Informazione


Il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS sarà presente con un proprio banchetto lunedì 25 Aprile 2016, Festa della Liberazione, in occasione del meeting antifascista Pratello R'Esiste a Bologna. Presso il banchetto, allestito in Via del Pratello all'altezza del civico 23/2, sarà possibile conoscersi, scambiare informazioni e acquistare libri e bandiere.

Il nostro Coordinamento (JUGOCOORD ONLUS) sostiene e collabora con il Comitato Ucraina Antifascista Bologna, impegnato a far conoscere le ragioni della opposizione al regime sciovinista-revanscista russofobo e filonazista instaurato in Ucraina a seguito del colpo di stato del febbraio 2014. In particolare, sarà possibile visitare il banchetto del Comitato Ucraina Antifascista Bologna vicino al nostro in Via del Pratello; il CCP di JUGOCOORD ONLUS è inoltre a disposizione per i versamenti in solidarietà delle vittime della guerra in Donbass: le somme saranno girate al Comitato di Bologna per le iniziative umanitarie descritte di seguito.


=== Inizio messaggio inoltrato:

Da: Comitato Ucraina Antifascista Bologna <ucraina.antifascista.bo @ outlook.it>
Data: 12 aprile 2016 08:49:10 CEST
Oggetto: Segnalazioni iniziative


Bologna, lunedì 25 Aprile 2016
dalle ore 15:15 alle ore 17:00
presso la Sala Benjamin, Via del Pratello 53

Gavarit Donbass / Parla Il Donbass

Presentazione del libro: "Non un passo indietro"
a cura della Rete Noi Saremo Tutto
prefazione di Valerio Evangelisti
Red Star Press edizioni, 2016

Proiezione di stralci dal video: “Gavarit Donbass, Parla il Donbass” (allegato al libro)

a cura di 
Noi Saremo Tutto
Comitato Ucraina Antifascista Bologna
Campagna Noi Restiamo Bologna

Con un intervento di Valerio Evangelisti 

Nell'ambito di Pratello R'Esiste 2016
https://www.facebook.com/Pratello-Resiste-427815000701363/


Contestualmente all'iniziativa sarà allestito per tutta la giornata un centro di raccolta aiuti umanitari per la popolazione colpita dalla guerra presso il nostro banchetto in via del Pratello all'altezza del civico 23/2 (vedi punto successivo).

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Come Comitato Ucraina Antifascista Bologna siamo ripartiti con la raccolta di aiuti per il Donbass
Dopo avere effettuato con successo in marzo due spedizioni "sperimentali", nel prossimo periodo e fino al 25 Aprile raccoglieremo farmaci e beni di prima necessità per la popolazione della cittadina di Pervomajsk vicina alla linea del fronte e duramente colpita dai bombardamenti, e per l'orfanotrofio/ricovero di Perevalsk, dove circa 200 fra adulti e bambini poveri hanno bisogno di assistenza.

E' necessario raccogliere: cibo in scatola, confezionato e non deperibile di qualsiasi genere; prodotti per l'igiene personale (shampoo, bagnoschiuma, assorbenti e pannoloni) e per i neonati (pappe, pannolini); materiale sanitario e medicine di cui riportiamo la  lista: 
Paracetamolo
Ambroxol
Acidum ascorbinicum
Ibuprofen
Kreon 10 000 (medico: è mezim forte, quindi Pancreatin)
Урсолизин (300 мг) Ursolin (300 mg)
Ламотрин (100 мг) Lamotrin (100 mg)
Diakarb (0,25 mg) Acetazolamide
Noofen (0,25 mg) Aminophenylbutyric acid
DepaKine sciroppo (150 ml ) valproic acid
Depakine Khrono (300 mg) Valproic acid
Troxerutin (300 mg)
Troxerutin (capsule 300 mg)
Acetylsalicilic acid+Magnesium hydroxide (75 mg)
Aspartic acid, magnesium and potassium salt
Trimetazidine 20 mg
Acetylsalicilic acid

Tutto ciò che potrete donare personalmente o attraverso la generosità di amici e parenti è bene accetto.
Come per i precedenti  invii gli aiuti saranno spediti tramite i compagni di Parma, arriveranno a Kharkov verranno prelevati da volontari che varcheranno il confine di guerra e li distribuiranno alle varie destinazioni.

Intitoliamo questa nuova spedizione di solidarietà alla memoria di Vadim Papura, giovane compagno ucciso dai fascisti il 2 maggio 2014, presso la Casa dei Sindacati ad Odessa.

Un punto di raccolta degli aiuti sarà allestito il giorno 25 Aprile a Bologna , nell'ambito del meeting Pratello R'Esiste, presso il nostro banchetto in via del Pratello all'altezza del civico 23/2.
Si può contribuire anche con versamenti in denaro, che convertiremo in materiale sanitario e per neonati. Per inviare contributi si può usare il CONTO BANCOPOSTA n. 88411681 intestato a JUGOCOORD ONLUS, Roma - IBAN: IT 40 U 07601 03200 000088411681 – Causale: Aiuti per il Donbass.

Le foto degli aiuti giunti a destinazione in marzo nella città di Rovenky (Regione di Luhansk): https://www.facebook.com/ucraina.antifascista.bo/posts/1081343705221519



(italiano / français)

Sur l'inutilité de la Cour Pénale Internationale

1) Tribunale de L’Aja: nessun massacro di civili nel Donbass (Contropiano 9.4.2016)
2) Robert Charvin: Evaluation critique de la Cour Pénale Internationale (1998 – 2002 – 2016)

In occasione del più recente, inutile pronunciamento (sul Donbass) della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia (detta anche talvolta "Tribunale dell'Aia" ma che non va confusa con il "Tribunale ad hoc per i crimini commessi sul territorio della ex Jugoslavia", sempre avente sede all'Aia) diffondiamo la dettagliata analisi di Robert Charvin. Su alcuni dei precedenti, altrettanto inutili, verdetti della Corte si veda ad esempio: "Diritto e ... rovescio internazionale nel caso jugoslavo", di Andrea Martocchia, gennaio 2015:


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Tribunale de L’Aja: nessun massacro di civili nel Donbass

di Redazione Contropiano, 9.4.2016

August Bebel, capo della socialdemocrazia tedesca non ancora trasformatasi in quel “cadavere imputridito” (Lenin) che nel 1914 avrebbe votato i crediti di guerra, diceva che i giudici sono la casta più reazionaria della società. Senza riferimento a un loro specifico settore, è difficile non concordare con quel giudizio, quando si giustappone qualche ultima deliberazione dei giudici de L’Aja.

Nessuna causa verrà avviata per il massacro di civili nel Donbass, perché “i delitti denunciati non rientrano nella giurisdizione del tribunale”, dato che “La Corte può esercitare giurisdizione sui crimini internazionali, se la sua competenza è riconosciuta (1) dallo Stato nel cui territorio è stato commesso il reato, (2) dallo Stato di cui è cittadino l’accusato, o (3) il caso è delegato dal Consiglio di sicurezza dell’ONU”. Nel caso sollevato dall’avvocato russo Igor Trunov, dicono i giudici de L’Aja, nessuna di queste condizioni è data. Trunov si riferiva a casi specifici, ponendo l’accento soprattutto su “l’uso di armi di distruzione di massa, con la morte in massa di civili. Bombardamento di edifici pubblici, abitazioni e infrastrutture. Una scuola è stata colpita, provocando quindici vittime; ucciso anche un collaboratore della Croce Rossa Internazionale, lo svizzero Laurent Etienne Du Pasquier “. Ma, secondo i giudici de L’Aja, avrebbero dovuto essere la junta golpista di Kiev a intentare causa contro le proprie truppe e i propri battaglioni neonazisti inviati a terrorizzare il Donbass!

Di contro, lo scorso 24 marzo, il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, nel 17° anniversario dell’inizio dei bombardamenti Nato sulla Jugoslavia, che causarono 2000 vittime civili, tra cui più di 400 bambini, aveva condannato il primo presidente della Repubblica serba di Bosnia, Radovan Karadžič, a 40 anni di reclusione, con l’accusa di genocidio. “Un atto di ipocrisia sfacciata”, hanno detto i comunisti russi, “un’altra pagina vergognosa nella storia della giustizia internazionale”, scritta dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, creato su pressione USA, quale “degna conclusione dell’aggressione alla Jugoslavia nel 1999 e organo apertamente antiserbo, per coprire gli innumerevoli crimini dei terroristi albanesi, bosniaci e croati”.

Come in sede nazionale si amministra la “giustizia” della classe al potere, così, a livello internazionale, o “l’inquisizione Nato denominata Tribunale de L’Aja” ratifica i delitti della Nato stessa, oppure assolve in altra sede il genocidio nel Donbass. Si sanciscono gli interessi geopolitici di chi si regge o sui manganelli o sui bombardamenti; il risultato è in ogni caso la convalida della reazione.

E’ così che il PC russo, dopo il “no” all’associazione dell’Ucraina alla UE, ha invitato gli olandesi a dare una spallata anche al Tribunale internazionale de L’Aja.


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Evaluation critique de la Cour Pénale Internationale (1998 – 2002 – 2016)

par Robert Charvin
, 6 avril 2016

La Cour Pénale Internationale, « un pas de géant », selon l'éminent juriste Luigi Condorelli, qui porte un jugement positif dès 1999, un an à peine après l'adoption du Statut de Rome. La doctrine juridique occidentale, comme les forces politiques européennes, ont quasi-unanimement applaudi à la création de la CPI. Depuis 2002, date de son entrée en fonction, elles n'ont pas manifesté de critiques sur son fonctionnement (1).



Les motivations favorables à une justice criminelle internationale permanente sont de « nature éthique », affirme-t-on. Elle serait née d’une « prise de conscience » de l’horreur de certains conflits et de la volonté d’en finir avec l’impunité des responsables de crimes de masse. Cette brusque mutation est exprimée par le Docteur B. Kouchner et le juriste M. Bettati, suivis de nombreux juristes français (2), lorsqu’ils dénoncent « les assassins qui coulent des jours tranquilles à l’abri des souverainetés et à l’ombre du principe de non ingérence » : le « Bien », incarné par les puissances occidentales, doit triompher du « Mal » (espace « gris » du reste du monde) et la justice internationale devient un outil de paix, car « sans justice, pas de paix véritable » ! De nombreuses ONG occidentales, souvent nourries par les États eux-mêmes et des fondations privées, arguent du nécessaire respect du droit humanitaire (ce qui est incontestable) et de son rôle préventif (ce qui est très incertain). 

Un nouveau messianisme occidental s’est ainsi développé, succédant aux précédents (celui de la « mission civilisatrice » de la colonisation, par exemple) : « l’Occident traite les droits de l’homme, écrit A. Supiot (3), avec la Cour Pénale Internationale entre autres, comme un « Texte révélé par les sociétés « développées » aux sociétés « en voie de développement », comme s’il s’agissait pour ces dernières de « combler leur retard » et se convertir à la modernité ! 

Ce chœur quasi-unanime en faveur de la CPI, y compris à l’origine dans de nombreux pays africains, témoigne d’un idéalisme ne prenant pas en compte les réalités politiques et les rapports de force dans la société internationale. 

C’est l’évolution du contexte international des années 1990 qui est la clé explicative de l’apparition d’une justice universelle internationale permanente. En premier lieu, se produit la disparition de l’URSS, longtemps vigoureusement opposée à ce type de juridiction (4). Les puissances occidentales sont en position de force et ont pour objectif de conforter définitivement la société unipolaire qui leur est favorable. Les États socialistes survivants et la Russie post-communiste sont très affaiblis ; les guerres de décolonisation étant achevées, la question des droits de l’homme peut être « l’arme absolue » pour assurer une hégémonie légitimée. Le droit humanitaire apparaît comme un instrument de « déverrouillage » de ce qu’il y a de trop contraignant dans le droit international général « classique », notamment son noyau dur qui est la Charte des Nations Unies, (en particulier, les principes de l’égale souveraineté des États et de la non ingérence). 

La mondialisation libérale a besoin d’une société internationale sans frontière où peuvent s’épanouir les firmes transnationales. L’OTAN, en capacité de se constituer en substitut de l’ONU devient porteur des valeurs occidentales « humanistes », protectrices des droits humains (5). Les grandes puissances occidentales jouent un rôle d’États-pilotes avec l’assistance des organes de l’Union Européenne et de certains États du Sud comme la Tunisie de Ben Ali, en faveur d’une justice pénale internationale, couronnement du « nouvel » ordre, tout en prenant toutes les précautions pour ne pas faire courir de risque à leurs ressortissants (6). 

Ainsi, la relance de la question d’une Cour Permanente, au sein des Nations Unies, n’est pas le résultat d’un besoin subit d’humanité, mais d’un nouveau rapport de force permettant d’envisager une « gouvernance globale », et notamment une juridiction pénale suprême dans l’ordre international. 

C’est ainsi, qu’après une longue mise en sommeil du projet de juridiction pénale permanente depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale, la Commission du droit international des Nations Unies se met au travail en axant ses préoccupations sur la répression du trafic de stupéfiants et du terrorisme, à partir de 1993-1994. Mais en 1998, le statut de Rome de la CPI est adopté à l’issue d’une négociation inter-étatique (alors que les tribunaux pour le Rwanda et l’ex-Yougoslavie avaient été créés par le Conseil de Sécurité) : il s’agit désormais de sanctionner les crimes de masse, plus de vingt ans après l’adoption des Protocoles de 1977 sur le droit de la guerre et sur la sanction des criminels de guerre par les tribunaux nationaux. 

En 1998, la voie conventionnelle (en lieu et place de la voie onusienne) s’explique par le fait que les Grandes Puissances n’avaient aucune volonté de créer une juridiction pouvant s’imposer à elles ! Il s’agissait de sanctionner les crimes des « autres », tout comme l’usage répétitif du chapitre VII de la Charte (axé sur la « punition ») et l’abandon du chapitre VI (sur la négociation) permettent aux Grandes Puissances de réprimer les « autres » États, sans que leur responsabilité soit effectivement engagée. 

Le monde occidental a gagné la « guerre froide ». Il s’agissait d’institutionnaliser cette victoire.

1. Contradictions et confusion du contexte international

L’évaluation de la CPI est impossible si on isole le phénomène de l’évolution générale des relations internationales. Il est nécessaire de prendre en considération le « temps long ». Il permet de comprendre, comme on l’a vu, la naissance de la juridiction. Il permet aussi de saisir la fonction réelle qu’elle prétend assurer depuis 2002 au cœur d’un processus général. 

La phase actuelle est celle de la déconstruction du droit international général, c’est aussi celle de la tentative d’imposition d’un néo-fédéralisme assimilant les États (toujours souverains en droit) à des « landers » ou à des régions, dotés de compétences limitées. Tout le processus de la construction européenne est basé sur cette pression progressive en faveur d’une fédéralisation des États membres. 

Dans le reste du monde, comme au XIX° siècle, l’approche occidentale est encore celle de la division d’un monde entre États « civilisés » (on dit aujourd’hui « développés »), plus ou moins organisés en « saintes alliances », et les autres États et peuples qu’il s’agit de contrôler d’une manière ou d’une autre. 

La Charte des Nations Unies, déjà pour les États-Unis surtout, ne compte plus vraiment. Il en est de même pour les États-Nations jugés archaïques. Le monde occidental fait l’impasse sur la fracture sociale abyssale qui sépare les peuples du Nord et du Sud, mais aussi les populations du Nord et la poignée d’hyper-privilégiés (les « 1.800 » milliardaires du monde) du Nord et du Sud. L’objectif prioritaire est le démantèlement de la souveraineté nationale, sans laquelle il n’est pas de souveraineté populaire (7). 

Pour l’Occident, en définitive, les institutions de la « globale gouvernance » doivent devenir l’échelon le plus élevé des pouvoirs et l’individu leur seul sujet de droit dont il convient d’assurer une promotion formelle. 

La CPI devient le symbole d’un monde garant des droits de l’homme et assurant la fin de l’impunité des criminels qui leur portent atteinte. Elle se présente même si les États-Unis n’ont pas adhéré au statut de 1998 comme le symbole d’un nouveau monde démocratique et humain. Néanmoins, cette CPI fonctionne dans un environnement radicalement contradictoire avec ses prétentions. Elle se veut compatible avec des phénomènes qui sont des sanctions collectives comme les embargos frappant la masse des gouvernés plutôt que les intérêts de quelques gouvernants, et particulièrement les populations les plus démunies. Les États-Unis, leurs alliés et leurs juristes valorisent la sanction par la CPI des violations individuelles des droits de l’homme, tout en manifestant la plus grande indifférence à l’égard des droits sociaux, économiques et culturels qui rendent impraticables les droits civils et politiques. Ce soutien à la CPI est contredit aussi par un phénomène aussi radicalement illicite que Guantanamo, qui malgré le discours officiel des autorités américaines, depuis bientôt huit ans, fonctionne toujours (8). 

Plus globalement, le droit fondamental qu’est le « droit au droit » n’est pas reconnu puisqu’il y a irrespect généralisé du droit international et du droit humanitaire, notamment à l’occasion des interventions armées. 

Avec les années 2000, la confusion s’est accrue : la Russie tend à redevenir une puissance qui compte, la Chine et les puissances émergentes pèsent d’un poids grandissant. A la société unipolaire « rêvée » par l’Occident, dont la CPI était un élément constitutif, succèdent les prémisses d’une société multipolaire. 

Mais comme dans toute phase séparant ce qui meurt et ce qui naît, le processus est chaotique : coexistent, en effet, des normes et des pratiques prétendument nouvelles de la première phase et le retour de normes et de pratiques de la période de la société bipolaire, complétées par des innovations de la société multipolaire en train de naître. 

Certaines forces occidentales s’efforcent d’inventer des normes, qualifiées dans le plus grand flou de « nouvelles coutumes », bien que non acceptées par l’ensemble de la société internationale. Les juristes le plus souvent tendent à les accepter comme telles, bien qu’avec une certaine réticence. C’est le cas avec, par exemple, « la responsabilité de protéger » les populations civiles contre leur propre État, sous prétexte de préoccupations humanitaires, en réalité pour justifier l’ingérence. On crée l’incertitude sur la juridicité des normes au mépris du principe de souveraineté. On favorise le développement d’un droit des affaires d’origine privée s’imposant dans les relations économiques transnationales. Quant à la CPI, elle-même, elle connaît des dysfonctionnements, sources d’un discrédit croissant dans le Sud.

2. Les pathologies de la CPI.

La CPI est une institution grevée de paradoxes et de contradictions de toutes natures. 

L’étrangeté la plus visible est que les États-Unis, qui n’ont pas ratifié le statut de 1998 sont partie prenante de facto du fonctionnement de la Cour : ils menacent de poursuites ou poussent à la poursuite de certaines personnalités et ressortissants de divers États qui n’ont pas leur faveur, tout en organisant systématiquement la protection de leurs propres nationaux (notamment par une série d’accords bilatéraux). 

Il en est de même pour la Russie et la Chine, qui ce représente 3 des 5 membres permanents du Conseil de Sécurité, dont le rôle est déterminant dans la procédure de la Cour (saisine ou dessaisissement) (9). 

Cela conduit nécessairement la CPI à ne s’en prendre jamais aux « vainqueurs » (comme à Nuremberg en 1945) ni aux alliés des « Grands », pour ne poursuivre que les ressortissants des « vaincus » et des États faibles ou isolés (10). 

Une seconde « curiosité » est le champ de compétence de la Cour. Conformément à l’idéologie néolibérale, les droits économiques et sociaux n’ont pas la même « qualité » que les droits civils et politiques. Selon cette logique, il est évident qu’il ne pouvait être question d’élargir la compétence de la Cour aux crimes économiques et sociaux dont le coût humain est plus massif, bien que plus diffus, que les crimes de guerre et autres commis contre l’Humanité. Rien ne devrait empêcher l’existence d’une Chambre sociale permettant de sanctionner les individus responsables d’un endettement sans retombée sociale, du chômage, de la violation des droits sociaux, et plus généralement de la misère. L’impact de la guerre sociale ne relève pas de la justice criminelle internationale. 

La compétence de la Cour comprend, dans le statut de 1998, le crime d’agression. Toutefois, cette disposition n’est pas entrée en vigueur et nul ne sait si, dans les prochaines années, elle entrera en vigueur. Un groupe de travail spécial explore le sujet, mais le fait que l’agression soit susceptible d’atteintes particulièrement aux capacités des grandes puissances qui réunissent tous les moyens pour être des « agresseurs privilégiés », conduit à penser que la question à toutes les chances de s’enliser. Si la CPI vise à combattre l’impunité de certains criminels, elle ne va pas, en droit, jusqu’à mettre en œuvre la répression des criminels qui sont de surcroît des « agresseurs » ! 

Un autre paradoxe est le mode de financement de la Cour. Le financement est assuré par les contributions des États occidentaux (surtout l’Allemagne et la Grande Bretagne), plus le Japon et par quelques fondations privées comme celle de G. Soros (11) et non pas l’ONU. L’indépendance financière de la juridiction n’est en rien garantie. On ne sait notamment pas quel est le degré d’indépendance du Parquet, en raison des liens s’établissant durant le mandat de ses membres avec divers intérêts. 

La promotion de la Cour dans les pays du Sud est aussi assurée par des organisations privées, comme par exemple, « Avocats sans frontières » ou l’Institut Arabe des droits de l’homme. Cette médiatisation de la CPI, très politisée, se confronte ainsi aux courants critiques qui se développent à son encontre. 

C’est le cas sur le continent africain depuis quelques décennies. L’Union Africaine estime que la CPI est avant tout un outil supplémentaire des Puissances mondialisatrices pratiquant la politique des « deux poids, deux mesures ». Le juge danois Harhoff (du Tribunal international pour l’ex-Yougoslavie) faisant écho à Juan Ping, ancien ministre du Gabon, au premier ministre éthiopien et à d’autres personnalités africaines en la matière, a énoncé le fait que des « pressions massives et assidues sont exercées sur les magistrats internes », ajoutant que ces « tribunaux ne sont pas neutres et obéissent aux ordres des grandes puissances, les USA et Israël en particulier » (12). L’Union Africaine se prononce pour le retrait du statut de Rome (art. 73) sans résultat. 

La Cour Africaine, créée à Arusha, est elle-même dans la dépendance du financement occidental. Seuls six États ont ratifié le Protocole de 2008, alors que quinze sont nécessaire. La lucidité critique africaine est ainsi plus collective qu’individuelle ! 

Plusieurs affaires, toutefois, peuvent déclencher un mouvement de retrait. Tout d’abord, le procès du vice-président kényan William Ruto. Lors de la XIV° Assemblée des États parties de la CPI (novembre 2015), l’Afrique du Sud et le Kenya ont menacé de se retirer, soutenus par divers autres États, malgré la défense de la Cour par des États de l’Union Européenne et de certaines ONG financées par l’Union Européenne. La Chambre d’appel de la CPI a annulé le 12 janvier 2016 la décision autorisant l’utilisation rétroactive de témoignages à charge, fragilisant fortement le dossier de la Procureure (13). Le recul du Parquet est survenu après le retrait des charges contre le Président Kenyata. Le Parquet, en effet, établit le plus souvent son dossier essentiellement sur des témoignages fortement contestables. 

Il en est de même pour le procès Gbagbo qui a débuté en février 2016. La règle de la primauté des juridictions nationales sur la compétence de la CPI fonctionne à ce propos de manière aléatoire. On peut s’interroger sur le fait que la justice ivoirienne s’est avérée régulièrement compétente pour juger et condamner à une lourde peine Madame Gbagbo, alors que L. Gbagbo a été déféré à la CPI, de même que Blé Goudé (sans doute pour alourdir les responsabilités de son ancien Président), comme s’il s’agissait de faciliter la tâche du régime Ouattara qui souhaitait se débarrasser d’un procès « encombrant ». On s’interroge sur les critères consistant en « l’absence de volonté » ou « l’incapacité » locale de mener à bien l’enquête et les poursuites ? Qu’en est-il, pour la Cour, de son appréciation de « l’impartialité » des tribunaux nationaux ? Ainsi, il apparaît que la Cour a une compétence plus ou moins large, plus ou moins « subsidiaire » selon des opportunités politiques confuses ! 

On constate aussi que la CPI tend à fonctionner quasi-exclusivement à charge à l’encontre des prévenus. C’est ainsi par exemple, que parmi les témoins ou les ONG sollicités, on s’abstient de prendre en considération ceux qui sont à priori « suspects », tandis que les autres sont appelés à fournir des éléments de « preuve » ! Le « tri » effectué entre les témoignages semblent parfaitement arbitraire dans l’affaire L. Gbagbo (14). Les moyens de la défense ne sont pas en mesure de rivaliser avec ceux de l’accusation : des dizaines de juristes, dont les avocats français, proches de F. Hollande, J.P. Benoit et J.P. Mignard et le Parquet (doté d’une trentaine de millions d’euros servant à rémunérer des enquêteurs, des consultants, etc. font face à la petite équipe de défenseurs bénéficiant d’un budget très limité (environ 76.000 euros) (15). 

Enfin, épreuve de vérité, la Palestine, 123° État membre du Statut de Rome (au 1er avril 2015) a saisi la Cour contre divers ressortissants israéliens pour leurs comportements criminels. Il est en effet difficile de contester les crimes de guerre et les crimes contre l’humanité de militaires et de leurs commanditaires israéliens commis par l’occupant israélien. Le doute est permis sur l’acceptation même par la CPI de sa compétence pour juger de la requête palestinienne (16) ! Les armes d’Israël sont nombreuses : la priorité de ses juridictions nationales, le recours au Conseil de Sécurité pour éventuellement suspendre la procédure sous prétexte de ne pas gêner les négociations de paix, etc. L’issue de l’affaire Gbagbo, mais surtout celle du recours palestinien, fera la démonstration de ce qu’il en est réellement de la CPI et du niveau de gravité des pathologies dont elle est atteinte.

3. Le fonction ambiguë de la justice politique

L’efficacité d’une justice politique internationale ne peut être évaluée seulement sur la base de ses qualités juridiques : une approche politique est essentielle. 

L’ordre interne des États n’a fourni nulle part un « modèle » de justice politique exemplaire. L’Histoire fait la démonstration que les tribunaux politiques d’exception comme la justice ordinaire lorsqu’elle statue en matière politique, servent les intérêts tactiques et stratégiques des gouvernements qui les administrent. La France a fait l’expérience de différentes juridictions (tribunaux militaire, Haute Cour de Justice, Cour de Sûreté de l’État, Cour de Justice de la République, etc.) Elles ont fait preuve soit d’un excès de rigueur soit d’un excès d’indulgence, dans les deux cas infondés. En Algérie, on se souvient du caractère expéditif des décisions des tribunaux militaires frappant les militants du FLN. En France, lorsque la justice ordinaire intervient contre des syndicalistes ou des militants anarchistes puis communistes sous la III°, la IV° et la V° République, elle participe davantage à la lutte des classes et à une politique d’intimidation qu’à l’application de la loi républicaine. En 2016, la condamnation à 9 mois de prison ferme de syndicalistes de la CGT pour « séquestration » non violente des directeurs des ressources humaines d’une entreprise (Goodyear) aux lendemains d’une vague de licenciements en est le plus récent témoignage. 

A la différence des justiciables de faible « surface sociale », les responsables de l’appareil économique échappent le plus souvent à des peines lourdes (ce fut le cas, en France par exemple, pour la collaboration des chefs d’entreprise, à quelques exceptions près, avec le nazisme). 

Quant aux tribunaux d’exception, à la Libération par exemple, il n’ont fait que servir les intérêts du nouveau pouvoir dans le « climat » du moment : pour des faits de collaboration avec les nazis, la peine de mort était prononcée en 1945 alors que quelques mois plus tard les condamnations étaient pour les mêmes délits très légères ! 

En bref, la justice politique sert avant tout à légitimer par une voie formellement légale l’élimination momentanée des adversaires du pouvoir établi. Elle n’a que très rarement décidé des grandes mutations de l’Histoire nationale (17). 

La justice criminelle internationale n’a donc pas de référence dans le droit interne. Son émergence dans l’ordre international est peut-être prématurée : il ne règne dans la société internationale que peu de valeurs communes et les intérêts contradictoires rendent impossible toute notion d’intérêt général clair. 

Les finalités communément admises que poursuit la CPI ne peuvent donc être qu’ambiguës : 

Selon certains, il ne pourrait y avoir de paix et de réconciliation sans justice. La réalité est plus complexe. La justice internationale rend ses jugements longtemps après les faits criminels : rien ne permet de démontrer que leur impact pacifie la société concernée. Les Cambodgiens, par exemple, de nombreuses années après les massacres pratiqués par les Khmers Rouges, étaient plus préoccupés d’élévation de leur niveau de vie, du maintien de la paix civile par une « réconciliation » plus ou moins boiteuse, que d’une justice ne frappant qu’un petit nombre de responsables très âgés alors qu’ils dirigeaient un système global (qui d’ailleurs en son temps était soutenu par les États-Unis et la Chine !). Le coût élevé de la procédure a pu même être considéré comme excessif au regard des problèmes sociaux du pays (18). 

Il faut ajouter que le processus de réconciliation après un conflit ne peut être le même d’une société à une autre : la voie juridictionnelle n’est qu’une voie modeste parmi d’autres. C’est ainsi, par exemple, qu’en Libye elle paraît à priori totalement inadaptée, y compris s’il advient que l’un des fils de M. Kadhafi est poursuivi devant la CPI. Le rapprochement entre les autorités de Tripoli et de Tobrouk, et plus globalement entre les factions qui émiettent le pouvoir dans l’ensemble du pays, ne peut être réalisé par des voies répressives contre les criminels de guerre qui, à l’évidence, ne manquent pas en Libye. Ce n’est d’ailleurs pas la voie choisie par l’ONU qui favorise des négociations politiques. 

Dans certains cas, l’extrême longueur des procédures devant la justice criminelle internationale peut finir par grandir celui qui est poursuivi et condamné. Ce pourrait être le cas de L. Gbagbo en Côte d’Ivoire et dans l’ensemble de l’Afrique subsaharienne. L’opinion peut se retourner contre les autorités à l’origine de la poursuite et contre la juridiction qui a prononcé la condamnation. A long terme, l’Histoire montre que les condamnations les plus lourdes peuvent auréoler les condamnés et fabriquer des martyrs. Il en a été ainsi, par exemple, pour les militants des mouvements de Libération nationale condamnés par les tribunaux des colonisateurs. Il peut en être ainsi demain pour les condamnés de la CPI. 

On répète aussi que l’existence d’une justice criminelle internationale jouerait un rôle préventif : par la menace qu’elle fait peser sur les responsables politiques et militaires, elle les dissuaderait des pratiques criminelles et génocidaires. On constate depuis 2002, date de l’entrée en vigueur de la CPI, qu’il n’y a aucun progrès humain dans les conflits qui se sont produits. Mais surtout, l’argument de la dissuasion peut se retourner en son contraire. Les responsables, pour éviter des poursuites qui sont toujours plus faciles contre des vaincus qu’à l’encontre des titulaires du pouvoir, sont amenés à s’y maintenir par tous les moyens et à prolonger au maximum leur fonction dirigeante (comme on le voit couramment en Afrique), ce qui favorise la répression des rivaux. De plus, cette « menace » est discriminatoire : elle ne joue pas pour les alliés des Puissances « protectrices », or les dictatures protégées ne manquent pas, ni les pseudo-démocraties comme Israël à l’ombre du « parapluie » étasunien ! 

La justice politique internationale pose aussi la question de sa capacité effective à juger des crimes de masse. On peut légitimement douter de l’unique responsabilité, voire de la responsabilité principale de quelques personnalités politiques ou militaires, fussent-elles des dirigeants suprêmes et des cadres supérieurs (voir les problèmes soulevés par le dirigeant serbe Milosevic, par exemple, négociateur des Accords de Dayton avec ceux qui allaient le faire traduire en justice). 

La controverse a déjà eu lieu avant Nuremberg lorsque les Soviétiques souhaitaient sanctionner un très grand nombre d’Allemands, co-responsables de l’avènement et des pratiques génocidaires du nazisme (19). Les Américains s’y sont opposés pour imposer exclusivement la poursuite d’un très petit nombre de dirigeants. Dans l’esprit des dirigeants occidentaux, l’Allemagne était déjà en Europe l’État-tampon nécessaire vis-à-vis de l’URSS. 

Devant le Tribunal de Tokyo, chargé à l’initiative des États-Unis de juger les criminels de guerre japonais, les prévenus et les condamnés ont été très peu nombreux. Les États-Unis avaient notamment pris soin de ne pas poursuivre l’Empereur Hiro-Hito, doté durant la Seconde Guerre mondiale d’une autorité « divine » sur tout le peuple japonais, afin de pouvoir utiliser son influence pour contrer le communisme. 

La justice politique, lorsqu’elle est « intelligente », prévoit toujours à l’avance les conséquences de ses sentences affectées d’un coefficient « utilitaire » pour la suite.... 

La justice criminelle internationale, à l’occasion de ses premières expérimentations, a fait la démonstration qu’elle ne pouvait être que sélective, c’est-à-dire arbitraire, son organisation et son fonctionnement ne pouvant être « hors sol » et dépendant nécessairement des rapports de force et des arrière-pensées du moment. 

C’est ainsi qu’aujourd’hui, il n’est pas concevable que la CPI puisse juger et condamner des ressortissants américains, russes ou chinois. Il ne semble pas même possible que les ressortissants des pays qui leur sont alliés soient poursuivis, sauf si les Puissances les considèrent désormais non fiables ou « inutiles » ! 

Or, les Puissances dominantes sont détentrices des moyens les plus susceptibles de réaliser des crimes de guerre : c’est le cas, par exemple, avec leur capacité de bombardements aériens, provoquant des morts civils en grand nombre. Il est vrai qu’un État en dépit de ses forces extérieures limitées est capable d’avoir une pratique criminelle dans l’ordre interne. Toutefois, le fait que ses ressortissants soient les seuls à pouvoir être poursuivis par la justice internationale assimile celle-ci à une forme « d’ingérence humanitaire », pratique illicite mais fréquente des Grandes Puissances à l’encontre de la souveraineté nationale des petits et moyens États, au nom d’un humanitarisme sélectif. 

Aussi, dans les conditions de notre époque, la question fondamentale et non résolue est celle de la souveraineté nationale et de son articulation avec la justice criminelle internationale. Le Tribunal Pénal international pour l’ex-Yougoslavie est une illustration de la confusion qui règne : le Conseil de Sécurité a exercé une fonction judiciaire incertaine en créant cette juridiction ad hoc, alors qu’il a renoncé à exercer sa fonction pacificatrice en la laissant à l’OTAN, qui est de plus intervenue en 1999 pour le Kosovo sans autorisation de ce même Conseil de Sécurité, au mépris de la Constitution de la Fédération Yougoslave ! 

La CPI, pour exister, a dû prendre des précautions vis-à-vis du principe de souveraineté. Elle n’est statutairement qu’une juridiction complémentaire et subsidiaire des tribunaux nationaux qui ont la primauté. Le Procureur de la Cour ne peut s’auto-saisir qu’à la condition qu’intervienne un organe collectif, la Chambre préliminaire (chambre d’accusation). 

Les États sont tenus de coopérer avec la Cour et en particulier de lui remettre les personnes poursuivies, mais à défaut aucune sanction n’est prévue. 

De nombreux États sont conscients que la justice criminelle internationale est instrumentalisée : elle tend à se constituer en outil de légitimation de l’ordre international existant, dans le cadre d’un « fondamentalisme occidentaliste » qui nourrit en retour les autres fondamentalismes (20). 

La Belgique en a fait l’expérience, lorsque l’un de ses tribunaux a été saisi en 2003 afin de juger des officiers supérieurs américains, le Général Franks et des adjoints, objet d’une plainte pour crimes de guerre contre des Irakiens et des Jordaniens. Sous les pressions américaines, la législation belge a été modifiée rendant impossibles ces poursuites (21). 

La France (juin 2015) a fait, pour sa part, un cadeau au Maroc. Le Parlement a voté (malgré l’opposition des Communistes et des Verts) un protocole judiciaire franco-marocain permettant à Paris d’abandonner sa « compétence universelle » si des ressortissants marocains ont commis des actes de torture pratiqués au Maroc ! 

Toutefois, la « compétence universelle » des tribunaux nationaux a permis la mise en cause de Pinochet. Sans que les résultats aient été sa condamnation, l’opinion a été sensibilisée à la répression dont il avait été responsable au Chili depuis 1973. 

Les tribunaux de Guantanamo, premiers tribunaux américains pour crimes de guerre depuis la Seconde Guerre mondiale, créés après les attentats du 11 septembre 2001, afin de juger les « ennemis combattants » non américains, ne bénéficient en rien des protections juridiques de droit commun accordées aux citoyens américains. Ils ne sont évidemment pas un « modèle » de justice politique nationale ! 

Néanmoins, les tribunaux nationaux, quelle que soit l’issue des procédures, offrent le spectacle édifiant de l’état réel de la justice politique. L’opinion, si elle est capable de s’approprier le droit, peut jouer un rôle afin de faire progresser une justice véritable. 

Au contraire, la CPI, très éloignée des citoyens (malgré les manifestations de solidarité avec certains prévenus comme L. Gbagbo) n’est susceptible de subir que de pressions étatiques. 

En conclusion, l’expérience de la CPI « sert à approcher, sans l’atteindre, une représentation juste du monde » par sa finalité officielle, la lutte contre l’impunité. Mais, en tout état de cause, la route de la justice internationale ne s’arrête pas à la CPI. Elle est encore très longue (22). 

Parmi les crimes de masse non encore pénalisés, il y a les multiples crimes économiques, comme par exemple, l’évasion fiscale (qui prive les États de possibilités d’investissement), la spéculation financière internationale (qui est source de « dettes odieuses », illicites mais que les peuples remboursent néanmoins), la surexploitation des matières premières et la maîtrise des prix du marché par les grandes firmes (du style Areva au Niger) etc. 

Ces crimes non encore juridicisés ont un coût humain qui va au-delà des massacres ponctuels se produisant dans les conflits armés. Dans un monde non consensuel où l’Occident et ses alliés « communient » exclusivement dans les valeurs du marché et les droits de l’homme » civils et politiques en oubliant toujours le social et aspirent à un fédéralisme universel (23), comme le dénonce Alain Supiot (24), une authentique justice criminelle internationale demeure une utopie difficilement accessible. 

Mars 2016

Robert Charvin

Agrégé des Facultés de Droit

Professeur Emérite à l’Université de Nice – Sophia-Antipolis (France)

Notes :

1) Cf. M. Perrin de Brichambaut, in Leçons de droit international. Presses de sciences politiques et Dalloz. 2002, p. 343 et s.

F. Bouchet-Saulnier. Dictionnaires pratique de droit humanitaire. La Découverte. 2013.

2) Très peu nombreux sont les juristes européens qui se sont manifestés à contre-courant, y compris dans les milieux progressistes (voir par exemple, les approbations de M. Chemillier-Gendreau dans Le Monde Diplomatique, 12 décembre 1998). On peut citer en revanche P.M. Martin, par exemple, de l’Université de Toulouse (Recueil Dalloz-Sirey, n°36, 1998), qui est très critique.

3) A. Supiot. Homo juridicus. Essai sur la fonction anthropologique du droit. Seuil. 2005)

4) Il faut noter cependant que sous la direction de M. Gorbatchev, la position soviétique avait évolué. Des juristes soviétiques, comme le professeur Blichenko, n’avait plus d’opposition radicale à la création d’une Cour pénale permanente.

5) Pourtant, dès sa naissance, l’OTAN et les États-Unis ont financé des opérations à l’intérieur des États se réclamant du socialisme et contre les Partis communistes occidentaux et divers syndicats (par exemple, avec le soutien direct des « Stay Behind », véritables groupes de combat « dormant » qui ont participé à des attentats et à des complots, comme ceux, par exemple, du « Gladio » en Italie, au financement d’une fraction de la CGT française à l’origine de la création de F.O.

6) Un argument-clé a été de considérer comme « injuste » des risques de poursuite pénale contre des militaires dont la cause humaniste serait fondamentalement « juste » (positions défendues par les États-Unis et la France).

7) Certains opposent souveraineté populaire, jugée « positive » dans une optique démocratique et souveraineté nationale, jugée nocive, parce que facteur de « nationalisme ». Or, sans l’indépendance nationale, grâce à la souveraineté étatique, quels que soient les risques pour les citoyens, il ne peut y avoir dans le monde contemporain de réelle souveraineté populaire : on le constate en Europe même, par exemple, avec la situation du peuple grec : la politique interne du gouvernement, choisie par les citoyens, n’a pas pu et ne peut toujours pas se développer car elle est soumise aux décisions des instances de l’Union Européenne. Il y a « souveraineté limitée » comme l’Occident ’y compris la doctrine dominante de l’époque) la dénonçait en 1968 lorsque l’URSS l’imposait à la Tchécoslovaquie.

8) Le Centre de détention de Guantanamo, combattu par B. Obama durant ses deux mandats, mais sans résultat jusqu’à ce jour, atteint les sommets de l’illicéité. Au nom de l’antiterrorisme, toute légalité est récusée. La règle est le combat du crime par le crime, expression d’une dégénérescence du droit très accentuée. Le camp, installé sur le territoire de Cuba, loué depuis 1905 à raison de 4.000 dollars par an, refusés par La Havane, est une prison « délocalisée » où sont incarcérés des nationaux de différents pays, arrêtés dans plusieurs pays avec la collaboration des polices locales et transférés clandestinement avec de multiples complicités « officielles ». La détention – sans jugement – est sans limite pour des « combattants ennemis », catégorie a-juridique inventée par les États-Unis unilatéralement. Les autorités de Washington ont récusé les demandes successives des Nations Unies, du Parlement européen et même de la Cour Suprême des États-Unis (verdict du 28 juin 2004). Amnesty International qualifie en 2005 Guantanamo de « Goulag moderne » (le rapport dénonce aussi les nombreuses prisons du même type installées par les États-Unis en Irak et en Afghanistan, notamment). Depuis le 11 septembre 2001, les États-Unis ont enseigné au monde entier que les droits de l’homme pouvaient s’interpréter « à la carte », avec de grandes variantes selon les cas. Divers États européens obéissent à ce modèle.

Cf. M.A. Combesque. « Violence et résistances à Guantanamo ». Le Monde Diplomatique. Février 2006.

9) Il faut mentionner Israël et l’Inde qui n’ont pas cru non plus devoir ratifier le statut de la CPI.

10) Dans le procès en cours contre L. Gbagbo et Blé Goudé (ce dernier « opportunément » transféré par Abidjan à La Haye), toute juridiction réellement impartiale devrait poursuivre aussi A. Ouattara et G. Soros actuellement en fonction.

Voir L. Gbagbo et F. Mattei. Pour la vérité et la justice. Côte d’Ivoire : révélations sur le scandale français. Éditions du Moment. 2014.

R. Charvin. Côte d’Ivoire 2011. La bataille de la seconde indépendance. L’Harmattan. 2011.

11) G. Soros affirme vouloir combattre les « sociétés fermées », autrement dit souveraines et cela sans la moindre légitimité.

12) Cité in L. Gbagbo et F. Mattei. Pour la vérité et la justice... op. cit. p. 255.

13) Voir la plaidoirie occidentale favorable à la CPI (E. Orenga – V. Rambolamanana. « Retour sur les travaux de la XIV° Assemblées des États parties de la C.P.I : qui sont les grands gagnants ? » In La Revue des droits de l’Homme. Mars 2016.

14) Cf. Mon témoignage personnel (R. Charvin) « écarté » par le Parquet, en tant que membre d’une Commission d’Enquête de deux mois sur les événements liés aux élections présidentielles de 2011 en Côte d’Ivoire, qui dénonçait notamment l’arbitraire complet régnant dans la partie Nord du pays, occupé par des forces rebelles (soutenues par le Burkina Faso de Compaoré – aujourd’hui réfugié en Côte d’Ivoire et naturalisé Ivoirien ! - et par la France).

C’est ainsi, par exemple, que plus de 1.000 civils ont été massacrés par ces « rebelles » pro-Ouattara au camp de réfugiés de Duékué lors de leur offensive qui devait se terminer par la prise d’Abidjan (avec la complicité de l’ONUCI et des troupes françaises).

15) Consulté par M° Altit, l’un des principaux défenseurs de L. Gbagbo, j’ai dû moi-même payer les frais d’un voyage à Paris pour le rencontrer, puis pour constituer le dossier rapportant les résultats de la Commission d’enquête à laquelle j’avais participé.

Demandeur d’une visite à la prison de La Haye pour établir le contact avec l’accusé, aucune réponse ne m’a été faite (le questionnaire à remplir pour la demande de visite exigeait notamment de préciser mon appartenance politique !).

16) Cf, par exemple John Aasu. Professeur à l’Université de Naja-Naplouse. La compétence territoriale de la Cour Pénale Internationale dans le cas de la Palestine, in Un Autre Monde, numéro spécial « Palestine : 70 ans ! » (revue de Nord-Sud XXI). 2016.

17) Cf. R. Charvin. Justice et politique (préface de R.J. Dupuy). LGDJ. 1968.

18) En France, le régime de Vichy n’a été remis en mémoire des Français que plusieurs dizaines d’années après la fin de la guerre. On s’est gardé durant cette longue période de rappeler l’histoire des années 1940-1945 : il s’agissait de « favoriser la réconciliation des Français » par l’amnésie.

19) Comment dissocier, par exemple, les dirigeants de l’industrie lourde, les cadres du parti du Centre Catholique, complices directs de l’accession à la Chancellerie de Hitler ? Comment la masse des citoyens ressortissants de l’un des pays les plus développés et les plus cultivés, l’Allemagne, ayant soutenu activement le régime nazi pratiquement jusqu’à sa défaite, peuvent-ils être considérés comme innocents ?

20) Voir A. Supiot. Homo Juridicus (voir notamment la Pologne, p. 7-30). Éditions du Seuil. 2005.

21) Cf. Nuri Albala. « La compétence universelle pour juger les crimes contre l’humanité : un principe inacceptable pour les plus puissants », in N. Anderson et autres. Justice internationale et impunité, le cas des États-Unis. L’Harmattan. 2007, p. 217 et s. Voir aussi J. Fermon. « Compétence universelle : le cas de la Belgique ou le droit du plus fort, quand les États-Unis font la loi en Belgique », in A. Anderson et autres. La justice internationale aujourd’hui. Vraie justice ou justice à sens unique. L’Harmattan. 2009.

22) En sens contraire, un philosophe africain, enseignant à l’Université Catholique de Lyon R. K. Koudé (« L’ingérence internationale : de l’intervention humanitaire à la dissuasion judiciaire » in Institut des Droits de l’Homme de Lyon. Vingt ans de l’IDHL. Parcours et réflexion. Université Catholique de Lyon. 2005, p. 116 et s.), applaudit à la fois à l’ingérence directe humanitaire et à l’action de la CPI, forme judiciaire de l’ingérence, contre les « forteresses de la souveraineté étatique ». L’article est significatif de l’occidentalisme des certains intellectuels non occidentaux.

23 ) On constate dans les structures semi-fédérales de l’Union Européenne que les atteintes concrètes aux valeurs démocratiques (racisme, xénophobie, interdictions de certains partis progressistes et réduction du pluralisme politique, comme c’est le cas en Hongrie, Pologne, Lettonie, etc.) ne suscitent aucune réaction de la part des instances européennes, ni l’utilisation de l’article 7 du Traité de Lisbonne permettant des sanctions et la suspension de l’État coupable des droits de participation au fonctionnement de l’Union Européenne, ni évidemment l’ouverture de poursuites pénales contre les dirigeants responsables. La justice politique ne semble concerner pour chaque État que les « autres » …...

24) A. Supiot. Homo juridicus. op. cit. 

Source : Investig’Action





Guerra alla Jugoslavia e strage della Moby Prince


Manlio Dinucci ci ricorda oggi, nell'anniversario della strage della Moby Prince, come le navi della Shi­fco presenti nel teatro della tragedia erano usate in quelle settimane per tra­spor­tare armi USA verso la Croa­zia, in preparazione della guerra con­tro la Jugoslavia – che (ricordiamolo!) ebbe effettivamente inizio solo il 25 giugno successivo, con la dichiarazione di "indipendenza".
In particolare una nave della Shi­fco, la 21 Oktoo­bar II, si tro­vava il 10 aprile 1991 nel porto di Livorno dove era in corso una ope­ra­zione segreta di tra­sbordo di armi sta­tu­ni­tensi rien­trate a Camp Darby dopo la guerra all’Iraq, quando si con­sumò la tra­ge­dia della Moby Prince in cui mori­rono 140 persone...

Sullo stesso tema si vedano anche:

Il blog di Luigi Grimaldi sul Moby Prince

La nostra pagina dedicata ai traffici di armi per lo squartamento della Jugoslavia

L'articolo che segue è disponibile anche in VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=KWCIQNMGNFE


Moby Prince, la pista Usa

di Manlio Dinucci – su Il Manifesto del 12.04.2016

L'arte della guerra. Da venticinque anni, i familiari chiedono invano la verità. Dopo tre inchieste e due processi

«Mayday Mayday, Moby Prince, siamo in collisione, prendiamo fuoco! Ci serve aiuto!»: questo il drammatico messaggio trasmesso venticinque anni fa, alle 22:25:27 del 10 aprile 1991, dal traghetto Moby Prince, entrato in collisione, nella rada del porto di Livorno, con la petroliera Agip Abruzzo. Richiesta di aiuto inascoltata: muoiono in 140, dopo aver atteso per ore invano i soccorsi. Richiesta di giustizia inascoltata: da venticinque anni, i familiari chiedono invano la verità. Dopo tre inchieste e due processi. Eppure essa emerge prepotentemente dai fatti. Quella sera nella rada di Livorno c’è un intenso traffico di navi militari e militarizzate degli Stati uniti, che riportano alla base Usa di Camp Darby (limitrofa al porto) parte delle armi usate nella prima guerra del Golfo. Ci sono anche altre misteriose navi. La Gallant II (nome in codice Theresa), nave militarizzata Usa che, subito dopo l’incidente, lascia precipitosamente la rada di Livorno.

La 21 Oktoobar II della società Shifco, la cui flotta, donata dalla Cooperazione italiana alla Somalia ufficialmente per la pesca, viene usata per trasportare armi Usa e rifiuti tossici anche radioattivi in Somalia e per rifornire di armi la Croazia in guerra contro la Jugoslavia. Per aver trovato le prove di tale traffico, la giornalista Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin vengono assassinati nel 1994 a Mogadiscio in un agguato organizzato dalla Cia con l’aiuto di Gladio e servizi segreti italiani. Con tutta probabilità, la sera del 10 aprile, è in corso nella rada di Livorno il trasbordo di armi Usa che, invece di rientrare a Camp Darby, vengono segretamente inviate in Somalia, Croazia e altre zone, non esclusi depositi di Gladio in Italia (vedi blog di Luigi Grimaldi sul Moby Prince http://grimaldimobyprince.blogspot.it/2009/04/moby-prince-dietro-il-naufragio.html ).

Quando avviene la collisione, chi dirige l’operazione – sicuramente il comando Usa di Camp Darby – cerca subito di cancellare qualsiasi prova. Ciò spiega una serie di «punti oscuri»: il segnale del Moby Prince, ad appena 2 miglia dal porto, che giunge fortemente disturbato; il silenzio di Livorno Radio, il gestore pubblico delle telecomunicazioni, che non chiama il Moby Prince; il comandante del porto Sergio Albanese, «impegnato in altre comunicazioni radio», che non guida i soccorsi e viene subito dopo promosso ammiraglio per i suoi meriti; la mancanza (o meglio sparizione) di tracciati radar e immagini satellitari, in particolare sulla posizione dell’Agip Abruzzo, appena arrivata a Livorno dall’Egitto stranamente in tempo record (4,5 giorni invece di 14); le manomissioni sul traghetto sotto sequestro, dove spariscono strumenti essenziali alle indagini. Così da far apparire quello del Moby Prince un banale incidente, anche per responsabilità del comandante. I familiari delle vittime sono riusciti ora a ottenere l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, non solo per dare giustizia ai loro cari, ma per «chiudere un capitolo indegno della storia italiana». Capitolo che resterà aperto se la commissione limiterà come al solito l’inchiesta all’esterno di Camp Darby, la base Usa al centro della strage del Moby Prince. La stessa inquisita dai giudici Casson e Mastelloni nell’inchiesta sull’organizzazione golpista «Gladio».

Una delle basi Usa/Nato che – scrive Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione – fornirono gli esplosivi per le stragi, da Piazza Fontana a Capaci e Via d’Amelio. Basi in cui «si riunivano terroristi neri, ufficiali della Nato, mafiosi, uomini politici italiani e massoni, alla vigilia di attentati». Il May Day del Moby Prince è il May Day della nostra democrazia.




(srpskohrvatski / deutsch.

Ricorre in questi giorni il 75.mo anniversario della istituzione dello "Stato Indipendente di Croazia" – in sigla: NDH – da parte dell'Asse nazifascista, che pose alla testa di questo Stato-fantoccio Ante Pavelić ed i suoi terroristi "ustascia", già addestrati ed armati in Italia. Su tale vicenda tragica, dalla quale l'Europa in anni recenti ha dimostrato di non avere imparato niente, tanto da riproporre soluzioni analoghe allo scopo di nuovamente squartare e ricolonizzare la Jugoslavia, si veda in lingua italiana tutta la documentazione sul nostro sito: https://www.cnj.it/documentazione/ustascia1941.htm )


Vor 75 Jahren »Unabhängiger Staat Kroatien«

1) NAZISTATTHALTER IN ZAGREB (junge Welt)
2) САМО  ОПРОСТИТИ, НИКАКО  ЗАБОРАВИТИ (SUBNOR)


=== 1 ===


junge Welt (Berlin), aus: Ausgabe vom 09.04.2016, Seite 15 / Geschichte

Nazistatthalter in Zagreb

Vor 75 Jahren hievten die faschistischen Besatzer Ante Pavelic und seine Ustascha im »Unabhängigen Staat Kroatien« an die Macht

Von Roland Zschächner

Am vergangenen Montag ist in Zagreb ein Film gezeigt worden, der beansprucht, die Wahrheit über das von Ende 1941 bis April 1945 existierende kroatische Konzentrationslager Jasenovac zu zeigen. Der Vernichtungskomplex für Serben, Roma und Juden sei – so wird in dem Streifen von Jakov Sedlar kolportiert – lediglich ein Arbeits- bzw. Sammellager gewesen. Außerdem sei die Zahl der Opfer allerhöchstens halb so groß wie offiziell mit 80.000 beziffert. Kroatiens Kulturminister Zlatko Hasanbegovic erklärte im Anschluss an die Vorführung, der Film würde ein Tabuthema beleuchten und sei deswegen ideal geeignet für den Schulunterricht. Wie der frühere Präsident Franjo Tudjman schlagen sich immer wieder hochrangige Politiker der heutigen Republik Kroatien auf die Seite der kroatischen Faschisten und deren Anführers Ante Pavelic, der von den Nazis und ihren italienischen Verbündeten an die Macht des am 10. April 1941 ausgerufenen »Nezavisna Drzava Hrvatska« (NDH; dt.: Unabhängiger Staat Kroatien) gebracht worden war.

Der Gründung des NDH war der Überfall der Naziwehrmacht und ihrer italienischen Verbündeten am 6. April 1941 auf Jugoslawien vorausgegangen. Der Vielvölkerstaat war auf den Angriff kaum vorbereitet. Die Armee wurde innerhalb kürzester Zeit vernichtend geschlagen, das Königshaus und die Regierung setzten sich nach London ab. Das Land wurde unter den faschistischen Besatzern aufgeteilt: Italien okkupierte Istrien, Montenegro sowie Teile von Slowenien und der dalmatinischen Küste. Deutschland stellte Serbien ohne die Vojvodina unter Militärverwaltung. In Kroatien, Bosnien und der Herzegowina entstand auf Druck des italienischen Diktators Benito Mussolini der Marionettenstaat NDH unter Führung der Ustascha. Berlin favorisierte zwar die Kroatische Bauernpartei als Statthalter in Zagreb, Rom konnte sich aber durchsetzen. An die Spitze des NDH wurde der Ustascha-Chef Pavelic gesetzt, der sich zum »Poglavnik« (Führer) erklärte. Offizieller Gruß wurde die Parole »Za poglavnika i za dom spremni!« (Für Führer und Heimat bereit!). Auch die katholische Kirche gab dem Staatsgebilde ihren Segen. Viele Priester schlossen sich den Faschisten an und waren selbst an Massakern beteiligt.

Die Ustascha wurde 1929 gegründet, war aber in Jugoslawien nicht öffentlich aktiv. Ihre Stützpunkte unterhielt die Organisation in Ungarn und vor allem in Italien, wohin Pavelic im selben Jahr nach der Ausrufung der Königsdiktatur in Jugoslawien geflohen war und wo er enge Beziehungen zu den herrschenden Faschisten pflegte. Die wenige hundert Anhänger zählende Gruppe war immer wieder an Terroraktionen beteiligt, etwa der Ermordung des jugoslawischen Königs Alexander I. und des französischen Außenministers Louis Barthou in Marseille am 9. Oktober 1934.

Ziel: Großkroatien

An die Macht gekommen, ordneten sich die Ustasche (Plural für Mitglieder der Ustascha) den Nazis und deren Kriegsplänen unter. Soldaten wurden für den Überfall gegen die Sowjetunion bereitgestellt, die deutsche Wirtschaft mit Arbeitskräften und Rohstoffen versorgt. Das Sagen in Kroatien hatte in letzter Instanz das Oberkommando der Wehrmacht in Zagreb.

Immer wieder war die Ustascha-Herrschaft der Grund für Streit zwischen Nazideutschland und Italien. Berlin störte sich vor allem an der Brutalität der kroatischen Faschisten. Dabei waren den Nazis die Mittel egal, was sie verärgerte, war, dass durch die blutige Repression das anfängliche Wohlwollen der Kroaten zunehmend in Ablehnung umschlug und damit dem Widerstand in die Hände gespielt wurde. Doch im Verlauf des Krieges waren die Besatzer im Kampf gegen die Partisanen zunehmend auf die Ustascha angewiesen, so dass sie sie in alle großen Operationen gegen die antifaschistische Bewegung einbanden.

Die Ustasche wollten ein »ethnisch reines«, katholisches Großkroatien errichten. Zu ihren Feinden erklärten sie Juden, das »internationale Freimaurertum«, Serben und Kommunisten. Eine Sonderrolle nahmen die Muslime in Bosnien ein. Sie galten in der Ustascha-Ideologie als »reine Kroaten«, die nur durch die osmanische Herrschaft vom katholischen Glauben abgekommen waren.

Vor allem gegen die fast 1,7 Millionen Menschen mit serbisch-orthodoxem Glauben gingen die Faschisten brutal vor. Ausgegebenes Ziel war es, ein Drittel von ihnen zu vertreiben, ein weiteres unter Zwang zum Katholizismus konvertieren zu lassen und die übrigen zu ermorden. Bereits im Sommer 1941 kam es zu den ersten Massakern an Serben. Verantwortlich für derartige Bluttaten war nicht selten die »Schwarze Legion«, eine paramilitärische Einheit, die den Namen der Farbe ihrer Uniformen verdankte und Teil der 70.000 Milizionäre zählenden »Ustaska vojnica« (Ustascha-Armee) war. Daneben bestand die Kroatische Heimwehr als reguläre Streitkraft. Beide Gruppierungen konkurrierten nicht selten miteinander, weswegen sie 1944 unter Oberbefehl von Pavelic zu den »Kroatische Bewaffneten Kräften« (HOS) zusammengeschlossen wurden.

Vernichtungslager Jasenovac

Zur Durchsetzung der Vernichtungspolitik wurde ein Lagersystem nach deutschem Vorbild errichtet. Das größte Lager befand sich bei Jasenovac bzw. Stara Gradiska im Sumpfland am Zusammenfluss der Sava mit Una, Stuga und Lonja. Es war das einzige Vernichtungslager in Europa während des Zweiten Weltkrieges, das nicht von den Nazis betrieben worden war.

In Jasenovac wurden Roma, Juden, Serben und Partisanen unter menschenunwürdigen Bedingungen eingesperrt und auf bestialische Art und Weise ermordet. Berichte von Überlebenden zeugen davon, wie mit Äxten, Messern und anderen Werkzeugen die Gefangenen von den Ustascha wortwörtlich abgeschlachtet wurden. Eine der wenigen Möglichkeiten, Jasenovac lebendig zu verlassen, war, zur Zwangsarbeit nach Deutschland verschleppt zu werden. Wie viele Menschen in Jasenovac ums Leben kamen, ist umstritten: In Kroatien und der westlichen Geschichtswissenschaft wird die Zahl mit über 80.000 Opfern angegeben, in Serbien wird indes wie im ehemaligen Jugoslawien von 700.000 Toten ausgegangen.

Nach dem Sieg der Partisanen im Jahr 1945 wurde der NDH zerschlagen. Ustascha-Milizionäre, die den Krieg überlebt hatten und in jugoslawische Gefangenschaft kamen, wurden vor Gericht gestellt. Vielen kroatischen Faschisten gelang die Flucht, sie konnten sich in Westeuropa und in Nord- oder Südamerika verstecken. So auch Ante Pavelic, der mit Hilfe der katholischen Kirche über das von Großbritannien besetzte Österreich, mit Station in Italien, nach Argentinien fliehen konnte, wo er unter dem Decknamen Pablo Aranjos lebte. In Jugoslawien war er zwischenzeitlich zum Tode verurteilt wurden. Nach einem missglückten Attentat am 10. April 1957 auf ihn verließ der Faschist Buenos Aires und ging nach Madrid, wo er von Diktator Francisco Franco aufgenommen wurde. Am 28. Dezember 1959 starb Pavelic im Deutschen Krankenhaus der spanischen Hauptstadt.


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Der lange Schatten der Ustascha

Jedes Jahr am 28. Dezember wird in der Zagreber Herz-Jesu-Kirche zu Ehren von Ante Pavelic eine katholische Messe gefeiert. Der Anführer der faschistischen Ustascha und des »Unabhängigen Staates Kroatien« wird von katholischen Nationalisten weiterhin als »Poglavnik« (Führer) und Urvater der modernen staatlichen Unabhängigkeit verehrt.

Daran knüpfte auch Franjo Tudjman an. Tudjman war in den 90er Jahren Präsident in Zagreb und eine der treibenden Kräfte der Abspaltung Kroatiens von Jugoslawien. Dazu schrieb er die Geschichte des Zweiten Weltkrieges seit den 70er Jahren gezielt um: Die Verbrechen der Ustascha wurden relativiert und die Kroaten als Opfer einer aus Serbien gesteuerten kommunistischen Verschwörung dargestellt. Unter der Präsidentschaft von Tudjman wurde sich gezielt der Ustascha-Symbolik bedient. Unzählige Straßen wurden nach Faschisten umbenannt sowie antifaschistische Denkmäler geschliffen.

Jüngster Wiedergänger in dieser Tradition ist der derzeitige kroatische Kulturminister Zlatko Hasanbegovic von der von Tudjman gegründeten Kroatischen Demokratischen Union (HDZ). Die Zagreber Wochenzeitung Novosti veröffentlichte im Februar dieses Jahres Fotos mit Hasanbegovic, auf denen er eine Mütze mit dem Zeichen der Ustascha trägt. 1996 hatte er zudem in der Publikation Nezavisna Drzava Hrvatska (Unabhängiger Staat Kroatien) geschrieben, dem Organ der 1956 unter anderem von Ante Pavelic gegründeten faschistischen Partei »Kroatischen Befreiungsbewegung«. In den vergangenen Jahren fiel der promovierte Historiker damit auf, dass er kroatische Kriegsverbrechen und die Rolle der bosnischen SS-Division »Handzar« relativierte. (rz)



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Сећања – Објављено под Актуелно |  10. априла 2016.

САМО  ОПРОСТИТИ, НИКАКО  ЗАБОРАВИТИ

Само четири дана после мучког злочиначког хитлеровског уништавања и убијања Београда и више градова у Србији, нацистички савезници су у Загребу прогласили наказну државну творевину Хрвата коју су фашисти у Берлину већ 12.априла 1941. озваничили и признали покровитељство над будућим страдањима и истребљењу Срба и Јевреја и Рома уз све друге људе добре воље што не прихватају терор, протеривање и геноцид.

Суманути дани окупације никад и нигде не могу бити заборављени, још мање усташки злочини у низу логора попут оног у Јасеновцу и широм Хрватске где су Павелићеве трупе усташа и бојовника НДХ на најбестијалнији начин убили стотине хиљада логораша разне узрасти, од жена и стараца до деце и одраслих мушкараца, само због тога што су друге вере или националности. И жеље да Хрватска, у време Другог светског рата, постане етнички чиста територија.

У сећању на смутна времена у Београду је, у прелепом новомм простору Југословенске кинотеке, одржан комеморативни скуп на коме су приказани документарни филмови разних продукција и различитих годишта о стратиштима и сведочењима негдашњих логораша који су избегли страшну смрт од кама, маљева и сличних злочиначких оруђа Павелићевих усташа од почетка 1941. до дана слободе кад су партизанске јединице ослободиле заточенике и прогнале немилосрдне убице.

На скупу је говорио председник Републике Српске Милорад Додик: ”Кад је пре 75 година формирана НДХ то је био почетак огромног страдања Срба на овим просторима. Једини устанак против фашиста 1941. био је на српским националним подручјима, историјски факти говоре да су Срби носили антифашистичку борбу”.

Обележавање почетка Другог светског рата на просторима бивше Југославије и злочина нациста и њихових сарадника организовао је Одбор Владе Републике Србије за неговање традиција ослободилачких ратова Србије. Тим поводом се скупу обратио премијер Александар Вучић:
”Данас кад говоримо о том 10.априлу, кад је усташки пуковник Кватерник прогласио НДХ, то чудовиште од државе, број Срба у Хрватској је за 80 одсто мањи. Ми смо дали јасне одговоре на то кад смо осудили злочине, а сада треба да дају одговор и Хрватска и ЕУ. И то не само зато што Хрватску на то неко тера из Србије, него зато што је на то обавезује њена прошлост”.

Скупу су присуствовали и председница Народне скупштине Србије Маја Гојковић, министри у Влади, угледне личности из јавног и друштвеног живота, представници дипломатског кора.

Обележавању Дана почетка Другог светског рата, у години кад ће се се на свечан начин прославити и Седми јул кад је испаљена прва устаничка пушка пре 75 година, присуствовао је и председник СУБНОР-а Србије Душан Чукић. Такође и представници Удружења ”Јасеновац”, затим изасланици јеврејских, ромских и других организација чији су преци страдали у фашистичком оргијању које су осујетили антихитлеровска коалиција са великим доприносом у тој борби наших народнослободилачких партизанских јединица.