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Ogni martedì dalle ore 14,00 alle 14,30,  "VOCE JUGOSLAVA"  su Radio
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Program - programma 21. 10. 2003

1. Jucer, danas sutra, datumi ... da se ne zaboravi.
Kragujevac i Kraljevo, pokolj 1941. - barbarska agresija NATO 1999.
2. Kratke vijesti "od Triglava do Vardara..." i ne samo.
3. Razno

1. Ieri, oggi, domani, date... per non dimenticare; la strage di
Kragujevac e Kraljevo nel 1941, e la barbara aggressione NATO 1999 
2. "Dal monte Triglav al fiume Vardar...", e non solo.
3. Varie
 

E' morto il mandante dell'omicidio di Gabriele Moreno Lucatelli

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Si e' spento ieri a Sarajevo Alija Izetbegovic.

Nei prossimi giorni avremo occasione di registrare e diffondere
commenti e note su questo personaggio, al quale va ascritto il decennio
peggiore della storia recente della sua terra.
Come italiani impegnati contro la guerra di spartizione della
Jugoslavia lo ricordiamo innanzitutto per essere stato il mandante
dell'assassinio del pacifista Gabriele Moreno Lucatelli, ucciso il 3
ottobre 1993 sul ponte di Vrbanja a Sarajevo dai cecchini
bosniaco-musulmani di "Caco" nell'ambito della strategia del terrore e
della demonizzazione della parte serba di cui Izetbegovic fu il vero
artefice.

Riportiamo di seguito un primo ritratto politico di Izetbegovic,
elaborato dalla rivista marxista tedesca KONKRET e riprodotto a cura
del Coordinamento Romano per la Jugoslavia alcuni anni fa.

CNJ

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Ritratto politico di Alija Izetbegovic

Le analisi sulle cause dello scoppio della guerra fratricida in
Bosnia-Erzegovina hanno regolarmente mancato di riportare alcune
informazioni sulla personalità dell'attuale Presidente Alija
Izetbegovic, leader del Partito di Azione Democratica (SDA).
Analogamente, alcuni elementi di cronaca essenziali vengono
tralasciati: ad esempio il fatto che nel marzo 1992 un accordo tra le
tre parti (musulmana, serba e croata), il cosiddetto "Piano Cutileiro",
era stato già raggiunto e sottoscritto, e la sua applicazione avrebbe
evitato anni di guerra e pesanti strascichi che continueranno chissà
per quanto tempo. Da un articolo di Jürgen Elsässer, apparso sulla
rivista marxista tedesca "KONKRET" (n.4/1994), ricaviamo alcune delle
informazioni che ci sono state negate.
[Tra parentesi quadre le annotazioni del CRJ]


[...] Alija Izetbegovic, classe 1925, come collaboratore della rivista
"El Hidaje" fu condannato già nel 1946 a Sarajevo a tre anni di
carcere, per istigazione all'odio ed attività pan-islamiste. Secondo
fonti jugoslave questi avrebbe fatto parte dei "Giovani Musulmani", che
nella Jugoslavia di Tito erano perseguitati in quanto "filofascisti", a
partire dal 1941. Nel 1949 i "Giovani Musulmani" tentarono una aperta
ribellione che fu tuttavia velocemente sconfitta. Quanto poco
Izetbegovic abbia mutato le sue opinioni negli anni a seguire lo
dimostrano le sue due pubblicazioni "The Islamic Declaration" del 1970
[pubblicata all'estero in inglese, riedita in lingua serbocroata a
Sarajevo nel 1990; una versione non integrale è stata pubblicata in
italiano da LIMES n.1/2-1993. Nel seguito indicheremo questo libro con
le lettere "ID"] ed "Islam between East and West" del 1984 [nel seguito
"IEW"]. Ivi egli propaganda "la lotta per la creazione di una grande
federazione islamica dal Marocco all'Indonesia, dall'Africa nera
all'Asia centrale" (ID, pg.60). Un tale Stato (federale) non potrebbe
essere laicista, bensì dovrebbe orientarsi fortemente in senso
religioso: "In effetti, tutto quello che c'è stato di grande o di
degno di nota nella storia dei popoli musulmani è stato fatto sotto
l'egida dell'Islam... La Turchia come paese islamico dominava il
mondo. La Turchia come brutta copia dell'Europa è oggi un paese di
terza classe" (ID, pg.6). Come modello Izetbegovic vede "lo Stato
islamico". Per respingere l'influsso corruttore dell'Occidente, egli
propone una riorganizzazione fondamentalista della vita pubblica:
"L'educazione del popolo e soprattutto i massmedia - stampa, radio, TV
e cinema - dovrebbero essere nelle mani di persone la cui morale
islamica ed autorità intellettuale sia fuor di dubbio. I media non
possono, come troppo spesso avviene, cadere nelle mani di persone
corrotte e degenerate che poi trasmettono ad altri la vanità e la
vuotezza delle loro vite" (ID, pg.42-43). Bisogna dare un taglio al
ruolo civile della donna: "La civiltà ha disonorato particolarmente la
maternità" (IEW, pg.144). In opposizione a ciò l'Islam difende "i veri
interessi della donna normale e sana. Al posto di una eguaglianza
astratta esso assicura alla donna amore, matrimonio e bambini" (ID,
pg.48).

Nel materialismo Izetbegovic vede l'errore di fondo del mondo moderno
- capitalismo e socialismo sarebbero esclusivamente due varianti di
ciò. Poichè questo materialismo secondo Izetbegovic affonda le sue
radici nell'ebraismo, l'intera ideologia del Presidente bosniaco ha il
suo culmine in un antisemitismo velato di pseudoscientificità: "Tra le
religioni l'ebraismo rappresenta la tendenza 'immanente'. Tutte le idee
e le teorie dello spirito ebraico riguardano il paradiso sulla terra.
(...) Gli Ebrei non hanno mai accettato per intero l'idea della
immortalità. (...) L'esempio di Spinoza mostra la nascita della nuova
filosofia materialista dal ventre dell'ebraismo" (IEW, pg.146-7).
Molti stereotipi della propaganda antisemita - dalla congiura comune di
ebrei e massoni al finanziamento della conquista del mondo dal tempo di
Colombo, fino alla colpa per la bomba atomica - si ritrovano in
Izetbegovic: "L'idea massonica di una rinascita etica dell'umanità
attraverso la scienza è positivistica - ed ebraica. Sarebbe
interessante ricercare i legami intrinseci ed estrinseci tra
positivismo, ebraismo e massoneria. I legami e l'influsso non sono solo
di tipo spirituale, bensì piuttosto concreti. (...) La scienza nucleare
era nota dapprima come 'scienza ebraica'. (...) Non è un caso che i
grandi nomi della fisica atomica, della economia politica e del
socialismo sono ebrei quasi senza eccezione. (...) C'è qualcosa di
simbolico nel fatto che a finanziare il viaggio di Colombo furono degli
ebrei" (IEW, pg.147-8).

Nessuna meraviglia dunque che Izetbegovic si spinga fino a dei veri e
propri accessi d'odio nei confronti di Israele: "Per conservare
Gerusalemme gli Ebrei dovrebbero sconfiggere l'Islam ed i musulmani, e
questo - sia lodato Iddio - supera le loro possibilità. (...) Vorremmo
volentieri distinguere tra ebrei e sionisti, se solo gli ebrei
avessero loro stessi la forza di fare questa distinzione. (...) Se
tuttavia continueranno a starsene sul loro bel puledro, come sembra
oltremodo probabile al momento, ci sarà un'unica soluzione per il
movimento islamico e per tutti i musulmani del mondo: continuare la
lotta, allargarla e protrarla giorno per giorno, anno per anno, per
quante che debbano essere le vittime e comnque a lungo debba durare,
finchè non saranno costretti a restituire ogni centimetro di
territorio rubato. Ogni trattativa ed ogni compromesso che possa
mettere in gioco i diritti elementari dei nostri fratelli di Palestina
è un tradimento che potrebbe distruggere il sistema morale su cui si
fonda il nostro mondo" (ID, pg.69-70).

[...] Come autore della 'Dichiarazione Islamica' ed a causa di altre
attività contro lo Stato Izetbegovic fu condannato nel 1983 a 14 anni
di prigionia, e tuttavia già nel 1988 rilasciato dal carcere. Benchè
costui non si sia mai distanziato dalle pubblicazioni citate, nella
stampa occidentale viene generalmente descritto come persona aperta e
tollerante. Come dimostrazione di una sua presunta svolta dal
fondamentalismo viene dato valore soprattutto al suo impegno per la
creazione di una nuova Confederazione Jugoslava nel 1990, nonchè alla
sua indignazione per il repentino riconoscimento di Croazia e Slovenia
da parte della Repubblica Federale Tedesca, riconoscimento tramite il
quale quel progetto fu privato delle fondamenta. Per protesta
Izetbegovic partì nel novembre 1991 [un mese prima dunque della
formalizzazione di detto riconoscimento; n.d.crj] alla volta di Bonn,
per avere dei colloqui con Kohl e Genscher - e se ne ritornò indietro
come trasformato. Già alla nascita del suo Stato nel marzo 1992 egli
lavorò con un trucco: si dichiarò d'accordo con la suddivisione
cantonale come se la erano immaginata anche i serbi ed i croati - ma
ammettè poco dopo che la sua accettazione era stata solo una messa in
scena per raggiungere velocemente il riconoscimento internazionale
della Bosnia [riferimento al piano Cutileiro del marzo 1992,
sottoscritto da tutte e tre le parti in causa un mese prima dello
scoppio della guerra civile e pochi giorni dopo sconfessato dalle parti
croata e musulmana su istigazione dell'americano Zimmermann; n.d.crj].
La multietnicità, che nella vecchia Jugoslavia era stata tentata
attraverso la divisione equilibrata di tutte le istituzioni bosniache
tra serbi, croati e musulmani ed era stata conservata anche
immediatamente dopo le elezioni del '90, viene distrutta a partire da
quel momento poco a poco sotto la guida di Izetbegovic. Qualche esempio:

1. Il Parlamento bosniaco, che era costituito essenzialmente dal
musulmano SDA (86 seggi), dal serbo SDS (72) e dal croato HDZ (44), fu
sciolto illegalmente all'inizio del 1992 senza che al Presidente
fossero mai stati conferiti i poteri dello stato d'emergenza. Ciò che
si riuniva nel settembre 1993, per rifiutare il piano di pace
internazionale, a parte l'etichetta non aveva più niente a che vedere
con l'istituzione originaria: di 240 parlamentari erano convenuti solo
in 90, dei quali per di più 32 erano a favore della soluzione di pace.
Al Parlamento è stato sovrapposto un senato, il "Sabor" bosniaco, nel
quale non vi sono nè rappresentanti serbi nè croati.

2. Tra le prime unità di combattimento di Izetbegovic c'era la
divisione Handzar, il cui nome si ispira a quello di una delle
divisioni SS musulmane. Le forze militari regolari della
Bosnia-Erzegovina furono inizialmente comandate da ex-ufficiali
dell'JNA, comandante in capo era il serbo Sefer Halilovic [ma il nome
indica inequivocabilmente che si tratta di un musulmano: evidentemente
l'autore dispone di una informazione errata; n.d.crj]. Nell'autunno
1993 l'esercito fu riformato e rigidamente centralizzato attorno al
comando del musulmano Delic. Cattolici ed ortodossi furono allontanati
dai livelli più alti.

3. Già nel '92-'93 il generale dell'ONU Morillon criticò la incalzante
islamizzazione della vita di tutti i giorni in Bosnia. Un aspetto di
questa è il fatto che a Sarajevo non esiste più [1994] nessuna scuola
per bambini croati o serbi, così che questi sono costretti a
frequentare le scuole degli 'hodza' e dei 'mullah', a seguire anche le
lezioni di religione e ad imparare il Corano. L'arcivescovo di Sarajevo
si lamentò del fatto che tutti i non-musulmani venivano poco a poco
privati di tutti i diritti civili, le chiese cristiane venivano chiuse.
Un portavoce governativo chiese alla radio bosniaca che il momento
propizio venisse sfruttato per un eventuale attacco aereo NATO, per
scacciare del tutto i serbi dalla Bosnia. Il corrispondente sul posto
della "Die Zeit" riferisce che i serbi di Sarajevo per paura dei pogrom
hanno cancellato i loro nomi dai campanelli. [...]

4. Izetbegovic ha spaccato la presidenza collettiva dello Stato. A
Sarajevo due rappresentanti fondamentalisti, vale a dire lo stesso
Izetbegovic ed il suo vice Granic, hanno usurpato il gremium. Tre
rappresentanti musulmani ruppero con Izetbegovic nel 1993 e difesero
il piano di pace di Owen e Stoltenberg (così secondo uno dei tre in una
intervista al giornale croato Slobodna Dalmacija - 14/2/94).

5. Il più famoso di questi tre ex-membri della presidenza è Fikret
Abdic. Nel '90 questi ha ottenuto alle presidenziali più voti dello
stesso Izetbegovic. La sua regione di origine, il territorio di Bihac e
Velika Kladusa, nel settembre 1993 dopo un referendum vinto con l'80%
di consensi si è separato dalla Bosnia-Erzegovina ed ha revocato la sua
fedeltà al governo di Sarajevo, perchè - così la motivazione - il suo
sabotaggio delle trattative di Ginevra peggiorava soltanto la
sofferenze delle persone. Come Presidente della 'Provincia Autonoma
della Bosnia Occidentale' fu scelto lo stesso Abdic. In quella zona
vivono 200mila persone, di religione islamica più del 90 per cento.
Queste rappresentano l'ampia corrente dei musulmani laicisti e
tolleranti che sostennero i partigiani di Tito e divennero in seguito
jugoslavi convinti. Se la opinione pubblica internazionale parla "dei"
musulmani bosniaci, questa corrente viene bellamente ignorata: Abdic
non sarebbe un rappresentante della popolazione musulmana, perchè
questi - diversamente da Izetbegovic - con la sua professione di fede
non vuole costruire nessuno Stato. "Non conta certo a suo favore il
fatto che gli è indifferente la sorte di uno stato bosniaco-musulmano",
suggerisce velenosamente E. Rathfelder sulla TaZ [l'equivalente
tedesco dell'italiano "Manifesto"] del 30/9/93.

CHE NE FARANNO DELLA MINORANZA GRECA
QUANDO AVRANNO REALIZZATO LA GRANDE ALBANIA?


http://www.realitymacedonia.org.mk/web/news_page.asp?nid=2797


Web posted October 19, 2003
Source: A1 TV, 16.10.2003

Leader of Greek Minority Party in Albania Arrested Because of
"Anti-Albanian Slogans"


The Albanian Prosecutor's Office started a legal process against the
leader of the Party for Human Rights Vangel Dule when following last
week's end of the local elections "members of the party shouted
anti-Albanian slogans and waved Greek national flags in Southern
Albania."

According to Albanian authorities during the celebrations in the Greek
majority town of Himara "Greek nationalism raged and the flag of a
foreign country was exposed" which violates Albanian law.

The independent TV station "Top Albania Channel" recorded the events of
that night and reported that the Albanian police has evidence that
slogans such as "Long live Greece," "the Albanians are Turks," "Himara
is Greek" were shouted, and the TV recordings will serve the
prosecutor's office as an argument in the indictment against the Party
leader Dule.

According to police sources that night several other persons were
arrested, the ones that were "more aggressive in their protesting".
Albanian police also stated that among the crowd, members of the Greek
extremist organization "Mavi" were also noticed, who arrived in Himara
to cause turmoil.

Albanian Prime Minister Fatos Nano gave a comment on the event, saying
that "those people should face the law."

Today's media report that following the local elections results a
representative of the Greek Government asked Tirana to proclaim the
town of Himara as a "minority zone." According to Albanian analysts,
this demand by Greece represents a "dangerous Greek provocation."

Vangel Dule's Party for Human Rights, where majority members are ethnic
Greeks, reported that besides Himera they also won the elections in
other smaller towns in Southern Albania.

Il seguente articolo e' tratto da "Storia Illustrata" del gennaio 1979

STERMINIO NAZISTA IN SERBIA

In un solo giorno 7300 morti nella città martire. È l'autunno del
1941. Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno di Jugoslavia, la
penisola balcanica è insorta contro l'occupante nazifascista. Alla
rivolta partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della
popolazione civile.

di ANTONIO PITAMITZ

Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l'invasione tedesca della
Jugoslavia, nei due Ginnasi di Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città
serba posta nel centro della regione della Šumadija, le lezioni
iniziano alle 8.30, come di consueto. Sono in programma quel giorno la
sintassi della lingua serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la
fisica. In una classe, un professore croato, un profugo fuggito dal
regime fascista instaurato in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il
valore della libertà. Poco lontano, un altro spiega l'opera di un poeta
serbo del romanticismo risorgimentale. La mente rivolta alle secolari
lotte sostenute dai serbi per la loro indipendenza e a quella presente
che cresce irresistibilmente, anch'egli parla di libertà. La voce calma
e profonda che illustra i versi del poeta: "La libertà è un nettare che
inebria / Io la bevvi perché avevo sete", ne nasconde a fatica la
tensione, che aleggia anche nell'aula, che grava su tutti, sulla
cittadina, sui suoi abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie
lontane da alcuni giorni alimenta.

Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una
vasta azione di rappresaglia, che i tedeschi stanno conducendo con
spietata decisione contemporaneamente anche nel resto della Serbia. La
ferocia di cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione specifica
contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha dissolto uno Stato, il
regno dei Karadjeordjevic, ma non ha prostrato i popoli della
Jugoslavia. L'illusione tedesca di una comoda permanenza in quella
terra è stata presto delusa. Sin dai primi giorni dell'occupazione, i
tedeschi hanno avuto filo da torcere. La guerra, che anche in Šumadija
i resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e
diversioni in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee
telefoniche e telegrafiche vengono tagliate, ponti e strade ferrate
saltano. Il movimento di resistenza cresce così rapidamente, ben presto
è così ampio che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del quisling
serbo Milan Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli invasori si
sentono troppo esposti, isolati, preferiscono arroccarsi in città. La
lotta contro i patrioti la organizzano dai centri urbani, e la
conducono secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi una
razza inferiore, da sterminare. La traduzione pratica di questo
principio è all'altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado, una
moto incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella
capitale, in sette mesi fucilano 4700 ostaggi.

Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la
propaganda questo pugno di ferro che calano sul paese. Le
argomentazioni che diffondono sono quelle care alla "dottrina"
nazifascista dell'Ordine Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di
averli salvati dagli ebrei e dai capitalisti, e promettono anche di
salvarli dal bolscevismo semita, che sta per essere sicuramente
sconfitto sul fronte orientale.

L'itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla
grande carta geografica che campeggia nel centro della città. Una croce
uncinata segna la progressione delle forze dell'Asse in direzione di
Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore, repressione,
lusinghe, denaro fatto circolare per corrompere, valgono a indebolire
il sostegno alla lotta partigiana, a ridurne il seguito. A dare
contorni netti alla situazione, le risposte alla propaganda tedesca non
mancano. La carta geografica dell'Asse viene bruciata in pieno giorno.
Il fuoco divora anche una delle fabbriche militari della città. Un
treno di quaranta vagoni viene distrutto sulla linea Kragujevac-
Kraljevo, provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da vincitori e
occupanti, i tedeschi si trovano nella condizione di assediati.

È Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da
kraguj, dal rapace grifone che popolava i sui boschi, che alimenta la
Resistenza della zona. È questa città di antiche tradizioni nazionali e
socialiste che guida la lotta della Šumadija, il cuore della Serbia.
Gli operai comunisti che costituiscono il nerbo delle formazioni
partigiane vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue case dai cento
nascondigli, che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono le
armi, le munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne, bambini
e ragazzi portano quotidianamente ai combattenti del bosco.

Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di
bande, che è lotta di popolo e che sconvolge gli schemi bellici dei
signori nazisti della guerra, già alla fine dell'agosto 1941 Kragujevac
conta la guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia centrale. Ma
i due battaglioni e i mezzi corazzati di cui i tedeschi dispongono non
sono sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre compagnie partigiane
che operano fuori della città. Né tantomeno la Gestapo è in grado di
bloccare i gruppi clandestini che si annidano dentro. La loro azione
anzi si fa sempre più audace, punta sul risultato militare, ma ricerca
anche l'effetto psicologico. Per i partigiani, importante è non
soltanto colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi oppressi a
sperare, a vivere. Una notte d'agosto, cento metri di ferrovia vengono
fatti saltare in città, proprio sotto il naso dei tedeschi.

È una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e
il desiderio di vendetta dei tedeschi crescono quotidianamente. Quando
nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la Serbia, e
conseguentemente mette radici ancora più profonde in Šumadija, il
generale Boehme, comandante delle forze tedesche nel Paese, considera
che la misura è colma. Il prestigio dei suoi soldati deve essere
risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una
spietata repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A rendere
più chiara la direttiva che passa ai subalterni, e che precisa la
"filosofia" del comando tedesco, Boehme ricorda che "una vita umana non
vale nulla", e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una
"crudeltà senza eguali". A metà settembre i tedeschi passano
all'azione. La macchina si mette in moto.

Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio.
A decine villaggi grandi e piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo
Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono a migliaia,
uccisi, massacrati. A Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai
14 ai 70 anni che rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento
muoiono durante una marcia fatta fare al passo di corsa per 46
chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10
ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono al muro. "Pagano" 10
tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è "sentenziata"
la punizione di Kraljevo, un'altra città che resiste. I plotoni di
esecuzione lavorano per cinque giorni, le vittime sono 5000. Sembra
impossibile immaginare una strage ancora più grande. Eppure,
l'allucinante escalation non ha toccato la sua punta di massimo orrore.
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario. La "spedizione punitiva"
comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio di
Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li
trascinano dietro nella puntata che fanno contro il paese vicino,
Gornji Milanovac. Affamati, percossi, costretti a rimuovere tronchi
d'albero e a tirare fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo
contro i partigiani, sono testimoni della sorte del piccolo paese di
pastori. Vivono un'agonia che ha fine solo con il grande massacro, nel
quale scompaiono anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al
paese, anche questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio
conto che avevano in sospeso. Anche per questa impresa però devono
pagare uno scotto. Trentasei uomini vengono messi fuori combattimento
dai partigiani, che attaccano senza sosta.

Di fronte a questo "smacco" la logica tedesca della ritorsione non
tarda a scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la vita di 100
cittadini ogni tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito.
Duemilatrecento persone sono condannate a morte.

La rappresaglia punta per primo sui "nemici storici" del Reich:
comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi, e un certo numero di comunisti, 66
persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i
collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno
successivo, il 19 ottobre, una massiccia operazione ha luogo
nell'immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre
chilometri, sono travolti della furia tedesca. Grošnica, Meckovac,
Maršic bruciano, 423 uomini muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono
costretti ad assistere all'esecuzione. Lo stesso macabro rituale è
imposto a Grošnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di
Dimitrjie Ljotic. Il paese quel giorno celebra la festa del patrono. I
fascisti serbi strappano il pope dell'altare con il vangelo ancora in
mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della
comunione ortodossa. Vengono falciati tutti lì vicino, con le
mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di
morte. La prova generale è compiuta. Ora si passa al "grande massacro".

L'azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell'alba,
gli accessi a Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate
nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla città, nessuno può
più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene ucciso.
È quanto accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un vecchio
che in città muove verso il mercato. Agli ordini del maggiore Koenig,
tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all'uomo. Nessuno sfugge,
nessuno è "dimenticato". Il gruppo di operai che lavora tranquillamente
a un torrente, i tre popi di una chiesa, che sperano di trovare la
salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a stanare ovunque. Gli
impiegati sono portati fuori dal municipio; giudici, scrivani,
pubblico, dal tribunale. Dalle abitazioni vengono tratti anche gli
ammalati. Un barbiere è prelevato dal negozio insieme al suo cliente,
che con altri disgraziati marcia verso il suo destino, una guancia
insaponata, l'altra no.

Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L'apparizione
di quelle uniformi verdi armate di fucili e parabellum, infrange la
normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il barone
Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato
presidi, professori e genitori di severe sanzioni se i ragazzi non
frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le vie della
città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in
aula, sempre. L'ufficiale tedesco, che da civile è insegnante, combatte
l'assenteismo degli studenti non certo perché mosso da passione
pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti siano
presenti, egli fa apparire di voler esercitare un controllo; che però
si trasforma in una trappola. In realtà, egli non dimentica che i
ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la più
violenta opposizione all'occupante. Un giovane è finito impiccato dopo
uno scontro con la polizia. Il barone sa pure che anche in quelle aule
la Resistenza attinge, per alimentare i suoi "gruppi d'azione", i suoi
propagandisti e sabotatori.

L'ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti
dal barone sono pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi
hanno cancellato i loro nomi dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è
appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano.
Hinaus, fuori tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo invalido
che si trascina con la stampella, per il quale invano una professoressa
intercede. Anche la classe che il professore di tedesco tenta di
salvare. Ai soldati che si affacciano, il professore dice, per
rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco. Mente. E mente una
seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi ragazzi.
Quindici dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma in quel
momento un alunno si alza dall'ultimo banco. È lo spilungone della
classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e sbattono fuori
tutti.

I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa.
Con loro, ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di chimica, celibe,
e Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui rifugiato in
Serbia con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della
Croazia. Quel giorno i due professori non hanno lezione. Ma quando
hanno visto che in città i tedeschi rastrellavano, certi che la scuola
non sarebbe stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere
insieme ai loro ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno
insieme a loro alla fucilazione. Del corpo insegnante, solo le donne
non sono razziate. Dalle finestre della scuola vedono sfilare i
professori e gli alunni, e "cento berretti levarsi in segno di saluto"
. I ragazzi credono ancora che torneranno.

Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella
immensa rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va a unirsi ai
partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a
migliaia, ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per
Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I razziati sono quasi 10.000,
su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non hanno
tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei detenuti sono,
con comunisti ed ebrei, i primi ad essere fucilati.

Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte,
la sera di quel 20 ottobre i prigionieri sentono le prime scariche di
fucileria. È l'avvio della grande carneficina. Contando sulla sorpresa,
e sulla iniziale "distrazione" dei fucilatori, alcuni dei condannati
riescono a salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in riga. Altri, come
Zivotjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra anche se non è
colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di blocco.
Tenta di nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara a bruciapelo. Gli
sfiora l'inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di grazia nella spalla
invece che in testa, lo lascia a terra credendolo morto. L'uomo
striscia tutta la notte a palmo a palmo finché arriva alla casa di un
amico. È soccorso, si crede in salvo. Arrivano i fascisti serbi, che lo
riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che, essendo ormai in fin di
vita, tanto vale lasciarlo morire. Ma l'uomo non muore.

Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue
freddo che riescono ad avere anche in un tale frangente. A mano a mano
che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i tedeschi fanno
la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano, per
esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo sono
di più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di tirare fuori i loro
amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono generosi.
Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei loro
protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un paese alleato
dell'Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi. Un
dalmata si dichiara italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un
croato acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e a
salvare il ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la
sua "autorità" di "alleato", che non ha ancora 16 anni. Un serbo,
invece, mostra un certificato bulgaro qualunque, rilasciato dalle
truppe di Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da
parte.

Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore,
insegnante di religione, che invece potrebbe. Tutti sanno che è un
fascista convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che
alcuni professori progressisti siano finiti in galera per opera sua.
Basterebbe che dica chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche quando
passano i fascisti serbi per la "loro" selezione. Forse, nelle lunghe
ore della tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera
natura dell'Ordine Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla
fucilazione con gli altri. Vanno volontari anche due vecchi genitori
che non vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi in
due gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori. Alla
testa di un gruppo vi è il preside del ginnasio. L'altro gruppo marcia
verso la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come dovessero
danzare il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano. Intonano "Hej
Slaveni!", l'inno antico e comune a tutti gli slavi. Cadono cantando.

Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci
chilometri, fuori della città le armi crepitano fino alle 14 del giorno
21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60 anni
cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi hanno più
che triplicato il "coefficiente dichiarato" di rappresaglia. I graziati
sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti rientreranno a piangere
un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il sabato
successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il sabato è il
giorno dei morti, vuole anche che per ogni morto sia accesa una candela
gialla e per ogni candela, cui si accompagna un pane che è da benedire
con il vino santo, il pope reciti la parola dei defunti. I sacerdoti
rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri sette sono stati fucilati. Ma
il rito deve essere compiuto. Mentre le donne piantano le candele,
presentano i pani, gridano il nome del defunto, i due preti cantano
l'antica preghiera della liturgia veteroslava. Dandosi il cambio
pregano per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.

Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla
strage, alterando registri, imbrogliando le cifre, esumando e cremando
cadaveri. Kragujevac ha fatto il "suo" appello. È la prova che Zivotjin
Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici di
Norimberga: "...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte più
di settemila bandiere nere... nella chiesa vennero presentati e
benedetti in un giorno più di settemila pani... E furono accese
settemila e trecento candele...".