Informazione


Sulla questione del revisionismo promosso dalla Unione Europea e dallo Stato italiano si vedano anche

– il servizio di PandoraTV del 9 giugno scorso "Arriva in Italia l’ambiguo reato di negazionismo"

– Tosi come Poroshenko: il nostro volantino 
distribuito in occasione del presidio tenuto a Verona contro la proposta di cittadinanza onoraria per il golpista ucraino Porošenko
https://www.facebook.com/events/1594026064222467/

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Inizio messaggio inoltrato:
Da: Gherush92 <gherush92 @ gmail.com>
Oggetto: Negazionismo di Stato
Data: 17 giugno 2016 12:09:03 CEST



Gherush92 Committee for Human Rights 

E’ NEGAZIONISMO DI STATO
LA DEPORTAZIONE DEL MEMORIALE ITALIANO DA AUSCHWITZ

 

Il recente decreto  sul negazionismo (demagogico e giustizialista), tanto sbagliato quanto inefficace, dispone l'applicazione della pena "da due a sei anni se la propaganda, ovvero l'istigazione e l'incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale".

Il decreto è sbagliato visto che il testo esplicitamente cita solo la Shoah, senza elencare altri avvenuti crimini contro lo stesso popolo ebraico e contro altri popoli.  E’ inapplicabile non entrando nel merito di cosa sia il negazionismo e di cosa si può e cosa non si può, secondo la legge, citare, dire, diffondere. E’ inefficace visto che l’intrinseca indeterminatezza ed ambiguità del decreto non tutela dal pericolo del diffondersi di falsità e verità storiche “di stato” e dal rischio di ricadute di tipo inquisitoriale.

Se è vero che il negazionismo della Shoah esiste, è anche vero che si tratta di un fenomeno circoscritto e minoritario che richiede una risposta documentata ed articolata, ma non certo una legge specifica che non serve ad inibire qualche miserabile o qualche “illustre” accademico ma solo a far demagogia a proprio uso e consumo.

Una legge contro l’antisemitismo è doverosa, purché l’obiettivo non sia quello di colpire unicamente qualche decina di esponenti negazionisti, ma il sistema culturale che propugna negazionismo e antisemitismo. Gherush92 in quest’ambito ha già proposto nelle sedi opportune le linee guida per una Convenzione Europea contro l’Antisemitismo e contro l'Antiromanì.

I negazionismi sono mille: esiste chi nega la Shoah e lo sterminio degli Ebrei, chi nega lo sterminio dei Rom, degli Indiani d’America, chi nega la deportazione e il massacro degli Africani, il genocidio dei Curdi, degli Armeni, lo sterminio dei Tutsi, e così via. Esiste chi nega i pogrom, le crociate, i ghetti, persino l’Inquisizione, o attribuisce a questi fatti storici un significato parziale e li giustifica riducendone la portata distruttiva in termine di vite umane e di devastazione culturale e ambientale. Nonostante le conseguenze di questi crimini efferati  arrivino fino ad oggi  esiste chi celebra la propria segregazione nel ghetto. I negazionismi sono mille, la gran parte sono la negazione di stermini avvenuti per opera dell'occidente cristiano.

Anche le forme del negazionismo sono mille.

Esiste chi nega le implicazioni di Pio XII nella Shoah e intercede per la sua beatificazione. Esiste chi appoggia e sostiene la beatificazione di Isabella di Castiglia e manipola fatti, nasconde leggi, bolle papali, tutte prove delle sue responsabilità nelle persecuzioni di Ebrei, Mori, Rom e Indios. Anche questo è negazionismo.

Esiste chi nega la pedofilia nella chiesa o la nasconde con omertà. Esiste chi, a bella posta, confonde nazismo con comunismo. Esiste chi vuole imporre un falso per legge, che l’Europa abbia origini giudaico-cristiane. Esiste chi giustifica la deportazione dei Rom. Anche questo è negazionismo.

Esiste chi nega che la Shoah, avvenuta nell’Europa cristiana, è il frutto di secoli di persecuzioni. Anche questo è negazionismo, negare che la Shoah, organizzata ed eseguita dai nazi-fascisti, è l'apice e la chiara conclusione di un processo discriminatorio e persecutorio verso gli Ebrei in Europa per opera dell'occidente cristiano.

Esiste, infine, il Governo che, nonostante ripetuti interventi, appelli, interrogazioni parlamentari in difesa della conservazione del Memoriale Italiano ad Auschwitz, ne ha decretato la deportazione dal  Blocco 21 del campo di sterminio. Con quello sciagurato atto si è voluto rimuovere da Auschwitz l'effige della falce e martello, il simbolo dei liberatori. E' bene ricordare che la Shoah include vittime, carnefici e liberatori, fra cui i soldati dell’Armata Rossa che, combattendo contro i nazifascisti, hanno liberato il campo e l'Europa. Anche questo è negazionismo.

Attenzione, però. Questa volta si potrebbe trattare di Negazionismo di Stato, di gran lunga la forma più subdola e pericolosa, reato che anche il recente decreto, sbagliato ed inadeguato, punisce con la reclusione.

Valentina Sereni, Delfina Piu, Stefano Mannacio
Gherush92 Committee for Human Rights



(français / srpskohrvatski / italiano)

Il Montenegro tra psicopatia e ricatti


Una operazione editoriale demenziale, frutto degli ingenti finanziamenti elargiti dalla cattiva politica: parliamo della stampa del primo dizionario della "lingua montenegrina" mai esistito. Mai esistito e che mai sarebbe dovuto esistere, perché codifica l'invenzione di una lingua inesistente, a solo uso e consumo degli interessi separatisti delle cricche anti-jugoslave che hanno preso d'ostaggio la repubblichetta. Tra queste cricche, una – quella revanscista pan-albanese – contesta l'operazione solo perché qualche voce del dizionario è irrispettosa nei suoi confronti; un'altra – quella della NATO – spinge il paese verso la annessione alla stessa Alleanza militare che appena 17 anni fa lo bombardò, per rovinare i rapporti con i popoli alleati storici e contro il volere della maggioranza degli abitanti; un'altra ancora – quella dei camorristi al potere – si gongola tra invenzioni identitarie e ricevimenti nei salotti di lusso dell'imperialismo euro-atlantico. "Niente di buono ... finché Dzelaludin comanda", scriveva l'attualissimo Ivo Andrić. (a cura di Italo Slavo)


LINK CONSIGLIATI:

« L’AFFAIRE DU DICTIONNAIRE » DÉCHIRE LE MONTÉNÉGRO
Radio Slobodna Evropa | Traduit par Chloé Billon | mercredi 15 juin 2016
La parution du premier dictionnaire de la langue monténégrine devait être un événement scientifique, mais le scandale l’a emporté. En cause, quelques définitions outrageantes pour les Albanais et les Bosniaques du Monténégro. Certains se demandent néanmoins si le DPS n’a pas cherché à entretenir la polémique, pour raviver, une fois de plus, la carte des tensions ethniques...
http://www.courrierdesbalkans.fr/articles/montenegro-le-dictionnaire-de-la-discorde.html

ORIG.: Bunt zbog rječnika: Albanci su autohtoni, a ne agresori
maj/svibanj 24, 2016 – Lela Šćepanović
... Početkom aprila Crnogorska akademija nauka i umjetnosti (CANU) objavila je prvi dio Rječnika crnogorskog narodnog i književnog jezika, kao "skroman poklon narodu uoči deset godina nezavisnosti". Na nešto više od 500 stranica popisano je više od 12.000 riječi koje počinju slovima A, B i V zajedno sa informacijama o njihovom izgovoru, značenju i upotrebi...
http://www.slobodnaevropa.org/a/bunt-zbog-rjecnika-albanci-su-autohtoni-a-ne-agresori/27754715.html

Sulla situazione in Montenegro:

Sulla questione linguistica serbo-croata:


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Le Monténégro victime de l’appétit insatiable de l’OTAN



L’OTAN a invité le Monténégro à entamer des négociations d’adhésion à son organisation. Ainsi, probablement en 2018, après achèvement de ces pourparlers et ratification de l’accord conclu par les parlements nationaux, l’appartenance de ce petit pays balkanique à la plus grande alliance militaire de la planète sera effective.

Si le Monténégro possède un port important sur l’Adriatique, il ne risque pas, en raison de sa taille et de sa population (650.000 habitants), de devenir un poids-lourd de l’organisation atlantiste. Mais ce nouvel élargissement, à un 29ème membre, appelle diverses remarques et questions.

Cependant, en avalant le Monténégro, l’OTAN contrôlera directement tout le nord et le nord-est de la Méditerranée, du détroit de Gibraltar à la frontière syrienne, tandis qu’Israël et la plupart des pays arabes du pourtour méditerranéen entretiennent déjà divers types de partenariats avec cette organisation.

D’autre part, bien que son Secrétaire général, Jens Stoltenberg, ait loué son « engagement inébranlable à nos valeurs communes », le Monténégro a bien du mal à ressembler à une démocratie dans le sens habituel du terme. Le pays est dirigé, depuis plus d’un quart de siècle, par le même homme, Milo Djukanovic, qui alterne les postes de premier ministre et de président afin de donner l’illusion d’un respect de la constitution. Devenu tour à tour allié puis ennemi du dirigeant serbe, Slobodan Milosevic, renversé en 2000, il a ensuite eu des relations difficiles avec les gouvernements pro-européens qui se sont succédés à Belgrade. En 2006, il a enfoncé le dernier clou du cercueil de la fédération yougoslave en proclamant l’indépendance de sa république. Une indépendance plutôt formelle puisque la monnaie officielle y était, depuis 1999, le deutsche mark puis l’euro. 

Pendant des années, Djukanovic a été un des animateurs principaux de la contrebande européenne de cigarettes, de cheville avec la Sacra Corona Unita, une des mafias italiennes. Sa longévité au pouvoir et son immunité en tant que chef d’Etat lui ont permis d’échapper à un mandat d’arrêt de la justice italienne. Mais il n’est dès lors pas étonnant que le Monténégro demeure un havre de la corruption et du crime organisé et le centre de nombreux trafics, de la drogue à la prostitution. Paradis des mafieux, le pays ne l’est pas pour la liberté de la presse, les journalistes les plus gênants connaissant souvent une fin tragique. 

Protestations massives

Mais il semble que le règne de Djukanovic et de son Parti démocratique socialiste touche à leur fin : depuis plusieurs semaines, des manifestations massives et parfois violentes se tiennent dans la capitale du pays, Podgorica. Si nombre de manifestants sont révoltés par la pauvreté et la stagnation de leur économie, l’opposition à l’OTAN a été aussi un des moteurs des mobilisations. En décembre 2015,  plusieurs milliers de personnes ont manifesté contre cette adhésion et en faveur d’un référendum sur la question, certaines d’entre elles déclarant que, dans le cas contraire, l’adhésion à l’OTAN serait considérée comme une « occupation étrangère » et le signal d’une « insurrection armée ».

Pourtant, il est à craindre que ces avertissements ne suffiront pas à imposer un référendum : tous les sondages ont montré qu’une majorité de citoyens dirait « non à l’OTAN », notamment parce qu’ils n’ont pas oublié qu’en 1999 le pays a subi les frappes atlantistes. Même si les bombardements y ont été plus légers qu’en Serbie, ils ont quand même occasionné leur lot de victimes civiles. D’autre part, une grande partie de la population monténégrine se dit « ethniquement » serbe et partage, avec une écrasante majorité de leurs « frères » de Serbie, une même aversion pour l’OTAN.

Par ailleurs, même si les autorités vendent l’appartenance à l’OTAN comme un pas vers l’Union européenne et donc une illusoire amélioration de leur qualité de vie, les Monténégrins n’ont pas grand-chose à attendre de cette adhésion. Jusqu’à présent, ce que cela leur a apporté est surtout une brouille historique avec la Russie, peu contente de voir un allié de longue date (plus de trois siècles de relations étroites !) tomber dans l’escarcelle otanienne. Moscou – qui a qualifié l’invitation de l’OTAN de « conflictuelle » – a annoncé des mesures de rétorsion, qui pourraient prendre la forme d’un désinvestissement massif, alors que des milliers de touristes russes viennent chaque année passer leurs vacances sur la côte monténégrine, dont de vastes portions ont été achetées par des spéculateurs et autres mafieux, également russes. 

Reste à voir si, en cas de victoire de l’opposition aux prochaines législatives, prévues en octobre 2016, le nouveau gouvernement aura le courage de stopper le processus d’adhésion et rejoindre la ligne de neutralité militaire, encore actuellement prônée par la Serbie, dans la tradition de l’ancienne fédération yougoslave.

Source: Le Drapeau Rouge





La storia gloriosa e scomoda del calcio jugoslavo

1) Calcio jugoslavo, una storia gloriosa (Giuliano Geri)
2) La "Kosova", squadra di uno "Stato" non riconosciuto da 82 membri dell'ONU, viene fatta entrare manu militari nella UEFA e nella FIFA


Per una selezione di altri materiali sulla storia dello sport jugoslavo e della sua devastazione, cui continuano a contribuire anche FIFA e UEFA con le loro scelte determinate politicamente, si veda la nostra pagina: https://www.cnj.it/documentazione/sportecultura.htm 


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Calcio jugoslavo, una storia gloriosa

Giuliano Geri  
1 giugno 2016

Se il calcio è lo specchio di un popolo, quello jugoslavo ha regalato immagini di grandezza, classe finissima e miseria umana, sempre in bilico tra il mito dolce-amaro di trionfi sempre vicini e quasi mai raggiunti
Quando gli fu chiesto di designare un’avversaria per la sua partita d’addio con la nazionale, lui non ebbe alcuna esitazione. Nemmeno davanti allo stupore dei dirigenti della Federazione calcistica brasiliana, che le provarono tutte pur di convincerlo a procrastinare l’evento, o almeno a selezionare uno sparring partner più blasonato. Niente da fare, la decisione era presa. E la scelta era caduta sulla compagine che per storia e natura più si avvicinava alla sua idea di calcio, al “suo” Brasile. L’incontro amichevole si tenne, come previsto, il 18 luglio 1971, di fronte a duecentomila spettatori, in un Maracanà che traboccava lacrime di orgoglio e di rimpianto. Lui si chiamava Edson Arantes do Nascimento. Per i non intenditori: Pelè. La squadra che scese in campo quel giorno contro i verdeoro era la Jugoslavia. Per i tassonomici: finì 2-2.
Tra gli amanti della disciplina si è soliti dire, o dare per scontato, che il calcio, inteso come espressione estetica che diventa fenomeno popolare, sia lo specchio di un paese, che traduca in un linguaggio universale attitudini e stilemi di un’intera comunità nazionale, mettendone a nudo le componenti ataviche, vere o presunte, sacre o pagane. Che nel calcio si proiettino non soltanto vocabolari emotivi e aspettative più o meno legittime o razionali, ma anche criteri di appartenenza, istanze identitarie, archetipi condivisi. E tuttavia, quando simboli e destini di una nazione paiono seguire le traiettorie di una sfera di cuoio, finiscono talvolta per evidenziare contenuti paradossali, riservando esiti inattesi. In questo senso la storia calcistica della Jugoslavia non fa eccezione, anzi, diventa vicenda paradigmatica. Con un dettaglio tutt’altro che trascurabile: già in epoca non sospetta la macchina del football preconizza l’epilogo tragico di un’esperienza collettiva a metà strada tra la realtà e l’utopia, al culmine della quale, però, quella stessa macchina si rifiuta di assecondare il disegno della Storia – o di chi ne fa arbitrariamente le veci ‑, prova a sottrarsi fino all’ultimo al suo abbraccio mortale.
Per il suo essere stata una regione tra due mondi, per la sua composizione multiforme e frammentaria, per il particolarissimo mosaico sociale e culturale che ha saputo configurare, la Jugoslavia ha potuto annoverare, tra le tante specificità, una scuola calcistica autoctona rivelatasi un serbatoio inesauribile di talenti. Un modello distante anni luce dall’organizzazione tattica militaresca e dall’atletismo spinto delle compagini del blocco socialista, ma anche dalla predominanza muscolare dei tedeschi, dall’inveterato difensivismo italico, dal classico giropalla iberico (di cui il recente tiki-taka è solo una più scientifica messa a punto), e soprattutto alieno dalle varie elaborazioni del modulo Chapman, o dalla concezione “totale” dell’Olanda anni settanta.

Un calcio unico

Il calcio jugoslavo ha rappresentato un unicum, un’inedita combinazione di geometria e fantasia, un ordinato componimento da spartito intervallato da improvvise jam session. Un calcio pulito ed elegante, sofisticato e incostante, votato alle giocate di pregio e alla tecnica individuale, dalle trame ipnotiche e dalle fulminee verticalizzazioni, che ha dato spazio a straordinari quanto fragili solisti inquadrati in un’orchestra dai ritmi compassati e dall’insana abitudine allo sperpero. Un certo virtuosismo mitteleuropeo, che tracima in un lezioso senso di superiorità, si è fuso con l’estro malinconico e l’anarchia dissipatrice che caratterizzano il verace spirito balcanico.
Da questo connubio ha preso forma il futebol bailado d’Europa, e non è un caso, né solo il frutto di un’ironica e sfrontata emulazione, che gli stadi di Rio de Janeiro e Belgrado portino lo stesso nome. A questo intreccio di affinità elettive, due dettagli decisivi hanno distinto i campioni slavi dai loro cugini d’arte brasiliani. Il primo è condensato nel verbo nadmudrivati, di per sé intraducibile, che denota un “giocare con astuzia”, un prendere atto della supremazia naturale dell’avversario superandolo con furbizie e malizie degne dell’eroe omerico, e in cui però la pervicace volontà di rimirarsi può diventare il preludio di un’imminente quanto inevitabile disfatta. Il secondo è molto più semplice e attinge a un dizionario comprensibile a tutti: arrestarsi sempre a un passo dalla vittoria, trasformare l’epos in melodramma e inchinarsi così alla dura legge di Eupalla. Come se prima del salto finale verso l’Eden cedesse puntualmente la pedana; come se la genialità non potesse mai smarcarsi da amnesie e ingenuità.
È questa la chiave di lettura che offrono del calcio jugoslavo due recenti pubblicazioni, entrambe dai titoli emblematici: A un passo dal Paradiso. Il calcio slavo, gli artisti dei Balcani rivali della Storia di Fabrizio Tanzilli (Ultrasport, pp. 144, € 15,00)Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità di Paolo Carelli (Urbone Publishing, pp. 128, € 12,00). Due volumi agili quanto pregevoli, che puntano i riflettori su uno dei fenomeni sportivi più eclettici e interessanti del Novecento.
Il libro di Tanzilli è una puntuale ricognizione storica sul movimento calcistico jugoslavo con particolare attenzione alle vicende della Nazionale e alle due società che di questo movimento hanno lasciato traccia indelebile sulla scena internazionale, il Partizan e la Stella Rossa. Il saggio di Carelli, invece, si sofferma maggiormente sulle vicende interne, sullo stretto legame tra i club più rappresentativi e le città di appartenenza (Spalato e l’Hajduk, Sarajevo divisa tra la borghese FK e il proletario Željezničar, e Belgrado tra il Partizan dell’Armata popolare e la Zvezda dei quartieri popolari, quindi Mostar e il Velež, Novi Sad e il Vojvodina ‑ Zagabria purtroppo non pervenuta), sui talenti duraturi ma anche su qualche bizzarra meteora, con contrappunti extra-sportivi che fanno da necessaria cornice storica e sociale.

Tra Kant e il "Maradona dei Balcani"

Ne emerge un quadro a tinte vivide, un tableau vivant di assi del pallone sacrificati non solo ai bilanci societari, ma a una vera e propria congiura degli eventi. Calciatori "incoscienti e pragmatici, lucidi avventurieri costretti a cambiare continuamente latitudine per rinnovare la propria missione", ma anche uomini-simbolo che hanno legato a doppio filo la propria carriera a una maglia, come le celebri Zvezdine zvezde (le Stelle della Stella), portabandiera della Stella Rossa, tra cui spiccano gli immortali Dragoslav “Šeki” Šekularac, Dragan Džajić e Dragan “Piksi” Stojković, il “Maradona dei Balcani”. Autentici artisti del pallone, per i quali Tanzilli scomoda addirittura Kant, chiamando in causa quel "libero gioco di intelletto e immaginazione produttiva" da cui ha origine il sentimento del bello. Interpreti fuori dai canoni abituali che duellano in punta di fioretto, anteponendo il genio alla forza bruta o all’esecuzione schematica, condannati però al ruolo di romantiche vittime di una Storia che maledettamente si ripete, di una perenne precarietà imposta da un destino crudelmente beffardo.
Va detto che per il calcio jugoslavo la Storia non ha inizio nel 1945, con l’avvento ufficiale del socialismo e del nuovo assetto federale dello stato, e con la nascita delle polisportive volute dal regime. Come raccontato da un recente film di successo, per la regia di Dragan Bjelogrlić, Montevideo, Bog te video (2010), già ai primi Campionati mondiali del 1930 in Uruguay, quella che da soltanto un anno può fregiarsi della denominazione di Jugoslavia, con appuntata sul petto l’ingombrante aquila bicipite dei Karadjordjević, dà del filo da torcere alle migliori formazioni. Una squadra sorprendente, un dream team che gioca con disarmante naturalezza e tra cui spicca Blagoje “Moša” Marjanović, attaccante del BSK Belgrado (antenata dell’odierna OFK) e futuro allenatore in Italia negli anni cinquanta. Un drappello di audaci che nonostante il boicottaggio dei croati (una storia che si ripeterà sessantun anni più tardi) riesce ad arrivare in semifinale contro i padroni di casa, sconfitto, più che dall’ambiente ostile e da un avversario di caratura non certo inferiore, da discutibili scelte arbitrali. Il terzo posto finale rimarrà il miglior risultato mai raggiunto dalla nazionale maggiore alle competizioni mondiali.

Sfida al Destino

Da quel momento in poi prende vita un sentimento tipico di chi sa di poter vincere ‑ ma anche perdere ‑ contro chiunque, e si culla nel narcisismo autoconsolatorio e languidamente vittimista di colui che si crede destinato a vestire i panni di "coprotagonista di una leggenda in corso d’opera", nonché perseguitato da sfortuna e altri fattori più genuinamente umani: il vero contendente comincia a essere il Destino, che riserva ogni volta l’avversario sbagliato al momento sbagliato nel posto sbagliato. La Svezia del mitico tridente Gre-No-Li alle Olimpiadi di Londra del 1948, i brasiliani al Mondiale del 1950, spensierati e ignari di ciò che li attenderà di lì a poco nel celebre maracanaço. O ancora la gloriosa Aranycsapat guidata da Gustav Sebes ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952: i plavi resisteranno oltre settanta minuti, prima che Ferenc Puskás e Zoltán Czibor pongano fine al sogno. La Jugoslavia arriva sempre e immancabilmente seconda, dopo cavalcate irresistibili e avversari spazzati via con disinvoltura e sfoggio di preziosismi. È il mito di Davide contro Golia con il finale rinviato a data da destinarsi. Un mito che si nutre di un capitolo speciale, quello delle sfide contro l’Unione Sovietica, che si ammantano di inevitabili significati extra-calcistici e si portano dietro la rottura tra Tito e Stalin, l’uscita della Jugoslavia dal Cominform e l’orgogliosa e coraggiosa scelta dell’Autogestione interna e del non allineamento in politica estera. Partite sentitissime e combattutissime (indimenticabile il 5-5 di Tampere nel 1952), con il consueto epilogo su cui, da un certo momento in poi, distende inevitabilmente la sua ombra il Ragno Nero, al secolo Lev Jašin.
Gli anni d’oro del calcio nazionale jugoslavo sono senz’altro i cinquanta e i sessanta. Sono gli anni di Rajko Mitić e Stjepan Bobek, di Miloš Milutinović e dell’indimenticato “filosofo” Vujadin Boškov, di Milan Galić e di un Partizan che arriva a disputare la finale della prima edizione della Coppa dei Campioni contro il Real Madrid (anno 1966, anche qui il solito refrain). Il sipario si chiude a Roma nel 1968, quando il Destino prenderà le sembianze di Riva e Anastasi nella ripetizione della finale dell’Europeo. Nel primo round, finito in pareggio, la Jugoslavia domina in lungo e in largo, va in vantaggio con l’ala sinistra Džajić e sfiorano più volte il colpo del ko, raggelando il pubblico dell’Olimpico nonostante la torrida serata di giugno, prima di essere raggiunti nel finale da una punizione (assai dubbia) di Domenghini: la solita esuberanza priva di sostanza, la solita recidiva irresolutezza, la solita apoteosi soltanto accarezzata. I settanta saranno anni di evanescenza e scarsi risultati.

Calcio su, Jugoslavia giù

La analisi di Tanzilli e Carelli sembrano confluire su una tesi difficilmente confutabile, per quanto in apparenza paradossale. Il vero boom del calcio jugoslavo coincide con il lento dissolversi della Repubblica federale e del suo tessuto istituzionale, minato all’interno dalla crisi economica e dal risorgere dei nazionalismi. Già nel 1979, un anno prima della morte di Tito, la Stella Rossa raggiunge la finale di UEFA, sconfitta, manco a dirlo, dal Borussia Moenchengladbach. Da lì in poi sarà un progressivo salire alla ribalta nazionale e internazionale di talentuosi virgulti del pallone, ma anche dei primi rigurgiti separatisti, che troveranno negli spalti degli stadi una potente cassa di risonanza e un corredo simbolico in grado di modellare il nuovo immaginario collettivo. Il linguaggio delle cronache sportive, circonfuso di retorica neorevanscista e palesemente ancillare a ben più strategici piani di manipolazione delle masse, fa il resto: le tifoserie organizzate diventano l’avanguardia della disgregazione politica, prima di trasformarsi, all’apice del tracollo, in luoghi di reclutamento per milizie paramilitari e di selezione di fresca carne da cannone. Illuminante su questo tema è la raccolta di saggi dell’antropologo belgradese Ivan Čolović dal titolo Campo di calcio, campo di battaglia (traduzione di Silvio Ferrari, Mesogea 1999), cui fa da aggiornamento il recente Dio, Calcio e Milizia. Il Comandante Arkan, le curve da stadio e la guerra in Jugoslavia di Diego Mariottini (Bradipo Libri, 2015, pp. 184).
Di questo fenomeno sempre meno strisciante il pubblico italiano fa conoscenza diretta il 31 marzo 1988. Allo stadio Poljud di Spalato va in scena l’amichevole Jugoslavia-Italia, trasmessa in diretta senza la consueta telecronaca per uno sciopero dei cronisti sportivi Rai (ce ne fossero più spesso oggigiorno...). Ebbene, i fischi assordanti dei tifosi di casa non sono rivolti agli avversari, ma ai giocatori serbi ogniqualvolta entrano in possesso del pallone. Preludio di un altro, chiarissimo sintomo dell’incombente dissoluzione, che si palesa agli occhi degli italiani nell’esordio della Jugoslavia ai Campionati mondiali del 1990 contro la corazzata Germania Ovest. Un mese prima, il 13 maggio, il Maksimir di Zagabria è stato teatro di cruenti scontri tra tifosi serbi della Stella Rossa e croati della Dinamo, preambolo di altri scontri, stavolta armati, che avranno luogo un anno più tardi in Slavonia. San Siro è gremito in ogni ordine di posto e nonostante il dinaro ipersvalutato nutritissima è la rappresentanza jugoslava sugli spalti. Sono presenti i maggiori gruppi organizzati (la Torcida dell’Hajduk, i Bad Blue Boys di Zagabria, l’Horde Zla di Sarajevo, i Delije belgradesi e altri), ciascuno con il proprio striscione e ciascuno con i vessilli jugoslavi (forse in un ultimo, contraddittorio sussulto di Fratellanza e Unità), ma separati chirurgicamente e distribuiti a chiazza di leopardo.

Ultimo capitolo

E qui si apre il capitolo conclusivo di questa gloriosa e mesta storia, fatalmente ostaggio dell’inesorabile gioco delle possibilità negate, così diffuso al di là dell’Adriatico. L’ipotetica dell’irrealtà si nutre al solito della scontata domanda inevasa: che cosa sarebbe potuto accadere se...? Già, cosa sarebbe potuto accadere se Faruk Hadžibegić, roccioso difensore bosniaco, avesse insaccato l’ultimo rigore contro l’Argentina, anziché gettare il pallone tra le braccia di Goycochea? Cosa sarebbe successo se quella compatta e armonica Nazionale ("molto migliore del paese che rappresentava" affermò più tardi il tecnico Ivica Osim) avesse proseguito il cammino nei Mondiali italiani, raggiungendo magari la finale? "Le cose nel nostro paese sarebbero andate diversamente" giurano alcuni; "saremmo comunque arrivati secondi", chiosano altri con un sorriso amaro. E se a quella generazione irripetibile di fuoriclasse ‑ laureatisi, giovanissimi, campioni mondiali Under 20 in Cile nel 1988 ‑ fosse stato concesso il futuro che si meritava? Se il Destino non avesse disperso in mille rivoli un patrimonio di inventiva e di intelligenza calcistica? Se, insomma, ai Boban, Prosinečki, Šuker, Boksić, che spinsero la Croazia fino all’incredibile terzo posto al torneo mondiale del 1998, si fossero potuti affiancare gli Stojković, Savicević, Mihajlović, Mijatović? E se provassimo a stilare una formazione jugoslava oggi, alla vigilia degli Europei in Francia, mescolando calciatori serbi, croati, sloveni e bosniaci? "Saremmo diventati – o diventeremmo ‑ finalmente, e a pieno titolo, il Brasile d’Europa" scommettono (quasi) tutti.
La realtà, si sa, è un cimitero di sogni, una fabbrica di nostalgie; pone un solido argine alle sterili fantasie e alle iperboli dell’immaginazione, le relega nell’alveo dell’illusione. Ma la realtà dice che il 29 maggio 1991 la mitobiografia di una nazione ebbe il suo congruo epilogo, che Davide riuscì finalmente a uccidere Golia. Quel giorno, a Bari, la Stella Rossa salì sul tetto d’Europa e vinse la sua prima e sinora unica Coppa dei Campioni. Un mese più tardi il pallone venne schiacciato dai cingolati e quelle emozioni uniche e irripetibili che solo "il gioco senza fine bello" sa regalare furono barbaramente soffocate. Ma questa è un’altra storia. Una brutta storia.


2 Commenti

Marko • 12 giorni fa
Bell'articolo. Va ricordato per completezza la vicenda degli europei 92 in cui la Jugoslavija si classificò prima nel suo girone, ma in seguito delle sanzioni ONU fu estromessa e fu richiamata la seconda del girone, la Danimarca che vinse gli europei; certo nel calcio 2+2 non fa sempre 4 (la nazionale che vi avrebbe partecipato sarebbe stata orfana dei croati e forse anche di bosniaci) ma chissà ci piace pensare che...
Giusto menzionare Stojkovic, giocatore che ha seminato molto e raccolto poco (basti pensare che nella finale di Bari 91 lui giocava dall'altra parte!). A Italia 90 ricordo bene, almeno per la mia esperienza, noi serbi tifavamo tutta la squadra e non solo per in nostri, come si diceva allora.

Franco Balestrieriopinionista • 14 giorni fa
NEL 1976 LA JUGOSLAVIA PER TROPPA PRESUNZIONE BUTTò AL VENTO GLI EUROPEI CASALINGHI.


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Il Kosovo entra nell'Uefa: sconfitta la Serbia

Con 28 voti a favore e 24 contrari, la Federcalcio kosovara (FFK) entra ufficialmente a far parte della Confederazione calcistica europea. La nazione balcanica spera ora nel sì della Fifa, per poter partecipare alle qualificazioni a Russia 2018



03 maggio 2016

BUDAPEST - Anche il Kosovo entra ufficialmente a far parte dell'Uefa: a deciderlo è stato il 40/o Congresso Ordinario, riunitosi a Budapest. Il nuvoo ingresso è stato deciso con maggioranza semplice, ricevendo 28 voti a favore e 24 contrari (due i voti non validi), con la Serbia a guidare il fronte del 'no' contro la sua ex provincia. Tra le Nazioni Unite, 111 su 193 paesi hanno già riconosciuto lo stato kosovaro, Italia compresa.

IL KOSOVO ORA ASPETTA LA FIFA - La FFK, la Federcalcio kosovara, è il 55/o membro della Confederazione che sovrintende al calcio europeo e segue Gibiliterra, ultima accolta in seno all'Uefa, nel 2013. Adesso il Kosovo spera in un provvedimento analogo da parte della Fifa, in modo da debuttare ufficialmente in occasione delle qualificazioni ai Mondiali di Russia, già nel prossimo settembre.



Anche la Fifa dice sì al Kosovo, la Serbia ricorre al Tas

Il congresso della Federazione internazionale calcistica ha approvato con 141 voti favorevoli e 23 contrari l'ingresso tra gli stati membri del Paese balcanico. Indignato il ministro serbo Vanja Udovicic: "Decisione che avrà conseguenza imprevedibili". Riconosciuta anche Gibilterra



14 maggio 2016

CITTA' DEL MESSICO - Dopo l'Uefa anche la Fifa dà il proprio placet. Il Kosovo è diventato il 210/o Paese membro della Fifa, decisione accolta con sdegno e rabbia in Serbia, che a sua volta ha già annunciato di ricorrere al Tribunale per l'arbitrato dello sport, a Losanna. Belgrado, appoggiata da Russia e Cina e in compagnia anche di cinque Paesi Ue (Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro), non riconosce l'indipendenza proclamata unilateralmente dalla sua ex provincia il 17 febbraio 2008 e si oppone all'adesione di Pristina a organizzazioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Ma con 141 voti a 23, il congresso della Federazione internazionale calcistica a Città del Messico ha detto sì all'ingresso del Kosovo.
LO SDEGNO DELLA SERBIA - All'esultanza della dirigenza kosovara, che ha parlato di "giornata storica" per il giovane Paese balcanico, ha fatto eco la dura protesta della Serbia, che ha denunciato una sfacciata ingerenza della politica nello sport. Il ministro serbo Vanja Udovicic ha detto che questa
decisione, di natura "politica", rappresenta una "sconfitta per il calcio" e potrà avere "conseguenze imprevedibili". "Come reagiranno i Paesi che non riconoscono il Kosovo? Come si organizzeranno gli incontri, con quale protocollo e contrassegni distintivi?", si è chiesto Udovicic. Il Kosovo, intanto, potrà partecipare alle qualificazioni per i Mondiali del 2018 in Russia, così come Gibilterra anch'essa ammessa dalla Fifa.






Sul radicalismo islamico armato, fomentato da un quarto di secolo in Bosnia e nel resto dei Balcani per gli interessi della NATO, si veda anche la nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/documentazione/bih.htm

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Jean Toschi Marazzani Visconti

LA PORTA D'INGRESSO DELL'ISLAM
Bosnia Erzegovina: un Paese ingovernabile

prefazione di Paolo Borgognone, postfazione di Manlio Dinucci
Frankfurt: Zambon, 2016
Formato: 14x20,5 cm – 240 pagine – 18,00 € – ISBN 978 88 98582 32 7
zambon@...www.zambon.net

Il 14 dicembre 2015 compiva vent’anni il Trattato di Dayton, firmato a Parigi nel 1995 alla presenza dei massimi rappresentanti delle potenze occidentali. L’accordo metteva così fine a tre anni e mezzo di feroce guerra civile in Bosnia-Erzegovina. L’amministrazione Clinton considerava un grande successo aver fermato il conflitto e creato una nazione composta di tre etnie divise in due entità: la Federazione Croata - musulmana e la Republika Srpska. Però aveva distrutto il multiculturalismo in favore del nazionalismo. 
Oggi la Bosnia Erzegovina è nello stesso stato d’allora, congelata dalla costituzione imposta a Dayton, in uno stato di caos contenuto e di odio. Nel corso degli anni si sono alternati Alti Commissari europei al controllo del paese, ma anche altre nazioni sono intervenute nel delicato equilibrio. La Turchia ha una forte presenza. Ricchi finanziamenti giungono da Iran e Arabia Saudita per costruire moschee e scuole islamiche. Dalle parole di diversi protagonisti della politica locale e internazionale intervistati in queste pagine esce un'imbarazzante realtà.
Un’importante geopolitico francese, il Generale Pierre Marie Gallois, esaminando nel 1997 la politica statunitense in Bosnia-Erzegovina, aveva commentato che era stata aperta all’Islam la porta d’Europa, un paese a tre ore e mezzo d’autostrada da Trieste.

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LA PORTA D’INGRESSO DELL’ISLAM

Recensione al libro edito da Zambon e scritto da Jean Toschi Marazzani Visconti
di David Lifodi
La porta d’ingresso dell’Islam, il libro edito da Zambon e scritto da Jean Toschi Marazzani Visconti (già collaboratrice del manifesto e della rivista di geopolitica Limes), è assai esplicito fin dal suo sottotitolo: Bosnia Erzegovina: un paese ingovernabile. È infatti dalla Bosnia, definito più volte come uno stato artificiale, che è partito un altissimo numero di combattenti arruolati sotto le bandiere nere dell’Isis e, sempre in Bosnia, sono in crescita villaggi trasformatisi in una sorta di comuni dove si vive secondo i più rigidi dettami islamici.
Il viaggio dell’autrice nella polveriera balcanica, caratterizzato da dati, interviste ai principali protagonisti della politica nei territori della ex Jugoslavia e approfondimenti legati al ruolo della Nato, degli Stati Uniti e dell’Occidente nello sfaldamento di quello che una volta era un unico paese multietnico, parte dalla distruzione della Bosnia Erzegovina e della Federazione jugoslava per far posto all’Islam politico. Jean Toschi Marazzani Visconti indica nella nascita di partiti nazionalisti in funzione secessionista anti-jugoslava prima e anti-serba poi lo sgretolamento della Jugoslavia. La tesi esposta nel libro è supportata dalla prefazione di Paolo Borgognone, che evidenzia come gli Stati Uniti avessero elaborato un piano per lo smantellamento politico, economico e sociale della Jugoslavia fin dal 1982, all’epoca della presidenza Reagan. Gli Stati Uniti, e lo stesso Occidente pro-atlantista, prima lavorarono per disgregare la Jugoslavia e poi favorirono la nascita di stati indipendenti incentrati sul più estremo nazionalismo, ad esempio riuscendo a rinverdire quella Grande Croazia indipendente di Ante Pavelić costituita dai nazisti nel 1941. In questo contesto, gli Stati Uniti riconoscevano la Bosnia-Erzegovina allo scopo di trasformarla in protettorato occidentale, nota ancora Borgognone nella prefazione, favorendo così le mire di Alija Izetbegović per la nascita di uno stato musulmano. Sono queste le premesse da cui deriva la penetrazione islamista nei Balcani, rafforzata, secondo il geopolitico serbo Dragoš Kalajić, dal desiderio di Washington di creare una rete di stati islamici dal Golfo Persico al Mar Adriatico in funzione antislava e antirussa. Di conseguenza, spiega Jean Toschi Marazzani Visconti, “non si può parlare di Bosnia Erzegovina senza considerare la storia della nascita e fine della Federazione delle Repubbliche Socialiste di Jugoslavia”. La nuova Federazione jugoslava, composta esclusivamente da Serbia e Montenegro a seguito del dissolvimento (pilotato da Stati Uniti e Occidente) della Jugoslavia socialista, sperava comunque di salvare la Jugoslavia in qualità di confederazione di stati, ma la Dichiarazione islamica di Alija  Izetbegović, che auspicava appunto una “grande Federazione islamica dal Marocco all’Indonesia”, faceva capire quale avrebbe dovuto essere il futuro della Bosnia Erzegovina. “La sua dichiarazione”, osserva Jean Toschi Marazzani Visconti, “alla luce dei programmi del Califfato, assume il valore di una profezia o di un piano prestabilito in corso di attuazione”. Oggi la Bosnia Erzegovina, la cui configurazione attuale deriva dai controversi accordi di Dayton (1995), è suddivisa nella Republika Srpska (ad ampia maggioranza serba) e nella Federazione di Bosnia Erzegovina, a prevalenza musulmana. È proprio qui, secondo l’autrice, che nei cantoni della Federazione a prevalenza musulmana, si registrano cospicue infiltrazioni islamiche soprattutto attraverso le ong, secondo quanto testimonia Giorgio Blais, generale degli Alpini in congedo  e direttore del Centro regionale di Banja Luka  nella missione Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Intervistato da Jean Toschi Marazzani Visconti, il generale precisa: “Le ong disponevano di cospicui finanziamenti e sostenevano la ricostruzione delle moschee distrutte  durante la guerra e la costruzione di madrase, le scuole islamiche per l’insegnamento del Corano. Prima del mio arrivo in Bosnia, sotto la copertura di ong, veniva effettuata attività di reclutamento e addestramento per terroristi. Mentre l’addestramento non viene più praticato, non posso escludere che il reclutamento venga ancora effettuato”. Tutti gli attori sociali e politici intervistati dall’autrice, compresi i rappresentanti delle principali religioni, concordano su un aspetto, quello della convivenza pacifica, prima dello scoppio della guerra civile. Sono indicative, a questo proposito, le parole del vescovo cattolico Franjo Komarca. “Questa non è stata una guerra domestica, ma voluta a livello internazionale. Era il seguito della prima e della seconda guerra mondiale fra Oriente e Occidente. Le popolazioni hanno subito. Tutto è stato deciso a Washington, Bruxelles e Bonn. Quest’area è stata selezionata come poligono per una sporchissima operazione”. Komarca insiste: “La Bosnia Erzegovina è un semi protettorato. Gli amministratori sembrano avere tutti i diritti, ma non i doveri”. Del resto, nelle tante interviste raccolte da  Jean Toschi Marazzani Visconti, ricorrono le dichiarazioni in cui si accusa l’Occidente di aver distrutto quella coesistenza e quella fratellanza tra le etnie che si era creata durante l’epoca della Jugoslavia socialista.
Il viaggio dell’autrice in Bosnia Erzegovina è all’insegna del disincanto. Rispetto a venti anni fa, all’epoca della guerra civile, le strade non sono più coperte di bossoli e pallottole, la maggior parte dei ponti e dei palazzi non è sbrecciata o distrutta, ma, spiega  Jean Toschi Marazzani Visconti, basta parlare con le persone per capire che la normalità è solo apparente, il rancore è tangibile e che ci sono degli abissi tra gli abitanti del paese nonostante si possa passare senza problemi da un territorio all’altro. Fino ad ora non è stata promossa alcuna politica pacificatrice né è stato fatto niente per ricostruire una cultura multietnica: “C’è la pace”, conclude l’autrice, “ma non nella popolazione, dalla scenografia elegiaca del paese potrebbero scaturire nuovamente, per una sciocchezza qualsiasi, l’odio e la rabbia che covano”.