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Clericofascismo

1) La "giustizia" croata riabilita Stepinac / 
2) Dubravka Ugrešić: una Croazia sul modello fascista / Hrvatska po modelu NDH


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La "giustizia" croata riabilita Stepinac

Sullo stesso tema si vedano anche:
STRALCI DEL PROCESSO ALL'ARCIVESCOVO CROATO ALOJZIJE STEPINAC svoltosi a Zagabria dal 30 settembre al 3 ottobre 1946
Stepinac i Jasenovac 
Operazione Stepinac 
La nostra pagina su Stepinac e la storia del clericofascismo croato

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Con una decisione talmente rapida da lasciare "sorpreso" persino il ricorrente (il nipote di Stepinac – parole sue!), la magistratura croata ha annullato il verdetto del 1946 contro Alojizije Stepinac.
Stepinac, l' "arcivescovo del genocidio", di fatto cappellano militare del movimento fascista e genocida croato degli "ustascia".

Già al termine della Guerra di Liberazione, Tito aveva chiesto al Vaticano che si riprendessero l'arcivescovo perchè diversamente sarebbe stato processato. Il Vaticano rispose... promuovendolo a cardinale.
L' arroganza di Stepinac al processo cui fu sottoposto si può evincere dalla lettura della nostra traduzione in italiano di alcuni stralci:
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Fonti / Izvori:

Poništena presuda Stepincu. Despot: Treba ukinuti sve montirane komunističke presude (22.7.2016)

Nikolić o poništenju presude Stepincu: 'Hrvatska zatrpava jamе u kojе su ustašе zakopavalе Srbе' (22.7.2016)
Nikolić je naveo kako je stav o ulozi Stepinca u II. svjetskom ratu "prenio Papi u direktnom razgovoru prilikom posjete Vatikanu"...

Vučić o poništenju presude Stepincu: Srbija će uvijek biti na strani antifašizma (23.7.2016)
Vučić je rekao da "nijednom teškom rječju" nije želio govoriti o poništenju presude Stepincu, ali da ga je "sram od neznanja" koje o povijesti pokazuju neki ljudi i u Srbiji...
CROATIE : LA JUSTICE ANNULE LE VERDICT DE 1946 CONTRE LE CARDINAL STEPINAC
Courrier des Balkans | De notre correspondante à Zagreb | samedi 23 juillet 2016
Le tribunal de Zagreb a annulé le verdict de 1946 contre le cardinal Alojzije Stepinac (1898-1960). Une décision qui relance la polémique entre la Serbie et la Croatie sur cette figure controversée, reconnue coupable par la gouvernement communiste de Tito de collaboration avec le régime fasciste des Oustachis, pendant la Seconde Guerre mondiale, mais néanmoins béatifiée en 1998 par Jean-Paul II...

L'Europe et le révisionnisme historique de la Croatie (Daniel Salvatore Schiffer, 25.7.2016)
Quand l'Union Européenne aura-t-elle donc le courage moral, à défaut de lucidité politique, de reconnaître, tout en la condamnant, l’actuelle et dangereuse dérive négationniste de l'un de ses pays membres, la Croatie, aujourd'hui confrontée, une fois encore, à ses démons nationalistes ? ...

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Реаговање

ВРЕМЕ ДА РАЗУМ ПРЕВЛАДА

Из главног града Хрватске стигла је вест да је надлежни суд у Загребу правно ослободио кривице Алојзија Степинца.

Кардинал Католичке цркве осуђен је 1946.године у том истом Загребу од правосудних органа тадашње Југославије, после процеса и извођењем доказа, на вишегодишњу затворску казну због активног суделовања са властима колаборантске усташке фашистичке НДХ и сарадње са немачким и италијанским окупаторским јединицама. Установљена су и многа недeла према српском, јеврејском и другом становништву. Казну је издржавао у огромном самостану у Марији Бистрици, у условима на које, саопштавано је, није могао да се пожали.

О Степинцу су почетком деведесетих прошлог века, по отцепљењу од заједничке државе и у оквиру нових прогона, посланици туђмановске већинске странке донели декларацију којом поништавају правоснажну казну кардиналу, али се сада правосудна власт, после толико година, осмелила да и судском одлуком потврди оно што је већ једном политички наречено.

Недавно је и католички врх у Хрватској покренуо поступак да Ватикан прогласи Степинца за свеца. Папа Франциско је, у неку руку, прихватио противљење Српске православне цркве, па је пре неколико дана, у Риму, одржан и састанак ”мешовите комисије” која ће се изјаснити да ли, у историјском смислу, има могућности да активни учесник Другог светског рата, на страни поражених фашиста, може да буде удостојен врхунског признања једне вере.

СУБНОР Србије и овим поводом указује, као у низу задњих година, да се у свету, посебно у Европи, па и у нашем региону и међу нама, групишу ретроградни појединци и покрети и величањем поражених идеологија поново прете човечанству.

Одговарајући на питање једне београдске редакције, Председништво СУБНОР-а Србије је нагласило:
”Одлука судских органа је још један доказ да се на драстичан начин извитоперује часна борба у Другом светском рату. Католички кардинал је несумњиво био на страни фашистичке власти и истицао се, са својим клером, у покрштавању и страдању народа друге вере.

Одлука је чудна и, посебно, неприхватљива што је доноси правосуђе државе чланице Европске уније”.

Ово је опасан и забрињавајући још један потез. Нови немир у и онако нападнутом човечанству ратовима, наметнутим револуцијма, погромима, економским изнуђивањем, рекама несрећника које општа беда и усмеривачи терају далеко од домова.

СУБНОР Србије са својих преко 130.000 чланова апелује на све људе добре воље и намера да допринесу општој стабилности.

Крајње је време да разум превлада у свакој средини.


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ORIG.: Dubravka Ugrešić: Hrvatska po modelu NDH (Dragan Grozdanić, Novosti, 13.6.2016)
Kultura i obrazovanje bili su od 1991. jasan politički projekt koji se uspio implementirati uz blagoslov velikog broja ljudi, edukatora prije svega. Baš kao što su etabliranjem hrvatske države reetablirani endehazijski simboli, poput kune, zastave i državnog grba, tako je reetabliran i endehazijski koncept nacionalne kulture...



Dubravka Ugrešić: una Croazia sul modello fascista

La nota scrittrice, da anni residente ad Amsterdam, in questa intervista parla dello stato della cultura in Croazia e i cambiamenti che si sono verificati nel suo paese d'origine negli ultimi venticinque anni

28/06/2016 -  Dragan Grozdanić

(Originariamente pubblicato da Novosti  , il 13 giugno 2016. Titolo originale: Dubravka Ugrešić: Hrvatska po modelu NDH  )

Dubravka Ugrešić, che nei primi anni Novanta lasciò la Croazia su pressioni nazionaliste, recentemente si è trovata tra gli autori bollati dall’associazione U ime obitelji (Nel nome della famiglia) come inadatti ad essere studiati nelle scuole croate. Prendendo spunto da questa vicenda, abbiamo interpellato la scrittrice che dalla sua dimora di Amsterdam segue attentamente quanto avviene in Croazia, commentando il posto (non) riservatole nella cultura croata, le recenti manifestazioni contro gli ostacoli frapposti alla riforma curriculare, il persistere della crisi politica nonché del revisionismo storico...

Come ha vissuto la recente manifestazione di massa a sostegno della riforma curriculare?

L’ho seguita con grande entusiasmo. Penso che il sistema educativo croato, così come è oggi, soprattutto per quanto riguarda l’ambito umanistico, la storia, la lingua e letteratura nazionale nonché l’introduzione dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, sia uno dei più grandi crimini commessi da queste parti negli ultimi venticinque anni, dalle conseguenze inimmaginabili per l’intera jugosfera. Non voglio fare la guastafeste, ma la recente massiccia manifestazione a favore della riforma curriculare suscita comunque qualche interrogativo. Come mai i cosiddetti kulturnjaci (esponenti del mondo culturale) croati, mi riferisco qui a quelli di una certa età, in vent’anni non sono riusciti a stendere un rapporto minimamente critico nei confronti del sistema educativo? Come mai coloro che si occupano di educazione non sono stati capaci di offrire una seria analisi critica del sistema scolastico – perché, dopotutto, in gioco c'era anche l’educazione dei loro figli? La cultura e l’istruzione croata sono il risultato di un autocratico progetto ipernazionalista, esattamente come lo è lo stesso stato croato. La realizzazione di questo progetto, iniziata nel 1991, è stata portata avanti grazie alla partecipazione e all’appoggio di molti: insegnanti, genitori, ministero della Cultura e ministri che vi si sono succeduti, varie accademie e i loro accademici, media, editori, intellettuali e letterati. Cultura e istruzione sono percepite, fin dal 1991, come un chiaro progetto politico che si è riusciti ad implementare grazie al sostegno di tanti, in primis gli insegnanti. Gli esperti avrebbero potuto rendersi conto che questo progetto culturale ed educativo era per molti aspetti ispirato all’ideologia dell’NDH [Stato Indipendente di Croazia  , ndt]. Esattamente come con l’instaurazione dello stato croato fu reinstaurata la simbologia dell’NDH, compresi la valuta, la bandiera e lo stemma nazionale, così venne riattualizzato anche il concetto di cultura nazionale partorito dal regime ustascia. Così la croatizzazione della lingua croata, ossia la sua purificazione dagli elementi spazzatura (serbismi e jugoslavismi), divenne una delle componenti principali di questo pacchetto culturale ipernazionalista, basato su una visione della cultura come intreccio di folklore, tradizione e cattolicesimo. Ed è per questo, e per molte altre questioni che potrebbe trascinare con sé, che questa riforma va assolutamente sostenuta.

Sono dovuti passare più di vent’anni perché anche lei ottenesse la possibilità di essere formalmente presente nella cultura croata, essendo stata inclusa nell’elenco di autori che fanno parte della proposta del nuovo curriculum di lingua croata. Alcuni “patrioti” ultraconservatori, come Željka Markić, hanno già reagito in merito, chiedendo che certe opere, comprese le sue, vengano escluse dall’elenco proposto in quanto inquinerebbero la mente dei giovani con temi quali sessualità, perversione, pedofilia, vampirismo...

Dopo tanti anni a qualcuno è venuta l’idea di includere anche un mio romanzo nell’elenco delle letture per gli studenti liceali, ed è logico che si sia alzata una voce di protesta, che proviene per l’appunto dall’associazione Nel nome della famiglia. Ho seguito le reazioni all’articolo che riportava la notizia di suddetta iniziativa. Tra i circa duecento commenti prevalevano infatti quelli ingiuriosi nei confronti dell’aspetto fisico di Željka Markić, mentre il mio nome non è stato citato nemmeno una volta, semplicemente perché nessuno dei commentatori ha la più pallida idea di chi io sia, così come non conoscono neppure i nomi di altri scrittori “croati”. Ma lasciamo da parte i commentatori. È mai apparsa sulla stampa una replica ben articolata in cui i proponenti del nuovo elenco delle letture per i liceali spiegano perché scrittrici e scrittori come Slavenka Drakulić, Zoran Ferić, Haruki Murakami ed io dovrebbero esservi inclusi? Molto articolato, invece, risulta l’impegno della summenzionata associazione, i cui esponenti ritengono che i libri di questi autori siano nocivi alla salute morale dei giovani. Insomma, grazie all’attivismo letterario di Željka Markić ho scoperto che nei miei libri vi è comunque del sesso, rimanendone piacevolmente sorpresa in quanto ero ormai pronta ad ammettere il contrario. La Markić è riuscita per un attimo a rivitalizzare la mia opera, restituendole il suo fascino (del tutto meritato!).

Sembra che la strategia originaria di costruzione di una nuova cultura croata, nota negli anni Novanta come “rinnovamento spirituale”, potrebbe giungere alla sua conclusione con l’attuale governo, la cui caduta, ormai imminente [il governo è caduto il 16 giugno, poco dopo la pubblicazione di questa intervista], costituirebbe quindi una circostanza potenzialmente propizia. In questo contesto, la stupisce ancora la sua (in)visibilità nella cultura croata?

No, per niente. Il milieu culturale croato mi ha ormai espulsa dalle proprie fila, ed è la soluzione migliore. Eppure speravo che, dopo venticinque anni di esilio, in patria non avrei più riscontrato difficoltà, almeno per quanto riguarda il mercato editoriale: le mie opere sono state pubblicate in Croazia su mia iniziativa, e non su quella degli editori croati. Perché mi umiliavo chiedendo che i miei libri venissero pubblicati? Lo facevo perché avevo la sensazione che in Croazia vi fossero dei lettori a cui sarebbe piaciuto avere in mano ogni mio nuovo libro. Ormai non ho più questa sensazione. Penso che lo sforzo congiunto dei kulturnjaci filo-ustascia abbia dato i suoi frutti. Perché se dopo venticinque anni di questa prassi miserabile i suoi esponenti non si sono ancora stancati, se il sindaco di Zara è riuscito a far rimuovere la targa in ricordo di Vladan Desnica, se le notizie di questo tipo non fanno che sfiorare le orecchie dei letterati croati senza suscitare quasi nessuna reazione, allora possiamo dire che il lavoro riguardante il rinnovamento spirituale croato è davvero concluso.

A dire il vero, i kulturnjaci croati all'opposizione  , quelli che si sono ribellati contro l'attuale ministro della Cultura Zlatko Hasanbegović, hanno mancato di precisare come egli sia in realtà il legittimo prodotto di una politica culturale che perdura ormai da venticinque anni e alla quale molti di loro, azzardatisi solo ora ad alzare la propria voce, hanno dato tacito appoggio. Perché senza questo chiarimento potrebbe sembrare che Hasanbegović sia approdato alla guida del ministero lanciandosi con il paracadute e che, una volta destituito, tutto si sistemerà, almeno per quanto riguarda i kulturnjaci. D'altro canto, non è corretto accusare qualcuno per questo vergognoso stato di cose: viviamo, dopotutto, in un tempo di flebili proteste.

Nella sua lettera aperta, scritta in reazione all'iniziativa di Željka Markić, lei si è autoesclusa dalla letteratura croata, annunciando che ricorrerà a vie legali nel caso il suo nome comparisse di nuovo in qualsiasi elenco dei testi scolastici. Ma non sa che in Croazia i procedimenti giudiziari si protraggono per anni, diventando mentalmente e fisicamente estenuanti?

Ha ragione, sono stata un po' affrettata. Sapendo come funziona la giustizia croata, probabilmente avrei perso il processo. Ho comunque le mie buone ragioni per chiedere di essere esclusa da ogni curriculum: la prima riguarda la pesantezza del “materiale“, del tutto aspettata e comprensibile. Al pari di alcuni altri analisti della quotidianità post-jugoslava, anch'io ho una biografia parallela, che non scriverò mai perché ne uscirebbe un affaticante e illeggibile libro di lamentele. Questa mia biografia alternativa o “patriottica“ comprenderebbe gli insulti rivoltimi dai “connazionali“, che vanno dallo sputare volgarità su di me alle bizzarre minacce di stampo “patriottico“; la mia esclusione violenta dalla letteratura croata e l'inclusione forzata nella stessa; molestie, mobbing e cyberstalking, compresi il sabotaggio di molti eventi letterari a cui partecipo all'estero (i “connazionali“ vengono alla mia serata letteraria e si mettono a urlare) nonché gli scandali, non privi di attacchi verbali, che spesso accompagnano le mie apparizioni pubbliche. Se decidessi di rendere pubblico tutto l'odio che mi è stato sputato addosso sulla stampa, sul web e nei libri, ne uscirebbe un volume ipertossico. In questo contesto, non ho nulla contro Željka Markić: lei è una delle rare persone che credono che la letteratura possa cambiare la gente. Inoltre, con l'abbattimento del principio di professionalità, eseguito da Franjo Tuđman che premiava le persone che gli stavano intorno non per le loro competenze bensì per la lealtà dimostrata nei suoi confronti, creando così una struttura statale di stampo mafioso, e con il passaggio emancipatorio alla nuova era digitale, oggigiorno la maggior parte della gente è convinta di poter fare qualunque cosa. Così, persone senza alcuna abilità musicale ci stancano con le loro esibizioni vocali, quelle senza alcun talento letterario con i loro romanzi, i politici senza credibilità con le loro promesse, e i dottori senza dottorato con i loro “saperi“. Ma siccome anche noi – consumatori, ascoltatori, spettatori, lettori – col tempo ci siamo storditi e istupiditi, non siamo più capaci di riconoscere sfumature e differenze.

Già che abbiamo menzionato Zlatko Hasanbegović, la petizione con cui si chiede la sua rimozione dalla carica di ministro è stata sottoscritta da circa cinquecento intellettuali europei, tra cui lo scrittore, filosofo e saggista francese Alain Finkielkraut, che negli anni Novanta fu molto attivo nel promuovere l'indipendenza croata. A suscitare l'indignazione del mondo intellettuale sono state alcune dichiarazioni di Hasanbegović, noto per le sue posizioni revisioniste rispetto alla recente storia croata.

In una regione così politicamente sismica come quella balcanica non possono certo mancare i personaggi volubili. Di questo tipo di persone di vedute camaleontiche scrisse ingegnosamente Czeszlaw Milosz ne “La mente prigioniera“. Homo sovieticus, uomo con "le dita incrociate di nascosto" [ipocrita, ndt], così veniva chiamato il tipico cittadino dell'Urss. Alcuni nostri contemporanei, ovviamente generalizzando, paragonano l'uomo di oggi ai mangiatori di loto (dell'Odissea), un popolo immerso nell'auto-oblio. Come ogni giapponese sa cosa deve fare quando sente tremare la terra, così anche ogni croato sa quando riposizionarsi politicamente. È quel tipo di gente che quando parla usa sempre “sì, ma...“, riservandosi così la possibilità di prendere le distanze. Queste persone sanno bene che, nel caso non riuscissero a riposizionarsi, rimarranno fuori gioco. E rimanere fuori gioco in Croazia, paese strutturato sul modello mafioso, equivale alla pena di morte. La gente non vede nulla di vergognoso nel riposizionarsi costantemente, anzi. Si tende a dimenticare troppo in fretta, si apprezza la scaltrezza piuttosto che la saldezza morale. In questo senso, Alain Finkielkraut, autore del libro Kako se može biti Hrvat (Come si può essere croati), è davvero diventato un croato.

Come commenta la dichiarazione di Ante Nazor, direttore del Centro di documentazione sulla Guerra patriottica, in cui ha espresso perplessità circa la decisione di intitolare uno dei temi contenuti nella proposta del nuovo curriculum di storia “La Seconda guerra mondiale in Jugoslavia“, invece che “Croati e Croazia nella Seconda guerra mondiale“? 

I giovani storici-militanti, quelli che hanno fatto propria la narrazione impostasi nel 1991, si sono dati il compito di procurare alla Croazia una Storia, laccatura del reale, fatta di eroismo, virilità, potenza. Percependo la cultura e la storia di un popolo come un museo militare, si sono apprestati a costruire e invadere le istituzioni. Tutto ciò non è che un logoro modello di cultura di stato, ormai privo di ogni significato, che servirà solo a succhiare soldi dalle casse statali, magari anche da quelle europee. Dopodiché, per evitare che gli investimenti si rivelino un fallimento, questi musei diventeranno meta di gite scolastiche, che verranno ricordate dagli studenti per l'orrore del sapere inutile, un freddo glaciale (conseguenza del mancato pagamento delle bollette del gas da parte del museo) e bagni sprovvisti di carta igienica. A meno che, ovviamente, i patrioti croati di mano generosa non decidano di sponsorizzare regolarmente i loro musei tramite fornitura di carta igienica.

In una occasione lei ha svelato un suo metodo, molto interessante, di analisi critica dello stato di salute della società croata. Ha ancora l'abitudine di prendere il tram su tratte lunghe per poter ascoltare cosa dice la gente?

Mi avvalgo di metodi antropologici, e l'antropologia, come ben noto, è la spia della vita. Anche le terme croate offrono la possibilità di ascoltare indisturbati le conversazioni altrui, come ho potuto recentemente accertarmi godendo dell'acqua calda di una piscina termale. I maschi, la cui maggior parte strategicamente posizionata intorno ai getti d'acqua in modo da bloccare il passaggio ad altri interessati, facevano girare le loro accese conversazioni intorno al glorioso 1991: chi di loro, a quel tempo, disse che cosa e a chi; cosa sarebbe dovuto essere fatto, ma non si fece. Tutto veniva ridotto alla constatazione che i serbi dovevano essere cacciati via più sistematicamente, giacché ci fu l'occasione. Con lo stesso entusiasmo, gli uomini chiacchieravano di cibo. Ho sentito di nuovo certe espressioni che avevo ormai dimenticato, come “Nessuna carne di pollame potrà mai competere con quella di maiale“, nonché la replica: “Vaffanculo al loro pesce con bietole! Che mi diano la pancetta, sono della Slavonia, cavolo!“. E mentre i maschi si erano focalizzati sul tema dell'allevamento di suini per la produzione della carne, oltre che sulla persecuzione dei serbi, realizzata male e a metà, le donne meditavano su temi più leggeri. “Ah, non c'è niente di più bello che mandare il cervello in vacanza“, ha detto una di loro. Quindi, piscine e tram. Raccomando questi ultimi, sono più economici. Oltre a ciò, se ne esce più facilmente.

Viviamo in tempi interessanti, per parafrasare una nota maledizione cinese. Come vede l'epilogo della crisi politica attraversata dalla Croazia?

Le rispondo con un vecchio aneddoto. Camminando nel bosco, Biancaneve incontrò tre nani. “Chi siete?“, chiese Biancaneve. “Siamo i sette nani“, risposero i nani. “Ma come sette, se siete in tre?!“, esclamò Biancaneve con stupore. “Eh, purtroppo ci manca gente!“, replicarono i nani.  

Eppure, “la gente“ non manca, solo che non vive necessariamente in Croazia. Simpatizzo molto con i giovani, ripongo tutta la fiducia nei giovani esperti. Lo scorso anno in Inghilterra, dove ero ospite di un dipartimento di storia, e quest'anno in Germania, ho avuto modo di incontrare diversi giovani laureati, o dottorandi, in materie storiche, di cui molti provenienti dalle repubbliche ex jugoslave. Penso che l'incessante produzione di menzogne e l'assenza non tanto di autorità professionali quanto di quelle morali a cui appoggiarsi – sia che si tratti di media, educatori, esperti o genitori – abbiano spinto i giovani ad attingere alle proprie forze. A loro sarà difficile vendere fumo, perché sono istruiti e non messi nella posizione di dover fare compromessi, almeno non ancora. Il comportamento compromissorio di genitori ed educatori ha innescato una forte resistenza da parte di molti giovani. Quelli che al momento suscitano più curiosità sono i giovani storici, oppositori di personaggi come Hasanbegović. Fare lo storico è diventato attraente. Il processo di defascistizzazione delle società post-jugoslave è nelle mani di persone giovani, istruite, irremovibili nei propri principi. Non ci si può aspettare dall'attuale establishment che avvii questo processo, sarebbe come aspettarsi che si castrino da soli.

Per quanto riguarda l'epilogo della crisi, sono perplessa. Ma siccome adoro gli happy endings, avanzo una modesta proposta. Propongo al governo croato di scrivere sommessamente una lettera a Warren Buffett, in cui spiegare come ha fatto a spolpare il proprio paese fino all'osso, tanto che non vi è rimasto più nulla, chiedendogli, ammettendo di essere in ginocchio, di prendere la Croazia gratis e di trasformarla in sua residenza estiva o in un resort, impiegando quattro milioni di croati come addetti ai servizi: cuochi, camerieri, maggiordomi, cameriere ai piani, dogsitter, potatori di rose, giardinieri, calliste... Non è affatto divertente, lo so, torniamo seri. La Croazia ha davvero toccato il fondo.







VERSO UN BAGNO DI SANGUE A KIEV


I media italiani e occidentali non riferiscono della partecipatissima processione religiosa – decine di migliaia di persone – che si tiene da giorni in direzione di Kiev: in questo modo essi garantiscono il compimento del prossimo bagno di sangue, che è stato promesso dai volontari nazisti russofobi e anti-ortodossi che sostengono il governo europeista ucraino.


Altre fonti e immagini:

UOC-MP organizes “religious peace march” from Donbas to Kyiv (6.7.2016.)

A Prayer for Peace in Ukraine (by HALYNA MOKRUSHYNA, JULY 15, 2016)

Украинские правозащитники пообещали, что участники крестного хода живыми из киева не уйдут (15-16.7.2016.)

В Житомире около 300-х боевиков радикальных организаций собираются остановить Крестный ход УПЦ МП (17.7.2016.)



Guerra nel Donbass: “dio lo vuole”!

di Fabrizio Poggi, 25 luglio 2016

Secondo i più recenti sondaggi condotti tra la popolazione ucraina, il 72% degli intervistati si dichiara “povero” e solamente lo 0,7% ritiene di far parte della “classe media”. Il PIL procapite è oggi inferiore a quello dell’Honduras o di Papua-Nuova Guinea. Ovviamente, ciò non tocca la “coscienza” dei golpisti che due anni fa hanno iniziato l’aggressione all’area più industriale del paese, con ciò sprofondando l’Ucraina in una crisi sociale che i dettami del FMI acuiscono di giorno in giorno. E non tocca nemmeno i ras dei battaglioni neonazisti, per i quali la guerra nel Donbass è anche un mezzo per riempirsi le tasche.

Contro quella guerra stanno avanzando verso Kiev (l’arrivo è previsto per il 27 luglio: data della cristianizzazione dell’antica Rus) due processioni: una da est – partita il 3 luglio dal monastero della Montagna santa, nella parte occidentale della regione di Donetsk controllata dalle truppe ucraine – e un’altra da ovest – partita il 9 luglio dal monastero di Počaev, circa 450 km a ovest di Kiev – di alcune migliaia di persone, per lo più donne, organizzate dalla chiesa ortodossa ucraina del cosiddetto patriarcato di Mosca.

Finora non si sono registrate aggressioni contro i due cortei religiosi, anche se in varie occasioni non è stato loro consentito di attraversare le città (ad esempio Žitomir, il 18 luglio) e i pellegrini hanno dovuto prendere vie laterali, oppure vari raggruppamenti dei nazionalisti dell’OUN hanno tentato di interrompere la marcia. Nel centro di Kharkov invece, il 10 luglio, alla colonna principale si erano unite circa diecimila persone e, secondo le ultime notizie, anche la Rada municipale di Kiev sarebbe propensa a non proibire l’ingresso della processione nella capitale e il governo avrebbe adottato qualche misura di facciata per impedire ai gruppi nazionalisti e neonazisti di attaccare i cortei religiosi. Ancora ieri sera, mentre un’altra processione attraversava Dnepropetrovsk, Pravyj Sektor annunciava di voler fermare il corteo religioso nel suo avvicinamento alla capitale e, se ciò non sarà possibile, allora darà battaglia dentro Kiev: già una decina di giorni fa, il Ministro degli interni Arsen Avakov diceva di temere (o di auspicare?!) una nuova Odessa.

Anche il Servizio di sicurezza pare orientato a “dissipare i timori dei consiglieri municipali di Kiev per possibili provocazioni” e a permettere l’ingresso in città: “simili processioni si fanno ogni anno e solo questa volta” ha detto il rappresentante del SBU, “si è fatto tanto rumore, cui hanno contribuito media e politici”. Il capo della polizia, la georgiana Khatija Dekanoidze, ha detto che “naturalmente, tale iniziativa si sarebbe potuta vietare. Ma esiste un diritto costituzionale dei cittadini ad azioni pacifiche”: difficile a credersi, nell’Ucraina golpista!

Proprio a Borispol (una trentina di km a est di Kiev), il consiglio municipale, che ha poi deciso di vietare l’attraversamento della città, si era aperto con le parole del consigliere del Partito Radicale, Jaroslav Godunok: “Il Patriarcato di Mosca rifiuta i servizi religiosi ai caduti nell’Operazione antiterrorismo e voi benedite i banditi in guerra con l’Ucraina, le loro armi, e ora venite in pace? Quale pace? Tra voi ci sono persone con il nastro di San Giorgio, ritratti dello zar e simboli antiucraini. I vostri “credenti” non vanno nella direzione giusta. Dovete andare verso Mosca e là chiedere a Dio di porre fine a questa guerra. La processione è di per sé una provocazione! Nella processione ci sono agenti di Putin”. Decisa la proibizione, Godunok ha chiesto che venissero organizzati presidi di credenti del patriarcato di Kiev, protestanti, greco-cattolici ed esponenti dei partiti nazionalisti. Così, OUN e Pravyj Sektor hanno allestito posti di blocco in prossimità di Borispol e, a ovest, sulla superstrada da Žitomir, con l’obiettivo di fermare le due processioni: “Voi che pregate un dio altrui, un dio moscovita, non il nostro dio, noi vi sopportiamo come un cane sopporta le pulci”, hanno detto. E il sito “Mirotvorets” ha annunciato di pubblicare nomi e dati dei partecipanti alla processione, così come aveva fatto, ad esempio, per il deputato Oleg Kalashnikov e il giornalista Oles Buzina, poi  assassinati.

Come che vada, è quasi certo che, ancora una volta, le azioni di OUN, Pravyj Sektor o di altri raggruppamenti neonazisti, avranno la benedizione della chiesa ortodossa ucraina, votata alla consacrazione della guerra nel Donbass e alla demonizzazione di tutto quanto “odori” di russo. Del resto, appena pochi mesi fa il patriarca Filaret aveva decretato che la guerra è la punizione divina scagliata contro i senzadio del Donbass e, dunque, dio permette di attaccare “l’aggressore dell’est”, con l’obiettivo di illuminare gli atei. A suo tempo, Petro Porošenko aveva implorato la beatificazione papale per il capo della chiesa greco-cattolica ucraina, Andrej Šeptitskij, schierato con le SS e i filonazisti ucraini durante la seconda guerra mondiale: pare che proprio dal 1941 dati la separazione del patriarcato di Kiev da quello di Mosca e la nascita della cosiddetta chiesa ortodossa autocefala ucraina, con il terrorismo scatenato contro i seguaci moscoviti da parte dei nazionalisti e filonazisti ucraini e la susseguente fuga dei vescovi autocefali a fianco dei nazisti in ritirata.





Attualità del colonialismo

1) Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: le tre età di una dominazione (S. Bouamama)
2) Michel Collon: “il Medio Oriente è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione” (#politicanuova, maggio 2016)


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www.resistenze.org - pensiero resistente - imperialismo - 30-05-16 - n. 591

Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: le tre età di una dominazione

Saïd Bouamama | investigaction.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

15/05/2016

Iraq, Libia, Sudan, Somalia, etc., la lista di nazioni che sono andate a pezzi dopo un intervento militare statunitense e/o europeo non cessa di aumentare. Sembra che al colonialismo diretto di una "prima età" del capitalismo e al neocolonialismo di una "seconda età", succeda adesso la "terza età" della balcanizzazione. Parallelamente si può constatare una mutazione delle forme del razzismo. Dopo la Seconda guerra mondiale, il razzismo culturale prese il posto di quello biologico e da diversi decenni il primo tende a presentarsi a livello religioso, sotto la forma attualmente dominante dell'islamofobia. A nostro parere, siamo in presenza di tre storicità strettamente vincolate: quella del sistema economico, quella delle forme politiche della dominazione e quella delle ideologie di legittimazione.

Ritorno a Cristoforo Colombo

La visione dominante dell'eurocentrismo spiega l'emergere e la successiva estensione del capitalismo a partire da fattori interni delle società europee. Da qui deriva la famosa tesi che alcune società (alcune culture, religioni, etc.) siano dotate di una storicità, mentre altre ne siano carenti. Quando Nikolas Sarkozy afferma nel 2007 che "il dramma dell'Africa è che l'uomo africano non è entrato sufficientemente nella storia" (1) non fa altro che riprendere un tema frequente delle ideologie di giustificazione della schiavitù e della colonizzazione:

"La "destoricizzazione" svolge un ruolo decisivo nella strategia di colonizzazione. Legittima la presenza di colonizzatori e certifica l'inferiorità dei colonizzati. La tradizione delle storie universali e poi le "scienze coloniali" imposero una postulato sul quale si è costruita la storiografia coloniale: l'Europa è "storica" mentre è "l'astoricità" che caratterizza le società coloniali definite come tradizionali e immobili. […] Mossa dai suoi valori intellettuali e spirituali, l'Europa svolge attraverso la missione coloniale una missione storica, facendo entrare nella Storia i popoli che ne sono privi o che sono rimasti fermi ad uno stadio dell'evoluzione storica superato dagli europei (stato di natura, medio evo, ecc.)" (2)

Sia l'antichità di questa lettura essenzialista ed eurocentrica della storia del mondo che la sua ricorrenza (al di là delle diverse forme in cui si presenta) mettono in evidenza la sua funzione politica e sociale: la negazione delle interazioni. Da quando Cristoforo Colombo ordinò ai suoi soldati di sbarcare, la storia mondiale si è convertita in una storia unica, globale, collegata, mondializzata. La povertà degli uni non si può più spiegare senza interrogarsi sui nessi di causalità con la ricchezza degli altri. Lo sviluppo economico degli uni è indissociabile dal sottosviluppo degli altri. Il progresso dei diritti sociali qui è possibile solo per mezzo della negazione dei diritti lì.

L'invisibilità delle interazioni richiede una mobilitazione dell'istanza ideologica per formalizzare alcuni schemi esplicativi gerarchizzanti. Questi schemi costituiscono il "razzismo", sia nelle sue costanti che nelle mutazioni. C'è invariabilità perché tutti i volti del razzismo, da quello biologico all'islamofobia, hanno un risultato comune: la gerarchizzazione dell'umanità. C'è anche mutazione perché ogni volto del razzismo corrisponde a uno stadio del sistema economico di depredazione e a uno stadio dei rapporti di forza politici. Al capitalismo monopolista corrisponderà la schiavitù e la colonizzazione come forma di dominazione politica, e il biologismo come forma di razzismo. Al capitalismo monopolista globalizzato e senile corrisponderà la balcanizzazione e il caos come forma di dominazione, e l'islamofobia (in attesa di altre versioni per altre religioni del Sud in funzione dei paesi da balcanizzare) come forma di razzismo.

Tempo fa, nella sua analisi sull'apparizione del neocolonialismo come successore del colonialismo, Mehdi Ben Barka mise in evidenza le relazioni tra l'evoluzione della struttura economica del capitalismo e le forme di dominazione. Analizzando le "indipendenze concesse", le pone in relazione con le mutazioni della struttura economica dei paesi dominanti:

"Questo orientamento [neocoloniale] non è una semplice opzione nel dominio della politica estera. E' l'espressione di un cambiamento profondo nelle strutture del capitalismo occidentale. Dal momento in cui, dopo la Seconda guerra mondiale e grazie all'aiuto [del Piano] Marshall e a una interpenetrazione sempre maggiore con l'economia statunitense, l'Europa occidentale si allontana dalla struttura del XIX secolo per adattarsi al capitalismo statunitense, diventa normale che inizi anche ad adottare le relazioni degli Stati Uniti con il mondo. In una parola, che avesse anch'essa la sua "America Latina". (3)

Per il leader rivoluzionario marocchino ciò che suscita il passaggio del colonialismo al neocolonialismo è in effetti la monopolizzazione del capitalismo. Allo stesso modo, la precocità del processo di monopolizzazione negli Stati Uniti è una delle cause della precocità del neocolonialismo come forma di dominazione in America Latina.

Frantz Fanon, da parte sua, mise in evidenza le relazioni tra la forma della dominazione e le evoluzioni delle forme del razzismo. La resistenza che suscita una forma di dominazione (il colonialismo, ad esempio) obbligano questa a mutare. Tuttavia, questa mutazione richiede il mantenimento della gerarchizzazione dell'umanità e, in conseguenza, chiama una nuova età dell'ideologia razzista. "Questo razzismo", precisa Fanon, "che si vuole razionale, individuale, determinato, genotipico e fenotipico si trasforma in razzismo culturale". Per ciò che si riferisce ai fattori che portano alla mutazione del razzismo, Frantz Fanon menziona la resistenza dei colonizzati, l'esperienza del razzismo, ossia, "l'istituzione di un regime coloniale in piena terra d'Europa" e "l'evoluzione delle tecniche" (4), ossia, le trasformazioni della struttura del capitalismo, come rilevava Ben Barka.

Conseguentemente, senza entrare in un dibattito complesso di una periodizzazione del capitalismo datata con precisione è possibile porre in relazione i tre ordini di fatti che sono le mutazioni della struttura economica, le forme della dominazione politica e le trasformazioni dell'ideologia razzista. Le tre "età" del capitalismo chiamano tre "età" della dominazione, che suscitano tre "età" del razzismo.

L'infanzia del capitalismo

Lo stesso capitalismo come modo di produzione economica, a causa della sua legge del profitto, necessita di una estensione permanente. E' immediatamente in mondializzazione, anche se questa conosce i suoi limiti di sviluppo. Ossia, si tratta dell'ingannevole discorso attuale della globalizzazione, presentata come un fenomeno completamente nuovo, legato ai mutamenti tecnologici. Come mette in evidenza Samir Amin, la nascita del capitalismo e la sua mondializzazione vanno di pari passo:

"Il sistema mondiale non è la forma relativamente recente del capitalismo, risalente solo all'ultimo terzo del XIX secolo, quando si costituisce "l'imperialismo" (nel senso che Lenin diede a questo termine) e la spartizione coloniale del mondo ad esso associata. Al contrario, noi affermiamo che questa dimensione mondiale trova immediatamente la sua espressione, dall'origine, e prosegue come una costante del sistema attraverso le tappe successive del suo sviluppo. Ammettendo che gli elementi essenziali del capitalismo si cristallizzino in Europa a partire dal Rinascimento (la data del 1492, inizio della conquista dell'America, sarebbe la data di nascita simultanea del capitalismo e del sistema mondiale), entrambi i fenomeni sono inseparabili". (5)

In altre parole, sia il saccheggio e la distruzione delle civiltà amerindie che la schiavitù furono le condizioni affinché il modo di produzione capitalistico potesse esser dominante nelle società europee. Non ci fu nascita del capitalismo e successivamente sua estensione, ma un saccheggio e una violenza totali che riunirono le condizioni materiali e finanziarie affinché si installasse il capitalismo. Sottolineiamo inoltre con Eric Williams che la distruzione delle civiltà amerindie si accompagna alla loro schiavizzazione. Così, la schiavitù non è conseguenza del razzismo, ma quest'ultimo è il risultato della schiavitù degli indios. "Nei Caraibi", sottolinea questo autore, "il termine schiavitù si è applicato esclusivamente ai neri. […] Il primo esempio di commercio di schiavi e di manodopera schiavistica nel Nuovo Mondo non riguarda il nero ma l'indio. Gli indios soccombettero rapidamente all'eccesso di lavoro e al cibo insufficiente, morirono di malattie importate dai bianchi". (6)

Quindi la colonizzazione non è che il primo processo di generalizzazione dei rapporti capitalistici al resto del mondo. E' la forma di dominazione politica che infine si è trovata per l'esportazione e l'imposizione di questi rapporti sociali al resto del mondo. Per questo, era necessario distruggere le relazioni sociali indigene e le forme di organizzazione sociale e culturale che avevano generato. L'economista algerino Youcef Djebari dimostrò la grandezza della resistenza delle forme anteriori di organizzazione sociale e l'indispensabile violenza per distruggerle: "In tutti i suoi intenti di annessione e dominazione in Algeria, il capitale francese si trovò di fronte una formazione sociale e economica ostile alla sua penetrazione. Dispiegò tutto un arsenale di metodi per schiacciare e sottomettere le popolazioni autoctone" (7). Per questo la violenza totale è consustanziale alla colonizzazione.

Il razzismo biologico appare per legittimare questa violenza e questa distruzione. Fanon mette in evidenza che il razzismo "entra in un insieme distinto: quello dello sfruttamento spudorato di un gruppo di uomini sugli altri. […] Per questo l'oppressione militare ed economica prevede quasi sempre il razzismo, lo rende possibile e lo legittima. Bisogna abbandonare il costume di ritenere che il razzismo sia una disposizione dello spirito, una tara psicologica". (8)

Conseguentemente, il razzismo come ideologia di gerarchizzazione dell'umanità che giustifica la violenza e lo sfruttamento non è una caratteristica dell'umanità, ma una prodotto ritracciabile storicamente e geograficamente: l'Europa dell'emergere del capitalismo. Il biologismo come primo volto storico del razzismo conosce la sua età dell'oro nel XIX secolo, insieme all'esplosione industriale da una parte e alla febbre coloniale dall'altra. Il medico e antropologo francese Paul Broca classificò i crani umani con fini comparativi e concluse che "rispetto alla capacità craniale, il negro d'Africa occupa una posizione approssimativamente media tra l'europeo e l'australiano". (9) Di conseguenza, esiste qualcuno inferiore al nero, l'aborigeno, ma uno superiore indiscutibilmente, l'europeo. E siccome tutte le dominazioni richiedono dei processi di legittimazione, se non simili quanto meno convergenti, estende il suo metodo alla differenza di sesso per concludere che "la piccolezza relativa del cervello della donna dipende a sua volta dalla sua inferiorità fisica e dalla sua inferiorità intellettuale". (10)

1. Monopoli, neocolonialismo e culturalismo

Il XX secolo è quello della monopolizzazione del capitalismo. Questo processo si sviluppa a ritmi differenti per ognuna delle potenze. I grandi gruppi industriali dirigono sempre più l'economia e il capitale finanziario diviene preponderante. La relazione fisica e soggettiva tra il proprietario e la proprietà sparisce a beneficio della relazione tra il coupon dell'azione borsistica e l'azionista. Il grande colono proprietario di terre cede il passo all'azionista di miniere. Questa nuova struttura del capitalismo richiede una nuova forma di dominazione politica, il neocolonialismo, che Kwane Nkrumah definisce nel modo seguente: "L'essenza del neocolonialismo è che lo Stato sottomesso ad esso è teoricamente indipendente, possiede tutte le insegne della sovranità sul piano internazionale. Ma in realtà la sua economia e di conseguenza la sua politica sono manipolate dall'estero". (11)

Naturalmente, la presa di coscienza nazionalista e lo sviluppo delle lotte di liberazione nazionale accelerano la transizione di una forma di dominazione politica all'altra. Ma siccome l'obiettivo è mantenere la dominazione, continua ad esser necessario giustificare una gerarchizzazione dell'umanità. La nuova dominazione politica richiede una nuova età del razzismo. Il razzismo culturalista emergerà progressivamente come risposta a questa necessità facendosi dominante nei decenni che vanno dal 1960 al 1980. Adesso non si tratta di gerarchizzare biologicamente, ma culturalmente. L'esperto e il consulente si sostituiscono al colono e al militare. Adesso non si studia "la diseguaglianza dei crani" ma i "freni culturali allo sviluppo". Siccome adesso non si può legittimare su base biologica, la gerarchizzazione dell'essere umano si dispiega in una direzione culturale, attribuendo alle "culture" le stesse caratteristiche che prima determinavano in modo presunto le razze biologiche (immobilità, omogeneità, ecc.).

Sul piano internazionale il nuovo volto del razzismo permette di giustificare il mantenimento di una povertà e di una miseria popolare nonostante le indipendenze e le esperienze di emancipazione che ci sono state. Come si eludono le nuove forme di dipendenza (funzionamento del mercato mondiale, ruolo dell'aiuto internazionale, il franco CFA, ecc.), si trovano come cause esplicative alcuni aspetti culturali che presumibilmente caratterizzano i popoli delle ex colonie: l'etnicismo, il tribalismo, il clanismo, il gusto per le cose sfarzose, spese sontuose, ecc. Si dispiega così tutta una corrente teorica denominata "afro-pessimista". Stéphan Smith considera che "l'Africa non funziona perché continua ad esser "bloccata" da alcuni ostacoli socioculturali che essa sacralizza come i suoi gris-gris [amuleti] identitari" o anche che "il dattilografo, adesso provvisto di un computer, non ha più la fronte macchiata dal nastro della macchina da scrivere a forza di fare la siesta su di essa" (12). Gli fa eco Bernard Lugan, secondo cui la carità, la compassione e la tolleranza e i diritti umani sono estranei alle "relazioni africane ancestrali". (13)

Sul piano nazionale il razzismo culturalista assolve la stessa funzione, ma rispetto alle popolazioni sorte dall'immigrazione. Spiegare culturalmente alcuni fatti che segnalano le diseguaglianze sistemiche di cui sono vittime permette di delegittimare le rivendicazioni e le rivolte che suscitano queste diseguaglianze. Il fallimento scolastico, la delinquenza, il tasso di disoccupazione, le discriminazioni, le rivolte dei quartieri popolari, ecc., adesso non si spiegano per mezzo di alcuni fattori sociali ed economici, ma per mezzo di alcune causalità culturali o identitarie.

2. Capitalismo senile, balcanizzazione e islamofobia

Da quella che è stata chiamata "mondializzazione", il capitalismo si trova di fronte a nuove difficoltà strutturali. L'aumento costante della competizione tra le diverse potenze industriali rende impossibile la minima stabilizzazione. Le crisi si succedono una dietro l'altra senza interruzione. Il sociologo Immanuel Wallerstein considera che:

"Da trent'anni siamo entrati nella fase terminale del capitalismo. Ciò che differenzia fondamentalmente questa fase della successione ininterrotta di cicli congiunturali precedenti è che il capitalismo non riesce adesso a "fare sistema", nel senso che lo intende il fisico e chimico Ilya Prigogine (1917-2013): quando un sistema, biologico, chimico o sociale, si devia troppo e troppo spesso dalla sua situazione di stabilità non ottiene di recuperare l'equilibrio e si assiste allora ad una biforcazione. La situazione si rende allora caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino ad allora". (14)

Non si tratta semplicemente di una crisi di sovrapproduzione. Contrariamente a questa, la recessione non prepara nessuna ripresa. Le crisi si succedono e si incatenano senza ripresa alcuna, le bolle finanziarie si accumulano ed esplodono sempre più regolarmente. Le fluttuazioni sono sempre più caotiche e, pertanto, imprevedibili. La conseguenza di ciò è una ricerca del massimo profitto con qualsiasi mezzo. In questa competizione esacerbata in situazioni di instabilità permanente, il controllo dei flussi di materie prime è una questione più importante che nel passato. Adesso non si tratta solo di aver accesso per sé alle materie prime, ma di impedire che vi accedano i competitori (e in particolare le economie emergenti: Cina, India, Brasile, ecc.).

Minacciati nella loro egemonia, gli USA rispondono attraverso la militarizzazione e le altre potenze la seguono per garantire anch'essi l'interesse delle loro imprese. "Dal 2011", segnala l'economista Philip S. Golub, "gli Stati Uniti hanno intrapreso una fase di militarizzazione e di espansione imperiale che ha alterato profondamente la grammatica della politica mondiale" (15). Dall'Asia Centrale al Golfo Persico, dall'Afghanistan alla Siria passando per l'Iraq, dalla Somalia al Mali le guerre seguono il cammino dei luoghi strategici del petrolio, del gas, dei minerali strategici. Ora non si tratta di dissuadere i competitori e/o avversari ma di realizzare "guerre preventive".

Alla mutazione della base materiale del capitalismo corrisponde una mutazione delle forme della dominazione politica. Il principale obiettivo adesso non è insediare dei governi fantoccio che non possono più resistere in forma duratura alla collera popolare, ma balcanizzare per mezzo della guerra per far sì che questi paesi siano ingovernabili. Dall'Afghanistan alla Somalia, dall'Iraq al Sudan il risultato delle guerre è ovunque lo stesso: la distruzione della base stessa delle nazioni, la decadenza di tutte le infrastrutture che permettono la governabilità, l'installazione del caos. Da adesso si tratta di balcanizzare le nazioni.

Tale dominio ha bisogno di una nuova legittimazione, formulata in base alla teoria dello scontro di civiltà. Questa teoria vuole indurre certi comportamenti di panico e di paura, con l'obiettivo di suscitare una richiesta di protezione e approvazione delle guerre. Dal discorso del terrorismo, che richiede guerre preventive fino alla teoria della grande sostituzione passando per le campagne sull'islamizzazione dei paesi occidentali e sui rifugiati vettori di terrorismo, il risultato atteso è sempre lo stesso: paura, panico, richiesta di sicurezza, legittimazione delle guerre, costruzione del musulmano come nuovo nemico storico. L'islamofobia è, effettivamente, una terza età del razzismo che corrisponde alle mutazioni di un capitalismo senile, ossia, che non può più apportare nulla di positivo all'umanità, ma solo guerra, miseria e la lotta di tutti contro tutti. Non esiste uno scontro di civiltà ma una crisi di civiltà imperialista che esige una vera rottura. Ciò che cercano di evitare con tutti i mezzi non è la fine del mondo, ma la fine del loro mondo.

Note

(1) Nicolas Sarkozy, discorso di Dakar del 26 luglio 2007, http://www.lemonde.fr/afrique/article/2007/11/09/le-discours-de-dakar_976786_3212.html .

(2) Pierre Singaravelou, Des historiens sans histoire? La construction de l'historiographie coloniale en France sous la Troisième République, Actes de la Recherche en Sciences Sociales, n° 185, 2010/5, p. 40.

(3) Mehdi Ben Barka, Option révolutionnaire au Maroc. Ecrits politiques 1957-1965, Syllepse, París, 1999, pp. 229-230. [Mehdi Ben Barka è stato un politico marocchino, combattente per l'indipendenza e più tardi dissidente del regime di Hasan II, cofondatore dei partiti politici Istiqlal e Unione Nazionale delle Forze Popolari, e segretario della Conferenza Tricontinentale].

(4) Frantz Fanon, "Racisme et Culture", Pour la Révolution africaine. Ecrits politiques, La Découverte, París, 2001, p. 40.

(5) Samir Amin, "Les systèmes régionaux anciens", L'Histoire globale, une perspective afro-asiatique, éditions des Indes savantes, París, 2013, p. 20.

(6) Eric Williams, Capitalisme et esclavage, Présence Africaine, 1968, p. 19.

(7) Youcef Djebari, La France en Algérie, la genèse du capitalisme d'Etat colonial, Office des Publications Universitaires, Argel, 1994, p. 25.

(8) Frantz Fanon, Racisme et culture , op.cit., p. 45.

(9) Paul Broca, Sur le volume et la forme du cerveau suivant les individus et suivant les races, Volumen 1, Hennuyer, París, 1861, p. 48.

(10) Paul Broca, Sur le volume et la forme du cerveau suivant les individus et suivant les races, op.cit., p. 15.

(11) Kwame Nkrumah, Le néocolonialisme, dernier stade de l'impérialisme, Présence Africaine, París, 1973, p. 9.

(12) Stephen Smith, Négrologie: Pourquoi l'Afrique meurt, Fayard, París, 2012, p. 49 et 58.

(13) Bernard Lugan, God bless Africa. Contre la mort programmée du continent noir, Carnot, Paris, 2003, pp. 141-142.

(14) Immanuel Wallerstein, "Le capitalisme touche à sa fin", Le Monde, 16 de diciembre de 2008, http://www.lemonde.fr/la-crise-financiere/article/2008/12/16/le-capitalisme-touche-a-sa-fin_1105714_1101386.html

(15) Philip S Golub, De la mondialisation au militarisme: la crise de l'hégémonie américaine, A Contrario, 2004, n°2, p. 9.


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Michel Collon: “il Medio Oriente è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione”

Pubblicato il 17 luglio 2016   in Internazionale/Interviste   di Aris Della Fontana e Raffaele Morgantini

Proponiamo di seguito l’intervista integrale al giornalista d’investigazione belga Michel Collon apparsa sull’edizione di maggio 2016 del quadrimestrale d’approfondimento marxista #politicanuova, a cura di Aris Della Fontana e Raffaele Morgantini.


  1. Quali sono le principali caratteristiche dei rapporti tra Occidente (Usa ed Europa) e Medio Oriente a partire dai momenti conclusivi del Novecento? Quale funzione svolge il Medio Oriente all’interno delle strategie geo-politiche e geo-economiche occidentali?

Il Medio Oriente, inteso in senso ampio, quindi comprendente anche il Maghreb, la penisola arabica, il Corno d’Africa e paesi asiatici quali l’Afghanistan e il Pakistan – di fatto quel “Grande Medio Oriente” concepito dall’amministrazione statunitense -, è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione, innescata nel 1991 con la prima guerra del Golfo. A quel tempo Saddam Hussein cadde in una trappola: gli si fece credere che gli Stati Uniti non si sarebbero mossi laddove egli avesse tentato di recuperare il Kuwait, sottratto all’Iraq dal colonialismo britannico; ma George Bush senior, invece, intervenne. Lo scopo degli Stati Uniti era quello di distruggere l’Iraq assieme a Saddam Hussein perché quest’ultimo aveva commesso l’imperdonabile errore di sollecitare gli arabi e più in generale il Medio Oriente alla ricerca dell’indipendenza rispetto agli Stati Uniti, alla resistenza rispetto ad Israele e all’utilizzo del petrolio al fine di ingenerare uno sviluppo autonomo che mettesse fine alla colonizzazione economica della regione. Così facendo Saddam Hussein, come tutti quei dirigenti arabi che storicamente si sono mostrati troppo indipendenti rispetto agli Stati Uniti e al colonialismo in generale, firmò la sua condanna a morte: si tentò dunque di abbatterlo, ma la resistenza irachena si rivelò molto forte, e inoltre non si riuscì a contare su personaggi corrotti interni al paese né ad organizzare la divisione tribale di quest’ultimo. La guerra, in ogni caso, indebolì molto l’Iraq, e servì da avvertimento generale ai paesi arabi, africani e asiatici. Possiamo dire che, con il 1991, si aprì un periodo nuovo: parallelamente alla caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti avviarono la ricolonizzazione di tutto quanto, precedentemente, avevano perduto: i paesi del Terzo mondo divenuti indipendenti nel Medio Oriente e in Africa, assieme ai paesi dell’Europa dell’Est. L’obiettivo era quello di instaurare un nuovo ordine a livello mondiale in cui gli Stati Uniti si fossero imposti quale unica superpotenza – e, in tal senso, era ottimo che la Russia eltisiniana si fosse fortemente indebolita, mentre l’Europa andava mantenuta quale vassallo subordinato e il processo di crescita della Cina andava in qualche modo depotenziato.


  1. Quali fattori hanno portato gli Stati Uniti ad avviare una tale dinamica? E, all’interno di quest’ultima, quale funzione ha svolto il Medio Oriente e quale invece Israele e le petro-monarchie del Golfo? L’Europa, dal canto suo, come si posiziona?

Ragione principale alla base d’un tale progetto è stata la crisi economica che attanagliava gli Stati Uniti dal 1973, se non da prima: il paese si era indebolito economicamente, il tasso di profitto evidenziava un’importante caduta, e inoltre, se, da una parte, la delocalizzazione delle aziende di vari settori produttivi (tessile, automobilistico, informatico) aveva fatto aumentare i guadagni delle multinazionali statunitensi e permesso agli Stati Uniti di avvantaggiarsi rispetto ad Europa e Giappone, dall’altra, essa aveva assestato un duro colpo alla base economico-produttiva nazionale e, ancora, aveva indebolito in modo importante il potere d’acquisto dei consumatori statunitensi. Di conseguenza, dati questi presupposti, gli Stati Uniti, con uno squilibrio della bilancia dei pagamenti e con un profondo deficit dei conti statali – reso maggiormente acuto dalle dispendiose politiche militari -, sono via via diventati dipendenti dal credito.
Nel quadro del processo di rivalsa coloniale e soprattutto nel tentativo di acquisire un potere mondiale unipolare, il controllo del Medio Oriente si è rivelato, per gli Stati Uniti, un’arma d’importanza basilare: l’obiettivo, a tal proposito, non era tanto quello di assicurare le proprie forniture petrolifere – gli Stati Uniti importavano petrolio prevalentemente da territori vicini quali il Messico e il Venezuela (dall’Arabia Saudita proveniva solo il 19% della quantità totale) – quanto quello di controllare – in termini strategici – l’approvvigionamento dei rivali (Europa, Giappone, Russia e Cina). Oggi, 25 anni dopo la prima guerra del Golfo, la strategia in questione si è rafforzata. Obama ha indicato con chiarezza che l’obiettivo centrale è il controllo dell’Asia: egli, del resto, non fa altro che applicare le indicazioni del suo maître à penser, Zbigniew Brzezinski, il quale, a suo tempo, spiegò che se gli Stati Uniti avessero voluto restare i signori del mondo avrebbero dovuto controllare l’Eurasia, ossia la zona ove è presente la maggior parte della popolazione, della produzione e della ricchezza mondiale – e la crescita della Cina ha confermato ciò. Secondo Brzezinski, al fine di controllare effettivamente l’Eurasia, occorre impedire ai vari vassalli di unirsi: Russia e Cina, a tal proposito, devono rimanere ben divisi – politicamente ed economicamente – dall’Europa e, in modo particolare, la Russia non si deve connettere alla Germania. Di fatto, quindi, i paesi dell’Europa non posseggono un’indipendenza integrale rispetto agli Stati Uniti. Emblematica, in tal senso, la celeberrima esclamazione dell’inviato speciale statunitense per l’Ucraina Victoria Nuland, «Fuck the EU», che evidenzia la ben scarsa considerazione, da parte statunitense, delle posizioni dei partner europei1.
Israele e le petro-monarchie del Golfo rappresentano dei pilastri molto importanti al fine di mantenere il controllo sul Medio Oriente: gli Stati Uniti, infatti, non sono in grado di garantire un attivo e sistematico intervento nella regione – cioè attraverso invasioni via terra o colpi di stato, entrambe le azioni essendo alquanto pericolose – e quindi Israele, una forza di valenza militare, e le petro-monarchie del Golfo, una forza di valenza economica, si rivelano funzionali a dividere il Medio Oriente.


  1. Il concetto di «primavere arabe» ha raccolto nello stesso contenitore numerosi processi aventi carattere regionale e/o nazionale. Ritieni che tale concetto sia effettivamente in grado di contenere in modo esaustivo quanto sotto di esso è stato posto?

Quello di «primavere arabe» è un concetto fasullo [concept bidon], fabbricato dagli esperti di comunicazione psicologica e di manipolazione dell’opinione. Esso è funzionale a velare due fondamentali elementi. In primo luogo, il fatto che gli Stati Uniti e l’Europa hanno sostenuto [maintenu en place] e protetto sino all’ultimo momento dittatori arabi come Ben Ali e Mubarak. In secondo luogo, il fatto che gli Stati Uniti – molto lungimiranti e con ciò sempre pronti ad anticipare il maturare dei processi -, sapendo che Ben Ali e Mubarak erano personaggi politici finiti – rivolte terribili non potevano che sorgere sia date una dittatura e una corruzione inaccettabili sia dato l’accumulo scandaloso di ingenti quantità di ricchezza in antitesi a una condizione di spaventosa povertà -, hanno preparato la loro sostituzione. A tal proposito, in Egitto e in Tunisia, si sono avuti degli scioperi operai e delle rivolte molto importanti, ma sono stati stroncati dal governo con l’aiuto e il sostegno di Stati Uniti ed Europa. La strategia occidentale consisteva nel tentativo di controllare l’esplosione delle proteste affinché si potessero alleviare [soulager] le frustrazioni ma, nel contempo, impedire che a livello politico qualcosa effettivamente cambiasse: ciò è stato conseguito sacrificando qualcheduno, come Mubarak, Ben Ali e i loro più stretti seguaci, ma mantenendo al loro posto sia le élite sia le istituzioni militari, dividendo i giovani e in generale la società civile e organizzando delle elezioni. Il libro che Investig’Action ha recentemente pubblicato, “Arabesque$. Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes”2, scritto da Ahmed Bensaada, mostra con evidenza il modo con cui gli Stati Uniti hanno individuato, comprato, condotto negli Stati Uniti e formato i cosiddetti young leaders – i dirigenti di domani –, preparati appositamente al fine di giocare un ruolo nell’ammaestramento della rivolta popolare affinché essa non si sviluppasse in una direzione eccessivamente radicale e cioè che non diventasse una vera rivoluzione sociale e politica.


  1. Per il caso libico e per quello siriano si può parlare di uno snaturamento sostanziale delle proteste ad opera degli attori esterni? Cioè, se inizialmente si sono presentate legittime ragioni di malcontento relative a contraddizioni interne, successivamente c’è stata una deformazione e con ciò un ingigantimento dei motivi e dei moti di protesta? Come districare la matassa che lega protestanti sinceri, fondamentalisti e attori eterodiretti?

In Libia e in Siria – certamente – vi erano delle legittime ragioni di manifestare.
Per la Libia non parlerei di problematiche sociali: Gheddafi ridistribuiva i proventi del petrolio e, inoltre, aveva concesso [avait accordé] un livello di vita estremamente elevato a tutti i libici: l’educazione e la sanità erano gratuite, e le politiche dell’alloggio avevano permesso una buona accessibilità. Vero è che negli ultimi anni si erano avute delle misure che avevano ridotto questo Stato sociale – misure che, peraltro, erano state prese a seguito della pressione e dei consigli degli Stati Uniti e degli altri popoli sedicenti liberi; ma, ciononostante, in Libia c’era il più alto livello di vita dell’Africa. La Libia, d’altro canto, non era definibile una democrazia liberale: essa aveva bensì l’aspetto d’un regime autocratico. E però, a tal proposito, il dato centrale risiede nel fatto che in Medio Oriente c’erano e ci sono ordinamenti politici ben peggiori, come l’Arabia Saudita, il Qatar e il Kuweit – di conseguenza, se veramente gli Stati Uniti avessero voluto solamente instaurare una democrazia liberale (che, in ogni caso, non può essere imposta dall’esterno con le bombe), avrebbero dovuto cominciare da questi ultimi. In Libia la protesta – come ho spiegato nel mio libro “Libye, Otan et médiamensonges”3 – è stata manipolata e, molto velocemente, orientata [détournée] verso un altissimo contenuto di violenza, della quale sono stati responsabili i terroristi islamisti rispondenti alla sezione libica di al-Qaida: dal secondo giorno di manifestazioni sono apparsi missili e armi anticarro, e si è assistito all’attacco delle prigioni finalizzato alla liberazione dei terroristi ivi prigionieri. Insomma, non si è trattato propriamente di manifestazioni pacifiche.
In Siria c’erano legittime ragioni di carattere politico che hanno portato a manifestare. Anche la Siria, infatti, non può essere definita una democrazia liberale. C’erano inoltre delle ragioni di carattere socio-economico, date dal fatto che anche in questo paese si era avuto un ridimensionamento dello Stato sociale (e, come nel caso libico, gli Stati Uniti si sono distinti per le pressioni volte al varo di riforme neoliberali) – la Siria era un paese meno ricco rispetto alla Libia, ma comunque pure ivi erano attive forme di socialità relativamente consistenti se paragonate alla miseria di altri paesi circostanti. Ad essere colpiti in modo particolarmente acuto da queste riforme sono stati i contadini, i quali parallelamente avevano dovuto sopportare due annate filate di siccità: essi si sono perciò ritrovati in grosse difficoltà a livello finanziario e sociale. Il copione, a questo punto, è grosso modo lo stesso: le legittime ragioni di protesta sono state ben presto messe a frutto dagli attori esterni, Stati Uniti in primis, la cui volontà di rovesciare Assad era tale già da diversi anni: l’ex Ministro degli affari esteri di Francia Roland Dumas (1984-1986, 1988-1993) ha dichiarato che, nel 2009 – cioè ben due anni prima delle manifestazioni -, era stato avvicinato, a Londra, da agenti inglesi i quali, comunicandogli che la Siria sarebbe stata presa di mira, lo interrogarono circa la volontà francese di partecipare a ciò4. Ci sono poi molti altri documenti e rivelazioni di giornalisti, statunitensi e non, che mostrano con chiarezza l’effettiva preparazione di un’offensiva nei confronti della Siria.
Appare alquanto chiaro come una grande potenza non abbia alcun motivo valido di sferrare un attacco contro un paese per il fatto che all’interno di quest’ultimo si stiano svolgendo delle manifestazioni di protesta, ché di esse ve ne sono pressoché dappertutto tutti i giorni. Gli Stati Uniti, invece, intervengono al fine di esacerbare le tensioni, operare delle provocazioni, trarre un pretesto dal caos ingenerato per pretendere e prendere delle sanzioni economiche e militari e, infine, effettuare un cosiddetto regime changhe.


  1. Nei tuoi interventi hai sostenuto l’operare di una «propaganda di guerra» finalizzata a legittimare l’intervento militare occidentale. In tal senso, hai individuato i cinque principi costituenti di tal narrazione: ce ne puoi parlare?

C’è una cosa che una grande potenza intenzionata a muovere una guerra non potrà mai dire: la verità. «Facciamo questa guerra per impadronirci della ricchezza della regione»; «questo paese mette in pericolo la nostra supremazia»; «questa guerra è necessaria per i profitti delle nostre multinazionali»: sono tutte dichiarazioni che mai si sentiranno pronunciare ufficialmente. Queste ragioni vanno oscurate, perché evidentemente c’è bisogno che l’opinione pubblica – il contribuente finanziario – sostenga queste onerose operazioni. La cinque regole della propaganda di guerra rispondono a questa necessità.

  1. Nascondere il fatto che, alla base, stiano determinati interessi economici. Se il Medio Oriente non fosse un campo di petrolio bensì di carote, gli Stati Uniti avrebbero le stesse ragioni per spendere, ogni anno, tre o quattro miliardi di dollari per fare d’Israele il guardiano della regione? E se l’Iraq non contenesse nient’altro che sabbia, e non quindi petrolio, gli Stati Uniti avrebbero speso molte energie per far sloggiare un dittatore quando invece, nel contempo, essi ne proteggono molti altri?
  2. Invertire i ruoli tra vittima e aggressore: colui che sferra l’attacco militare non può definirsi l’aggressore, egli è infatti la vittima o, anche, il protettore che accorre a soccorso della vittima. Quando Israele passa all’offensiva per annettere dei territori palestinesi, pretende sempre di agire in posizione di legittima difesa contro gli Arabi, che o l’avrebbero attaccato o si preparerebbero a farlo.
  3. Offuscare la storia e con ciò fabbricare un pretesto plausibile e inattaccabile – proprio ché non si possono comprendere gli antecedenti e le cause profonde d’un conflitto – per poter intervenire in una data regione. In Ruanda, Francia e Belgio si presentano come forze neutrali; in realtà essi hanno aizzato le etnie una contro l’altra al fine di meglio dividere e con ciò indebolire la loro resistenza.
  4. Demonizzare l’avversario – crudele, immorale e pericoloso – e di riflesso convincere l’opinione pubblica del sincero desiderio, da parte delle forze governative, di proteggerla tramite l’eliminazione della minaccia da esso rappresentata. Si tratta, in fondo, di manipolare le emozioni dell’opinione pubblica – che si impaurisce oppure si indigna – impedendole di analizzare lucidamente i reali interessi in gioco.
  5. Monopolizzare l’informazione, dando prevalentemente voce alle fonti e agli esperti organici agli interessi dominanti, impedendo così alla popolazione di riflettere sulla base dei due o più punti di vista in campo. Come dimostrato da Noam Chomsky, esiste una vera e propria censura che non pronuncia il proprio nome e che impedisce un effettivo dibattito sul ruolo delle multinazionali, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in Medio Oriente, come anche in America latina o in Africa. Il discorso massmediatico viene fatto virare su questioni secondarie o totalmente false, ed esso, inoltre, non presenta adeguatamente le posizioni dell’altra parte in causa e in generale le prospettive alternative come quelle proposte dagli analisti che rilevano l’ingiustizia e la strumentalità di queste guerre.

  1. Spesso e volentieri, le letture di largo respiro, cioè quelle analisi costruite da ramificazioni causali che tendenzialmente assorbono le varie dinamiche in un disegno complessivo, vengono accusate di avere una natura “complottista”. Come è più adeguato rispondere a questo tipo di accuse – nel caso concreto finalizzate a svalutare l’attendibilità delle posizioni anti-imperialiste?

In genere nei miei scritti cito testi, dichiarazioni e rapporti provenienti dai dirigenti politici degli Stati Uniti oppure dai responsabili della strategia di questo paese: li faccio parlare. Domandiamoci: quando Hillary Clinton afferma che gli Stati Uniti hanno creato al-Qaida, è anch’essa complottista? E quando il già citato Brzezinski ammette di essere il responsabile dell’invio di Osama bin Laden in Afghanistan e della crescita dell’islamismo, è anch’egli un complottista? E, se io li cito, divento un complottista? Non credo proprio.
Credo occorra porsi altre tre domande.
I complotti esistono? Sì, essi hanno un’esistenza reale. La definizione che ne dà un vocabolario è molto chiara: stiamo parlando di una manovra, di una cospirazione, di un’intesa segreta, tra più soggetti, finalizzata a conseguire uno o più obiettivi. Nella storia politica degli Stati Uniti – come in quella degli altri paesi – ci sono stati dei complotti, ad opera di determinate personalità, le quali hanno mantenuto le loro azioni celate all’opinione pubblica nazionale e internazionale. La faccenda relativa al presunto possesso, da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, di armi di distruzione di massa, è un caso emblematico: George W. Bush e Tony Blair hanno fatto in modo fossero redatti falsi rapporti che dimostrassero le loro pretestuose tesi. Ma si pensi anche all’Operazione Gladio, promossa dalla Cia in Europa al fine di seminarvi il panico, giustificare l’adozione di politiche repressive e impedire ai comunisti di andare al governo: essa rappresenta un complotto i cui dettagli sono oggi appurabili. E, di complotti di tal genere, se ne svolgono in modo periodico. E – detto tra parentesi – ci sono pure i “complotti di sinistra”: quando Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara organizzano di nascosto il rovesciamento della dittatura militare di Fulgencio Batista e con essa la dominazione statunitense su Cuba, essi effettuano nient’altro che una cospirazione, che fortunatamente ha avuto successo.
Ma, alla luce di ciò, possiamo comprendere tutta la politica e la storia facendo uso dei complotti? No. Oggi, pensatori appartenenti all’estrema destra francese ed europea credono di poter spiegare la crisi economica, la crescita delle ineguaglianze, la povertà, come se tutto ciò fosse un complotto ordito dalle banche, o dagli ebrei, o dai massoni o, ancora, dai dirigenti statunitensi. Credo che di fronte a tali questioni si debba essere chiari: non esiste nessuno in grado di controllare l’economia al punto da poter provocare una crisi. L’economia capitalista funziona attraverso leggi intrinseche e cioè in modo tendenzialmente autonomo rispetto alle volontà e ai progetti degli attori umani (singoli o collettivi). L’economia capitalista – concretamente – si basa sulla proprietà privata dei grandi mezzi di produzione: in virtù di ciò i proprietari possono decidere ciò che deve essere prodotto e a quale prezzo, e possono fissare le retribuzioni salariali; c’è poi anche il momento della concorrenza tra i capitalisti, che si lega a filo doppio all’assenza d’una pianificazione della produzione: ognuno, all’interno di questa dinamica, perseguendo la legge della massimizzazione del profitto, tenta di guadagnare più degli altri, sia attraverso la compressione dei costi del lavoro e delle materie prime, sia precipitandosi nei settori maggiormente redditizi e con ciò investendo nell’innovazione tecnologica funzionale all’incremento della produttività. Ma ciò genera tre conseguenze alquanto rilevanti: il montante sfruttamento del lavoro indebolisce il potere d’acquisto e di riflesso una quota maggiorata di prodotti resta invenduta; i capitalisti, investendo nello stesso momento in quei settori che appaiono più redditizi, elevano la capacità di produzione in modo sproporzionato rispetto alle reale possibilità di assorbimento del mercato (il caso dell’industria automobilistica è emblematico: ogni anno si sfornano 25 milioni di auto in più di quanto il mercato può assorbire) e così si genera un enorme spreco di forze produttive; il miglioramento delle tecniche produttive, dal canto suo, se da un lato aumenta la produttività, dall’altro, in termini complessivi, dato che comporta un relativo aumento del rapporto tra capitale costante e capitale variabile (il solo creatore di plusvalore e quindi di profitto), conduce ad una flessione del saggio di profitto complessivo. Così ha origine la crisi di sovrapproduzione, la quale porta con sé diminuzione degli investimenti, chiusura degli stabilimenti, licenziamenti, diminuzione dei salari e altre similari reazioni, che non fanno altro che incrinare ulteriormente la situazione economica complessiva. Grosso modo da quarant’anni ci troviamo in questo tipo regime. E non c’è alcun dirigente politico né capitalista – per nulla interessato al fatto che si produca in funzione dell’interesse della popolazione e secondo una forma di pianificazione – che possieda gli strumenti per risolverne le contraddizioni. Bisogna dunque smetterla di fantasticare pensando che la crisi sia il frutto d’un complotto voluto da banche o da non so chi altro; la crisi è un prodotto inevitabile del capitalismo, e le guerre sono condotte per conseguire interessi economici e sono la diretta conseguenza delle politiche economiche delle grandi potenze, intenzionate sia a controllare le materie prime, a non pagarle e ad impedire che i rivali se le aggiudichino, sia ad ottenere nuovi mercati per le loro merci, sia, infine, a procurarsi manodopera a basso costo. Come ebbe a dire all’inizio del XX secolo Jaen Jaurès, «le capitalisme porte en lui la guerre comme la nuée porte l’orage». Il complottismo, quindi, è un’assurdità dal punto di vista dell’analisi teorica – anche se, evidentemente, i complotti si fanno per fabbricare pretesti, nascondere le vere ragioni e per conseguire altri obiettivi strumentali.
Ma perché, allora, ci sono persone come Bernard-Henri Lévy o Caroline Fourest che utilizzano quale spauracchio la questione della teoria del complotto laddove si critichi la politica statunitense, europea ed israeliana, laddove si critichino le politiche coloniali? La ragione è semplice: essi non possiedono altri argomenti, non hanno assolutamente nulla da ribattere allorquando gli si presenta sotto gli occhi un’analisi basata sui fatti oggettivi, allorquando si dà la parola alle vittime, allorquando, in fin dei conti, si esce dal perimetro del pensiero dominante amministrato dalle élite occidentali. È continuamente in atto una battaglia ideologica che ruota attorno alla spiegazioni di fenomeni quali le contraddizioni economiche, le cause della povertà e delle ingiustizie, la guerra e il terrorismo. Le classi dominanti auspicano che i giovani e i lavoratori accettino le letture dominanti e che non si pongano altre domande. La precisa funzione di uno spauracchio quale la sempre in agguato accusa di complottismo, in questo senso, è quella di impedire che la gente rifletta autonomamente.


  1. Concretamente, i pacifisti e gli anti-imperialisti occidentali come si devono muovere?

Penso che la sparizione, in Europa occidentale, del movimento contro la guerra sia una vera e propria tragedia. Nel passato si sono avuti dei grandi movimenti che si opponevano alle politiche guerrafondaie: i lavoratori scioperavano per impedire che le navi caricassero le armi che sarebbero poi state usate nelle guerre coloniali, una quota importante di giovani rifiutava di servire negli eserciti, c’erano fenomeni di disobbedienza, e gli intellettuali si mobilitavano per lanciare appelli contro la guerra e per la costruzione di un movimento per la pace.
Dopo la prima guerra del Golfo si è avuta praticamente una guerra all’anno – considero anche le guerre non dichiarate e le cosiddette proxy wars. Ma la popolazione non si è mobilitata. È vero che nel 2003 c’è stato un grande movimento contro la guerra, quando George W. Bush attaccò l’Iraq; ma nel caso specifico va tenuto conto di due fenomeni eccezionali. Bush, coi suoi metodi, ha fatto ben comprendere a tutti che si trattava d’una guerra per il petrolio; inoltre, alcuni paesi europei si sono opposti denunciando l’azione statunitense (comprendendo come si trattasse, anche, di una guerra contro l’Europa): ciò ha aperto uno spazio di discussione che rese possibile che sui media si parlasse esplicitamente di “guerra per il petrolio”. Ma nel 2011 per la Libia od oggi per la Siria sui media non si può leggere che le guerre sono fatte per interessi economici; e come se non bastasse, non è sorto alcun movimento che sensibilizzi e faccia contro-informazione. Questo è anche la conseguenza della capitolazione della sinistra – per non parlare dei socialisti al governo – e dei suoi intellettuali; le “mediamenzogne” vengono accettate, senza ricercare altre spiegazioni, e, inoltre, non si osa difendere determinati governi i quali, pur non essendo delle democrazie liberali e pur non essendo di sinistra, difendono almeno la sovranità del loro paese e con essa il diritto alla libera gestione delle loro ricchezze. La sinistra occidentale, insomma, non conducendo più una lotta contro il colonialismo e la guerra, ha commesso un vero e proprio tradimento nei confronti della sua storia: di ciò non potranno non tenere conto i progressisti delle prossime generazioni, chiamate a ricostruire al più presto un movimento per la pace di cui i popoli del Sud hanno assolutamente bisogno.



[1] In italiano, una possibile traduzione della citata esclamazione potrebbe essere la seguente: «E per quel che riguarda l’Unione Europea […], vada a farsi fottere!». Viktoria Nuland è massimo responsabile statunitense per i rapporti con l’UE e all’epoca della presidenze di George W. Bush è stata consigliera in materia di politica estera del vicepresidente Dick Cheney. Nuland ha affermato quanto sopra durante una telefonata – realizzata nel gennaio 2014 – con l’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt, in cui si è discussa la possibilità di trovare un accordo tra il governo ucraino di Viktor Ianukovich e l’opposizione guidata da Vitali Klitschko. Per maggiori informazioni, si veda s.n., “’L’Unione europea si fotta’, l’audio della diplomatica che imbarazza gli USA”, IlFattoQuotidiano.it, 6 febbraio 2014 (http://goo.gl/U269Gh). 
[2] Ahmed Bensaada, Arabesque$. Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes, Investig’Action, 2015 
[3] Michel Collon, Libye, Otan et médiamensonges, Investig’Action – Couleur livres, 2011 
[4] Qui è possibile visualizzare il video della dichiarazione di Dumas: https://goo.gl/3xk5N4 




Solidarietà al Donbass e all'Ucraina Antifascista

1) 22–29/7, Incontri pubblici con un sindacalista del Donbass in Italia
– il calendario delle iniziative pubbliche
– flashbacks: la USB per il Donbass
2) Costituito il Coordinamento Ucraina Antifascista, CNJ-onlus aderisce
– Raccolta di beni di prima necessità e donazioni 
– Petizione contro il conferimento della cittadinanza onoraria di Verona al presidente ucraino Poroshenko.


=== 1 ===

22–29/7, Incontri pubblici con un sindacalista del Donbass in Italia

IL CALENDARIO:

SAVE DONBASS
FROM UKRAINIAN ARMY
22/29 luglio 2016
Settimana di solidarietà con il popolo del Donbass
Incontri con ANDREY KOCHETOV - membro del Presidium del Sindacato della Repubblica Popolare di Lugansk

ROMA 22/7 ore 10,30 USB – Federazione nazionale V. dell’Aeroporto 129
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=nMQaSg5-Ea4

ROMA 23/7 ore 19,00 USB e Carovana Antifascista – C.S. Corto Circuito V. Filippo Serafini

NAPOLI 24/7 ore 11,00 USB – Federazione regionale Campania – V. Carriera Grande 32
https://www.facebook.com/events/267839310252281/

PADOVA 26/7 ore 20,00 USB – Federazione provinciale V. Loredan 22
https://www.facebook.com/events/537153173134594/

BOLOGNA 27/7 ore 18,00 – Federazione Emilia Romagna V. Saffi 69




=== FLASHBACKS: LA UNIONE SINDACALE DI BASE PER IL DONBASS ===


No alla guerra! No al Fascismo! L’Unione Sindacale di Base aderisce e partecipa alla Carovana Antifascista per la resistenza del Donbass


Roma – giovedì, 16 aprile 2015

L’Unione Sindacale di Base aderisce, sostiene e partecipa alla Carovana antifascista a sostegno della resistenza del Donbass e per una pace giusta che preservi la popolazione da ulteriori  escalation e aggressioni militari.
L’ USB da sempre è schierata contro la guerra: nessuna scusa di pacificazione, o artificio politico come il peace enforcing, o il pretesto della difesa di popolazioni inermi, può nascondere le ambizioni egemoniche che animano la spinta interventista dell’Unione Europea e degli Stati Uniti.

Quest’ingerenza politica, economica e militare in Ucraina ha sprofondato le popolazioni del Donbass nella miseria e nel dramma della guerra. Non è possibile rimanere indifferenti di fronte alla ricomparsa e alla legittimazione di organizzazioni che si richiamano apertamente al nazismo. Organizzazioni politiche armate come Pravyi Sector, Svoboda, e UNA-UNSO, agiscono sia sui fronti di guerra del Donbass e nella stessa Ucraina rendendosi protagoniste di crimini e linciaggi nei confronti delle popolazioni russofone e degli oppositori democratici e antifascisti.

Come era facile prevedere il cambio di regime in Ucraina non ha portato ad un miglioramento delle condizioni di vita per la popolazione, anzi:

- I governanti di Euro Maidan, con la copertura politica dell’UE e degli USA stanno demolendo la democrazia, agli attacchi squadristi si accompagna la messa fuori legge dei partiti e dei sindacati legati al movimento operaio.
- Le "riforme" economiche introdotte dall’attuale governo per ottenere prestiti dal FMI ed il sostegno politico e militare dell’UE e degli USA hanno prodotto
privatizzazioni, licenziamenti e tagli trascinando buona parte della popolazione nella miseria più di quanto non avvenisse già in passato.

-Il crollo della moneta locale, la grivna ucraina ha aumentato l’esposizione debitoria verso i prestiti in dollari del FMI.

-La guerra ed il nazifascismo sconfitti nel 1945 sono ricomparsi

Tra le tante forme di resistenza e protesta, ricordiamo quella dello scorso 23 marzo quando i Sindacati della Repubblica Popolare di Lugansk, sono scesi in piazza per rivendicare fine del blocco economico, l’applicazione degli accordi di Minsk ed il pagamento di salari e prestazioni sociali.

Come USB denunciamo le responsabilità della NATO e della leadership dell’UE che non si sono fatte nessuno scrupolo nell’armare e sostenere le bande paramilitari ultranazionaliste e apertamente neonaziste, e anzi continuano a spingere l’Ucraina verso un conflitto con il Donbass e la Federazione Russa che rischia di allargarsi pericolosamente. L’interventismo militare a difesa degli interessi economici e l’aumento dello sfruttamento dei lavoratori, sono le risposte alla crisi economica e alla competizione globale messe in campo dalla leadership europea.

L’USB condanna quest’ennesima escalation militare in Ucraina e contro la popolazione del Donbass.

Esprimiamo invece tutto il nostro sostegno alla Carovana Antifascista promossa dalla Banda Bassotti e invitiamo i nostri iscritti e militanti a sostenerla ed a pubblicizzarla.

Ai nostri sindacati fratelli del Donbass, della Novorossija e ai democratici e agli antifascisti dell’Ucraina rinnoviamo tutto la nostra solidarietà politica e umana.


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Fsm-Usb. Un mese di iniziative internazionaliste. Solidarietà al popolo siriano e ai residenti del Donbass (USB, 8 Settembre 2015)
... Dal 22 al 25 settembre il Dipartimento Internazionale USB rappresenterà tutta la Federazione Sindacale Mondiale a Lugansk, in una missione di solidarietà militante con i popoli del Donbass, aggrediti dal governo fascista di Kiev sostenuto dagli USA e dalla UE, per ribadire che la FSM ritiene irrinunciabile il principio della piena autodeterminazione dei popoli...
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Criminal case of Ukraine Government against WFTU cadre Pierpaolo Leonardi must be withdrawn now! (WFTU, 24 May 2016)
The WFTU denounces the Government of Ukraine for severe violation of trade union rights. The World Federation of Trade Unions representing 92 million members in 120, denounces the unacceptable action of the Government of Ukraine to start a criminal case against Pierpaolo Leonardi, General Secretary of USB Italy, General Secretary of TUI Public Services and Allied and an affiliate of the WFTU for “illegal entry in Donbass”. Pierpaolo Leonardi entered Donbass in his official capacity of trade union representative of WFTU and TUI Public Services to express solidarity with the people of Donbass heading an official solidarity mission of WFTU...

Il governo Renzi minaccia chi va a Lugansk e in Donbass, codice ucraino alla mano (di Redazione Contropiano, 24 maggio 2016)
... Qui la lettera dal tono vagamente minaccioso inviata a Pierpaolo Leonardi, dell’esecutivo nazionale Usb e segretario internazionale dei lavoratori del pubblico impiego per la Wtu-Fsm (la Federazione sindacale mondiale), andato di recente nelle Repubbliche Autonome per un congresso sindacale...



Pierpaolo Leonardi
May 24 2016
 
Il Ministero degli Affari Esteri è stato così gentile da comunicarmi che il Governo Ucraino ha aperto un procedimento penale nei miei confronti per "violazione delle norme interne in materia d'ingresso dei cittadini stranieri nei territori d'Ucraina temporaneamente occupati" in riferimento alla visita effettuata nella "cd Repubblica Popolare di Lugansk". Il MAE non si limita ad informarmi dell'apertura del procedimento penale ai sensi dell'articolo 322 comma 1 del Codice Penale Ucraino, ma si perita di " richiamare la sua attenzione sul non riconoscimento da parte dell'Italia delle sedicenti Autorità autoproclamatesi a Lugansk, come da orientamento conforme di tutti i Paesi membri dell'Unione Europea".
Il Ministero degli Affari Esteri non mi sembra sia stato altrettanto efficiente nel denunciare il massacro della Casa dei Sindacati di Odessa perpetrato da nazifascisti Ucraini sotto l'amorevole sguardo della polizia di Poroshenko o dal condannare le continue violazioni dell'Accordo di Minsk da parte delle truppe Ucraine e dei battaglioni nazisti nel Donbass. 
Chi va in Donbass a portare solidarietà ai lavoratori e alle popolazioni di quelle terre è da processare e il nostro governo si spertica a fare da passacarte, chi massacra gli innocenti è da proteggere... ce lo dice l'orientamento conforme dell'Europa tutta!

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NOTA DI PROTESTA USB AL GOVERNO DELL'UCRAINA


Roma – venerdì, 27 maggio 2016 – La Confederazione Italiana UNIONE SINDACALE DI BASE protesta formalmente per la comunicazione del Governo Ucraino, pervenuta tramite nota del Ministero degli Affari Esteri d’Italia, con la quale si dà notizia di un presunto ingresso in territorio Ucraino avvenuto in modo ritenuto illegale del nostro dirigente nazionale Signor Pierpaolo Leonardi.
Pierpaolo Leonardi, membro dell’Esecutivo nazionale confederale USB e Segretario Generale del Sindacato Internazionale dei Lavoratori Pubblici affiliato alla Federazione Sindacale Mondiale, si è recato nel territorio della Repubblica Popolare di Lugansk, quindi non in Ucraina, a capo di una missione internazionale di solidarietà ai lavoratori e alla popolazione di Lugansk promossa dalla Federazione Sindacale Mondiale.
La delegazione ha attraversato il confine tra la Russia e il Donbass senza trovare alcun ostacolo e senza che gli fossero richiesti visti di ingresso o particolari autorizzazioni in quanto giunti su esplicito invito del Sindacato dei Lavoratori della RPL affiliata alla Federazione Sindacale Mondiale.
Denunciamo quindi il tentativo di impedire il libero esercizio dell'attività sindacale e di solidarietà internazionalista ai dirigenti sindacali della nostra organizzazione e della Federazione Sindacale Mondiale a cui la USB è affiliata.
Il governo Ucraino non ha alcun diritto a definire illegale la visita della delegazione di solidarietà internazionale che è avvenuta non in territorio Ucraino bensì in territorio della Repubblica Popolare di Lugansk.
p/Esecutivo Nazionale USB

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Pierpaolo Leonardi
June 30, 2016

Oggi pomeriggio collegamento via Skype con i/le compagni/e del sindacato della Repubblica Popolare di Lugansk. Un'ora di confronto e di scambio di informazioni sulla drammatica situazione nel Donbass. Con noi i compagni della Banda Bassotti.
Abbiamo invitato un sindacalista a venire in Italia a raccontare cosa sta succedendo. Sarà in Italia dal 22 al 28 luglio e faremo iniziative a Roma Napoli Bologna e Padova
Partecipiamo tutti


SOLIDARIETA’ INTERNAZIONALE: CONFERENZA VIA SKYPE DONBASS - ITALIA

Roma – venerdì, 01 luglio 2016
Si è svolta ieri 30 giugno una conferenza via Skype tra la USB – Dipartimento Internazionale – e il Segretario Generale e alcuni membri del Sindacato dei Lavoratori della Repubblica Popolare del Donbass. Al meeting hanno partecipato membri della Carovana per il Donbass e della banda musicale “Banda Bassotti”.
L’incontro, durato circa 1 ora, aveva per oggetto la repressione del Governo Ucraino nei confronti dei sindacati internazionali che offrono solidarietà militante ai lavoratori e alla popolazione del Donbass.
Nel confronto sono stati ricordati gli episodi dell’incriminazione di Pierpaolo Leonardi, USB e Segretario generale della TUI PS&A, per illegale accesso in territorio Ucraino per essersi recato nella Repubblica Democratica di Lugansk, la protesta formale nei confronti del governo Austriaco per aver ospitato a Vienna la riunione della Segreteria Europea del WFTU a cui partecipava un membro del sindacato di Lugansk.
USB ha ribadito la propria intenzione di sviluppare la solidarietà internazionalista con il Sindacato e i lavoratori del Donbass ed ha formalmente invitato un membro della Segreteria del sindacato di Lugansk a venire in Italia per un tour di conferenza nelle maggiori città italiane.
Il tour si svolgerà dal 22 al 29 luglio. 


=== 2 ===

E' STATO COSTITUITO IL COORDINAMENTO UCRAINA ANTIFASCISTA

In continuità con i contatti e le iniziative intraprese da più di un anno a questa parte a sostegno della resistenza contro il regime golpista di Kiev e per fornire aiuti alle popolazioni vittime della guerra fratricida in Ucraina, il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS ha aderito al recentemente costituito Coordinamento Ucraina Antifascista (CUA), che riunisce i comitati che in Italia e dintorni sono impegnati in tal senso.

Tra le numerose attività in cantiere, segnaliamo di seguito la Raccolta di beni di prima necessità e donazioni e la Petizione contro il conferimento della cittadinanza onoraria di Verona al presidente ucraino Poroshenko.

Per altri aggiornamenti raccomandiamo di seguire la pagina facebook del CUA:

Si veda anche:
Solidarietà al Donbass, parlano due attiviste del CUA (di Francesco Fustaneo, 15 luglio 2016)

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Save Donbass People

Raccolta di beni di prima necessità e donazioni
CC. IT87C0335967684510700158166,
intestato a Nova Harmonia.

La guerra fratricida scoppiata in Ucraina nel maggio del 2014 ha causato fino ad oggi circa 10.000 vittime e decine di migliaia di feriti. Quella del Donbass è una guerra "che non c'è”, un conflitto oscurato dai media e dalla complice ignavia dei politici europei. Un’intera popolazione, la cui unica colpa è quella di voler decidere liberamente del proprio destino, sopporta quotidianamente la violenza dei bombardamenti, la penuria di viveri e di farmaci ed il blocco economico imposti dal governo golpista e filofascista di Kiev.
Nei villaggi a ridosso del fronte i civili sono allo stremo, molti malati non ricevono le cure adeguate e muoiono nel disinteresse della comunità internazionale; migliaia di bambini soffrono di forme di avitaminosi causate dalla malnutrizione, la sussistenza alimentare di intere famiglie è legata ai soli frutti dell’orto.
Quali antifascisti, sostenitori della lotta per l’indipendenza e la libertà dei popoli, donne e uomini di buona volontà, vogliamo manifestare la nostra solidarietà materiale ai nostri coraggiosi fratelli dell’Est!
Raccogliamo beni di prima necessità da inviare nel Donbass in sostegno alla popolazione colpita dalla guerra!
Occorrono: cibo in scatola, confezionato e non deperibile di qualsiasi genere; prodotti per l'igiene personale (shampoo, bagnoschiuma, schiuma da barba, lamette, dentifricio, assorbenti, pannoloni etc.); cibo e prodotti per l’igiene dei neonati (pappe, pannolini, oli e creme per il corpo, ciucci e biberon); materiale sanitario e medicine (siringhe, garze, ovatta, Paracetamolo, Ibuprofene, “Kreon 10000”, “Depakin 300 mg”); biancheria per la casa; vestiti per bambini; giocattoli.
Aiutaci a rompere il muro del silenzio!
Il Donbass vivrà, i fascisti non passeranno!»
COORDINAMENTO UCRAINA ANTIFASCISTA
Per info: ucraina.antifascista.bo@...

Coordinamento Ucraina Antifascista

evento facebook: 

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PETIZIONE

Nessuna onorificenza per Poroshenko

Noi sottoscritti, cittadine e cittadini italiani e non, premesso che il Consiglio Comunale di Verona ha approvato la proposta del sindaco Flavio Tosi di conferire la cittadinanza onoraria a Petro Poroshenko, quale segno di riconoscenza per il recupero dei quadri di Castelvecchio, siamo ad evidenziare quanto tale provvedimento si ponga in contrasto con i principi e i diritti fondamentali della persona umana, sanciti dalla nostra Costituzione e dalle norme del diritto internazionale sia consuetudinario sia convenzionale. La decisione di conferire tale onorificenza a Petro Poroshenko, divenuto capo dello Stato ucraino a seguito di elezioni svolte in un clima di violenze di piazza e guerra civile nel Donbass, offende il senso profondo della giustizia e del rispetto dei diritti umani universali. Il Presidente Poroshenko è, infatti, a capo di un sistema politico-istituzionale che trae il proprio fondamento dal colpo di Stato del febbraio 2014 che rovesciò il precedente Presidente Yanucovich, elettoralmente legittimato. Nel succitato colpo di Stato hanno avuto un ruolo decisivo forze neo-naziste alle quali appartengono anche ministri dell’attuale governo che persegue una politica di sistematica repressione del dissenso e di violazione dei diritti umani nei confronti della consistente componente russofona e, in generale, di tutte le minoranze. La popolazione russofona del Donbass è sottoposta a una costante opera di repressione militare che il governo di Kiev attua persino mediante bombardamenti indiscriminati contro civili. Le opposizioni all’attuale governo stanno subendo una spietata repressione. Basti solamente evocare gli innumerevoli episodi di eliminazione fisica, incarcerazioni senza garanzie processuali ed emigrazioni coatte. Tali violazioni sono ulteriormente sostanziate da una serie di gravissimi fatti di cui il governo, l’esercito ucraino e una serie di bande paramilitari si sono resi responsabili negli ultimi due anni. Fra i gravissimi fatti di cui sopra, ricordiamo la strage del 2 maggio 2014 a Odessa nella quale furono bruciati vivi moltissimi civili da bande paramilitari filonaziste e filogovernative. I rapporti dell'ONU e di Amnesty International, a tal riguardo, affermano che le indagini condotte dal governo di Kiev "non soddisfano i requisiti della Convenzione europea sui diritti umani " e che, dopo due anni dalla tragedia, non sono stati trovati i colpevoli poiché godono della complicità della polizia e della protezione del governo di Kiev. Ci appelliamo, pertanto, al Suo ruolo di Garante della Costituzione e alla Sua sensibilità istituzionale affinché intervenga nei modi che riterrà più opportuni, al fine di evitare il rischio che, attraverso l’onorificenza di cui sopra, si consumi una palese offesa ai principi di democrazia e al rispetto dei diritti dell’uomo. 
Auguri di buon lavoro, signor Presidente.

Primi firmatari
1. Coordinamento Ucraina Antifascista
2. Banda Bassotti
3. Lidia Menapace, partigiana, Comitato nazionale ANPI, politica, saggista
4. Licia Pinelli, Milano
5. Vittore Bocchetta, ex-deportato, antifascista, Verona
6. Luciano Perenzoni, partigiano, divisione pasubiana
7. Umberto Lorenzoni, partigiano divisione "Nannetti", Presidente provinciale ANPI Treviso
8. Riccardo Saurini, consigliere comunale, Verona
9. Gianni Benciolini, consigliere comunale, Verona
10. Valerio Evangelisti, scrittore
11. Giorgio Cremaschi, sindacalista
12. Pierpaolo Leonardi, Esecutivo nazionale USB, Segretario Generale del
Sindacato Mondiale dei Lavoratori Pubblici
13. Domenico Losurdo, professore universitario e direttore dell'Istituto di 
Scienze filosofiche e pedagogiche "Pasquale Salvucci" all'Università di 
Urbino
14. Angelo D’Orsi, professore universitario, Università di Torino
15. Massimo Zucchetti, professore universitario, Università di Torino
16. Alexander Hobel, professore universitario, Università Federico II, Napoli
17. Andrea Genovese, professore universitario, University of Sheffield (GB)
18. Daniele Butturini, professore universitario, Università di Verona
19. Giuseppe Amata, professore universitario, Università di Catania
20. Mauro Gemma, direttore Marx21
21. Sergio Cararo, direttore di Contropiano
22. Checchino Antonini, direttore di Popoff Quotidiano
23. Fabrizio Marchi, giornalista, pubblicista direttore del periodico on line L'Interferenza
24. Marco Santopadre, giornalista
25. Antonio Mazzeo, giornalista, attivista no muos
26. Franco Fracassi, scrittore, giornalista
27. Marinella Correggia, giornalista e scrittrice
28. Giuseppe Aragno, storico, Fondazione Humaniter, Napoli
29. Sandi Volk, storico, Commissione consultiva del Comune di Trieste per il Civico Museo della Risiera di S. Sabba – Monumento nazionale.
30. Banda POPolare dell'Emilia Rossa

Questa petizione sarà consegnata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella