Informazione


San Giorgio Di Nogaro (UD), giovedì 19 maggio 2016
alle ore 21 presso, sala Conferenze di Villa Dora. Piazza Plebiscito - Via Max di Montegnacco

La foiba che non c'è

Conferenza Assemblea Pubblica 
Relatori: Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi, Marco Barone

La foiba che non c'è: strategie e connivenze (con istituzioni e organi di informazione) dei vecchi e nuovi fascismi per denigrare la Resistenza Partigiana e riscrivere la storia a proprio vantaggio e di chi detiene il potere.


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L'Anpi: "La foiba è una montatura, quei morti sono già noti" 

L’Associazione dei partigiani contro le carte di Premariacco: i 42 riesumati sono già pubblici nei nostri libri. Tra i nomi spunta anche quello del partigiano “Nibbio”, decorato della medaglia d’oro 

di Davide Vicedomini, 9 maggio 2016

UDINE. La fossa comune di Rosazzo «è una montatura che si è sgonfiata».
L’Anpi ribatte le accuse dopo che nei giorni scorsi la Lega nazionale aveva svelato il faldone del registro anagrafi di Premariacco.
Nelle carte, infatti, erano spuntati non solo i nomi di 42 morti riesumati nel 1945, ma anche documenti che accusavano degli eccidi i partigiani. «Nel territorio di questo Comune – c’è scritto in una lettera indirizzata dal sindaco di allora – si trovano sparsi nella campagna e sepolte quasi a fior di terra le salme di circa 60 persone in parte sconosciute che furono uccise dai partigiani, perchè ritenute quali spie o collaboratori dei tedeschi»
«Peccato che le uccisioni – precisa l’associazione nazionale dei partigiani attraverso il suo presidente regionale, Elvio Ruffino – siano avvenute in un arco di tempo che va dal 10 ottobre 1943 al 28 aprile 1945, cioè durante l’intera guerra patriottica.
E dei supposti 60 morti, ne risultano riesumati 42, tra i quali 3 cosacchi, 4 tedeschi, 9 rimasti ignoti, 3 della Repubblica sociale, 20 civili e 3 partigiani, tutti nomi, questi, ad eccezione di 3, probabilmente persone residenti, altrove pubblicati tra il 1987 e il 1991, con ricchezza di particolari anagrafici, nell’opera dell’Istituto friulano per la storia del Movimento di liberazione “Caduti, dispersi e vittime civili nei comuni della regione Friuli Venezia Giulia nella seconda Guerra mondiale».
«Errare è umano, perseverare è diabolico – tuona Ruffino contro la Lega nazionale –. Il signor Urizio farebbe bene ad acquistare per evitare ulteriori imprecisioni».
E così tra i nomi uccisi spunta anche quello di Luigino Tandura “Nibbio”, decorato di Medaglia d’Oro e insignito dall’Università di Padova della “Laurea ad Honorem” alla memoria).
Nato a Vittorio Veneto nel 1921, orfano del Capitano degli Arditi Alessandro Tandura (a sua volta insignito della Medaglia d’Oro nella Prima Guerra Mondiale) nel 1942 fu arruolato ed inviato sul fronte russo.
Dal settembre 1943 prese parte alla Lotta di Liberazione nelle file della Resistenza friulana (Brigata “Natisone”, Battaglione “Mazzini”).
Morì partecipando il 28 giugno 1944 ad un’azione contro una colonna tedesca fra Orsaria e Premariacco rimanendo in retroguardia per favorire lo sganciamento dei compagni. Alla sua memoria è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare e l’Università di Padova (ateneo a cui era iscritto) gli conferì la laurea “honoris causa”.
«Per quanto riguarda la “fuorviante e risibile difesa d’ufficio” (come dice Urizio) di Vanni e Sasso – conclude l’Anpi –, questa volta il problema del presidente della Lega nazionale di Gorizia non è più il dilettantismo in campo storico, ma l’amnesia. Infatti nell’articolo dell’11 febbraio 2016 si legge: «Nella cavità naturale, situata nel cuore dei Colli orientali a cavallo tra le province di Udine e Gorizia, sarebbero state gettate nel 1945 tra le duecento e le ottocento persone».
Ad annunciarlo era stato Luca Urizio in occasione del Giorno del Ricordo. Oggi a tre mesi di distanza possiamo dire quegli 800 morti sono una montatura che si è sgonfiata».

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Convegno degli antifascisti sulla foiba di Rosazzo

“La foiba che non c’è: strategie e connivenze dei vecchi e nuovi fascismi per denigrare la Resistenza Partigiana e riscrivere la storia a proprio vantaggio e di chi detiene il potere”, è il tema dell’...

15 maggio 2016

“La foiba che non c’è: strategie e connivenze dei vecchi e nuovi fascismi per denigrare la Resistenza Partigiana e riscrivere la storia a proprio vantaggio e di chi detiene il potere”, è il tema dell’assemblea pubblica organizzata dall’Osservatorio regionale Antifascista Fvg, giovedì 19 alle 21 a Villa Dora di San Giorgio di Nogaro. I relatori di “Resistenza Storica”, Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi e Marco Barone, dibatteranno e «smonteranno» le tesi di Luca Urizio (Lega nazionale) e Ivan Buttignon inerenti la presenza di una foiba a Corno di Rosazzo:
«Sembra che si divertano a riscrivere e ricreare la storia come piace a loro, ma il bello è che gli danno corda». Un tema questo che sta tenendo banco da alcuni mesi e che sta creando non poche polemiche, tanto che l’Osservatorio afferma che «dopo i negazionisti arrivano i creazionisti». (f.a.)

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Sulla squallida "patacca" della non-foiba di Rosazzo si vedano anche gli aggiornamenti precedenti:

FOSSA COMUNE, ESPOSTO DELL’ANPI CONTRO URIZIO (di Davide Vicedomini, 16.4.2016)
Il ricercatore accusato di aver diffuso notizie false. Attacchi al Messaggero Veneto, ma la Procura continua a indagare
SPECIALE AGGIORNAMENTI SULLA FOIBA PERDUTA DI ROCCA BERNARDA (Claudia Cernigoi, 29.3.2016)


FLASHBACKS: 
FOIBE: PROCURA UDINE APRE INDAGINE SU FOSSA COMUNE IN FRIULI (ANSA 18.2.2016)
(ANSA) - UDINE, 18 FEB - La Procura di Udine ha aperto un'indagine sulla possibile presenza di una fossa comune nella zona di Corno di Rosazzo (Udine) dove nel 1945, secondo alcuni documenti emersi nelle scorse settimane, potrebbero essere stati sepolti tra i 200 e gli 800 cadaveri. "Per ora non c'è certezza né che ci sia stato un reato né chi sia l'autore", spiega il Procuratore capo di Udine Antonio De Nicolo che ha avviato un'investigazione preliminare insieme con il Procuratore aggiunto Raffaele Tito "sulla base di alcune notizie di stampa". L'obiettivo della Procura è identificare il sito. Solo all'esito si valuteranno quali altri passi compiere, considerati i numerosi anni trascorsi dai fatti. ''Abbiamo recuperato un'informativa ministeriale, stiamo cercando di acquisire documentazione. C'è qualche accenno fumoso a una precedente indagine di una ventina d'anni fa che verificheremo''.
LA VERITA’ DOCUMENTALE SULLA FOIBA MOBILE DI ROSAZZO
AGGIORNAMENTI PRECEDENTI



(russkij / italiano / srpskohrvatski)

Dan Pobede / День Победы / Giornata della Vittoria

1) Belgrado intitola strade a due ufficiali sovietici che la liberarono / ОСЛОБОДИОЦИМА ВРАЋАЈУ ОТЕТЕ УЛИЦЕ
2) Dan Pobede u Srbiji: linkovi
3) Intervista a Anna Roberti: Il 9 Maggio ricordando i partigiani sovietici caduti in Italia per la liberazione dal nazifascismo


Si veda anche, sui festeggiamenti in Russia:

9 Maggio: si celebra la vittoria sul nazismo (di Fabrizio Poggi, 9.5.2016)
Il 9 maggio la Russia, continuando la tradizione dell’Unione Sovietica, festeggia solennemente la vittoria sulla Germania nazista nella Grande guerra patriottica...
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2016/05/09/9-maggio-si-celebra-la-vittoria-sul-nazismo-078880

Парад Победы на Красной Площади 9 мая 2016 года (Россия 24, 9.5.2016)
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=29kcLy37IhY

Victory Day parade on Moscow’s Red Square (RT, 9.5.2016)
PHOTOS: https://www.rt.com/in-vision/342387-victory-day-parade-moscow/


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Belgrado intitola strade a due ufficiali sovietici che la liberarono (di Redazione Contropiano, 10.5.2016)

La municipalità di Belgrado ha annunciato la prossima ridenominazione di due strade cittadine che saranno intitolate a due alti ufficiali sovietici, il maresciallo Fiodor Tolbukhin e il generale Vladimir Zhdanov (nella foto scattata a Belgrado nel 1944), in segno di omaggio e rispetto per il loro contributo nella liberazione di Belgrado dall’occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale.
Le strade interessate, riferiscono i media locali, si trovano a Novi Beograd, l’enorme quartiere residenziale al di là del fiume Sava. Strade intitolate a Tolbukhin e Zhdanov già esistevano nel centro della capitale serba ai tempi della Jugoslavia socialista, ma avevano cambiato nome dopo le guerre degli anni novanta e la disgregazione della Federazione jugoslava.

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ОСЛОБОДИОЦИМА ВРАЋАЈУ ОТЕТЕ УЛИЦЕ (Београд – Објављено под Актуелно |  9. маја 2016.)
Правда и истине ипак побеђују! На Дан победе над фашизмом стигла је добра вест из Скупштине Београда да ће херојима из Другог светског рата, ослободиоцима нашег главног града, маршалу Толбухину и генералу Жданову, који су погинули у авионској несрећи на Авали приликом доласка на прославу десетогодишњице слободе, поново бити враћене улице...
http://www.subnor.org.rs/beograd-9

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Прави потез

СЛЕДИТЕ ПРИМЕР БЕОГРАДА!

СУБНОР Србије, традиционална патриотска антифашистичка организација са преко 130.000 чланова и изузетним угледом у низу међународних организација ветерана, са задовољством поздравља најновију намеру Градске скупштине Београда да врати називе улица по именима прослављених ослободилаца из Другог светског рата – маршала Толбухина и генерала Жданова.

Посебно је значајно што се то одлучује у овим мајским данима кад се у прогресивном свету слави 71.годишњица победе над нацистичком окупаторском армадом. Совјетска Црвена армија је хитлеровцима задала коначан ударац у Берлину, а такође је, баш под командом Толбухина и Жаданова, заједно са храбрим борцима наше народноослободилачке и партизанске војске ослобађала део Србије  и главни град. Десет година позније, долазећи на јубиларну прославу слободе Београда, руска делегација је, са двојицом истакнутих војсковођа, настрадала у авионској несрећи на обронцима Авале.

Тиме је судбина маршала и генерала трајно везала за поносни Београд, али су се, на жалост и срамоту, досовске власти грдно огрешиле у реваншистичком трансу одузимајући улице и поништавајући славну прошлост Србије која никад није била на погрешној страни часног човечанства. СУБНОР Србије је указивао и енергично протествовао кад су такви нечасни и штетни потези вучени, указујући каква се опасност по будућност спрема ако се извитоперује истина о Другом светском рату и наша отаџбина гура, због накнадне и накарадне идеологије, у погрешан и губитнички строј.

Поздрављамо иницијативу сваког нашег грађанина, као што је случај са руским херојима. И решеност Градске скупштине Београда да се достојанствено одужи. Чврсто смо уверени да ће истим путем кренути и у осталим местима у Србији, где су се у потоњих десетак година напросто обрачунавали са споменицима и другим симболима времена  које у Европи, али и ван ње, нико од значаја и угледа не ставља под упитник. Србија је храбро и поносно учествовала у сламању хитлеризма, великим доприносом осигурала углед, а тиме и будућност без кривудања.

РЕПУБЛИЧКИ ОДБОР СУБНОР-а СРБИЈЕ


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Dan Pobede u Srbiji: linkovi

МЛАДОСТ КУЈЕ БУДУЋНОСТ (Неготин – Објављено под Актуелно |  12. маја 2016.)
Полагањем венаца и пригодним програмом у централном градском парку у Неготину пред спомен бистама народних хероја у организацији ОО СУБНОР Неготин обележен је Дан победе. Истовремено су овим програмом отворене и „Мајске свечаности Неготина“ поводом Дана општине...

ЧАС ИСТОРИЈЕ ЗА НОВУ ГЕНЕРАЦИЈУ (Врање – Објављено под Актуелно |  12. маја 2016.)
Дан победе у Врању је обележен достојанствено, с том разликом што је главни организатор обележавања ове године био СУБНОР и што је место обележавања, први пут, дислоцирано у оближње село Дубницу, из ког је у партизанима било близу 200 и живот за ослобођење земље дало 22 борца...

ЗЛО НЕ СМЕ ДА СЕ ПОНОВИ (Бор – Објављено под Актуелно |  12. маја 2016.)
Дан победе над фашизмом обележен је у Бору полагањем венаца на Костурницу хероју Црвене армије поручнику Акшајеву испред топионичке капије борског рудника. Венце на споменик палом хероју Црвене армије положили су, са представницима СУБНОР-а Бор, Амбасада Руске федерације у Србији...

ПРАЗНИК У СЛАВУ ПОБЕДНИКА (Шумадија – Објављено под Актуелно |  10. маја 2016.)
Широм Шумадије обележен је празник у славу победе у Другом светском рату. У центру Крагујевца, на гробницу Народних хероја, венце су положиле делегације Војске Србије, Министарства одбране, Скупштине града Крагујевца, СУБНОР-а, Удружења потомака старих ратника 1912 – 1920, Кола српских сестара, Градског одбора СПС и чланови породица погинулих бораца НОВЈ...
ТРАДИЦИЈА СЕ МОРА ЧУВАТИ (Зајечар – Објављено под Актуелно |  10. маја 2016.)
Дан победе над фашизмом 9. мај обележен је у Зајечару полагањем венаца на Костурници, на споменик палим ослободиоцима Зајечара и припадницима совјетске Црвене армије који су погинули у борбама 1944. године. Венце су положили представници делегације амбасада Руске Федерације, Града Зајечара, Команде гарнизона, Полицијске управе, борачких организација, као и учесници и потомци учесника ослободилачких ратова, СУБНОР-а...

ПУТ ЈЕ УВЕК БИО ИСТИ И ПРАВИ (Мајске свечаности – Објављено под Актуелно |  10. маја 2016.)
... Деветог маја, на свечаној академији одржаној у Народном позоришту у Београду поводом Дана победе над фашизмом, у организацији Одбора Владе Републике Србије за неговање традиција...
http://www.subnor.org.rs/majske-svecanosti
ВЕЧНА ЈЕ И НЕСАЛОМИВА СРБИЈА (Мајске свечаности (2) – Објављено под Актуелно |  10. маја 2016.)
На државној свечаности поводом Дана победе над фашизмом у Другом светском рату, у препуној великој дворани Народног позоришту у београду, први говорник био је председник СУБНОР-а Србије Душан Чукић...
http://www.subnor.org.rs/majske-svecanosti-2

БОРБА ЧИСТА КАО СУЗА (Војводина – Објављено под Актуелно |  10. маја 2016.)
У читавој Војводини свечано је обележен Дан победе у Другом светском рату, посебно у Новом Саду, у дворани Дома војске Србије, у којој је одржана свечана академија. О историјском значају велике победе над фашизмом, говорио је потпредседник СУБНОР-а Србије и председник СУБНОР-а АП Војводине Светомир Атанацковић...

УВЕК СМО САМО СВОЈЕ  БРАНИЛИ (Дан победе – Објављено под Актуелно |  9. маја 2016.)
Наша држава, као део победничке антихитлеровске коалиције у Другом светском рату, свечано обележава Девети мај као општи празник борбе са злом фашизма...


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Sui partigiani sovietici in Italia, sul lavoro di Anna Roberti e sulle attività dell’associazione Russkij Mir di Torino si veda anche la documentazione raccolta alla nostra pagina:

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Fianco a fianco. Il 9 Maggio ricordando i partigiani sovietici caduti in Italia per la liberazione dal nazifascismo


A cura di Giacomo Marchetti e Maurizio Vezzosi, 09/05/2016

Furono circa cinquemila i cittadini dell’ex-Unione Sovietica che combatterono al fianco dei partigiani in territorio italiano: di questi oltre quattrocento sacrificarono la propria vita per la Liberazione del nostro paese.
 
Catturati durante l’Operazione Barbarossa, con cui la Germania nazista, l’Italia fascista e i loro alleati aggredirono l’URSS nel 1941, si ritrovarono in Italia con differenti ruoli: come prigionieri, come ausiliari, o come lavoratori dell’apparato bellico del Reich in territorio italiano. Molti di loro riuscirono a fuggire, spesso in maniera rocambolesca, andando ad ingrossare le fila della Resistenza sin dal suo nascere.

Il loro contributo, vista l’esperienza militare acquisita nell’Armata Rossa, e il loro sprezzo del pericolo, fu preziosissimo per l’attività partigiana. Alla luce degli altri partigiani essi incarnavano la prova vivente della possibilità di sconfiggere il nazismo anche in condizioni disperate, come aveva dimostrato la vittoriosa battaglia di Stalingrado.

Nonostante la valenza di questa pagina della nostra storia ed il ricordo conservato nelle zone che ne furono interessate, in un clima di revisionismo sempre più cupo quest’aspetto della Resistenza è stato col tempo rimosso, ed il venire meno dei testimoni diretti di quei fatti, ossia gli italiani che combatterono al fianco dei sovietici, ha contribuito ad indebolirne la presenza tra le maglie della memoria sociale.

Considerando inoltre l’ostilità nei confronti della Federazione Russa e la stigmatizzazione negativa, spesso caricaturale, che ne fa l’Occidente,  si comprende di non poter correre il rischio di consegnare all’oblio una pietra miliare della storia condivisa  dal popolo italiano e dai popoli che di quella che fu l'Unione Sovietica.
Anche quest'anno in occasione del 9 Maggio, l'anniversario della vittoria sovietica sul nazifascismo, l’associazione Russkij Mir di Torino ha celebrato la memoria dei partigiani sovietici sepolti nel Sacrario della Resistenza del Cimitero Monumentale cittadino.

Abbiamo approfittato di questa occasione per intervistare Anna Roberti, storica animatrice dell’associazione Russkij Mir di Torino ed il nipote di Michail Molčanov, – un partigiano siberiano che combatté in Valle d’Aosta – quest'anno presente alle celebrazioni torinesi. Michail Molčanov fece parte della 3ª Brigata Lys, appartenente alla 2ª Divisione Matteotti Valle d'Aosta, la prima banda partigiana attiva nella bassa Valle d’Aosta - Valle del Lys, nota anche come Valle di Gressoney.

Riportiamo in corsivo le domande che abbiamo sottoposto ad entrambi, indicando prima delle loro risposte le rispettive iniziali - A.R. e S.M. -.

Insieme a Marcello Varaldi lei è autrice del documentario “Ruka ob ruku. Fianco a fianco”, documentario che tratta il tema dei partigiani sovietici attivi in Piemonte.
Può darne un sintetico inquadramento?

A.R.: Mauro Galleni, il primo che negli anni Sessanta scrisse della partecipazione dei soldati dell’Armata Rossa alla Resistenza italiana, valutò che in Piemonte essi furono più di settecento ma, ad oggi, un censimento completo non è stato ancora fatto.
Erano dislocati soprattutto nella provincia di Torino - in particolare in Valsusa - , in quelle di Novara e Cuneo, ma anche nell'astigiano, nell'alessandrino e nelle Langhe. Parteciparono alle più importanti azioni, come la battaglia di Gravellona, la difesa della Repubblica dell’Ossola e l’incursione all’Aeronautica di Torino-Collegno dell’agosto 1944 per l’approvvigionamento di armi.
Almeno 60 caddero in combattimento e si distinsero in atti eroici, alcuni furono decorati, come Fedor Poletaev e Pore Mosulišvili, insigniti dallo Stato italiano della Medaglia d'Oro al Valor militare.
Il 25 Aprile 1945 i primi soldati ad entrare nelle città italiane del Nord liberate non furono gli americani, ma i sovietici insieme ai loro compagni.

Con Mario Garofalo ha realizzato il documentario “Nicola Grosa. Moderno Antigone” premio “Memoria storica” al Valsusa Film Festival.
A Grosa ha dedicato anche la sua successiva ricerca: “Dal recupero dei corpi al recupero della memoria. Nicola Grosa e i partigiani sovietici nel Sacrario della Resistenza di Torino”. Perchè?

A.R.: Nicola Grosa, nato nel 1904 in una famiglia torinese operaia e socialista, era entrato nel Partito Comunista subito dopo la sua fondazione; nel 1922 comandava la I Centuria degli “Arditi del popolo” torinesi e scontò alcuni mesi di reclusione per uno scontro con delle squadre fasciste.
Conosciuto come “Comandante Nicola”, durante la Resistenza divenne uno dei principali promotori della lotta partigiana: fu commissario politico della 46ª  Brigata Garibaldi, successivamente della II Divisione d’Assalto Garibaldi. Nel marzo 1945 fu nominato vice-commissario della III zona (valli di Lanzo e Canavese).
Dopo la Liberazione, per ben quindici anni Grosa fu organizzatore e presidente dell'A.N.P.I. provinciale torinese e responsabile della “Sezione Partigiani” presso l’Ufficio assistenza post-bellica della Prefettura di Torino. Fu altresì consigliere comunale comunista di Torino dal 1951 al 1970, quando dovette ritirarsi per motivi di salute.
L’impresa che gli procurò maggiore fama e riconoscenza fu quella che, per anni e anni, lo vide dedicarsi fisicamente al recupero delle salme dei partigiani (italiani e stranieri) sparsi in piccoli camposanti, in montagna, in pianura, sulle colline, ovunque si fosse combattuto, affinché fossero tumulati nel Campo della Gloria e poi nel nuovo Sacrario della Resistenza del Cimitero Monumentale di Torino.
Si ritiene che in tutto le salme da lui recuperate siano circa novecento.
Per quanto riguarda gli stranieri, dai dati in nostro possesso risultano disseppelliti da Grosa e collocati nel Sacrario della Resistenza un inglese, un tedesco, un austriaco, due francesi, due polacchi, due cecoslovacchi, una decina di jugoslavi e una trentina di sovietici, di cui alcuni conosciuti col solo nome di battaglia. Sono inoltre una sessantina i partigiani completamente ignoti che Grosa disseppellì da varie località del Piemonte e non è escluso che anche alcuni di questi resti appartengano a dei sovietici.
Per quest’opera gli fu conferita nel 1964 la “Stella d’oro garibaldina” e anche un’onorificenza da parte del Governo sovietico.
Nicola Grosa morì nel 1978, provato dai lunghi anni trascorsi a raccogliere, a mani nude, i resti di centinaia di compagni partigiani.

L'associazione Russkij Mir, a Torino, oltre a promuovere dal 2005 la celebrazione del 9 Maggio, come sviluppa la propria attività di ricerca e di ricostruzione storica?

A.R.: L’associazione Russkij Mir di Torino, che ho diretto per 20 anni e di cui ora sono Presidente onorario, fu fondata nel 1946 come Italia-URSS, Associazione italiana per i rapporti culturali con l'Unione Sovietica; si occupa di diffondere la lingua e la cultura russa, delle repubbliche ex-sovietiche e dei paesi dell'Est europeo.
Da alcuni anni porta avanti un importante lavoro di “memoria storica” incentrato sul contributo russo-sovietico alla sconfitta del nazifascismo.
Nel 2003, sessantesimo anniversario della Battaglia di Stalingrado, ha partecipato al Concorso internazionale indetto dalla radio Golos Rossii (La voce della Russia) e dalla città di Volgograd-Stalingrado, vincendo il premio speciale della giuria per i contributi scritti dai suoi soci.
Nel 2004, alla vigilia delle celebrazioni del 60° anniversario della vittoria sul nazifascismo, sentendo nominare quasi esclusivamente lo sbarco in Normandia e il ruolo degli alleati anglo-americani, Russkij Mir ha deciso di impegnarsi in un ambizioso progetto che ricordasse, soprattutto ai giovani, i 30 milioni di morti da parte sovietica e il fatto che per tre anni, dal Giugno 1941 - invasione nazista dell’URSS - al Giugno 1944 - sbarco degli anglo-americani in Normandia -, il fronte orientale fu l’unico a sostenere l’impatto delle forze armate naziste e a tenerle impegnate, contrattaccandole in maniera decisiva nell’estate del 1943.
Altri fatti stavano cadendo nell'oblìo ma era necessario che fossero ricordati:  come il notevole contributo dato dai partigiani sovietici alla lotta di Liberazione in Italia,  così come che fu l’Armata Rossa ad "aprire i cancelli" del lager di Auschwitz,
Tra l'Aprile ed il Maggio 2005, quindi, Russkij Mir ha proposto un complesso programma di iniziative sotto il nome di “Pabièda!/Vittoria!”, con la collaborazione di importanti enti e istituzioni italiane e russe.
Dal 2008 Russkij Mir, in collaborazione con il Museo Diffuso di Torino, ha partecipato al "Giorno della Memoria" presentando filmati storici originali dalle serie di documentari "La Grande Guerra Patriottica" di Roman Karmen, in lingua originale con traduzione simultanea.

Sergej Molčanov, qual'è secondo lei il significato che assume attualmente il 9 Maggio per la popolazione della Federazione Russa, e in che modo vengono ricordati i cittadini dell’allora Unione Sovietica che combatterono nella Resistenza in Europa?

S.M.: Il 9 Maggio è una festa di tutto il popolo: quasi in ogni famiglia c’è stato un caduto durante la Seconda Guerra Mondiale, e per questo non verrà mai meno il loro ricordo, così come questa celebrazione. Il 9 Maggio, oltre alla parata militare, in Russia si svolge la sfilata del cosiddetto “Reggimento Immortale”: tutti i parenti dei caduti sfilano in piazza con la fotografia del loro caro morto durante la guerra.

La vicenda di suo nonno è oltremodo significativa. Fatto prigioniero vicino a Mosca, trasferito successivamente in Italia riuscì a fuggire e ad entrare tra le fila delle brigate partigiane. Tornato in Patria dovette passare anche per i“campi di filtraggio” dove veniva verificata l’attività svolta dai cittadini sovietici che erano stati fatti prigionieri. Qual è attualmente il livello di conoscenza di queste vicende nella Russia attuale?

S.M.: Negli ultimi tempi i documenti del KGB che riguardano la storia di quel periodo vengono dissecretati e perciò storie analoghe a quella di mio nonno vengono conosciute e trovano riflesso in pubblicazioni, libri, film, articoli eccetera grazie al lavoro di giornalisti ed opinionisti.

Lei come percepisce il fenomeno del neofascismo in alcune zone dell’ex-Unione Sovietica come gli stati baltici e l’Ucraina?

S.M.: Ne sono colpito molto sfavorevolmente. Il ritorno del fascismo è un colpo inferto ai più profondi valori umani.

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Per approfondire il tema rimandiamo alle pubblicazioni cartacee - e non - a cui si fa riferimento nell'articolo oltre ad alcuni lavori – ed alle loro bibliografie -  che segnaliamo di seguito.

Il libro che per primo ha trattato sistematicamente l'argomento è I partigiani sovietici nella resistenza italiana di Mauro Galleni, edito nel 1967 dagli Editori Riuniti.

Per un inquadramento generale del fenomeno rimandiamo al libro di Marina Rossi: Soldati dell’Armata Rossa al confine orientale 1941-1945. Con il diario inedito di Grigorij Žiljaev, edito nel 2014 da Leg edizioni, ed in particolare al primo capitolo Partigiani sovietici nelle file della resistenza italiana (1943-1945): uno sguardo di sintesi.

Segnaliamo il libro di Michail Talalay, Dal Caucaso agli Appennini. Gli azerbaigiani nella Resistenza italiana, edito nel 2013 da Sandro Teti Editore e I partigiani sovietici della VI zona ligure, edito nel 1975 per conto dell’Associazione italiana per i rapporti culturali con l'Unione Sovietica.
Rimandiamo infine alla recente intervista di Maurizio Vezzosi all'Ambasciatore della Federazione Russa in Italia Sergej Razov pubblicata da L'Antidiplomatico ed al documentario sul partigiano Vladimir Pereladov  “Bello Ciao” realizzato da Valeria Lovkova.

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Fig. 1 - Michail Molčanov
Fig.2 - La dichiarazione del comando militare su Michail Molčanov





Le Tribunal Pénal International pour l’ex-Yougoslavie: essai de bilan



La question des droits de l’Homme n’a pas cessé d’être présentée comme absolument prioritaire dans les relations internationales. Depuis plusieurs décennies, les Puissances occidentales, quelles que soient leurs pratiques politiques, ont affirmé leur quasi-monopole dans le domaine du discours sur la protection et la promotion des droits de l’Homme. La maltraitance politique, civile, économique, sociale et culturelle des individus est pourtant l’un des plus anciens problèmes de l’Histoire. Il n’a jamais été résolu pleinement.

Cette « politique des droits de l’Homme » ne peut être le résultat d’une subite « prise de conscience » : la Charte des Nations Unies, adoptée « au nom des peuples » et la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme ont été très antérieures à la mobilisation occidentale en faveur des droits civils et politiques1.

Il en est de même pour le droit humanitaire, c’est-à-dire sur le droit de la guerre sur lequel le C.I.C.R travaille depuis très longtemps, avec un succès limité. L’intérêt renouvelé et même l’enthousiasme « unanime » qu’il suscite depuis quelques années alors que la Charte a retiré aux États le droit à la guerre, interdisant le recours à la force armée, est aussi source de certaines interrogations, alors que se multiplient les interventions armées. Le droit de la paix semble présenter en Occident moins d’intérêt que l’humanisation de la violence armée !

Mais le « temps court » ne permet pas une évaluation rationnelle. Seul le « temps long » révèle les racines de ces phénomènes politiques. Aussi longtemps que les États-Unis (avec par exemple, le Vietnam et diverses interventions en Amérique du Sud) et les États européens colonisateurs (la France en Indochine, puis en Algérie et en Afrique subsaharienne) se croyaient dans l’obligation de combattre les mouvements de libération nationale et d’émancipation des peuples, la question des droits de l’Homme ne pouvait être soulevée. Dès que les États occidentaux n’ont plus eu à faire face à des opérations répressives d’envergure, l’intérêt politique représenté par les droits de l’Homme s’est imposé. Le « droitdel’hommisme » (formule jugée inacceptable par les partisans de l’ingérence en violation du principe de souveraineté) est devenu une arme utile contre le communisme en exploitant les carences démocratiques de l’URSS et de certains États se réclamant du socialisme. De plus, les États-Unis, dotés de tous les moyens financiers et médiatiques pour s’imposer sans nécessairement recourir à la force armée, ont développé de nouvelles stratégies : le « soft power » était en mesure de perturber les régimes politiques qui lui étaient défavorables au point de les changer !

L’affaiblissement de la Russie post-soviétique durant les années 1990 a créé, de plus, des conditions favorables pour le monde occidental. Les ambiguïtés stratégiques de la Chine, axée avant tout sur ce qui lui permet un développement économique rapide, ont permis aussi l’établissement d’une hégémonie idéologique à l’échelle de la planète faisant du modèle politique occidental un idéal absolu, malgré les conditions très spécifiques de son apparition et de son développement depuis le XVI° siècle.

Le discours officiel des puissances occidentales dans les relations internationales (au Conseil de Sécurité, au Conseil des Droits de l’Homme des Nations Unies, dans les rencontres bi ou multi-latérales) semble faire de la protection des droits de l’Homme et du droit humanitaire, partout dans le monde, une préoccupation privilégiée reléguant au second plan les intérêts économiques ou stratégiques que seuls les États moins développés (sous-entendu « moins démocratiques et moins civilisés ») prendraient en charge !

La réalité est autre. « L’enveloppe » humanitaire recouvre les pratiques politiques les plus traditionnelles. Le monde occidental a la volonté évidente de maintenir sa domination, en organisant un « nouvel ordre du monde » selon ses intérêts, même si seuls les États-Unis le proclament ouvertement.

Son activisme pour imposer la croyance en un « nouvel âge de l’humanitaire » séduit l’opinion la moins élaborée : cet apolitisme militant à la coloration éthique dérange peu d’intérêts et exige peu de sacrifices2.

Cet « humanitaire » est mis en avant lorsqu’il s’agit de combattre un adversaire, en Libye ou en Syrie par exemple. Il s’efface lorsqu’il s’agit de ne pas mettre en cause des alliés, comme l’Arabie Saoudite ou le Qatar intervenant au Bahreïn ou au Yémen, ou comme la Turquie, complaisante avec Daesh, mais membre de l’OTAN.

L’« humanitaire » n’a pas non plus sa place lorsque sont développées des stratégies d’embargo contre des États jugés « voyous » ou « terroristes » ou simplement « non démocratiques » ou « non libéraux » par les États-Unis, qui frappent pourtant essentiellement les populations civiles3.

Les ONG militant pour le respect de cet « humanitaire » comme certains juristes occidentaux ne relèvent ni ces discriminations ni surtout le fait que les droits de l’Homme civils et politiques ne se portent mieux nulle part4, en dépit du climat général qui leur semble favorable. Quant aux droits économiques et sociaux, ils se sont dégradés profondément en raison d’un système économique et financier mondialisé animé par des pouvoirs privés transnationaux de plus en plus concentrés toujours davantage en mesure d’exercer leur hégémonie : les États tendent à se transformer en auxiliaires subordonnés travaillant pour des intérêts très éloignés de l’intérêt général.

Ainsi, aucune institution, fut-elle une juridiction internationale, ne peut être analysée « hors-sol », comme si elle n’était fondée et ne fonctionnait qu’en vertu de « valeurs » transcendantes, extérieures aux rapports de forces et détachée de toute stratégie de puissance.

Le Tribunal Pénal International pour l’ex-Yougoslavie, comme les autres tribunaux ad hoc et la Cour Pénale Internationale créée dans son sillage, sont des juridictions politiques. Or, la justice politique a toujours été au cœur des contradictions de chaque moment historique. Au sein de chaque État comme dans l’ordre international.

Dans l’ordre interne français, par exemple, cette justice a été, selon les périodes historiques, plus répressive ou plus libérale. Au début du XIX° siècle, par exemple, l’infraction politique était jugée avec plus d’indulgence que celle de droit commun. La pratique qui avait précédé et celle qui a suivi a été (ont été) plus rigoureuse(s) : l’adversaire politique a été traité comme un ennemi, ce qui est le cas le plus fréquent.

Dans l’ordre international, il en est de même. Le traitement de l’infraction politique varie d’un État à l’autre et d’une période à l’autre. C’est ainsi, par exemple, que les Conventions d’extradition reconnaissent la relativité du crime politique puisqu’il est possible à un État de refuser à un autre une demande d’extradition en raison d’une appréciation unilatérale de l’acte commis. Lorsque devant un afflux de réfugiés, un État, malgré les Conventions internationales, s’en débarrasse sur un autre sans respect pour la procédure du droit d’asile, il manifeste son indifférence au type d’infraction politique dont la répression entraîne la recherche d’un pays d’accueil.

Par contre, la création d’une série de tribunaux pénaux internationaux ad hoc à partir de 1993, couronnée en 1998 par la fondation de la Cour Pénale Internationale s’inscrit officiellement dans le cadre des efforts politiques et diplomatiques pour en finir avec l’impunité des individus responsables de crimes de masse. Cette justice politique internationale s’est directement inspirée par exemple des conceptions strictement libérales : la compétence de ce TPI ne concerne pas les crimes économiques. La fuite des capitaux, l’évasion et la fraude fiscale, par exemple, ne donnent pas lieu au même volontarisme, bien que ces pratiques rendent ineffectifs les droits économiques et sociaux dans la plupart des pays, privés des moyens pour assurer leur développement.

L’existence même de ces juridictions politiques est ainsi l’expression d’un certain contexte politique propre aux années 1990-2000 au sein du Conseil de Sécurité des Nations Unies comme au niveau de l’ensemble de la société internationale. Ces rapports de forces ont d’ores et déjà évolué depuis quelques années : les conditions qui ont présidé à leur naissance n’existent déjà plus avec la renaissance de la Russie et la place croissante de la Chine dans les relations internationales.

Le Tribunal Pénal International pour l’ex-Yougoslavie est la première juridiction créée depuis Nuremberg en 1945, bien que la Yougoslavie « n’ait pas été au hit parade des horreurs commises depuis un demi-siècle », comme le note le professeur belge Éric David5. Cette création effectuée dans une certaine précipitation et dont la mission est en cours d’achèvement présente les traits caractéristiques des rapports de forces dont elle est le fruit. Un premier bilan peut être dressé.

Le TPY exprime la croyance selon laquelle la juridictionnalisation des conflits permettrait leur règlement, mais la guerre s’est prolongée plusieurs années après sa naissance.

Son mode de fonctionnement révèle que sa revendication de totale indépendance n’est pas réelle : le TPY bénéficie seulement (et il ne pouvait en être autrement) d’une autonomie relative vis-à-vis de l’OTAN, elle-même se voulant bras armé de l’ONU, quitte – si possible – à se substituer à elle.

A l’heure où se développent des trafics internationaux en tous genres (notamment celui des armes et des stupéfiants), ainsi que le terrorisme de Daesh (bénéficiant de la complaisance de certains États), et où se creusent des inégalités sociales abyssales entre les peuples et les classes, la jurisprudence du TPY n’a guère d’autre résultat que de jeter un doute sur la Cour Pénale Internationale, créée dans son sillage.

 

1. La confusion juridique originaire du TPY

 

Dans un langage très diplomatique, le Secrétaire Général des Nations Unies, Kofi Annan observe que « la méthode normalement utilisée pour créer un tribunal international » ne l’a pas été pour le T.P.I, chargé de juger « les personnes présumées responsables de violations graves du droit humanitaire international sur le territoire de l’ex-Yougoslavie depuis 1991 ».

La doctrine juridique occidentale est très partagée sur la « constitutionnalité » de cette juridiction créée par le Conseil de Sécurité de l’ONU au regard de la Charte6. Pour certains, l’article 29 autorise le Conseil de Sécurité à créer des organes subsidiaires nécessaires à l’exercice de ses fonctions ; l’analogie est faite avec la création du Tribunal Administratif des Nations Unies par l’Assemblée Générale de l’ONU7.

Pour d’autres juristes, le Conseil de Sécurité n’est pas fondé en droit à créer un tribunal pénal.

Les arguments sont nombreux. Le Conseil de Sécurité est un organe politique et n’a pas compétence judiciaire. « Son but n’est pas de rétablir la justice, mais de rétablir la paix, ce qui n’est pas nécessairement identique à la justice » (H. Kelsen en 1950). Quarante ans plus tard, en 1991, G. Cohen-Jonathan confirme cette position : « l’organe principal (le Conseil de Sécurité) ne peut attribuer à l’organe subsidiaire qu’il crée plus de compétences qu’il n’en a lui-même » (J. Touscoz. 1993).

A la différence du Tribunal Administratif des Nations Unies, le TPY touche à l’ordre juridico-politique international et à la répartition des compétences entre les États souverains et l’ONU. Un tribunal arbitral, à caractère interétatique, aurait pu permettre au Conseil de Sécurité de mieux exercer ses fonctions. Ce n’est pas le cas d’un Tribunal pénal ayant pour objet de juger des interlocuteurs estimés valables lors de pourparlers de paix précédents. La création d’un mécanisme juridictionnel aurait pu s’inscrire dans la logique du Chapitre VI de la Charte (l’article 33 de la Charte permet au Conseil de Sécurité de rechercher la solution à un différend par la voie « d’un règlement judiciaire »).

Par contre, la voie pénale, invoquée au nom du Chapitre VII (axé sur la répression), n’est plus qu’une dénaturation de la fonction pacifique du Conseil de Sécurité.

La justification par le Chapitre VII est d’autant plus paradoxale que le Conseil de Sécurité n’a pas exercé ses compétences lors de la crise au Kosovo, en faveur de la paix, tout en adoptant des résolutions en 1998 (1160, 1199 et 1203 imposant des obligations de retrait aux Serbes) pour ensuite ne pas réagir à l’intervention militaire de l’OTAN en 1999, réalisée sans autorisation préalable légale.

Cette confusion est aggravée par l’indifférence du Conseil de Sécurité vis-à-vis des principes généraux fondamentaux du droit international (rappelés à l’article 1§1 de la Charte). Le T.P.I s’est vu attribuer compétence pour juger des faits antérieurs à la création ! Le principe de non rétroactivité des incriminations, découlant du principe de légalité des délits et des peines, est balayé ! De plus, ce principe a pris une valeur conventionnelle (article 15-1 du Pacte de 1966 relatif aux droits civils et politiques)8.

Le fait que les actes de violations graves du droit humanitaire aient été définis autrement (notamment par les Conventions de Genève) et soient prohibés par la loi internationale, ne suffit pas. Le droit international ne comportait en 1993, lors de la création du TPY, aucune disposition les punissant.

A l’opposé d’une recherche de la paix, le Conseil de Sécurité en créant le TPY, a soutenu certaines parties belligérantes contre d’autres, sans un respect rigoureux de la présomption d’innocence, de la loyauté des débats, du principe du contradictoire, de la non rétroactivité de la loi pénale, de la séparation des pouvoirs. Les conditions imposées et les objectifs politiques poursuivis par le Conseil de Sécurité et en particulier par le plus puissant de ses membres, les États-Unis, ne pouvaient conduire dans la réalité qu’à une « justice-spectacle » fondamentalement partisane.

 

2. Le T.P.I.Y, un allié stratégique d’une partie belligérante

 

La justice ne peut jouer un rôle pacificateur qu’à la condition d’intervenir dans un milieu très intégré. Il peut s’agir d’un État où les valeurs nationales sont hégémoniques. Il peut s’agir du milieu des affaires où les finalités des opérateurs sont identiques. Dans l’ordre international, très éloigné de la « communauté » dont il fait souvent mention à tort, les conflits inter-étatiques ou les guerres civiles internationalisées par l’ingérence des Puissances, ne peuvent trouver de règlement équitable par la voie juridictionnelle. 

La guerre rend impossible une justice juste. Or, c’est en pleine guerre que le Conseil de Sécurité des Nations Unies (résolution 827 du 25 mai 1993) décide la création du Tribunal Pénal International pour l’ex-Yougoslavie. Au nom de « l’ingérence humanitaire », c’est la procédure la plus courte qui est imposée pour créer cette juridiction et non la voie conventionnelle (qui sera ultérieurement utilisée pour créer la Cour Pénale Internationale) jugée trop lente, sans qu’il soit évident que la Charte des Nations Unies (dont les articles 29 et 41 sont invoqués) soit respectée à cette occasion. Ce n’est pas, en effet, le rétablissement de la paix et la réconciliation entre belligérants yougoslaves qui sont recherchés, raison d’être du Conseil de Sécurité de l’ONU. L’objectif explicite du statut du T.P.Y est la sanction en plein conflit armé des crimes attentatoires au droit humanitaire, ce qui est, en pratique, plus ou moins également partagé dès lors qu’il y a affrontement armé. La création du T.P.Y dont la fonction est la punition des criminels d’une guerre en cours, avant même que les négociations pour rétablir la paix n’aient eu lieu (négociation de Dayton en 1995 et Accord de Paris du 14 décembre 1995.

Pour percevoir toutes les anomalies qui marquent la naissance de cette juridiction il convient de procéder à quelques constats.

La question yougoslave ne s’est posée avec acuité qu’aux lendemains immédiats de la dissolution de l’URSS, lorsque règne un certain consensus politique au Conseil de Sécurité9.

Il n’est pas question de traiter les tensions internes de la Yougoslavie comme relevant de la souveraineté yougoslave. Elles sont rapidement internationalisées et fortement médiatisées pour légitimer les interventions extérieures de toute nature et aboutir à l’implosion du pays en plusieurs micro-Etats. Il n’est pas question non plus de favoriser une solution analogue à celle choisie par l’Afrique du Sud (une Commission de réconciliation) avec un appui des Nations Unies, se référant au Chapitre VI de la Charte. Ce qui est valable pour le bénéfice d’une minorité blanche ainsi « amnistiée » collectivement ne l’est pas pour les Serbes nourris encore de socialisme et de souverainisme10.

Le processus politique occidental a débuté par une vaste campagne d’opinion hostile au régime de Belgrade, présenté comme seul responsable des horreurs de la guerre. En réalité, Belgrade est avant tout coupable de résister au démembrement de la Yougoslavie souhaité par les Puissances occidentales.

Simultanément, le réveil nationaliste est encouragé dans chacun des États membres de la Fédération yougoslave.

L’Allemagne, les États-Unis et le Vatican stimulent la sortie de la Fédération yougoslave de la Slovénie et de la Croatie dont les économies sont plus avancées que celle de la Serbie et dont les forces nationalistes sont inspirées par le « débarrassisme » : les régions les plus pauvres de la Yougoslavie sont un poids qui retarde le développement des plus riches. Les vieux contentieux religieux entre l’Islam et le Christianisme orthodoxe sont rallumés en Bosnie. De plus, les souvenirs des affrontements de la Seconde Guerre mondiale resurgissent.

Les indépendances des États membres, reconnus immédiatement par les États européens et les États-Unis, sont « accompagnées » par le Conseil de Sécurité dès 1992 (résolution 777 du 19 septembre exigeant que la Serbie et le Monténégro « présentent une demande d’adhésion à l’ONU », la Yougoslavie étant considérée comme morte !

Cependant, le processus d’implosion n’est pas achevé. Seront détachées de la nouvelle Fédération le Kosovo et le Monténégro.

La médiatisation des crimes dont Belgrade, le « Mal » incarné, assurée par divers organes comme South Last Service Europe, Tribunal Update, etc. légitime l’idée qu’une « justice juste » doit procéder aux punitions qui s’imposent : le TPY est l’expression du « Bien », c’est-à-dire d’une seule des parties belligérantes.

Aussi, le Tribunal apparaît comme un outil favorisant la mise en place dans la région des Balkans d’un ordre politique nouveau conforme aux valeurs occidentales. C’est le stimulant judiciaire de l’exigence imposée à l’ex-Yougoslavie, comme on a pu le dire de manière parodique, « de faire sa révolution de 1789 sous le contrôle d’Amnesty International », en dehors de toute considération historique et des circonstances nationales spécifiques !

La Procureur du TPY, Del Ponte, s’est exprimée clairement à ce sujet lors d’une conférence à Londres (au siège de la Fondation Goldman Sachs) devant un auditoire d’hommes d’affaires, le 6 octobre 2005 : « Nous nous efforçons de créer un environnement stable et favorable à des investissements privés »11.

 

3. L’autonomie relative du T.P.Y vis-à-vis de l’OTAN et de l’ONU

 

Une juridiction, parce qu’elle est une institution fondée sur un statut, mettant en œuvre des normes et animée par des juristes, n’est jamais le simple bras armé d’une structure politique (État ou organisation internationale).

Dans l’ordre interne, les tribunaux d’exception eux-mêmes établis par les États en difficulté, ne se comportent pas systématiquement comme de simples agents du pouvoir12. Le formalisme juridique, la qualité de juristes des acteurs (juges et défenseurs) sont des obstacles à la pratique répressive radicale souhaitée par les politiques contre les prévenus, c’est-à-dire contre leurs adversaires.

Le TPY, juridiction ad hoc, créé, organisé et composé conformément aux souhaits politiques des États-Unis et de leurs alliés ne bénéficie pas de « l’indépendance » hautement proclamée ni vis-à-vis de l’ONU pour des raisons organiques ni vis-à-vis de l’OTAN pour des raisons fonctionnelles. On ne peut lui reconnaître qu’une autonomie relative vis-à-vis de l’OTAN entrée en guerre contre Belgrade comme vis-à-vis du Conseil de Sécurité des Nations Unies13, qui a multiplié les résolutions concernant la Yougoslavie jusqu’à la fin de la guerre. L’OTAN, par la voix de son porte-parole Janie Shea, se déclare d’ailleurs (17 mai 1999) « organisation armée du Tribunal »14, tout comme diverses ONG essentiellement occidentales, en qualité d’ « amicus curiae ».

Or, ce sont les États membres de l’OTAN qui assurent le financement du tribunal ; c’est l’OTAN, alliance politico-militaire dirigée par les États-Unis qui dans la crise yougoslave s’est autoproclamée protecteur (trice) du droit humanitaire, par une sorte de dédoublement fonctionnel, en dépit de ses actes de guerre contre la Serbie, eux-mêmes attentatoires à ce même droit humanitaire !

Le TPY est aussi la mise en œuvre concrète des courants doctrinaux dominant la pensée juridique américaine. Il exprime en premier lieu « l’obsession » judiciaire des ennemis : le pouvoir judiciaire occupe dans le système des États-Unis une position centrale. Ce phénomène est transposé dans le champ international comme solution à tous les problèmes politiques.

Simultanément, il y a volonté systématique d’échapper à toute contrainte légale internationale15. L’ennemi n’est donc pas un justiciable comme un autre. La doctrine américaine dominante est significative : elle rejette le principe de l’universalité du droit international par la distinction des individus « libéraux et décents » et des « hors la loi agressifs et dangereux16.

Le TPY s’inscrivant plus ou moins dans cette logique, « le » Serbe peut être qualifié de « fasciste » comme le répétaient quelques philosophes français,17 comme B.H. Lévy dont le manichéisme s’est particulièrement affirmé lors de la guerre de Yougoslavie. Les ressortissants des « régimes non libéraux », en l’occurrence les Serbes, ne sont pas fondés à bénéficier des droits équivalents à ceux des seuls régimes légitimes « libéraux démocratiques »18 ou en train de le devenir, comme les États non serbes de l’ex-Yougoslavie19.

Dans l’esprit de la partie belligérante occidentale et de ses alliés croates et bosniaques, le TPY a pour fonction, non de statuer sur tous les crimes commis dans l’ex-Yougoslavie, mais essentiellement de prouver devant l’opinion internationale la justesse du combat mené contre les Serbes, accusés d’être les principaux responsables de la guerre:il n’est pas question de juger les bourreaux de tous les camps puisqu’il n’y a fondamentalement de bourreaux que dans un seul, les victimes étant dans l’autre !

L’adhésion à la Common Law et le rôle central du Procureur20, bien qu’il s’agisse de statuer sur des affaires relevant d’un pays du continent européen21, comme la méthode d’interprétation guidée par les valeurs américaines « supérieures » prétendument transcendantes et favorisant un relâchement des contraintes vis-à-vis des règles juridiques établies, font du TPY un outil juridico-politique essentiellement pro-occidental.

Cette juridiction n’est pas une rupture avec ce que le Tribunal de Tokyo, créé par les États-Unis et chargé en 1945 de juger les criminels de guerre japonais. Le TPY applique ce que l’on peut appeler la « jurisprudence Hiro Hito ». Lors de la capitulation de l’État japonais, dont l’Empereur était un chef d’État de droit divin, il y avait non pas « urgence humanitaire » (le bombardement d’Hiroshima et Nagasaki par l’aviation américaine venait de se produire), mais « nécessité » urgente de protéger tous ceux qui pouvaient être politiquement utiles pour la suite du Japon et de l’Asie, menacés par le communisme. En dépit de sa responsabilité supérieure, l’Empereur a été exclu de la répression, comme ont été exonérés de toute responsabilité pénale les présidents Tudjman et Izetbegovic de Croatie et de Bosnie. Le professeur belge Olivier Corten a raison lorsqu’il note : « il aurait été plus équilibré de poursuivre tous les responsables et pas seulement Milosevic qui n’aurait pas dû être le seul à se retrouver devant le TPY ».

De plus, les modalités de fonctionnement empêchent le TPY de rendre des jugements impartiaux.



(The original article, in English: Germany is the eurozone’s biggest problem - by Martin Wolf


Eurozona tedesca, l’equilibrio impossibile


di Claudio Conti - Martin Wolf *

Pochi hanno il coraggio di indicare la Germania come responsabile di buona parte dei problemi economici – dunque anche sociali e politici – dell’Europa. Diciamo intenzionalmente Europa (un’area continentale) per distinguerla nel modo più netto dall’Unione Europea (un’istituzione quasi-statuale che ne regola in modo differenziale le scelte economiche, così come l’Italia è cosa ben diversa dallo Stato italiano). Confondere i due concetti, come intenzionalmente sono abituati a fare i governanti e i media, non può che provocare la paralisi delle capacità critiche e l’adesione inconsapevole al pensiero mainstream.

L’editoriale di Martin Wolf, sul Financial Times, rompe il tabù con molta più potenza di quanto non abbia fin qui provato a fare, in ambito nazionale, IlSole24Ore, che non a caso non ripubblica immediatamente con grande rilievo.

Una presa di posizione importante per molti motivi, non ultimi quelli di ordine teorico. Per la prima volta o quasi, in un articolo destinato al grande pubblico, si qualifica la dottrina economica dominante nella testa dei dirigenti tedeschi come ordoliberalismo. Una variante del pensiero economico liberista specifica della scuola austro-tedesca e ben riassunta, da Wolf, nella triade un bilancio (quasi) sempre in pareggio, la stabilità dei prezzi (con una preferenza asimmetrica per la deflazione) e la flessibilità dei prezzi.

Una dottrina che enfatizza unilateralmente solo alcune delle caratteristiche strutturali del cosiddetto “libero mercato” e determina comportamenti economico-politici irrealistici. O meglio, convenienti solo per alcuni soggetti del mercato, ma catastrofici per gli altri. Banalmente, questa triade punta alla creazione di un surplus (quello della Germana sfora da anni i parametri di Maastricht senza che nessuno provi ad aprire una “procedura di infrazione” contro Berlino). Il che va benissimo – capitalisticamente parlando – per chi (pochi o uno solo) riesce nell’intento, ma provoca automaticamente un deficit negli altri componenti di una comunità economica relativamente chiusa come l’Unione Europea. È insomma una linea che destabilizza il contesto generale in modo inversamente proporzionale alla stabilità raggiunta dal soggetto più forte.

Ma la sortita di Wolf è importante anche perché smonta, di conseguenza, la vulgata sulle “riforme strutturali” come unica via – “oggettiva” – per migliorare la competitività di un sistema produttivo nazionale. L’unico risultato che possono produrre, ed hanno effettivamente prodotto, è una caduta della domanda interna all’area governata secondo questi criteri (l’intera eurozona), anche al di là delle dimensioni imposte dall’esplodere della crisi del 2008.

Se determinate politiche non possono funzionare – ne abbiamo ormai l’evidenza, all’ottavo anno di crisi – non resta che rovesciare il binocolo: è la Germania il vero problema dell’Eurozona, così come è la Germania il vero dominus dell’Unione Europea. Le stesse distorsioni violente che questa istituzione è andata creando (il caso greco è solo il più drammatico e lampante) sono il frutto obbligato di una distorsione sistematica delle politiche economiche e finanziarie dell’eurozona, tanto più in una situazione generale di crisi sistemica.

Wolf le spiega con grande chiarezza, da un punto di vista liberale ma intelligente. Evita di soffermarsi sulle distorsioni più propriamente ideologiche nascoste nelle pieghe della lingua tedesca (notoriamente la parola Shuld indica sia la colpa che il debito, mentre l’opposto, Gläubige, significa sia credente che creditore, in una spaventosa sovrapposizione di connotazioni etiche per posizioni economiche in fondo temporanee e spesso scambiabili in una economia complessa).

In ogni caso, però, ne vien fuori che le difficoltà e gli interessi di un paese – in realtà di un particolare groviglio di filiere produttive e centrali finanziarie – si sono lentamente trasformati nella regola dominante per tutti gli altri. Senza alcuna ragione scientifica, sul piano economico.

Tra questi problemi, ormai devastanti, c’è una crisi demografica mai vista dai tempi della Guerra die trent’anni (tra il 1618 e il 1648 la popolazione tedesca si ridusse da 18 a 6 milioni, tra guerre, carestie ed epidemie di peste).

Il censimento del 2013 ha rivelato che la popolazione complessiva è diminuita in pochi anni dell’1,9%, restando di poco sopra gli 80 milioni. Nei giorni scorsi, il ministro tedesco dell’Istruzione Johanna Wanka, nel corso di un involontariamente delirante incontro-accordo con la sua omologa Stefania Giannini, ha spiegato che in dieci anni la popolazione tedesca (ovvero quella di origine “indigena”, ndr) si è ridotta del 22%. L’unico settore in cui la produttività è diminuita è quello dei figli”. Sorvoliamo sull’uso disinvolto del termine “produttività” con riferimento alla natalità (non vi sentite un po’ polli in batteria?) e restiamo al merito della faccenda. Tutto il “merito” di questo crollo va alle riforme strutturali avviate da Hartz e dal “socialdemocratico” Schroeder, che hanno varato a più riprese, all’inizio del nuovo millennio, uno schema di rivoluzionamento del mercato del lavoro da cui hanno perso origine poi i vari Jobs Act, in Italia come in Francia. La precarizzazione totale e la “flessibilità” richiesta a ogni singolo lavoratore del “nuovo tipo” è tale da aver reso quasi impossibile progettare una vita di coppia stabile per le nuove generazioni, quindi di mettere al mondo e crescere dei figli in modo responsabile.

Nei prossimi anni si prevede che, passando a miglior vita la boom generation, il numero di tedeschi-tedeschi si ridurrà in media di mezzo milione l’anno, se non di più. E non è detto che i flussi migranti saranno adeguati a sostituirli, perché moriranno sia gli operai che gli ingegneri, e determinate competenze di alto livello non si improvvisano dalla sera alla mattina.

Si capisce dunque la portata simbolica di un episodio altrimenti marginale. Durante l’ormai famosa marcia dei profughi mediorientali attraverso i Balcani, nel bel mezzo di una sosta a Belgrado, tra i disperati camminatori era stato riconosciuto un noto oncologo siriano. Immediatamente le autorità serbe gli avevano offerto un posto di rilievo in un loro ospedale, e uno stipendio commisurato, ovviamente immediatamente accettato dal chirurgo marciatore.

Felici di poter dare un’immagine della Serbia come paese molto più civile e accogliente dei vicini ungheresi, croati, macedoni e sloveni, ne era stata data notizia con una conferenza stampa. Nemmeno 24 ore dopo un aereo tedesco era atterrato a Belgrado e all’ottimo medico era stato proposto un contratto ovviamente molto più redditizio, in Germania. Se preferite la metafora del calcio alla medicina, si vedranno sempre più Rudiger, Boateng, Ozil e meno Muller, Schweinsteiger o Neuer. Il capitalismo distrugge tutto lungo il suo cammino, istituzioni, credenze, abitudini, ed anche i popoli che lo abbracciano con maggiore e teutonico entusiasmo.

Al punto che il creditore-credente si trasforma obbiettivamente nel peggiore dei miscredenti.


È la Germania il più grande problema dell’Eurozona


di Martin Wolf

Perché in Germania prevale una visione della macroeconomia tanto peculiare? E quanto conta questa diversità di vedute?
La risposta alla seconda domanda è che conta tantissimo. La risposta alla prima domanda, in parte, è che la Germania è un Paese creditore. La crisi finanziaria le ha dato un ruolo predominante negli affari dell’Eurozona. È una questione di potere, non di diritto. Gli interessi dei creditori sono importanti, ma sono interessi parziali, non generali.

Le rimostranze recentemente si sono appuntate sulle politiche monetarie della Banca centrale europea, in particolare i tassi di interesse negativi e l’allentamento quantitativo. Wolfgang Schäuble, il ministro dell’Economia tedesco, è arrivato a sostenere che metà della responsabilità per l’ascesa del partito anti-euro Alternativa per la Germania è da addebitarsi alla Bce. Si tratta di un attacco fuori dal comune.
Le critiche alle politiche della Bce sono ad ampio raggio: vengono accusate di consentire agli Stati membri recalcitranti di non fare le riforme, di non essere riuscite a ridurre l’indebitamento, di mettere a rischio la solvibilità delle compagnie assicurative, dei fondi pensione e delle casse di risparmio, di essere riuscite soltanto a tenere l’inflazione poco sopra lo zero e di alimentare l’ostilità verso il progetto europeo. Insomma, l’Eurotower è diventata una seria minaccia per la stabilità.

È un’idea coerente con una visione che è maggioritaria in Germania. Come dice Peter Bofinger, membro eretico del consiglio di esperti economici del Governo tedesco, questa tradizione risale a Walter Eucken, influente padre dell’ordoliberalismo. In questo approccio, le politiche macroeconomiche ideali si compongono di tre elementi: un bilancio (quasi) sempre in pareggio, la stabilità dei prezzi (con una preferenza asimmetrica per la deflazione) e la flessibilità dei prezzi.
Si tratta di un approccio ragionevole per un’economia piccola e aperta. Può funzionare per un Paese più grande, come la Germania, dotato di settori industriali scambiabili altamente competitivi. Ma non può essere esteso all’economia di un continente, qual è l’Eurozona. Le cose che funzionano per la Germania non possono funzionare per un’economia tre volte più grande e molto più chiusa al commercio estero.

Si noti che nell’ultimo trimestre del 2015 la domanda reale nell’Eurozona era del 2 per cento inferiore a quella del primo trimestre del 2008, mentre negli Stati Uniti era del 10 per cento superiore. Le rimostranze tedesche, nella maggior parte dei casi, non tengono conto di questa grave debolezza della domanda. La Bce sta cercando giustamente di impedire che un’economia affetta da debolezza cronica della domanda precipiti in una spirale deflattiva. Come sottolinea il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi, i tassi di interesse bassi fissati da Francoforte non sono il problema, semmai «il sintomo» di un’insufficiente domanda di investimenti.

La storia dell’economia tedesca dalle riforme del mercato di lavoro di inizio anni 2000 a oggi dimostra che è molto improbabile che le «riforme strutturali» riescano a risolvere questo problema. Il dato macroeconomico più significativo della Germania è che il Paese non riesce ad assorbire quasi un terzo dei suoi risparmi nazionali, nonostante il bassissimo livello dei tassi di interesse. Nel 2000, prima delle riforme – che ridussero il costo del lavoro e i redditi dei lavoratori – le grandi aziende tedesche investivano una quota molto maggiore dei loro utili non distribuiti. Ora è l’inverso. Con le famiglie in eccedenza e il Governo in pareggio, è emersa puntualmente un’enorme eccedenza con l’estero.

Perché altri dovrebbero riuscire a fare un uso produttivo dei risparmi che i tedeschi non riescono a utilizzare? Perché le riforme strutturali in altri Paesi, come raccomandato dalla Germania, dovrebbero generare quell’impennata degli investimenti che manca in patria? E soprattutto perché ci si dovrebbe attendere un calo dell’indebitamento quando la domanda e la crescita complessiva sono così deboli nell’Eurozona in generale?
Quello che è successo è che l’Eurozona si è trasformata in una Germania più debole. Secondo le stime, la bilancia delle partite correnti della zona euro fra il 2008 e il 2016 si è spostata verso il surplus nella misura di quasi il 5 per cento del prodotto interno lordo. Ogni Stato membro, secondo le previsioni, sarà in pareggio o in attivo nel saldo con l’estero. L’Eurozona dipende dalla disponibilità di altri a perseguire quella spesa e quell’indebitamento che l’Eurozona stessa al momento rifugge. 

Il problema è che anche il resto del mondo segue la via della prudenza. La Bce ha adottato tassi reali (e nominali) negativi perché il risparmio supplementare al momento vale pochissimo. E anche perché ha imparato la lezione dei disastrosi risultati prodotti dall’aumento dei tassi operato nel 2011. La politica di allentamento adottata a partire dal 2012 ha prodotto quantomeno una ripresa rilevante, anche se inadeguata: la domanda reale è cresciuta del 4 per cento rispetto al minimo toccato nel primo trimestre del 2013, e l’inflazione di fondo, anche se è soltanto all’1 per cento circa, finalmente si è stabilizzata. Questo non è un fallimento, è un successo.

È inevitabile che politiche di questo tipo siano poco apprezzate nei Paesi creditori. Ma sostenere che il pericolo risieda in una politica monetaria eccessivamente accomodante significa non tenere conto dei pericoli rappresentanti da una politica monetaria eccessivamente rigida. Significa dare per scontato che la deflazione non rappresenterebbe un problema, quando invece farebbe aumentare l’indebitamento reale, comprometterebbe la flessibilità dei salari reali e limiterebbe perfino l’efficacia della politica monetaria, perché sarebbe molto più complicato generare tassi di interesse reali negativi, alla bisogna. Una spirale deflattiva rappresenterebbe una minaccia molto più seria dei tassi di interesse negativi.

Soprattutto, l’euro è destinato all’insuccesso se verrà gestito solo nell’interesse dei Paesi creditori. Le politiche dell’Eurozona devono essere equilibrate. La determinazione della Bce a evitare l’inflazione è un elemento importante in tal senso. Un altro è la volontà di raggiungere una domanda più equilibrata a livello nazionale: la presenza di un’enorme carenza di domanda (rispetto all’offerta aggregata) nell’economia più grande dell’Eurozona costituisce un problema serio; la procedura Ue per squilibri eccessivi dovrebbe essere molto più critica verso i surplus tedeschi.
Le idee e gli interessi della Germania hanno un’enorme importanza per la zona euro. Ma non devono decidere qualsiasi cosa. Se i tedeschi pensano che questo sottragga irrimediabilmente legittimità al progetto europeo, dovrebbero esercitare la loro opzione d’uscita. Farlo comporterebbe anche prepararsi a una grande instabilità nel breve termine. Ma fintanto che il Paese rimarrà nell’euro, dovrà accettare il fatto che la Bce ha un compito da svolgere. Se quest’ultima vi riuscirà, non sarà sufficiente a far funzionare bene l’euro, ma darà indubbiamente un contributo fondamentale in tal senso.

Copyright The Financial Times Limited 2016
(Traduzione di Fabio Galimberti)

12 maggio 2016