji bi izvukao najinteresantnije i najbolje momente ove četiri konferencije, međutim, u Sarajevu se pojavila odmah inicjativa, uglavnom mladi ljudi su pitali: 'Dobro, i šta sad?'. Odatle je potekla ideja o pisanju teksta Deklaracije.
Naši članovi radne grupe i prošireni članovi radne grupe su na njoj radili neka tri meseca. Sada nama sledi jedan konsultativan proces sa radnom grupom, da vidimo kako će se taj projekat promovisanja zajedničke književnosti na zajedničkom jeziku odvijati početkom sledeće godine. Još uvek nemamo detaljan program, osnosno, imamo ga, ali pre nego što ga prodiskutujemo sa radnom grupom, ja ne bih volela da o njemu malo više pričam.
RSE: U očekivanju detalja tog novog projekta, molim Vas da se vratimo Deklaraciji, koja osim pristalica - odnosno potpisnika, ima i brojne protivnike...
Pejović: Podsećam da je Deklaracija objavljena 30. marta. Dva - tri dana ranije, mi smo poslali obaveštenje medijima u celom regionu da će Deklaracija biti objavljena. Od tog trenutka nadalje krenula je stvarno ogromno medijsko interesovanje, što pozitivno, što negativno.
Čini mi se da je početna reakcija u Hrvatskoj bila dosta histerična i jako negativna. To je bio trenutak kada još niko, izuzev članova radne grupe i onih prvih, inicijalnih dvesta potpisnika, nije znao sadržaj Deklaracije. Dakle, ta naša medijska objava da će Deklaracija biti objavljena nije sadržavala tekst Deklaracije. To je bila samo informacija za novinare i čini mi se da je verovatno taj naziv izazvao dosta kontraverze.
Međutim, u Hrvatskoj se situacija nije smirila ni nekoliko nedelja nakon toga, tako da su neki od potpisnika Deklaracije imali vrlo neprijatna, što medijska, što lična, iskustva sa raznim ljudima, što iz javne sfere, što privatno.
U Srbiji, početna reakcija je bila, čini mi se, dosta pozitivna, a onda je sledeći talas bio prilično negativan, ali on je u neku ruku bio reakcija na negativnu hrvatsku reakciju. Ta dinamika između Srbije i Hrvatske se dosta dobro videla i kroz Deklaraciju o zajedničkom jeziku, uvek se jedna država pozicionira u odnosu na onu drugu. U ovom slučaju to su bili srpski lingvisti iz korpusa, da kažem, nacionalnih lingvista ili nacionalističkih lingvista, koji tvrde da to jeste jedan jezik, ali da je to ustvari srpski jezik i da su svi jezici nastali iz srpskog jezika.
Oni su, u stvari, iskoristili našu tezu da to jeste jedan jezik da bi dokazali svoju tezu da je pre svega postojao srpski, a da su se onda nakon toga razvili dijalekti, ili kako oni kažu – varijeteti – hrvatski, bosanski ili bošnjački i crnogorski. Što je onda izazvalo opet kontrareakcije od strane nekih hrvatskih lingvista. Tako je bilo dosta burno.
RSE: A pozitivne rekacije?
Pejović: Pozitivnih reakcija, moram da kažem, bilo je više i pogotovo od običnih ljudi, od ljudi koji su se pozivali upravo na tu ideju o zdravom razumu i na to da je jako interesantno da konačno neko kaže da je „car go“, ali mi uopšte ne planiramo da se na ovome zadržimo, jer smatramo da to nije dovoljno.
Ovo je bio, da kažem, samo apel za zdrav razum, ali ovom problemu se mora pristupiti sistematski, pogotovo u onim sredinama – u Bosni i Hercegovini ih nažalost ima mnogo – a to su zajedničke sredine u kojima žive dva od tri konstitutivna naroda, gde imamo ovu čuvenu situaciju dve škole pod jednim krovom. Te škole se bave obrazovanjem, ali se takođe bave i formiranjem novih malih Srba, Hrvata i Bošnjaka, što je jako opasno i što u budućnosti može da proizvede mnogo veće probleme od ovih sa kojima se mi sada susrećemo. A složićete se da ni sad situacija nije baš ružičasta.
RSE: Da, ljudi jednostavno ne žele prihvatiti da Deklaracija nikom ništa ne nameće, niti zabranjuje, niti pokušava njihova nacionalna osjećanja anulirati. Ljudi reaguju na 'prvu loptu', i prije nego što pročitaju Deklaraciju, kako ste već rekli. Šta je suština tog teksta?
Pejović: Tekst Deklaracije je jako, jako blag. U suštini, poziva na slobodu i poziva na ideju da svako može svoj jezik da imenuje onako kako on hoće, poštujući činjenicu da se radi o zajedničkom policentričnom standardnom jeziku.
Osnovni problem koji je iza toga sledi jeste politička upotreba, odnosno politička zloupotreba jezika u cilju dokazivanja nečeg drugačijeg, posebno nacionalnih osećanja.