Informazione
LA PORTA D'INGRESSO DELL'ISLAM
Bosnia Erzegovina: un Paese ingovernabile
Oggi la Bosnia Erzegovina è nello stesso stato d’allora, congelata dalla costituzione imposta a Dayton, in uno stato di caos contenuto e di odio. Nel corso degli anni si sono alternati Alti Commissari europei al controllo del paese, ma anche altre nazioni sono intervenute nel delicato equilibrio. La Turchia ha una forte presenza. Ricchi finanziamenti giungono da Iran e Arabia Saudita per costruire moschee e scuole islamiche. Dalle parole di diversi protagonisti della politica locale e internazionale intervistati in queste pagine esce un'imbarazzante realtà.
Un’importante geopolitico francese, il Generale Pierre Marie Gallois, esaminando nel 1997 la politica statunitense in Bosnia-Erzegovina, aveva commentato che era stata aperta all’Islam la porta d’Europa, un paese a tre ore e mezzo d’autostrada da Trieste.
Mid-October 2002: British Administrator Fires Bosnian Official Vigorously Investigating Terrorism and Corruption
Les unités spéciales de la Police fédérale bosnienne ont lancé, mardi 22 décembre, une vaste opération pour démanteler une cellule islamiste en lien avec l’État islamique. Onze personnes ont été arrêtées. Elles sont soupçonnées de recruter des volontaires pour des opérations terroristes...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/bosnie-herzegovine-terrorisme.html
La justice a rendu, mardi 6 octobre, sa première sentence contre des ressortissants bosniens qui voulaient joindre les rangs de Daech en Syrie. Les peines infligées sont toutefois légères et peu dissuasives, et la répression suffira-t-elle à dissuader les volontaires du jihad ?...
Glavni imam džamije Kralja Fahda u Sarajevu Nezim Halilović Muderis pozvao je na "uništenje" lobista protiv rezolucije o Srebrenici i njihovih porodica, kao i "entiteta sazdanog na zločinu i genocidu"...
Nezim Halilovic, imam of the mosque of King Fahd in Sarajevo, in his last sermon, (religious lecture), called upon Allah to demolish the Republic of Serbska, or as he said, “entity built on crime and genocide”...
https://www.cnj.it/CHICOMEPERCHE/sfrj_02.htm
VIDEO: http://sendvid.com/69gcsdj2 and on youtube: https://www.youtube.com/watch?v=Wx-REROXvtg
2) Erdogan Fulfilling His NeoOttoman Dream Through Bosnia (G. Carter) / MR. IZETBEGOVIC’S MEIN KAMPF
3) FLASHBACK: Il caso Cesur– Ikanovic– Bektasevic (2005-2006)
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Ferhadija-un-messaggio-di-speranza-170855/
di Jean Toschi Marazzani Visconti
Desidero premettere, prima che qualcuno avanzi supposizioni, che sono profondamente laica con un quasi ossessivo rispetto del territorio altrui e che ritengo la libertà di religione assolutamente capitale. Allo stesso tempo difenderei a spada tratta i miei diritti alla laicità, cultura, tradizione e storia occidentali. Insomma, vivi e lascia vivere.
Detto questo, vorrei raccontare cosa mi ha colpito a Banja Luka nella Republika Srpska, sabato 7 maggio. Ecco la storia che mi ha portato a riflettere. Sabato 7 maggio ero a Banja Luka per partecipare alla riunione biennale del Comitato internazionale del campo di sterminio croato di Jasenovac (1941-1945), di cui sono membro.
Quando sono approdata all’hotel Bosna, ho notato un brulicare di signori ben vestiti, come se ne vedono solo a dei meeting di alta finanza a Londra. Erano marziani rispetto all’abbigliamento maschile locale. Si trattava di giordani, sauditi, rappresentanti del Katar, Dubai, alcuni impeccabili notabili europei, britannici e americani.
Molta polizia, alcuni enormi costoloni vestiti di scuro con la cordicella all’orecchio, un’ala dell’albergo off limit e, finalmente, con un’imponente seguito di uomini di svariate taglie, tutti regolarmente in blu, c’era il premier turco dimissionario Ahmet Davutoglu.
La sensazione era che questa gente si comportasse come fossero in una loro colonia senza nessuna attenzione per gli indigeni. Rispetto alla situazione i serbi sembravano assenti, chiusi in un loro mondo parallelo.
Perché questa insolita presenza? In quel giorno il Mufti Edhem Camdžić inaugurava la moschea ricostruita in seguito all’esplosione che nel 1992 l’aveva fatta saltare. Alla cerimonia presenziavano il presidente musulmano Bakir Izetbegović e l’ex premier turco Davutoglu, oltre a rappresentanti di molti paesi arabi. L’ex premier turco ha pronunciato un discorso di un’arroganza incredibile con espressioni molto forti che hanno creato scandalo fra i serbi e sono state riportate dai giornali. Non mi sembra sia uscita una parola in proposito nei nostri media. Cito alcune frasi di Davutoglu.
La Turchia è stata qui per lungo tempo, è qui ora, e rimarrà per sempre.
I musulmani non devono temere perché dietro di loro ci sono 70 milioni di turchi.
Il discorso è riportato nel quotidiano Politika di Belgrado, 7 maggio 2016.
http://www.politika.rs/sr/clanak/354537/Davutoglu-u-Banjaluci-Turci-su-bili-ovde-sada-su-i-bice-zauvek
Fra l’altro, il giorno dopo, sulla cima del minareto ho visto svettare la bandiera verde dei musulmani, non quella della Bosnia Erzegovina o della Republika Srpska.
Il presidente serbo Dodik ha dichiarato in una conferenza stampa di non aver partecipato all’inaugurazione per rispetto a una cerimonia religiosa, dove la politica avrebbe dovuto essere esclusa. Ha anche aggiunto che l’opposizione cerca in ogni modo di toglierlo di mezzo e che il partito Alleanza per il cambiamento, all’opposizione, è finanziato con denaro turco e britannico.
http://www.klix.ba/vijesti/bih/dodik-o-protestima-opozicija-turskim-parama-realizuje- izdaju/160509116
Pochi giorni prima, il capo della CIA John Brennan era stato a Sarajevo. La sua visita sarebbe stata interpretata come un tentativo di frenare gli estremisti musulmani in Bosnia. Ovviamente le pesanti dichiarazioni dell’ex premier turco devono aver dato ai radicali musulmani un notevole stimolo contrario.
Il giorno seguente, 8 maggio, si sarebbe svolta la cerimonia commemorativa per il 71° anniversario delle vittime di Jasenovac a Donja Gradina, campo 8 del complesso di concentramento dove avvenivano le uccisioni di massa. Qui si trovano tuttora le fosse comuni. Di fronte, al di la del fiume Sava, in Croazia c’è il campo 3 dove entravano i prigionieri.
Ovviamente la scelta del 7 per l’inaugurazione della moschea è stata interpretata come una mancanza di rispetto per la cerimonia del giorno seguente.
Di fronte all’incredibile disinvoltura del premier turco mi sono posta alcune domande:
. Come è possibile che un ministro turco si permetta di affrontare argomenti inerenti al paese che lo ospita con tanta sicumera? E di fronte ad alcuni rappresentanti della politica europea e americana.
. Cosa significa la presenza di tanti rappresentanti dei paesi arabi? Erano gli sponsor della ricostruzione? O testimoniavano un’unità ideale?
. Considerata la condizione precaria dell’Europa, prossima a dissolversi a causa dell’immigrazione dalla Turchia, è possibile che l’ondata di siriani per i Balcani sia stata concertata dalla Turchia con il beneplacito americano e ora sia sfuggita di mano agli USA e le fila siano tirate dalla Turchia e dall’Iran?
. Si può ipotizzare che la Dichiarazione Islamica di Aljia Izetbegović faccia parte di un piano che con il tempo e la pazienza il mondo islamico stia mettendo in opera? L’Islam ha dalla sua parte una raffinata e antica sapienza di attendere, di usare l’aumento demografico e la frustrazione dei giovani islamo europei.
. I disastri compiuti dai paesi occidentali in passato attendono ancora vendetta. Possibile che i conflitti fra wahabiti e salafiti, fra sciiti e sunniti possano annullarsi nella volontà comune di piegare l’Occidente? L’Europa in particolare
. Possibile che gli USA non si rendano conto dei giochi della politica islamica, turca, iraniana o saudita? Possibile che nella loro arroganza abbiano sopravalutato la loro capacità di controllare questo mondo?
Questi dubbi mi sono nati durante i miei vari soggiorni nei Balcani e confermati, sempre con tanti punti interrogativi, mentre facevo le interviste per il libro in uscita La porta d’ingresso dell’Islam. Bosnia Erzegovina: paese ingovernabile (*), il cui titolo proviene da un commento che il generale Pierre Marie Gallois, noto geopolitico francese, aveva espresso nel 1997 a proposito della politica americana in Bosnia Erzegovina. Aveva detto che gli Stati Uniti avevano aperto la porta d’ingresso in Europa all’Islam.
Додик: Давутоглу послао неоосманске поруке
Izvor: www.politika.rs – недеља, 08.05.2016.
„Јуче смо имали прилику да видимо да премијер турске владе у оставци није оклевао да пошаље неоосманске поруке, да упути поруке које иду несумњиво у правцу тога да нама Србима каже да Турска не одустаје од мешања у унутрашње ствари у БиХ, да сматра да је то њихово природно право”, рекао је Додик новинарима у Козарској Дубици, пренела је Фена.
То је, оценио је, јасна порука свима у РС да морају да јачају своје институције.
Он је истакао да није одржао говор на отварању обновљене Ферхат-пашине џамије у Бања Луци, јер је, како тврди, одбијен захтев да на церемонији буде постављена и застава РС.
Додик сматра да је застава требало да буде постављена „јер се све и одвијало на простору РС”.
За Додика је важно и да се Срби држе заједно, без обзира на најављене протесте опозиције 14.маја у Бањалуци, а присуство опозиционара на комеморацији у Доњој Градини види као знак да су и они свесни важности очувања српског идентитета, преноси Танјуг.
An unnamed man originally from Bosnia-Herzegovina, employed by Vienna's Schwechat airport, has been suspended for being "a sympathizer of Islamic State."
SOURCE: TANJUG WEDNESDAY, APRIL 6, 2016 | 10:58
Media in Vienna are reporting that the Bosnian man worked as a technician at the airport for many years.
He in the past posted pictures of himself online showing him "holding a raised index finger, in a victorious pose - similar to Islamic State fighters."
In addition, he "used some websites" to express his liking of Islamic State, "and followed radical Salafi messages," while other employees thought he stood out due to his "radical world view."
Source: Agencias
08-03-2016
“Debido a las condiciones insoportables sobre el terreno, un cierto número de ciudadanos bosnios que se encontraban en Siria o en Iraq han contactado con las agencias de seguridad de Bosnia para manifestar su deseo de volver al país”, dijo el fiscal general en un comunicado.
“Ellos están dispuestos a declararse culpables y a cumplir una pena de prisión”.
El fiscal se felicitó por un acuerdo suscrito con un takfiri, Emin Hodzic, de 24 años, en septiembre de 2014. Él se reconoció culpable de haberse unido al EI en Siria y aceptó cumplir una pena de 12 meses de prisión.
El fiscal no precisó el número de combatientes takfiris que querían volver al país balcánico, que adoptó una nueva legislación en 2014, que prevé penas que van hasta los 20 años de cárcel para los militantes takfiris y sus reclutadores.
“Varias decenas de personas han sido objeto de investigaciones”, dijo Boris Grubesic, portavoz del fiscal.
“Hasta el momento, 20 personas han sido condenadas por reclutamiento o por haberse unido a grupos terroristas extranjeros”.
Las autoridades bosnias calculan que entre 230 y 330 ciudadanos bosnios se han unido a grupos terroristas en Siria o Iraq, algunos con sus familias. Al menos 26 han muerto y unos 50 han vuelto a su país”.
Da: "comitatodanilodolci @libero.it"
Oggetto: Tavola rotonda: legge tutela degli sloveni in Italia - 15 anni
Data: 17 maggio 2016 17:44:22 CEST
A 15 anni dalla legge di tutela della minoranza slovena:
a che punto siamo?
invito - vabilo
Tavola rotonda
legge 28 del 2001
una tappa fondamentale per la convivenza
Aspettative, pregi e limiti
dopo 15 anni dalla sua promulgazione.
Mercoledì 18 maggio ore 17.45
in via Valdirivo 30, Trieste, II piano
presso la sede dell'Ente italiano per la
conoscenza della lingua e della cultura slovena.
Coordinerà il prof. Jože Pirjevec.
Parteciperanno:
il sen. Fulvio Camerini,
il sen. Milos Budin,
il Presidente regionale SKGZ (Unione Culturale Economica
Slovena) Rudi Pavisc,
il Presidente regionale SSO (Unione delle Organizzazioni
Slovene) Walter Bandelj,
il prof. Samo Pahor,
il sen. Stojan Spetič.
Per ulteriori informazioni contattare:
Evento Facebook: Legge di tutela degli Sloveni in Italia – 15 anni dopo
Petnajst let po odobritvi zakona se postavlja vprašanje
pomemben korak za sožitje.
VABILO – INVITO
Okrogla miza o zakonu št. 38 iz leta 2001 pričakovanja, odlike in pomanjkljivosti.
V sredo, 18. maja 2016, ob 17.45 v ulici Valdirivo 30, Trst, II. nadstropje na sedežu Italijanske ustanove za spoznavanje slovenskega jezika in kulture.
Vodil bo prof. Jože Pirjevec.
Sodelovali bodo:
Sen. Fulvio Camerini,
Sen. Miloš Budin,
Deželni Predsednik SKGZ, Rudi Pavšič,
Deželni Predsednik SSO, Walter Bandelj,
Prof. Samo Pahor, sen. Stojan Spetič.
Za nadaljnje informacije
Dogodek facebook:
Legge tutela degli Sloveni in Italia – 15 anni dopo
A 15 anni dalla legge sulla tutela della minoranza slovena, tappa fondamentale per una serena convivenza. Da sempre nella nostra città coesistono due comunità linguistiche diverse: la italiana e la slovena; comunità che sono convissute pacificamente per secoli e grazie all’impero asburgico hanno avuto cittadinanza, scuole, commerci, ricchezze. Ma tutti conosciamo gli avvenimenti tragici del secolo scorso, le sofferenza dei cittadini di questa città e gli strascichi ideologici ma soprattutto emotivi che hanno lasciato nella comunità . Ma il nuovo secolo ci presenta sperabilmente un nuovo clima, molti genitori iscrivono i figli alle scuole con lingua di insegnamento slovena, alcune scuole italiane stanno introducendo anche l’insegnamento dello sloveno,il il teatro di via Petronio non è più off limits agli italiani ma offre possibilità culturali diverse agevolate anche dai sottotitoli, da qualche anno studenti delle scuole superiori italiane e slovene si incontrano e parlano insieme della storia della nostra città, e così via. Ci sono insomma nuove sensibilità e grandi aperture da ambedue le parti. A questo ha contribuito senz’altro la legge 38 che nel 2001 è stata emanata nello scorcio finale della legislatura del centrosinistra . Fino a quel momento molte erano state le discussioni. Molte le aspettative, molte le contrapposizioni, ma l’approvazione della legge rappresentò , tra mediazioni e compromessi, un atto dovuto alla comunità slovena, il riconoscimento di quei diritti che. presenti nella Costituzione, pur ricordati in molti atti giuridici non erano ancora normati .La legge così fu salutata con soddisfazione non solo dai cittadini di lingua slovena ma anche da tutti quelli che, sinceramente democratici, auspicavano una convivenza finalmente serena e rispettosa della culture storiche di questa città. Così il Centro Italo-Sloveno e il Comitato Pace Convivenza “Danilo Dolci” hanno organizzato una tavola rotonda Mercoledì 18 alle ore 17.45 per riflettere sui 15 anni trascorsi dall’emanazione e sugli aspetti culturali positivi di questa legge, sui pregi e i suoi limiti. La tavola rotonda si terrà nella sede di via Valdirivo 30 dove, dagli anni ‘70, l’Ente Italiano per la conoscenza della lingua e della cultura slovena cominciò a proporre le lezioni di lingua e cultura slovena agli italiani e dove nel 2001 il senatore Camerini la presentò prima ancora della promulgazione. Coordinata dal prof. Pirjevec vi parteciperanno lo stesso prof. Camerini,il senatore Milos Budin, il Presidente regionale SKGZ Rudi Pavsič, il presidente regionale SSO Walter Bandelj, il prof. Samo Pahor, il senatore Stojan Spetič.Altre informazioni:
http://www.camera.it/parlam/leggi/01038l.htm
Around 300 of Turkish- and Arabic-speaking mercenaries arrived in the city of Mariupol under Ukraine's control, the Donetsk People's Republic military reported citing locals...
http://sputniknews.com/europe/20151231/1032556958/turkish-arabic-mercenaries-ukraine.html
Riunitosi presso l’hotel Bilkent di Ankara (Turchia) il 1° agosto 2015, sotto la presidenza congiunta del ministro degli Esteri ucraino Pavlo Klimkin, e del viceprimo ministro turco Numan Kurtulmus, il secondo Congresso mondiale dei Tartari ha accolto più di 200 associazioni...
http://www.voltairenet.org/article188369.html
Mariupol, Ucraina. Vestito con una tuta mimetica,con una folta barba sale e pepe fluente sul petto e un coltello da caccia prominente dalla cintura, l'uomo è una figura temibile nel ristorante quasi deserto. I camerieri si aggiravano con apprensione nei pressi della cucina e cercavano il più possibile che l'uomo che si fa chiamare il Muslim, un ex signore ceceno della guerra, non li chiamasse per chiedere ancora del tè. Anche per uomini induriti da più di un anno di guerra contro i ribelli, l'apparire dei combattenti islamici, per la maggior parte ceceni nelle città di confine, è sempre qualcosa di particolare e per qualche ucraino, essi sono benvenuti.“Ci piace combattere i russi” ha detto il ceceno che si è rifiutato di dire il suo vero nome,”Li abbiamo sempre combattuti”.
Comanda una delle truppe di volontari islamici di circa trenta unità in totale che combattono ora nell'Ucraina dell'est. I battaglioni islamici vengono distribuiti nelle zone più calde che è poi il motivo per cui il ceceno era qui.La guerriglia si sta intensificando vicino a Mariupol, porto strategico e zona industriale che i separatisti hanno a lungo occupato. Monitoraggi dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, dicono di aver visto spedizioni notturne quotidiane di equipaggiamento militare russo sulla linea ferroviaria a nord di qui.Isa Munayev ha aiutato a reclutare combattenti musulmani ceceni ed è stato ucciso a febbraio, ha detto un altro leader.
L'esercito ucraino, sbandato e senza fondi, è stato in gran parte inefficace. Così gli ucraini considerano ben accetto anche il sostegno che giunge dai militanti islamici provenienti dalla Cecenia. “Sono su questo fronte da ventiquattro anni a questa parte, dal periodo del crollo dell'Unione Sovietica” ha detto il ceceno.“La guerra per noi non è mai finita. Non abbiamo mai disertato dalla guerra contro la Russia e mai lo faremo”.
I comandanti ucraini temono che i gruppi separatisti progettino di occupare le strade di accesso a Mariupol e di assediare la città che, prima della guerra, aveva una popolazione di circa mezzo milione di abitanti.Per contrastare questo pericolo, il governo ha pensato di fare affidamento su un assortimento di forze paramilitari della destra e sulle milizie islamiche per la sua difesa. Il ceceno comanda il gruppo dello sceicco Mansur, che prende il nome da un figura della resistenza cecena del diciassettesimo secolo. E' subordinato a Pravy Sector, una milizia estremista ucraina. Né il gruppo dello sceicco Mansur né Pravy Sector sono incorporati nella polizia ufficiale o nelle forze militari, e le autorità si rifiutano di dire il numero di ceceni che combattono nell'Ucraina dell'est. Sono tutti volontari. Oltre ad un nemico, questi gruppi non hanno molto in comune con gli ucraini o, per quello che conta, con gli alleati dell'Ucraina in occidente, Stati Uniti compresi. Pravy Sector, per esempio, durante lo scorso anno, ha dato vita a forme di protesta in strada a Kiev, con una mezza dozzina di gruppi nazionalisti marginali come il “Martello Bianco” e il “Tridente” di Stepan Bandera. Un altro, il battaglione Azov è apertamente neonazista e sventola il gancio del lupo, simbolo associato con le SS. Senza affrontare la questione del simbolo nazista, il ceceno ha detto che va d'accordo con i nazionalisti perché, come lui, amano la propria patria e odiano i russi.
Per cercare di rafforzare le abilità delle forze regolari ucraine e ridurre la dipendenza di Kiev da questi paramilitari ai confini della legalità, l'esercito degli Usa sta formando la guardia nazionale ucraina. Agli americani è specificatamente proibito dare dritte ai membri del gruppo di Azov.
Dalla guerra in Afghanistan del 1980, Mosca ha accusato gli Usa di incoraggiare i militanti islamici a combattere la Russia lungo il suo confine più vulnerabile, quello meridionale, una politica che potrebbe abilmente risolvere due problemi, da un lato, contenere la Russia, dall'altro distrarre i militanti dagli Usa. Il leader ceceno R.Kadyrov ha accusato il governo georgiano filoccidentale di infiltrare radicali islamici nel Caucaso del nord.
In Ucraina, le unità di Dzhokhar Dudayev e Sheikh Mansur, sono per lo più formate da ceceni, ma includono musulmani da altre aree di confine sovietiche come Uzbekistan e Balkars. La terza unità, la “Crimea”, è in prevalenza composta da tatari crimeani. Lungo il fronte, circa sette miglia ad est, le truppe si muovono speditamente in auto civili, e con i fucili AK-47 sparano dai finestrini, mentre l'esercito regolare è collocato in una linea secondaria di trincee di difesa. I ceceni, a detta di tutti, sono soldati di valore. I comandanti ucraini sponsorizzano le loro abilità come cecchini ed esploratori, dicendo che scivolano nella terra di nessuno per pattugliare e fare agguati. I ceceni sono rinomati per le loro imboscate e per i raid. Nell'intervista, il comandante ceceno ha detto che i suoi uomini amavano combattere con poco equipaggiamento protettivo. “Questo è il nostro modo di guardare a lui” ha detto, “Noi crediamo in Dio così non abbiamo bisogno di protezioni”.
Nell'intervista al ristorante bisteccheria, locale preferito frequentato da Pravy Sector, il ceceno ha detto di avere all'incirca 45 anni, di aver combattuto contro la Russia in entrambe le guerre cecene e di aver visto una buona quantità di violenza. Quando parla di combattere, i suoi occhi diventano scuri e imperscrutabili. Per gli ucraini, la decisione di aprire tranquillamente il fronte a figure come il ceceno, che arrivano qui dall'Europa e dall'Asia centrale, ha il significato di avere uomini agguerriti al loro fianco. Il ceceno aveva vissuto in Francia e fondato i “battaglioni ceceni” lo scorso autunno con Isa Munayev, un emigrato dalla Cecenia che viveva in Danimarca. Munayev, ha detto il ceceno, aveva ricevuto l'approvazione da membri di alto livello del governo ucraino, ma non c'era niente di scritto, ha detto, aggiungendo che Munayev è stato ucciso in battaglia lo scorso febbraio.
Sebbene religiosi, i gruppi ceceni dell'Ucraina orientale si ritiene aderiscano al ceppo più estremista del movimento separatista ceceno, secondo E.S., un'esperta internazionale della Cecenia. Le autorità francesi, che conoscono bene l'estremismo islamico, radicato nelle loro comunità di immigrati, hanno arrestato quest'anno due membri del battaglione dello Sceicco Mansur con l'accusa di appartenenza ad un gruppo estremista dello stato islamico, ha detto il ceceno. Quest' ultimo ha negato che i due fossero membri di questo gruppo. “E' utile per l'Europa che combattiamo qui come volontari. Ma non tutti lo capiscono.”
Da NYT - Traduzione di Alice L. per CISNU-civg.it
E così, se le vittime civili del Donbass, che si avvicinano ai diecimila morti ufficiali, continuano ad accumularsi anche nei giorni di tregua, la Rada di Kiev non interrompe i propri spettacoli nemmeno in prossimità delle feste di fine anno. Mentre due civili cadevano sotto i proiettili di mortaio nel rione Zajtsevo della città di Gorlovka, nella DNR, i deputati della Rada proseguivano nella loro esternazione della “dialettica parlamentare”, intesa alla maniera degli squadristi che, all'esterno della propria cerchia, massacrano i civili e, all'interno, danno prova di reciproca “tolleranza democratica”. Si va così dall'epiteto di “prostituta”, affibbiato dall'oligarca Kolomojskij all'ex premier Julia Timošenko; a “qui i minorati mentali sono tanti”, con cui il premier Jatsenjuk ha valutato parte dei colleghi parlamentari, dopo esser stato tirato giù dalla tribuna, agguantato per i santissimi; all'orecchio morso da un deputato a un attivista non militare del battaglione neonazista “Azov”; al “cane senza museruola” di cui ancora Kolomojskij ha onorato il governatore yankee di Odessa, Mikhail Saakašvili; e così via, fino ad arrivare all'ultima signorile uscita del leader del Partito Radicale Oleg Ljaško, che ha dato di “bestie” ai altri deputati del Blocco presidenziale. D'altronde, questo è il minimo, per chi legalizza dagli scranni parlamentari il massacro della parte della propria popolazione rea di parlare un'altra lingua: evidentemente, il linguaggio alla Rada, è innalzato oggi a dialetto ufficiale dell'Ucraina “europeista”. Come stupirsi quindi che, nelle zuffe tra ladroni, addirittura il Ministro degli interni Arsen Avakov – quello del bicchier d'acqua tirato in faccia a Mikhail Saakašvili – valuti le possibilità di una “terza majdan”, affidata alle faide tra blocchi oligarchici.
E' questo “parlamento”, dunque, che rinnova e “legalizza” le quotidiane violazioni della tregua nel Donbass. Ieri due civili sono rimasti uccisi sotto i colpi ucraini nel rione di Zajtsevo, alla periferia di Gorlovka, allorché le truppe di Kiev hanno impiegato, “per la prima volta da 10 giorni”, come riferiscono alla DNR, artiglierie pesanti da 152 mm e mortai da da 82 e 120 mm, anche contro il villaggio di Kominternovo. Nella stessa aerea di Kominternovo, alla vigilia erano finiti sotto i tiri di cecchini ucraini anche gli osservatori Osce, della Commissione mista di controllo sul cessate il fuoco e una troupe televisiva di “Rossija-24”. Complessivamente, dalla DNR si sono denunciate una ventina di violazioni al cessate il fuoco da parte ucraina nella sola giornata del 26 dicembre, con l'impiego di mortai pesanti, carri armati e mezzi blindati. Oltre a Kominternovo e Zajtsevo, sarebbero stati colpiti i villaggi di Žabunki, Železnaja Balka, Lozovoe, Staromikhajlovka, Spartak e l'area dell'aeroporto di Donetsk.
Quindi, non appare nulla più che una nota di “cristiana indulgenza” la notizia secondo cui l'ex leader di una delle organizzazioni neonaziste più agguerrite – e più reclamizzate a ovest delle frontiere ucraine – “Pravyj sektor”, Dmitro Jaroš, di voler abbandonare il battaglione per dar vita, insieme a un gruppo di seguaci, a una formazione nazionalista a suo dire “meno radicale”. Parole non più che parole: da tempo gli sponsor occidentali della “democrazia” ucraina hanno cominciato a lamentarsi della poca “presentabilità” dei battaglioni neonazisti; dunque, per continuare a ricevere gli aiuti così necessari, è evidentemente tempo, per essi, di cambiar facciata. “Io e la mia squadra usciamo dal movimento Pravyj sektor”- definito sfacciatamente da Jaroš “di liberazione nazionale” (!) - “che ha esaurito la propria missione. Il nazionalismo deve avviarsi verso una nuova tappa, in opposizione al potere. Cominciamo a costituire un nuovo movimento politico, senza radicalismo e senza demagogia liberale”, ma coevo ai gangli politici e militari governativi. D'altronde, questo è anche un sicuro modo per poter partecipare in forma diretta a tutta quella serie di manovre militari Nato cui nei giorni scorsi Petro Porošenko – cui la Gallup accredita non più del 17% di consensi, contro il 47% di un anno fa - ha dato luce verde con la delibera di ammissione di soldati stranieri sul territorio ucraino nel 2016 per le manovre dell'Alleanza atlantica.
E, sempre sul fronte delle alleanze esterne, uno degli organizzatori del blocco della Crimea, il tataro-ucraino Lenur Isljamov, ha dichiarato che il Ministero della difesa turco sarebbe in procinto di assicurare il proprio aiuto per la formazione di un battaglione volontario per la “riconquista della Crimea”. Primo compito del battaglione, ha detto Isljamov, sarà quello della “difesa dei confini crimeani all'interno stesso della Crimea”; quindi “porteremo colpi in punti nevralgici che solo noi conosciamo” e con l'ausilio di “piccole imbarcazioni attaccheremo le navi che portano merci in Crimea”.
Come ha dichiarato oggi il consigliere presidenziale russo Grigorij Ighnatov, Ankara spinge Kiev a una nuova avventura. Questo fantomatico battaglione tataro-ucraino servirà non solo al blocco della Crimea, ma ad azioni di sabotaggio in territorio russo, soprattutto nella regione di Kherson. Più specificamente, il primo battaglione “Crimea” servirà per assicurare il blocco della penisola; il nuovo, denominato “Noman Čelebidžikhan” (il nazionalista tataro morto nel 1918 combattendo contro il giovane potere sovietico) sarà destinato ad azioni di sabotaggio e al terrorismo ai danni della popolazione della regione di Kherson, come avvenuto anche lo scorso 25 dicembre nel villaggio di Kalančakh.
“Cominciare una guerra era facile; penoso assai terminarla”, vien da ripetere come al tempo delle guerre di Roma contro Giugurta.
Non ha difficoltà il leader della Repubblica popolare di Donetsk, Aleksandr Zakharčenko, a dichiarare che la soluzione pacifica del conflitto nel Donbass è stata congelata, prima ancora di prendere il via. “Non viene rispettato nemmeno il primo punto degli accordi, quello sul cessate il fuoco”, ha dichiarato Zakharčenko; “gli altri punti, o non vengono osservati, oppure Kiev finge di applicarli. La ragione è semplice: Kiev spera che, prima o poi, riuscirà a risolvere il conflitto con la forza”. Nonostante tutto, ha detto ancora Zakharčenko, la DNR considera tuttora il lavoro del Gruppo di contatto (la cui ultima riunione si è svolta a Minsk lo scorso 6 aprile) “utile e fruttuoso”. Gli accordi del “Minsk-2” (il primo vertice di Minsk si era tenuto nel settembre 2014) sottoscritti dal cosiddetto “quartetto normanno” – Merkel, Hollande, Putin e Porošenko – avrebbe dovuto costituire non solo la road map del processo di pace nel Donbass, bensì un documento giuridico internazionale, nell’ambito del quale si sarebbero dovuti compiere tutti i successivi passi per il superamento della crisi ucraina, secondo un grafico di interventi per tutto il 2015. E invece, la maggior parte di quegli interventi è rimasta sulla carta; oppure, come nel caso delle armi pesanti (carri armati, artiglierie e mortai di calibro superiore ai 100 mm; sistemi lanciarazzi, ecc.), l’iniziale ritiro a debita distanza è stato seguito dal loro ridislocamento, da parte ucraina, in prossimità del fronte.
In più di un’occasione, gli osservatori Osce – il cui numero, da circa 500, dovrebbe essere ora portato a 800 – controllando i depositi di carri e artiglierie ucraini negli alloggiamenti ufficialmente comunicati, lontani dal fronte, non ve li hanno rinvenuti. Anche il punto degli accordi di Minsk sullo scambio di tutti prigionieri, è rimasto sostanzialmente inattuato. Problematica anche l’attuazione dell’accordo sulla ricostruzione di acquedotti, linee elettriche e ferroviarie, strutture economiche del Donbass, danneggiate o distrutte dalla guerra, il primo passo della quale dovrebbe essere lo sminamento delle zone interessate, che sembra procedere con moltissima difficoltà. Ma, alla base del “congelamento” del processo di pace, è sempre il rifiuto di Kiev di aprire un dialogo diretto con le Repubbliche popolari e l’evidente simulazione di addivenire a un accordo sulle elezioni locali nel Donbass e sul suo futuro status politico-istituzionale.
Quanto poco la junta di Kiev sia interessata a qualsiasi soluzione pacifica e miri solo a guadagnar tempo nella questione del Donbass, lo testimonia l’ultimo dei progetti messi a punto per il versante sudorientale dell’Ucraina e che prevede la creazione di un centro autonomo dei tatari di Crimea nella regione di Kherson. Secondo il progetto, quest’ultima si chiamerà d’ora in poi Autonomia nazionale crimeano-tatara e la città stessa di Kherson verrà designata col nome turcofono di Khan-Geray, in onore al sultano che avrebbe liberato la Crimea dall’Orda d’Oro. Secondo Pravda.ru, nella nuova entità si insedieranno circa 200mila turchi-meskhetini; considerando che oggi in Ucraina non vivono più di 10 mila turchi-meskhetini, nota Pravda.ru, “si può parlare di una volontaria svendita di territorio ucraino che verrà così occupato”. Da chi? Ricordando le richieste avanzate da tempo in proposito dal cosiddetto Medžlis dei tatari di Crimea e, più di recente, le richieste di aiuto economico rivolte da Porošenko a Erdoğan, pare che il territorio di Kherson debba andare a garanzia di tali prestiti finanziari e un passo non insignificante sull’espansione turca nella regione. In tale contesto, conclude Pravda.ru e se “il progetto andrà davvero in porto, appare quantomeno ipocrita il duraturo rifiuto di Kiev di concedere l’autonomia al Donbass”, mentre si sta direttamente svendendo a potenze straniere un’altra porzione di territorio ucraino.
A coronare lo stile “democratico europeista” dei golpisti ucraini, un ulteriore episodio sulla strada della “eurointegrazione sui valori della libertà occidentale” perennemente osannati da Kiev: dopo l’assassinio dell’avvocato Jurij Grabovskij, difensore di uno dei due cittadini russi, Aleksand Aleksandrov e Evgenij Erofeev, detenuti in Ucraina dal maggio 2015 con l’accusa di essere esploratori del GRU, l’intelligence militare russa, la notte scorsa è andato a fuoco, a Kiev, lo studio del giudice che presiede il caso, Nikolaj Didyk. Casualmente (?), la nuova seduta del dibattimento avrebbe dovuto tenersi oggi; così che ora la loro detenzione potrà ulteriormente protrarsi. Ma questo non tocca certo le preoccupazioni di Petro Porošenko, oggi più che mai impegnato a districarsi tra le nuove ditte offshore (Agroprodimrex Corp., con base nell’area offshore del Delaware, Agroprodimrex Cyprus Limited, Willenhall Traiding Limited, Fairdrook Enterprises Limited, nell’isola di Man e la panamense Ukrprovinvest Holding Limited.) appartenenti a “Ukrprominvest”, che fa capo al povero Petro e che i media ucraini avrebbero scovato, in aggiunta a quelli recentemente pubblicati dal Dipartim… ops!, dal Consorzio internazionale di giornalismo investigativo. I materiali sarebbero stati recuperati da una causa intentata nel 2003 contro Porošenko, quando questi era all’opposizione dell’allora presidente Leonid Kučma. Un altro macigno che incombe sulla testa del Tantalo ucraino.
A suo tempo, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon aveva detto che “l’Ucraina non è uno stato, bensì un circondario amministrativo dell’Urss”. La dichiarazione, a suo modo strabiliante, si spiegava col fatto che l’Ucraina, dalla fine dell’Urss, non aveva ancora proceduto a registrare formalmente all’ONU la demarcazione dei propri confini come stato. Giuridicamente, essendo la Russia riconosciuta quale “erede” dell’Urss, il territorio ucraino farebbe parte della Federazione Russa! Di conseguenza, era anche impossibile denunciare qualcuno di violazione delle frontiere ucraine o qualcun altro di separatismo: tutte accuse che, come è noto, la Kiev golpista rivolge tutt’oggi al suo grande vicino orientale e alle milizie popolari del Donbass. Ma questo accadeva nel 2014.
Concretamente, quali sono oggi le frontiere ucraine e da chi – legittimamente o meno, non è questa la sede per stabilirlo – sono minacciate, non solo a est? Paradossalmente, si potrebbe dire che è un bene per la stessa Ucraina che al referendum olandese abbia prevalso il “no” al trattato di associazione alla UE; un trattato che, tra le altre cose, prevede la restituzione agli originari proprietari dei beni posseduti prima della espropriazione. Se le varie pretese territoriali su differenti spezzoni di territorio ucraino dovessero venir riconosciute (ma, dovrebbe essere un Tribunale internazionale a farlo, su istanza di entrambe le entità statali), quanto rimarrebbe di quello che è oggi il più esteso stato europeo, coi suoi 604mila kmq? A partire dai territori settentrionali della Rzeczpospolita polacca, della Galizia – regioni di L’vov, Ivano-Frank, Ternopol – e della Volinja – Lutsk e Rovno – o della Slobožanščina russa, a quelli meridionali del Khanato di Crimea e dell’odierno Donbass e poi quelli orientali dell’Oltrecapazia ungherese.
Cerchiamo di dare un po’ di ordine alla cosa. Come scrive Boris Julin su Nakanune.ru, ad esempio, i Paesi baltici hanno già iniziato a restituire le terre ai legittimi eredi dei vecchi proprietari. Se di cancellazione del passato sovietico si tratta – e chi meglio dei golpisti ucraini può dire qualcosa in tal senso! – allora tutto ciò che l’Ucraina ha ricevuto, per dire, a conclusione della Seconda guerra mondiale, come allargamento dei confini dell’Urss, deve essere restituito. Ma si va anche oltre: il media “Wprost”, cercando forse di dare fondamento alle pretese polacche, menziona come “processo naturale di restituzione” il ritorno della Crimea nella Russia, in base allo status della penisola al 28 giugno 1914. In verità, le pretese polacche potrebbero riguardare anche parte della Bielorussia occidentale; ma per il momento la questione appare più urgente riguardo all’Ucraina, nei confronti della quale non si può non porre l’interrogativo: Kiev pretende che il passato sovietico debba essere cancellato e criminalizzato, oppure pensa che le norme previste per l’associazione alla UE valgano per tutti paesi, meno che per essa? Se si aderisce alla UE, è naturale che se ne accettino le norme e, tra queste, l’art.1 della Convenzione del Consiglio d’Europa del 1950 sulla “Difesa della proprietà delle persone fisiche e giuridiche”! In sostanza, si tratterebbe della restituzione della proprietà sulle terre, ma non, verosimilmente, della cessione di territori; ma, una volta avviato il processo, potrebbe esser difficile fermarlo. Appena pochi mesi fa, il direttore dell’Istituto ucraino di analisi politica, Ruslan Bortnik, ricordava come la destra reazionaria al potere in Polonia guardi all’Ucraina occidentale come alla “propria terra primordiale” e se noi, scriveva Bortnik, “considereremo la liberazione dell’Ucraina nel 1944 come un cambio di occupazione, da tedesca a sovietica, allora i polacchi avranno in mano uno strumento politico assolutamente legittimo per pretendere la restituzione delle loro proprietà nell’Ucraina occidentale”.
L’organizzazione polacca “Restitucija kresov” sta già esaminando oltre mille richieste di restituzione da parte di altrettanti cittadini polacchi, le cui proprietà sono finite in territorio ucraino alla fine della guerra. “L’ingresso in UE significa restituzione”, afferma Igor Pykhalov, così che se a Kiev “negano ogni eredità sovietica, ne consegue che l’ucraina detiene illegalmente i propri territori occidentali”. Ma, la Polonia, non intenterà causa a Kiev per qualche edificio appartenuto agli ebrei o emigrati russi: lo farà piuttosto, scrive Elena Ryčkova su Nakanune.ru, “per Galizia, Volinja e Polesie, vale a dire le attuali regioni di L’vov, Ternopol, Ivano-Frank, Rovno” in cui, a detta delle autorità di Varsavia, i polacchi continuano ancor oggi a esser bistrattati da Kiev. Da tempo, il presidente Andrzej Duda sta chiamando i polacchi a tenersi pronti alla battaglia per le restituzioni, anche se, scrive Pykhalov, molti polacchi avrebbero da ridire nel trovarsi in casa gli eredi delle SS ucraine responsabili del “macello della Volinja” e, comunque, sembrano non rinnegare la vecchia visione degli ucraini quali “schiavi delle campagne”. Sensazionale, scrive ancora Ryčkova, la posizione della Camera di commercio austriaca, secondo cui “l’Ucraina, in quanto stato, dovrebbe autoestinguersi a favore della Russia, a esclusione dell’antica regione della Galizia, che 100 anni fa faceva parte dell’Austria-Ungheria”; posizione che fa imbestialire Varsavia, che ne rivendica la proprietà da tempo più antico.
Più a sud invece, il leader del Medžlis dei tatari di Crimea, Mustafa Džemiliev, si dichiara erede dell’ultimo Khan Šakhin Geraj e pretende da Mosca la restituzione della residenza di Bakhčisaraj, quale condizione per il suo riconoscimento della Crimea russa.
Quindi, più a ovest, la questione verte sulle regioni dell’Oltrecarpazia e della Bucovina: la prima, con la città di Užgorod, appartenuta a suo tempo sia all’Ungheria che alla Slovacchia e che conta ancora forti minoranze ungherese e slovacca – caratteristico l’aneddoto, per cui gli abitanti dell’Oltrcarpazia, sentendosi a tal punto ungheresi, usano l’espressione “andare in Ucraina”. Per quanto riguarda la Bucovina, con la regione di Černovitsi, questa è appartenuta alla Romania fino alal fine della guerra e Bucarest ha più volte dichiarato la volontà di “proteggere” le minoranze rumene sia in Bucovina, sia in Bessarabia settentrionale (Moldavia) che meridionale, la cosiddetta “Bessarabia storica” o Budžak, in cui rientra parte della regione di Odessa.
Tirando qualche somma, all’Ucraina sono appartenute storicamente circa 8 regioni della parte centrale del paese e i territori occidentali, inclusa l’Oltrecarpazia, difficilmente potrebbero pretendere a tale titolo. “Ucraina meridionale, Donbass e Crimea”, afferma Vasilij Stojakin su dnepr.ru “appartenuti all’impero russo, furono donati all’Ucraina socialista dall’Urss. Dunque, chi parla di “occupazione russa o sovietica” dovrebbe essere anche pronto alla revisione delle frontiere ucraine a favore delle altre “vittime” di tali occupazioni”.
E Kiev è stata messa in allarme proprio in questi giorni da un’ennesima ondata di separatismo dell’Oltrecarpazia, i cui rappresentanti regionali, sulla base del disegno di legge sulla decentralizzazione – prevista per il Donbass dagli accordi di Minsk – chiedono la concessione dell’autonomia. Ma, si sa che dal progetto, prima ancora di divenire legge, era già scomparso ogni accenno allo “status speciale” o all’autonomia per il Donbass e, per quanto riguarda l’Oltrecarpazia, il governatore Gennadij Moskal (che nel Donbass occupato da Kiev manteneva l’ordine alla maniera di Stepan Bandera) spedito qui dopo le sparatorie dell’estate scorsa tra Pravyj Sektor ed esponenti delle oligarchie mafiose locali a Mukačevo – l’ungherese Munkácz – è pronto a ricorrere all’intervento dei militari per reprimere ogni velleità autonomista. Ma sembra che debba andare coi piedi di piombo, in una regione che riveste caratteristiche specifiche e che, ad esempio, per vicinanze di clan familiari, si differenzia totalmente dalla pur vicinissima Galizia. Già nel dicembre scorso, un centinaio di cittadine e villaggi dell’Oltrecarpazia avevano annunciato l’intenzione di dar vita a un “rione ungherese separato”, con capoluogo la cittadina di Beregovo, pochi chilometri a sudovest di Mukačevo e vicinissima ai confini ungherese e rumeno. L’iniziativa sarebbe stata appoggiata dalla “Unione degli organi frontalieri autonomi”.
In ogni caso, Kiev non è assolutamente intenzionata a venire incontro alle richieste di autonomia, che vengano dall’est o dall’ovest del paese. Nell’ottobre scorso la Bessarabia meridionale, compresa tra l’estuario del Dnestr e il delta del Danubio, minacciava di mettersi sulla strada del Donbass e della divisione da Kiev. I Gagauzi della Moldavia meridionale e i Bessarabi della regione di Odessa avevano proclamato l’intenzione di dar vita a una Repubblica autonoma di Budžak, la Bessarabia Vecchia, la cui capitale dovrebbe essere Belgorod-Dnestrovsk, l’antica fortezza ottomana di Akkerman. Il “presidente” temporaneo della nuova entità, il colonnello cosacco Aleksej Litvinenko, aveva dichiarato di voler riunire nella “Bessarabia meridionale ucraini, bulgari, gagauzi, moldavi, tsigani, ebrei”, dando vita “a organi provvisori di potere” con elezioni presidenziali, sistema finanziario autonomo e proprie forze armate. Il rappresentante bulgaro al parlamento Europeo aveva dichiarato di appoggiare il diritto del Budžak all’autodeterminazione democratica; i maggiori media rumeni, invece, erano tornati ad agitare il tema del recupero dei territori “storicamente rumeni, ingiustamente persi nei secoli XIX e XX a vantaggio dell’Ucraina occidentale” e avevano ammonito il governo a prepararsi per un probabile intervento in Ucraina per “difendere i territori rumeni di Bucovina settentrionale e Bessarabia meridionale”. L’Ucraina, scrivevano i media rumeni, “è uno stato artificiale, non omogeneo, apparso sulle rovine dell’Urss. Forse che, in caso di molto probabili sconvolgimenti interni, lo stato rumeno non dovrebbe intromettersi, a difesa dei rumeni residenti in Bucovina settentrionale, provincia di Herca, Bessarabia settentrionale e meridionale e, perché no, Transnistria?”.
La Bessarabia – gran parte della quale costituisce il territorio dell’odierna Moldavia e la cui parte meridionale fa parte della regione di Odessa – è rimasta sotto il giogo ottomano dalla metà del XVI secolo ed entrò a far parte dell’impero russo nel 1812, a conclusione della guerra russo-turca.
E proprio alla Turchia sembra invece che Kiev si appresti a “donare” parte del proprio territorio, secondo il progetto per la creazione di un centro autonomo dei tatari di Crimea nella regione di Kherson, in cui si insedieranno circa 200mila turchi-meskhetini, con la svendita ad Ankara, di fatto, di una cospicua porzione di territorio ucraino.
Insomma, tra territori in lotta per l’autonomia, regioni aggredite e massacrate per non aver riconosciuto il golpe banderista del 2014, province rivendicate o pretese da stati esteri, e circondari che la junta putschista non esiterebbe a donare ai propri “correligionari” in camicia bruna, Kiev rischia di ritrovarsi veramente a mendicare la carità della UE, avendo come sfondo uno scenario jugoslavo che non dispiacerebbe forse a USA e Nato.
Particolare intensità è stata registrata ieri nel bombardamento di Sakhanka, nel sud della Repubblica popolare di Donetsk; il fuoco proveniva dalla linea di Širokino in cui, dallo scorso 8 maggio, le truppe regolari sono state sostituite dal battaglione neonazista “Azov”, che ieri ha sparato oltre 170 colpi di mortaio da 82 mm contro il villaggio. Gli osservatori dell’Osce, giunti sul posto qualche ora dopo il bombardamento, sono stati accolti con urla dalla popolazione, che ha qualificato la loro opera come “beffarda”: “Dove eravate mentre sparavano sulle nostre case?”, hanno inveito gli abitanti? La missione, accompagnata dai rappresentanti del coordinamento russo-ucraino per il cessate il fuoco, non ha fatto altro che verificare i crateri delle esplosioni e gli spezzoni di granata rinvenuti in prossimità delle abitazioni. Il rappresentante russo, colonnello Aleksandr Lentsov, ha detto che l’Osce ha registrato la violazione degli accordi di Minsk (che prevedono il ritiro delle artiglierie dalla linea del fronte) da parte ucraina, constatando inoltre come nel villaggio non siano presenti milizie o reparti armati.
Intanto, Kiev sta procedendo a grandi passi alla realizzazione della sezione di “muro” (terrapieni, trincee controcarro, reticolati, torri di osservazione, mezzi di segnalazione, ecc.) alla frontiera tra la Russia e la parte della regione di Lugansk controllata dall’Ucraina: il “vallo europeo” alla cui costruzione era stato dato il via nell’autunno 2014 dall’ex primo ministro Arsenij Jatsenjuk, che definiva l’opera come il contributo ucraino alla difesa dell’Europa dalla “aggressione russa” – un contributo che dovrebbe risucchiare dalle casse ucraine (cioè UE) oltre 300 milioni di $.
In un modo o in un altro, con le cannonate sul Donbass o con i valli e i reticolati, sembra che l’Europa debba esser grata alle forze armate ucraine per aver fermato l’esercito più potente del continente. Perlomeno, questo è ciò di cui si vanta (non ci azzardiamo a dire che lui stesso lo pensi davvero) Petro Porošenko: “Abbiamo fermato l’esercito più grande del continente, liberato due terzi del territorio del Donbass e creato una potente coalizione mondiale”. Non da ora Porošenko decanta la potenza dell’esercito ucraino (i cui effettivi, nonostante le continue elargizioni occidentali, lamentano la perenne carenza di mezzi e le drammatiche condizioni di servizio) che sarebbe in grado non solo di difendere il proprio territorio, ma l’intera Europa.
E’ così che, in alto, qualcuno ha deciso di compensare tanto sforzo ucraino, relegando al terzo posto (nonostante il voto del pubblico) il concorrente russo Sergej Lazarev e assegnando ieri la palma del 61° Eurovision Song Contest di Stoccolma all’ucraina Jamala, per il motivo “1944”. La canzone, a detta della stessa vincitrice – una tatara di Crimea convinta della “ucrainicità” della penisola – avrebbe dovuto raccontare la vicenda dei tatari di Crimea, deportati il 18 maggio del 1944 per aver disertato in massa dall’Armata Rossa ed essersi schierati con le truppe hitleriane.
Secondo le dichiarazioni della stessa Jamala, il suo intento era in realtà quello di parlare della “annessione russa” della Crimea nel 2014; ma ciò, in base al regolamento del Contest, che non consente riferimenti politici, l’avrebbe automaticamente squalificata. Col parlare invece di uno temi più amati delle “rivelazioni” khruščëviane e dalla “storiografia” liberale, Jamala ha messo insieme un cocktail che tace sull’odierno blocco energetico della penisola da parte di Kiev ed esalta il Medžlis dei tatari di Crimea sponsorizzati dalla Turchia, il cui destino storico è perennemente compianto dai manuali occidentali sulle “repressioni di massa staliniane”.
Sulla vicenda del 1944, lo storico statunitense Carr-Furr ha notato come, contrariamente alla vulgata sul “genocidio etnico” dei tatari di Crimea a causa della loro deportazione in Asia centrale, il trasferimento non solo dei circa ventimila giovani maschi filonazisti disertori, ma della popolazione al completo (oltre 210mila persone), consentì a questa non solo di non scomparire, ma di continuare a svilupparsi, così che, al rientro in Crimea, si era addirittura accresciuta.
Ma, le narrazioni storiche cui ci hanno abituati, come si sa, non hanno l’obiettivo di insegnare qualcosa, bensì quello di servire solo gli interessi del momento.
Non da oggi le agenzie di informazione scrivono degli interessi comuni, soprattutto nel settore del transito di prodotti energetici, tra Ucraina e Turchia e, inoltre, delle assonanze ideologiche e delle comuni simpatie filonaziste di Ankara e Kiev, del sostegno che la prima fornirebbe alla seconda e della collaborazione tra “Lupi grigi” e altre formazioni fasciste turche al Medžlis dei tatari di Crimea nelle loro ambizioni di “riconquistare” a mano armata la penisola. Non da ora, è di dominio pubblico il sostegno multilaterale di Ankara alle organizzazioni terroristiche che combattono il governo siriano e, in particolar modo, all’Isis. Nel quadro di tale intreccio di legami perversi, il vice Comandante di corpo delle milizie della Repubblica popolare di Donetsk ha dichiarato oggi che l’intelligence militare della DNR avrebbe scoperto, nell’area di Mariupol, controllata dalle forze ucraine, una base di addestramento di terroristi islamisti provenienti da paesi arabi, che operano anche da truppe mercenarie agli ordini di Kiev. Secondo i dati della ricognizione, a condurre l’addestramento dei nuovi adepti sarebbero direttamente alcuni comandanti dell’Isis e la rotazione dei reparti mercenari avverrebbe mensilmente; dopo di che, gli uomini così formati passerebbero direttamente in Medio oriente, attraverso Ucraina e Turchia. A detta di Basurin, l’arrivo di ogni nuovo contingente è contrassegnato dall’intensificarsi degli scontri.
Proprio negli ultimi giorni, tra l’altro, la situazione al fronte si è aggravata sensibilmente. Secondo le milizie, solo le continue e intense piogge delle ultime settimane, avrebbero ritardato l’offensiva su larga scala che Kiev starebbe pianificando da tempo, con l’impiego di mezzi corazzati. Nella zona meridionale del fronte, la ricognizione della DNR ha verificato la presenza di diversi blindati, camion carichi di proiettili per le artiglierie e per i sistemi razzo “Grad”, oltre una decina di cannoni controcarro “Rapira” da 100 mm.
Ancora Eduard Basurin ha dichiarato che la DNR si attende, da qui al prossimo 22 maggio, una serie di gro
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