Informazione

(castillano / english / italiano)

Panturchìa / 3: 
Aspirazioni neo-ottomane


0) Segnalazioni e link
1) Inaugurazione della moschea di Banja Luka dopo la ricostruzione: provocazioni di Davutoglu 
– 7 e 8 maggio  a Banja Luka (J.T.M. Visconti)
– Додик: Давутоглу послао неоосманске поруке (Politika)
2) Terroristi bosgnacchi in Siria
– Vienna airport suspends "IS sympathizer from Bosnia" (Apr. 6, 2016)
– Terroristas bosnios arrepentidos quieren regresar a su país desde Siria (08-03-2016)


=== 0 ===

--- Nuovo libro in uscita:

Jean Toschi Marazzani Visconti

LA PORTA D'INGRESSO DELL'ISLAM
Bosnia Erzegovina: un Paese ingovernabile

Frankfurt: Zambon, 2016
Formato: 14x20,5 cm – 240 pagine – 18,00 € – ISBN 978 88 98582 32 7

Il 14 dicembre 2015 compiva vent’anni il Trattato di Dayton, firmato a Parigi nel 1995 alla presenza dei massimi rappresentanti delle potenze occidentali. L’accordo metteva così fine a tre anni e mezzo di feroce guerra civile in Bosnia-Erzegovina. L’amministrazione Clinton considerava un grande successo aver fermato il conflitto e creato una nazione composta di tre etnie divise in due entità: la Federazione Croata - musulmana e la Republika Srpska. Però aveva distrutto il multiculturalismo in favore del nazionalismo. 
Oggi la Bosnia Erzegovina è nello stesso stato d’allora, congelata dalla costituzione imposta a Dayton, in uno stato di caos contenuto e di odio. Nel corso degli anni si sono alternati Alti Commissari europei al controllo del paese, ma anche altre nazioni sono intervenute nel delicato equilibrio. La Turchia ha una forte presenza. Ricchi finanziamenti giungono da Iran e Arabia Saudita per costruire moschee e scuole islamiche. Dalle parole di diversi protagonisti della politica locale e internazionale intervistati in queste pagine esce un'imbarazzante realtà.
Un’importante geopolitico francese, il Generale Pierre Marie Gallois, esaminando nel 1997 la politica statunitense in Bosnia-Erzegovina, aveva commentato che era stata aperta all’Islam la porta d’Europa, un paese a tre ore e mezzo d’autostrada da Trieste.

[Dell'Autrice si legga anche il report da Banja Luka, più avanti in questo email al punto 1: "7 e 8 maggio  a Banja Luka" (ndCNJ)]


--- Altri link recenti segnalati:

JIhad on Europe started in 1990 -ies (by Grey Carter, Feb. 6, 2016)
1992-1995: US, Saudis, Turkey Collaborate on Illegal Weapons Deliveries to Bosnian Muslims; 1998 to Muslim terrorist Albanian KLA
June 1991: Bosnian Muslims Begin Forming and Arming Private Army
Mid-1991-1996: Bin Laden-Linked Charity Front Funnels Billions of Dollars to Bosnia for Weapons
March 1992: Bosnian Mafia Figure Negotiates Arms Deals between Turkey and Bosnia
September 1992: Charity Front Exposed as Illegal Weapons Pipeline, but No Action Taken Against It
Late 1992-1995: US and Saudis Allegedly Collaborate on Illegal Weapons Deliveries to Bosnian Muslims
December 1992-Early February 1993: Islamist Militants Learn to Fight at Pennsylvania Training Camp
1993: US Government Turns Blind Eye to Illegal Weapons Pipeline to Muslim Bosnia
Early April 1993: FBI Links Bombers in US to Bosnian Charity Front; But Bosnian Link Is Not Explored (!?)
Late 1994-Late 1995: US Secretly Supplies Bosnian Muslims Through Remote Airport Controlled by Corrupt and Radical Militant Clan
February 21, 1995: Mysterious US Militant Arrested on Minor Charges, Disappears from View
January 25, 2002: Suspect Bosnian Charities Not Shut Down
Mid-October 2002: British Administrator Fires Bosnian Official Vigorously Investigating Terrorism and Corruption
May 5, 2007: Bosnian Politicians Connected to Bosnian War Arms Pipeline Under Investigation

BOSNIE-HERZÉGOVINE : LA POLICE ARRÊTE ONZE PERSONNES EN LIEN AVEC L’ÉTAT ISLAMIQUE (par Rodolfo Toé / CdB, mardi 22 décembre 2015)
Les unités spéciales de la Police fédérale bosnienne ont lancé, mardi 22 décembre, une vaste opération pour démanteler une cellule islamiste en lien avec l’État islamique. Onze personnes ont été arrêtées. Elles sont soupçonnées de recruter des volontaires pour des opérations terroristes...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/bosnie-herzegovine-terrorisme.html

BOSNIE-HERZÉGOVINE : PREMIÈRES CONDAMNATIONS POUR DES VOLONTAIRES DU JIHAD EN SYRIE (CdB, mercredi 7 octobre 2015)
La justice a rendu, mardi 6 octobre, sa première sentence contre des ressortissants bosniens qui voulaient joindre les rangs de Daech en Syrie. Les peines infligées sont toutefois légères et peu dissuasives, et la répression suffira-t-elle à dissuader les volontaires du jihad ?...

IMAM HALILOVIĆ POZIVA NA UNIŠTENJE REPUBLIKE SRPSKE (RTRS vijesti, 10 lug 2015)
Glavni imam džamije Kralja Fahda u Sarajevu Nezim Halilović Muderis pozvao je na "uništenje" lobista protiv rezolucije o Srebrenici i njihovih porodica, kao i "entiteta sazdanog na zločinu i genocidu"...
Sarajevo: BOSNIAN IMAM KNOWN AS JIHADIST CALLS FOR DESTRUCTION OF THE REPUBLIC OF SERBSKA (by Grey Carter, September 8, 2015)
Nezim Halilovic,  imam of the mosque of King Fahd in Sarajevo, in his last sermon, (religious lecture),  called upon Allah to demolish the Republic of Serbska, or as he said, “entity built on crime and genocide”...


--- Documentazione:

IL RUOLO DELLA TURCHIA NELLA CRISI JUGOSLAVA (1999)
https://www.cnj.it/CHICOMEPERCHE/sfrj_02.htm

ARAB MUJAHEDEENS IN BOSNIA-HERZEGOVINA, 1992-1995. Documentary movie by SKY News. 8.17 min
Recently revealed SkY NEWS video documentary reveals uncomfortable truth concerning Bosnia as the first ISIS and Islamic Caliphate in Europe...
VIDEO:  http://sendvid.com/69gcsdj2 and on youtube: https://www.youtube.com/watch?v=Wx-REROXvtg

TURKISH INFLUENCE IN THE BALKANS (JUGOINFO 2.1.2016)
1) Turkey’s Islamist Agenda in Kosovo (D.L. Phillips)
2) Erdogan Fulfilling His NeoOttoman Dream Through Bosnia (G. Carter) / MR. IZETBEGOVIC’S MEIN KAMPF
3) FLASHBACK: Il caso Cesur– Ikanovic– Bektasevic (2005-2006)

WAHABITI BOSNIACI (Eldina Pleho | Sarajevo  17 maggio 2010)
L'Islam radicale in Bosnia. La guerra, il dopoguerra, il rapporto con la Comunità islamica ufficiale e con la maggioranza dei fedeli. Indagine sul fenomeno al centro dell'ultimo film di Jasmila Žbanić, Na Putu...


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In merito alla recente inaugurazione della moschea di Banja Luka dopo la ricostruzione abbiamo ricevuto da Jean Toschi Marazzani Visconti la significativa riflessione, che riportiamo di seguito. 
Le preoccupazioni qui espresse dall'Autrice ovviamente non sono condivise dalla lobby filo-bosgnacca, né dalla cordata "europeista" di cui è espressione Osservatorio Balcani Caucaso, che della inaugurazione presenta una descrizione edulcorata se non omertosa:

Ferhadija, un messaggio di speranza (di Rodolfo Toè | Sarajevo  10 maggio 2016)
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Ferhadija-un-messaggio-di-speranza-170855/

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7 e 8 maggio  a Banja Luka

di Jean Toschi Marazzani Visconti 

Desidero premettere, prima che qualcuno avanzi supposizioni, che sono profondamente laica con un quasi ossessivo rispetto del territorio altrui e che ritengo la libertà di religione assolutamente capitale. Allo stesso tempo difenderei a spada tratta i miei diritti alla laicità, cultura, tradizione e storia occidentali. Insomma, vivi e lascia vivere.

Detto questo, vorrei raccontare cosa mi ha colpito a Banja Luka nella Republika Srpska, sabato 7 maggio. Ecco la storia che mi ha portato a riflettere. Sabato 7 maggio ero a Banja Luka per partecipare alla riunione biennale del Comitato internazionale del campo di sterminio croato di Jasenovac (1941-1945), di cui sono membro.

Quando sono approdata all’hotel Bosna, ho notato un brulicare di signori ben vestiti, come se ne vedono solo a dei meeting di alta finanza a Londra. Erano marziani rispetto all’abbigliamento maschile locale. Si trattava di giordani, sauditi, rappresentanti del Katar, Dubai, alcuni impeccabili notabili europei,  britannici e americani.

Molta polizia, alcuni enormi costoloni vestiti di scuro con la cordicella all’orecchio, un’ala dell’albergo off limit e, finalmente, con un’imponente  seguito di uomini di svariate taglie, tutti regolarmente in blu, c’era il premier turco dimissionario Ahmet Davutoglu.

La sensazione era che questa gente si comportasse come fossero in una loro colonia senza nessuna attenzione per gli indigeni. Rispetto alla situazione i serbi sembravano assenti, chiusi in un loro mondo parallelo.

Perché questa insolita presenza? In quel giorno il Mufti Edhem Camdžić inaugurava la moschea ricostruita  in seguito all’esplosione che nel 1992 l’aveva fatta saltare. Alla cerimonia presenziavano il presidente musulmano Bakir Izetbegović e l’ex premier turco Davutoglu, oltre a rappresentanti di molti paesi arabi. L’ex premier turco ha pronunciato un discorso di un’arroganza incredibile con espressioni molto forti che hanno creato scandalo fra i serbi e sono state riportate dai giornali. Non mi sembra sia uscita una parola in proposito nei nostri media. Cito alcune frasi di Davutoglu.

La Turchia è stata qui per lungo tempo, è qui ora, e rimarrà per sempre.

I musulmani non devono temere perché dietro di loro ci sono 70 milioni di turchi.

Il discorso è riportato nel quotidiano Politika di Belgrado, 7 maggio 2016.

http://www.politika.rs/sr/clanak/354537/Davutoglu-u-Banjaluci-Turci-su-bili-ovde-sada-su-i-bice-zauvek  

Durante lo stesso discorso  Davutoglu ha avuto parole di apprezzamento per gli adempimenti  di Alija Izetbegović, padre, l’autore della Dichiarazione Islamica nella quale prospettava un mondo islamico dall’Indonesia al Mediterraneo. Violando il protocollo l’ex premier turco ha  anche esplicitamente escluso qualsiasi possibilità di separazione della serba Banja Luka e della croata Mostar da Sarajevo. E’ sorprendente che un dignitario straniero si permetta di affrontare  argomenti interni alla Bosnia Erzegovina, argomenti molto delicati e sensibili, che non gli dovrebbero competere. L’ex premier turco aveva tenuto un discorso similare nel Sandjak, regione della Serbia sopra il Kosovo, poco tempo prima.

Fra l’altro, il giorno dopo, sulla cima del minareto ho visto svettare la bandiera verde dei musulmani, non quella della Bosnia Erzegovina o della Republika Srpska.

Il presidente serbo Dodik ha dichiarato in una conferenza stampa di non aver partecipato all’inaugurazione per rispetto a una cerimonia religiosa, dove la politica avrebbe  dovuto essere esclusa. Ha anche aggiunto che l’opposizione cerca in ogni modo di toglierlo di mezzo e che il partito Alleanza per il cambiamento, all’opposizione, è finanziato con denaro turco e britannico.

http://www.klix.ba/vijesti/bih/dodik-o-protestima-opozicija-turskim-parama-realizuje- izdaju/160509116

Pochi giorni prima, il capo della CIA John Brennan era stato a Sarajevo. La sua visita sarebbe stata interpretata come un tentativo di frenare gli estremisti musulmani in Bosnia. Ovviamente le pesanti dichiarazioni dell’ex premier turco devono aver dato ai radicali musulmani un notevole stimolo contrario.

Il giorno seguente, 8 maggio, si sarebbe svolta la cerimonia commemorativa per il 71° anniversario delle vittime di Jasenovac a Donja Gradina, campo 8 del complesso di concentramento dove avvenivano le uccisioni di massa. Qui si trovano tuttora le fosse comuni. Di fronte, al di la del fiume Sava, in Croazia c’è il campo 3 dove entravano i prigionieri.

Ovviamente la scelta del 7 per l’inaugurazione della moschea è stata interpretata come una mancanza di rispetto per la cerimonia del giorno seguente.

Di fronte all’incredibile disinvoltura del premier turco mi sono posta alcune domande:

. Come è possibile che un ministro turco si permetta di affrontare argomenti inerenti al paese che lo ospita con tanta sicumera? E di fronte ad alcuni rappresentanti della politica europea e americana.

. Cosa significa la presenza di tanti rappresentanti dei paesi arabi? Erano gli sponsor della ricostruzione? O testimoniavano un’unità ideale?

. Considerata la condizione precaria dell’Europa, prossima a dissolversi a causa dell’immigrazione dalla Turchia, è possibile che l’ondata di siriani per i Balcani sia stata concertata dalla Turchia con il beneplacito americano e ora sia sfuggita di mano agli USA e le fila siano tirate dalla Turchia e dall’Iran?

. Si può ipotizzare che la Dichiarazione Islamica di Aljia Izetbegović faccia parte di un piano che con il tempo e la pazienza il mondo islamico stia mettendo in opera? L’Islam ha dalla sua parte una raffinata e antica sapienza di attendere, di usare l’aumento demografico e la frustrazione dei giovani islamo europei.

. I disastri compiuti dai paesi occidentali in passato attendono ancora vendetta. Possibile che i conflitti fra wahabiti e salafiti, fra sciiti e sunniti possano annullarsi nella volontà comune di piegare l’Occidente? L’Europa in particolare

. Possibile che gli USA non si rendano conto dei giochi della politica islamica, turca, iraniana o saudita? Possibile che nella loro arroganza abbiano sopravalutato la loro capacità di controllare questo mondo?

Questi dubbi mi sono nati durante i miei vari soggiorni nei Balcani e confermati, sempre con tanti punti interrogativi, mentre facevo le interviste per il libro in uscita La porta d’ingresso dell’Islam. Bosnia Erzegovina: paese ingovernabile (*), il cui titolo proviene da un commento che il generale Pierre Marie Gallois, noto geopolitico francese, aveva espresso nel 1997 a proposito della politica americana in Bosnia Erzegovina. Aveva detto che gli Stati Uniti avevano aperto la porta d’ingresso in Europa all’Islam.
Il libro contiene anche una intervista al Muftì di Banja Luka.

Ovviamente sono lieta che la moschea sia stata finalmente ricostruita. 


(*) Maggiori dettagli sul libro più su in questo email, al punto 0: "Nuovo libro in uscita" (ndCNJ)


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Il “messaggio neoottomano” del premier turco Ahmet Davutoglu  all’ inaugurazione della moschea a Banja Luka (R. Srpska)

Додик: Давутоглу послао неоосманске поруке

Izvor: www.politika.rs – недеља, 08.05.2016. 

КОЗАРСКА ДУБИЦА – Председник Републике Српске Милорад Додик оценио је данас да је турски премијер Ахмет Давутоглу послао „неоосманске поруке” на отварању бањалучке џамије Ферхадије и тиме поручио Србима да Турска не одустаје од мешања у унутрашње ствари у БиХ.
„Јуче смо имали прилику да видимо да премијер турске владе у оставци није оклевао да пошаље неоосманске поруке, да упути поруке које иду несумњиво у правцу тога да нама Србима каже да Турска не одустаје од мешања у унутрашње ствари у БиХ, да сматра да је то њихово природно право”, рекао је Додик новинарима у Козарској Дубици, пренела је Фена.
То је, оценио је, јасна порука свима у РС да морају да јачају своје институције.
Он је истакао да није одржао говор на отварању обновљене Ферхат-пашине џамије у Бања Луци, јер је, како тврди, одбијен захтев да на церемонији буде постављена и застава РС.
Додик сматра да је застава требало да буде постављена „јер се све и одвијало на простору РС”.
За Додика је важно и да се Срби држе заједно, без обзира на најављене протесте опозиције 14.маја у Бањалуци, а присуство опозиционара на комеморацији у Доњој Градини види као знак да су и они свесни важности очувања српског идентитета, преноси Танјуг.


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Vienna airport suspends "IS sympathizer from Bosnia"

An unnamed man originally from Bosnia-Herzegovina, employed by Vienna's Schwechat airport, has been suspended for being "a sympathizer of Islamic State."
SOURCE: TANJUG WEDNESDAY, APRIL 6, 2016 | 10:58

This discovery came after Belgian police unions warned, in the wake of last month's terrorist attacks in Brussels, that "supporters of Islamic State can be found among the employees of airports across Europe."
Media in Vienna are reporting that the Bosnian man worked as a technician at the airport for many years. 
He in the past posted pictures of himself online showing him "holding a raised index finger, in a victorious pose - similar to Islamic State fighters." 
In addition, he "used some websites" to express his liking of Islamic State, "and followed radical Salafi messages," while other employees thought he stood out due to his "radical world view."

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Terroristas bosnios arrepentidos quieren regresar a su país desde Siria

Source: Agencias
08-03-2016

Un cierto número de takfiris bosnios que se unieron a las filas del EI, del Frente al Nusra u otras organizaciones wahabíes y takfiris buscan volver a Bosnia-Herzegovina, donde están dispuestos a hacer frente a penas de prisión, afirmó el martes el fiscal bosnio encargado de delitos de terrorismo.
“Debido a las condiciones insoportables sobre el terreno, un cierto número de ciudadanos bosnios que se encontraban en Siria o en Iraq han contactado con las agencias de seguridad de Bosnia para manifestar su deseo de volver al país”, dijo el fiscal general en un comunicado.
“Ellos están dispuestos a declararse culpables y a cumplir una pena de prisión”.
El fiscal se felicitó por un acuerdo suscrito con un takfiri, Emin Hodzic, de 24 años, en septiembre de 2014. Él se reconoció culpable de haberse unido al EI en Siria y aceptó cumplir una pena de 12 meses de prisión.
El fiscal no precisó el número de combatientes takfiris que querían volver al país balcánico, que adoptó una nueva legislación en 2014, que prevé penas que van hasta los 20 años de cárcel para los militantes takfiris y sus reclutadores.
“Varias decenas de personas han sido objeto de investigaciones”, dijo Boris Grubesic, portavoz del fiscal.
“Hasta el momento, 20 personas han sido condenadas por reclutamiento o por haberse unido a grupos terroristas extranjeros”.
Las autoridades bosnias calculan que entre 230 y 330 ciudadanos bosnios se han unido a grupos terroristas en Siria o Iraq, algunos con sus familias. Al menos 26 han muerto y unos 50 han vuelto a su país”.




Riceviamo e volentieri diffondiamo per conoscenza:

Inizio messaggio inoltrato:

Da: "comitatodanilodolci @libero.it
Oggetto: Tavola rotonda: legge tutela degli sloveni in Italia - 15 anni
Data: 17 maggio 2016 17:44:22 CEST



A 15 anni dalla legge di tutela della minoranza slovena:

a che punto siamo?


invito - vabilo


Tavola rotonda

legge 28 del 2001

una tappa fondamentale per la convivenza

Aspettative, pregi e limiti

dopo 15 anni dalla sua promulgazione.


Mercoledì 18 maggio ore 17.45

in via Valdirivo 30, Trieste, II piano

presso la sede dell'Ente italiano per la

conoscenza della lingua e della cultura slovena.


Coordinerà il prof. Jože Pirjevec.

Parteciperanno:

il sen. Fulvio Camerini,

il sen. Milos Budin,

il Presidente regionale SKGZ (Unione Culturale Economica

Slovena) Rudi Pavisc,

il Presidente regionale SSO (Unione delle Organizzazioni

Slovene) Walter Bandelj,

il prof. Samo Pahor,

il sen. Stojan Spetič.


Per ulteriori informazioni contattare:

centroitalosloveno@...

Evento Facebook: Legge di tutela degli Sloveni in Italia – 15 anni dopo


Petnajst let po odobritvi zakona se postavlja vprašanje

pomemben korak za sožitje.

VABILO – INVITO


Okrogla miza o zakonu št. 38 iz leta 2001 pričakovanja, odlike in pomanjkljivosti.

V sredo, 18. maja 2016, ob 17.45 v ulici Valdirivo 30, Trst, II. nadstropje na sedežu Italijanske ustanove za spoznavanje slovenskega jezika in kulture.

Vodil bo prof. Jože Pirjevec.

Sodelovali bodo:

Sen. Fulvio Camerini,

Sen. Miloš Budin,

Deželni Predsednik SKGZ, Rudi Pavšič,

Deželni Predsednik SSO, Walter Bandelj,

Prof. Samo Pahor, sen. Stojan Spetič.

Za nadaljnje informacije



centroitalosloveno@...

Dogodek facebook:

Legge tutela degli Sloveni in Italia – 15 anni dopo


A 15 anni dalla legge sulla tutela della minoranza slovena, tappa fondamentale per una serena convivenza. Da sempre nella nostra città coesistono due comunità linguistiche diverse: la italiana e la slovena; comunità che sono convissute pacificamente per secoli e grazie all’impero asburgico hanno avuto cittadinanza, scuole, commerci, ricchezze. Ma tutti conosciamo gli avvenimenti tragici del secolo scorso, le sofferenza dei cittadini di questa città e gli strascichi ideologici ma soprattutto emotivi che hanno lasciato nella comunità . Ma il nuovo secolo ci presenta sperabilmente un nuovo clima, molti genitori iscrivono i figli alle scuole con lingua di insegnamento slovena, alcune scuole italiane stanno introducendo anche l’insegnamento dello sloveno,il il teatro di via Petronio non è più off limits agli italiani ma offre possibilità culturali diverse agevolate anche dai sottotitoli, da qualche anno studenti delle scuole superiori italiane e slovene si incontrano e parlano insieme della storia della nostra città, e così via. Ci sono insomma nuove sensibilità e grandi aperture da ambedue le parti. A questo ha contribuito senz’altro la legge 38 che nel 2001 è stata emanata nello scorcio finale della legislatura del centrosinistra . Fino a quel momento molte erano state le discussioni. Molte le aspettative, molte le contrapposizioni, ma l’approvazione della legge rappresentò , tra mediazioni e compromessi, un atto dovuto alla comunità slovena, il riconoscimento di quei diritti che. presenti nella Costituzione, pur ricordati in molti atti giuridici non erano ancora normati .La legge così fu salutata con soddisfazione non solo dai cittadini di lingua slovena ma anche da tutti quelli che, sinceramente democratici, auspicavano una convivenza finalmente serena e rispettosa della culture storiche di questa città. Così il Centro Italo-Sloveno e il Comitato Pace Convivenza “Danilo Dolci” hanno organizzato una tavola rotonda Mercoledì 18 alle ore 17.45 per riflettere sui 15 anni trascorsi dall’emanazione e sugli aspetti culturali positivi di questa legge, sui pregi e i suoi limiti. La tavola rotonda si terrà nella sede di via Valdirivo 30 dove, dagli anni ‘70, l’Ente Italiano per la conoscenza della lingua e della cultura slovena cominciò a proporre le lezioni di lingua e cultura slovena agli italiani e dove nel 2001 il senatore Camerini la presentò prima ancora della promulgazione. Coordinata dal prof. Pirjevec vi parteciperanno lo stesso prof. Camerini,il senatore Milos Budin, il Presidente regionale SKGZ Rudi Pavsič, il presidente regionale SSO Walter Bandelj, il prof. Samo Pahor, il senatore Stojan Spetič.

Altre informazioni:

http://www.fiscooggi.it/analisi-e-commenti/articolo/tutela-della-minoranza-slovena-un-percorso-legislativo-e-culturale

http://www.camera.it/parlam/leggi/01038l.htm

http://lexview-int.regione.fvg.it/fontinormative/xml/xmlLex.aspx?anno=2007&legge=26&ART=000&AG1=00&AG2=00&fx=lex




(english / italiano)

Panturchìa / 1
Poverini i Tartari di Crimea!


1) LINKS
2) Le milizie islamiche, alleate con i ceceni, aiutano l'Ucraina nella guerra contro i ribelli (A.E. Kramer – 7 luglio 2015)
3) Ucraina: da una guerra all'altra (F. Poggi, 28 Dicembre 2015)
4) Kiev: guerra al Donbass e regali alla Turchia (F. Poggi, 8 aprile 2016)
5) Scenario jugoslavo per l’Ucraina della junta golpista? (F. Poggi, 9 aprile 2016)
6) Ucraina: bombe al Donbass e onori al Medžlis dei tatari (F. Poggi, 15 maggio 2016)
7) Ucraina: campi di addestramento ISIS a Mariupol (di F. Poggi, 16 maggio 2016)


=== 1: LINKS ===

Altre letture consigliate (in ordine cronologico inverso):

L’isteria antirussa si sposta sulle canzoni (PTV news 16 maggio 2016)

Eurovision Song Contest 2016, vince l’ucraina Jamala con brano antirusso (di Domenico Naso | 15 maggio 2016)
Sono solo canzonette? Nossignore. L’Eurovision Song Contest, il festival europeo della canzone, è molto di più. Lo sapevamo già, ma l’edizione di quest’anno, conclusasi ieri sera a Stoccolma, lo ha dimostrato una volta di più. Ha vinto l’Ucraina con la cantante Jamala e il suo brano 1944. Un testo forte, storicamente e politicamente potentissimo. Nella canzone si parla, infatti, delle deportazioni dei tatari di Crimea ordinate da Stalin in Ucraina... Ma l’Eurovision Song Contest, dicevamo, è anche e soprattutto politica. Così come è alleanze tra paesi vicini o tradizionalmente amici, blocchi interi di nazioni che si votano a vicenda...

Erdogan mostra il dito medio all’Europa (MK Bhadrakumar – Indian Punchline 7 maggio 2016)
L’impatto della mossa del presidente turco Recep Erdogan per sostituire il primo ministro Ahmet Dautoglu, si fa già sentire nelle cancellerie occidentali segnalando lo scenario di un divorzio acrimonioso tra Ankara e l’Unione europea... La decisione di rimuovere Davutoglu è il campanello d’allarme sulla Turchia che prosegue la politica estera che Erdogan ha sempre favorito, il ‘neo-ottomanismo’... 

La Crimea in mano a Kiev, perno del complotto turco-ucraino (di Fabrizio Poggi, 21 marzo 2016)
La dichiarazione congiunta sul rafforzamento della partnership strategica tra Turchia e Ucraina – in particolare: sostegno tecnico militare e missilistico ucraino alla Turchia, creazione di una zona di libero scambio, attrazione di capitali turchi nelle privatizzazioni ucraine, collaborazione energetica e questione della Crimea – sottoscritta ad Ankara da Petro Porošenko e Recep Erdoğan lo scorso 9 marzo, viene da lontano... a ridosso della visita c’erano state le manovre congiunte turco-ucraine nel mar di Marmara, con la fregata ucraina “Ghetman Sagajdačnyj” e la nave appoggio “Balta” che erano poi rientrate a Odessa con un carico d’armi valutato a oltre 800mila $...

La Turchia corre in soccorso dei fascisti ucraini (di Luis Carapinha, da “Avante!”, settimanale del Partito Comunista Portoghese – 19 Marzo 2016)
La Turchia e l'Ucraina si sono impegnate a rafforzare la sicurezza nel Mar Nero e, secondo Poroshenko, Ankara appoggerà Kiev a restaurare la sua giurisdizione sulla Crimea (!). A sua volta, l'Ucraina ha proposto la partecipazione del capitale turco al programma di privatizzazioni su larga scala annunciato per il 2016...

La ripicca di Erdogan contro Putin: la Turchia regala attrezzature militari all’Ucraina (di Eugenio Cipolla, 8.3.2016)
Domani il presidente ucraino Petro Poroshenko si recherà in visita ufficiale in Turchia...

Ucraina. Le mire di Kiev sulla Crimea (di Fabrizio Poggi, 29 Febbraio 2016)
... Gruppi mobili di sabotatori stanno passando dal blocco economico della Crimea (...) al terrore aperto verso gli abitanti della regione di Kherson, confinante a ovest con la penisola, eletta al ruolo di avamposto dal medžlis dei tatari dopo la fuga dalla Crimea. Avamposto in cui il battaglione  musulmano “Noman Čelibidžikhan” (primo Mufti dei musulmani di Crimea, che avversò il potere sovietico) si va rimpinguando per l'afflusso di “gruppi radicali da tutto il mondo” e i lauti sostegni in armi del governo di Ankara. A detta del vice premier della Crimea, Ruslan Bal'bek, nel battaglione ci sarebbero ben pochi tatari e quasi solamente mercenari stranieri, per lo più dell'Isis. Secondo EurAsia Daily, la spina dorsale del battaglione sarebbe composta da islamisti dei “Lupi Grigi” fuggiti dalla Siria, insieme a elementi provenienti dall'Africa settentrionale e da altre parti del mondo...

L'Ucraina tra ricambi ai vertici di governo e necessità della guerra (di Fabrizio Poggi, 16 Febbraio 2016)
... negli ultimi giorni si sono fatte più ricorrenti le voci di una stretta collaborazione tra gruppi terroristici (e anche servizi segreti) turchi e il medžlis dei tatari di Crimea, in maggioranza sunniti-hanafiti. Dopo le passate dichiarazioni su corsi di sabotaggio e campi di addestramento sul territorio ucraino organizzati per il medžlis da istruttori turchi, ora circolano con insistenza indiscrezioni - ne ha parlato ieri LifeNews - sulla preparazione di azioni diversive in Crimea sotto la diretta supervisione dei “Lupi grigi” turchi, implicati anche nell'abbattimento dell'aereo di linea russo A321 sopra l'Egitto nell'ottobre scorso e utilizzati da Erdogan nella repressione dei curdi...

Hundreds of Subversives Speaking Turkish, Arabic Infiltrate Donbass - DPR (Sputnik 31.12.2015)
Around 300 of Turkish- and Arabic-speaking mercenaries arrived in the city of Mariupol under Ukraine's control, the Donetsk People's Republic military reported citing locals...
http://sputniknews.com/europe/20151231/1032556958/turkish-arabic-mercenaries-ukraine.html

Ucraina e Turchia creano la Brigata internazionale musulmana (Reseau Voltaire, 4/8/2015)
Riunitosi presso l’hotel Bilkent di Ankara (Turchia) il 1° agosto 2015, sotto la presidenza congiunta del ministro degli Esteri ucraino Pavlo Klimkin, e del viceprimo ministro turco Numan Kurtulmus, il secondo Congresso mondiale dei Tartari ha accolto più di 200 associazioni...
http://www.voltairenet.org/article188369.html

Cold War Images (GFP 2014/03/12)
... another group drawing attention in the Crimean context are the Crimean Tatars. This 280,000-member Islamic minority also has a Salafist wing, some of whose activists have combat experience from the Syrian conflict. One of the Crimean Tartar leaders was quoted with a prognosis that it should be expected that, at least, a few of those with combat experience will attack the Russian troops in the Crimea in the future. “They say: ‘an enemy has entered our land and we are ready’," he is quoted saying. [Tatars warn Russia risks provoking jihadi backlash in Crimea. www.ft.com 09.03.2014.]...

Si vedano anche:

Il prevedibile piagnisteo di Osservatorio Balcani Caucaso – finanziato dalla Commissione Europea – sui poveri Tartari di Crimea:
Crimea: la Russia contro i tatari (Matteo Zola – 6 maggio 2016)
La magistratura russa ha avviato un'azione contro il Mejlis, organo rappresentativo dei tatari di Crimea. Minoranze e diritti nel post annessione...

I nostri post precedenti sull'intromissione turca nella questione ucraina:
Islamisti servi della NATO, dalla Cecenia all'Ucraina (JUGOINFO 22.7.2016)
Towards A New War Of Crimea (Verso una nuova Guerra di Crimea – JUGOINFO 30.11.2015)

Alle radici delle tendenze regionaliste e micronazionaliste dell'Europa germanica:
EUROPA: UNIONE E DISGREGAZIONE


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Le milizie islamiche, alleate con i ceceni, aiutano l'Ucraina nella guerra contro i ribelli

Andrew E. Kramer – 7 luglio 2015

Mariupol, Ucraina. Vestito con una tuta mimetica,con una folta barba sale e pepe fluente sul petto e un coltello da caccia prominente dalla cintura, l'uomo è una figura temibile nel ristorante quasi deserto. I camerieri si aggiravano con apprensione nei pressi della cucina e cercavano il più possibile che l'uomo che si fa chiamare il Muslim, un ex signore ceceno della guerra, non li chiamasse per chiedere ancora del tè. Anche per uomini induriti da più di un anno di guerra contro i ribelli, l'apparire dei combattenti islamici, per la maggior parte ceceni nelle città di confine, è sempre qualcosa di particolare e per qualche ucraino, essi sono benvenuti.“Ci piace combattere i russi” ha detto il ceceno che si è rifiutato di dire il suo vero nome,”Li abbiamo sempre combattuti”.

Comanda una delle truppe di volontari islamici di circa trenta unità in totale che combattono ora nell'Ucraina dell'est. I battaglioni islamici vengono distribuiti nelle zone più calde che è poi il motivo per cui il ceceno era qui.La guerriglia si sta intensificando vicino a Mariupol, porto strategico e zona industriale che i separatisti hanno a lungo occupato. Monitoraggi dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, dicono di aver visto spedizioni notturne quotidiane di equipaggiamento militare russo sulla linea ferroviaria a nord di qui.Isa Munayev ha aiutato a reclutare combattenti musulmani ceceni ed è stato ucciso a febbraio, ha detto un altro leader.

L'esercito ucraino, sbandato e senza fondi, è stato in gran parte inefficace. Così gli ucraini considerano ben accetto anche il sostegno che giunge dai militanti islamici provenienti dalla Cecenia. “Sono su questo fronte da ventiquattro anni a questa parte, dal periodo del crollo dell'Unione Sovietica” ha detto il ceceno.“La guerra per noi non è mai finita. Non abbiamo mai disertato dalla guerra contro la Russia e mai lo faremo”.

I comandanti ucraini temono che i gruppi separatisti progettino di occupare le strade di accesso a Mariupol e di assediare la città che, prima della guerra, aveva una popolazione di circa mezzo milione di abitanti.Per contrastare questo pericolo, il governo ha pensato di fare affidamento su un assortimento di forze paramilitari della destra e sulle milizie islamiche per la sua difesa. Il ceceno comanda il gruppo dello sceicco Mansur, che prende il nome da un figura della resistenza cecena del diciassettesimo secolo. E' subordinato a Pravy Sector, una milizia estremista ucraina. Né il gruppo dello sceicco Mansur né Pravy Sector sono incorporati nella polizia ufficiale o nelle forze militari, e le autorità si rifiutano di dire il numero di ceceni che combattono nell'Ucraina dell'est. Sono tutti volontari. Oltre ad un nemico, questi gruppi non hanno molto in comune con gli ucraini o, per quello che conta, con gli alleati dell'Ucraina in occidente, Stati Uniti compresi. Pravy Sector, per esempio, durante lo scorso anno, ha dato vita a forme di protesta in strada a Kiev, con una mezza dozzina di gruppi nazionalisti marginali come il “Martello Bianco” e il “Tridente” di Stepan Bandera. Un altro, il battaglione Azov è apertamente neonazista e sventola il gancio del lupo, simbolo associato con le SS. Senza affrontare la questione del simbolo nazista, il ceceno ha detto che va d'accordo con i nazionalisti perché, come lui, amano la propria patria e odiano i russi.

Per cercare di rafforzare le abilità delle forze regolari ucraine e ridurre la dipendenza di Kiev da questi paramilitari ai confini della legalità, l'esercito degli Usa sta formando la guardia nazionale ucraina. Agli americani è specificatamente proibito dare dritte ai membri del gruppo di Azov.

Dalla guerra in Afghanistan del 1980, Mosca ha accusato gli Usa di incoraggiare i militanti islamici a combattere la Russia lungo il suo confine più vulnerabile, quello meridionale, una politica che potrebbe abilmente risolvere due problemi, da un lato, contenere la Russia, dall'altro distrarre i militanti dagli Usa. Il leader ceceno R.Kadyrov  ha accusato il governo georgiano filoccidentale di infiltrare radicali islamici nel Caucaso del nord.

In Ucraina, le unità di Dzhokhar Dudayev e Sheikh Mansur, sono per lo più formate da ceceni, ma includono musulmani da altre aree di confine sovietiche come Uzbekistan e Balkars. La terza unità, la “Crimea”, è in prevalenza composta da tatari crimeani. Lungo il fronte, circa sette miglia ad est, le truppe si muovono speditamente in auto civili, e con i fucili AK-47 sparano dai finestrini, mentre l'esercito regolare è collocato in una linea secondaria di trincee di difesa. I ceceni, a detta di tutti, sono soldati di valore. I comandanti ucraini sponsorizzano le loro abilità come cecchini ed esploratori, dicendo che scivolano nella terra di nessuno per pattugliare e fare agguati. I ceceni sono rinomati per le loro imboscate e per i raid. Nell'intervista, il comandante ceceno ha detto che i suoi uomini amavano combattere con poco equipaggiamento protettivo. “Questo è il nostro modo di guardare a lui” ha detto, “Noi crediamo in Dio così non abbiamo bisogno di protezioni”.

Nell'intervista al ristorante bisteccheria, locale preferito frequentato da Pravy Sector,  il ceceno ha detto di avere all'incirca 45 anni, di aver combattuto contro la Russia in entrambe le guerre cecene e di aver visto una buona quantità di violenza. Quando parla di combattere, i suoi occhi diventano scuri e imperscrutabili. Per gli ucraini, la decisione di aprire tranquillamente il fronte a figure come il ceceno, che arrivano qui dall'Europa e dall'Asia centrale,  ha il significato di avere uomini agguerriti al loro fianco. Il ceceno aveva vissuto in Francia e fondato i “battaglioni ceceni” lo scorso autunno con Isa Munayev, un emigrato dalla Cecenia che viveva in Danimarca. Munayev, ha detto il ceceno, aveva ricevuto l'approvazione da membri di alto livello del governo ucraino, ma non c'era niente di scritto, ha detto, aggiungendo che Munayev è stato ucciso in battaglia lo scorso febbraio.

Sebbene religiosi, i gruppi ceceni dell'Ucraina orientale si ritiene aderiscano al ceppo  più estremista del movimento separatista ceceno, secondo E.S., un'esperta internazionale della Cecenia. Le autorità francesi, che conoscono bene l'estremismo islamico, radicato nelle loro comunità di immigrati, hanno arrestato quest'anno due membri del battaglione dello Sceicco Mansur con l'accusa di appartenenza ad un gruppo estremista dello stato islamico, ha detto il ceceno. Quest' ultimo ha negato che i due fossero membri di questo gruppo. “E' utile per l'Europa che combattiamo qui come volontari. Ma non tutti lo capiscono.”

 

Da NYT - Traduzione di Alice L. per CISNU-civg.it



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Ucraina: da una guerra all'altra

di Fabrizio Poggi, 28 Dicembre 2015

Che l'involuzione ucraina, a partire dal golpe del febbraio 2014, si inserisca nella strategia USA e Nato di accerchiamento delle frontiere russe, ormai nemmeno i media più scopertamente atlantisti si preoccupano di negarlo. Che, in questo quadro, il terrorismo di stato attuato da più di un anno e mezzo dai golpisti di Kiev nei confronti di quella parte di popolazione ucraina che ha deciso di non sottostare alle scelte ultranazionaliste e apertamente fasciste del governo, sia quotidianamente ripetuto dalle più alte istituzioni del paese - anche questo non ha più bisogno di essere dimostrato: i protagonisti stessi ce ne danno testimonianza diretta.

E così, se le vittime civili del Donbass, che si avvicinano ai diecimila morti ufficiali, continuano ad accumularsi anche nei giorni di tregua, la Rada di Kiev non interrompe i propri spettacoli nemmeno in prossimità delle feste di fine anno. Mentre due civili cadevano sotto i proiettili di mortaio nel rione Zajtsevo della città di Gorlovka, nella DNR, i deputati della Rada proseguivano nella loro esternazione della “dialettica parlamentare”, intesa alla maniera degli squadristi che, all'esterno della propria cerchia, massacrano i civili e, all'interno, danno prova di reciproca “tolleranza democratica”. Si va così dall'epiteto di “prostituta”, affibbiato dall'oligarca Kolomojskij all'ex premier Julia Timošenko; a “qui i minorati mentali sono tanti”, con cui il premier Jatsenjuk ha valutato parte dei colleghi parlamentari, dopo esser stato tirato giù dalla tribuna, agguantato per i santissimi; all'orecchio morso da un deputato a un attivista non militare del battaglione neonazista “Azov”; al “cane senza museruola” di cui ancora Kolomojskij ha onorato il governatore yankee di Odessa, Mikhail Saakašvili; e così via, fino ad arrivare all'ultima signorile uscita del leader del Partito Radicale Oleg Ljaško, che ha dato di “bestie” ai altri deputati del Blocco presidenziale. D'altronde, questo è il minimo, per chi legalizza dagli scranni parlamentari il massacro della parte della propria popolazione rea di parlare un'altra lingua: evidentemente, il linguaggio alla Rada, è innalzato oggi a dialetto ufficiale dell'Ucraina “europeista”. Come stupirsi quindi che, nelle zuffe tra ladroni, addirittura il Ministro degli interni Arsen Avakov – quello del bicchier d'acqua tirato in faccia a Mikhail Saakašvili – valuti le possibilità di una “terza majdan”, affidata alle faide tra blocchi oligarchici.

E' questo “parlamento”, dunque, che rinnova e “legalizza” le quotidiane violazioni della tregua nel Donbass. Ieri due civili sono rimasti uccisi sotto i colpi ucraini nel rione di Zajtsevo, alla periferia di Gorlovka, allorché le truppe di Kiev hanno impiegato, “per la prima volta da 10 giorni”, come riferiscono alla DNR, artiglierie pesanti da 152 mm e mortai da da 82 e 120 mm, anche contro il villaggio di Kominternovo. Nella stessa aerea di Kominternovo, alla vigilia erano finiti sotto i tiri di cecchini ucraini anche gli osservatori Osce, della Commissione mista di controllo sul cessate il fuoco e una troupe televisiva di “Rossija-24”. Complessivamente, dalla DNR si sono denunciate una ventina di violazioni al cessate il fuoco da parte ucraina nella sola giornata del 26 dicembre, con l'impiego di mortai pesanti, carri armati e mezzi blindati. Oltre a Kominternovo e Zajtsevo, sarebbero stati colpiti i villaggi di Žabunki, Železnaja Balka, Lozovoe, Staromikhajlovka, Spartak e l'area dell'aeroporto di Donetsk.

Quindi, non appare nulla più che una nota di “cristiana indulgenza” la notizia secondo cui l'ex leader di una delle organizzazioni neonaziste più agguerrite – e più reclamizzate a ovest delle frontiere ucraine – “Pravyj sektor”, Dmitro Jaroš, di voler abbandonare il battaglione per dar vita, insieme a un gruppo di seguaci, a una formazione nazionalista a suo dire “meno radicale”. Parole non più che parole: da tempo gli sponsor occidentali della “democrazia” ucraina hanno cominciato a lamentarsi della poca “presentabilità” dei battaglioni neonazisti; dunque, per continuare a ricevere gli aiuti così necessari, è evidentemente tempo, per essi, di cambiar facciata. “Io e la mia squadra usciamo dal movimento Pravyj sektor”- definito sfacciatamente da Jaroš “di liberazione nazionale” (!) - “che ha esaurito la propria missione. Il nazionalismo deve avviarsi verso una nuova tappa, in opposizione al potere. Cominciamo a costituire un nuovo movimento politico, senza radicalismo e senza demagogia liberale”, ma coevo ai gangli politici e militari governativi. D'altronde, questo è anche un sicuro modo per poter partecipare in forma diretta a tutta quella serie di manovre militari Nato cui nei giorni scorsi Petro Porošenko – cui la Gallup accredita non più del 17% di consensi, contro il 47% di un anno fa - ha dato luce verde con la delibera di ammissione di soldati stranieri sul territorio ucraino nel 2016 per le manovre dell'Alleanza atlantica.

E, sempre sul fronte delle alleanze esterne, uno degli organizzatori del blocco della Crimea, il tataro-ucraino Lenur Isljamov, ha dichiarato che il Ministero della difesa turco sarebbe in procinto di assicurare il proprio aiuto per la formazione di un battaglione volontario per la “riconquista della Crimea”. Primo compito del battaglione, ha detto Isljamov, sarà quello della “difesa dei confini crimeani all'interno stesso della Crimea”; quindi “porteremo colpi in punti nevralgici che solo noi conosciamo” e con l'ausilio di “piccole imbarcazioni attaccheremo le navi che portano merci in Crimea”.

Come ha dichiarato oggi il consigliere presidenziale russo Grigorij Ighnatov, Ankara spinge Kiev a una nuova avventura. Questo fantomatico battaglione tataro-ucraino servirà non solo al blocco della Crimea, ma ad azioni di sabotaggio in territorio russo, soprattutto nella regione di Kherson. Più specificamente, il primo battaglione “Crimea” servirà per assicurare il blocco della penisola; il nuovo, denominato “Noman Čelebidžikhan” (il nazionalista tataro morto nel 1918 combattendo contro il giovane potere sovietico) sarà destinato ad azioni di sabotaggio e al terrorismo ai danni della popolazione della regione di Kherson, come avvenuto anche lo scorso 25 dicembre nel villaggio di Kalančakh.


“Cominciare una guerra era facile; penoso assai terminarla”, vien da ripetere come al tempo delle guerre di Roma contro Giugurta.  


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Kiev: guerra al Donbass e regali alla Turchia

di Fabrizio Poggi, 8 aprile 2016

Colpi di mortaio e artiglierie ucraine si sono di nuovo abbattuti la notte scorsa sulla periferia di Donetsk, in particolare nell’area di Dokučaevsk, a sud del capoluogo della DNR. La sera precedente, a essere colpito dai tiri ucraini era stato il villaggio di Spartak, a nord di Donetsk. E’ ormai oltre un mese che le forze di Kiev martellano giorno e notte i centri abitati posti lungo la linea di demarcazione con le milizie popolari, in quell’area cuscinetto che, secondo gli accordi del “Minsk-2” del febbraio 2015, dovrebbe essere sgombra da armi pesanti, allontanate a oltre 30 km dal fronte e invece provocatoriamente riportate in linea dalle forze ucraine.

Non ha difficoltà il leader della Repubblica popolare di Donetsk, Aleksandr Zakharčenko, a dichiarare che la soluzione pacifica del conflitto nel Donbass è stata congelata, prima ancora di prendere il via. “Non viene rispettato nemmeno il primo punto degli accordi, quello sul cessate il fuoco”, ha dichiarato Zakharčenko; “gli altri punti, o non vengono osservati, oppure Kiev finge di applicarli. La ragione è semplice: Kiev spera che, prima o poi, riuscirà a risolvere il conflitto con la forza”. Nonostante tutto, ha detto ancora Zakharčenko, la DNR considera tuttora il lavoro del Gruppo di contatto (la cui ultima riunione si è svolta a Minsk lo scorso 6 aprile) “utile e fruttuoso”. Gli accordi del “Minsk-2” (il primo vertice di Minsk si era tenuto nel settembre 2014) sottoscritti dal cosiddetto “quartetto normanno” – Merkel, Hollande, Putin e Porošenko – avrebbe dovuto costituire non solo la road map del processo di pace nel Donbass, bensì un documento giuridico internazionale, nell’ambito del quale si sarebbero dovuti compiere tutti i successivi passi per il superamento della crisi ucraina, secondo un grafico di interventi per tutto il 2015. E invece, la maggior parte di quegli interventi è rimasta sulla carta; oppure, come nel caso delle armi pesanti (carri armati, artiglierie e mortai di calibro superiore ai 100 mm; sistemi lanciarazzi, ecc.), l’iniziale ritiro a debita distanza è stato seguito dal loro ridislocamento, da parte ucraina, in prossimità del fronte.

In più di un’occasione, gli osservatori Osce – il cui numero, da circa 500, dovrebbe essere ora portato a 800 – controllando i depositi di carri e artiglierie ucraini negli alloggiamenti ufficialmente comunicati, lontani dal fronte, non ve li hanno rinvenuti. Anche il punto degli accordi di Minsk sullo scambio di tutti prigionieri, è rimasto sostanzialmente inattuato. Problematica anche l’attuazione dell’accordo sulla ricostruzione di acquedotti, linee elettriche e ferroviarie, strutture economiche del Donbass, danneggiate o distrutte dalla guerra, il primo passo della quale dovrebbe essere lo sminamento delle zone interessate, che sembra procedere con moltissima difficoltà. Ma, alla base del “congelamento” del processo di pace, è sempre il rifiuto di Kiev di aprire un dialogo diretto con le Repubbliche popolari e l’evidente simulazione di addivenire a un accordo sulle elezioni locali nel Donbass e sul suo futuro status politico-istituzionale.

Quanto poco la junta di Kiev sia interessata a qualsiasi soluzione pacifica e miri solo a guadagnar tempo nella questione del Donbass, lo testimonia l’ultimo dei progetti messi a punto per il versante sudorientale dell’Ucraina e che prevede la creazione di un centro autonomo dei tatari di Crimea nella regione di Kherson. Secondo il progetto, quest’ultima si chiamerà d’ora in poi Autonomia nazionale crimeano-tatara e la città stessa di Kherson verrà designata col nome turcofono di Khan-Geray, in onore al sultano che avrebbe liberato la Crimea dall’Orda d’Oro. Secondo Pravda.ru, nella nuova entità si insedieranno circa 200mila turchi-meskhetini; considerando che oggi in Ucraina non vivono più di 10 mila turchi-meskhetini, nota Pravda.ru, “si può parlare di una volontaria svendita di territorio ucraino che verrà così occupato”. Da chi? Ricordando le richieste avanzate da tempo in proposito dal cosiddetto Medžlis dei tatari di Crimea e, più di recente, le richieste di aiuto economico rivolte da Porošenko a Erdoğan, pare che il territorio di Kherson debba andare a garanzia di tali prestiti finanziari e un passo non insignificante sull’espansione turca nella regione. In tale contesto, conclude Pravda.ru e se “il progetto andrà davvero in porto, appare quantomeno ipocrita il duraturo rifiuto di Kiev di concedere l’autonomia al Donbass”, mentre si sta direttamente svendendo a potenze straniere un’altra porzione di territorio ucraino.

A coronare lo stile “democratico europeista” dei golpisti ucraini, un ulteriore episodio sulla strada della “eurointegrazione sui valori della libertà occidentale” perennemente osannati da Kiev: dopo l’assassinio dell’avvocato Jurij Grabovskij, difensore di uno dei due cittadini russi, Aleksand Aleksandrov e Evgenij Erofeev, detenuti in Ucraina dal maggio 2015 con l’accusa di essere esploratori del GRU, l’intelligence militare russa, la notte scorsa è andato a fuoco, a Kiev, lo studio del giudice che presiede il caso, Nikolaj Didyk. Casualmente (?), la nuova seduta del dibattimento avrebbe dovuto tenersi oggi; così che ora la loro detenzione potrà ulteriormente protrarsi. Ma questo non tocca certo le preoccupazioni di Petro Porošenko, oggi più che mai impegnato a districarsi tra le nuove ditte offshore (Agroprodimrex Corp., con base nell’area offshore del Delaware, Agroprodimrex Cyprus Limited, Willenhall Traiding Limited, Fairdrook Enterprises Limited, nell’isola di Man e la panamense Ukrprovinvest Holding Limited.) appartenenti a “Ukrprominvest”, che fa capo al povero Petro e che i media ucraini avrebbero scovato, in aggiunta a quelli recentemente pubblicati dal Dipartim… ops!, dal Consorzio internazionale di giornalismo investigativo. I materiali sarebbero stati recuperati da una causa intentata nel 2003 contro Porošenko, quando questi era all’opposizione dell’allora presidente Leonid Kučma. Un altro macigno che incombe sulla testa del Tantalo ucraino.


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Scenario jugoslavo per l’Ucraina della junta golpista?

di Fabrizio Poggi, 9 aprile 2016

A suo tempo, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon aveva detto che “l’Ucraina non è uno stato, bensì un circondario amministrativo dell’Urss”. La dichiarazione, a suo modo strabiliante, si spiegava col fatto che l’Ucraina, dalla fine dell’Urss, non aveva ancora proceduto a registrare formalmente all’ONU la demarcazione dei propri confini come stato. Giuridicamente, essendo la Russia riconosciuta quale “erede” dell’Urss, il territorio ucraino farebbe parte della Federazione Russa! Di conseguenza, era anche impossibile denunciare qualcuno di violazione delle frontiere ucraine o qualcun altro di separatismo: tutte accuse che, come è noto, la Kiev golpista rivolge tutt’oggi al suo grande vicino orientale e alle milizie popolari del Donbass. Ma questo accadeva nel 2014.

Concretamente, quali sono oggi le frontiere ucraine e da chi – legittimamente o meno, non è questa la sede per stabilirlo – sono minacciate, non solo a est? Paradossalmente, si potrebbe dire che è un bene per la stessa Ucraina che al referendum olandese abbia prevalso il “no” al trattato di associazione alla UE; un trattato che, tra le altre cose, prevede la restituzione agli originari proprietari dei beni posseduti prima della espropriazione. Se le varie pretese territoriali su differenti spezzoni di territorio ucraino dovessero venir riconosciute (ma, dovrebbe essere un Tribunale internazionale a farlo, su istanza di entrambe le entità statali), quanto rimarrebbe di quello che è oggi il più esteso stato europeo, coi suoi 604mila kmq? A partire dai territori settentrionali della Rzeczpospolita polacca, della Galizia – regioni di L’vov, Ivano-Frank, Ternopol – e della Volinja – Lutsk e Rovno – o della Slobožanščina russa, a quelli meridionali del Khanato di Crimea e dell’odierno Donbass e poi quelli orientali dell’Oltrecapazia ungherese.

Cerchiamo di dare un po’ di ordine alla cosa. Come scrive Boris Julin su Nakanune.ru, ad esempio, i Paesi baltici hanno già iniziato a restituire le terre ai legittimi eredi dei vecchi proprietari. Se di cancellazione del passato sovietico si tratta – e chi meglio dei golpisti ucraini può dire qualcosa in tal senso! – allora tutto ciò che l’Ucraina ha ricevuto, per dire, a conclusione della Seconda guerra mondiale, come allargamento dei confini dell’Urss, deve essere restituito. Ma si va anche oltre: il media “Wprost”, cercando forse di dare fondamento alle pretese polacche, menziona come “processo naturale di restituzione” il ritorno della Crimea nella Russia, in base allo status della penisola al 28 giugno 1914. In verità, le pretese polacche potrebbero riguardare anche parte della Bielorussia occidentale; ma per il momento la questione appare più urgente riguardo all’Ucraina, nei confronti della quale non si può non porre l’interrogativo: Kiev pretende che il passato sovietico debba essere cancellato e criminalizzato, oppure pensa che le norme previste per l’associazione alla UE valgano per tutti paesi, meno che per essa? Se si aderisce alla UE, è naturale che se ne accettino le norme e, tra queste, l’art.1 della Convenzione del Consiglio d’Europa del 1950 sulla “Difesa della proprietà delle persone fisiche e giuridiche”! In sostanza, si tratterebbe della restituzione della proprietà sulle terre, ma non, verosimilmente, della cessione di territori; ma, una volta avviato il processo, potrebbe esser difficile fermarlo. Appena pochi mesi fa, il direttore dell’Istituto ucraino di analisi politica, Ruslan Bortnik, ricordava come la destra reazionaria al potere in Polonia guardi all’Ucraina occidentale come alla “propria terra primordiale” e se noi, scriveva Bortnik, “considereremo la liberazione dell’Ucraina nel 1944 come un cambio di occupazione, da tedesca a sovietica, allora i polacchi avranno in mano uno strumento politico assolutamente legittimo per pretendere la restituzione delle loro proprietà nell’Ucraina occidentale”.

L’organizzazione polacca “Restitucija kresov” sta già esaminando oltre mille richieste di restituzione da parte di altrettanti cittadini polacchi, le cui proprietà sono finite in territorio ucraino alla fine della guerra. “L’ingresso in UE significa restituzione”, afferma Igor Pykhalov, così che se a Kiev “negano ogni eredità sovietica, ne consegue che l’ucraina detiene illegalmente i propri territori occidentali”. Ma, la Polonia, non intenterà causa a Kiev per qualche edificio appartenuto agli ebrei o emigrati russi: lo farà piuttosto, scrive Elena Ryčkova su Nakanune.ru, “per Galizia, Volinja e Polesie, vale a dire le attuali regioni di L’vov, Ternopol, Ivano-Frank, Rovno” in cui, a detta delle autorità di Varsavia, i polacchi continuano ancor oggi a esser bistrattati da Kiev. Da tempo, il presidente Andrzej Duda sta chiamando i polacchi a tenersi pronti alla battaglia per le restituzioni, anche se, scrive Pykhalov, molti polacchi avrebbero da ridire nel trovarsi in casa gli eredi delle SS ucraine responsabili del “macello della Volinja” e, comunque, sembrano non rinnegare la vecchia visione degli ucraini quali “schiavi delle campagne”. Sensazionale, scrive ancora Ryčkova, la posizione della Camera di commercio austriaca, secondo cui “l’Ucraina, in quanto stato, dovrebbe autoestinguersi a favore della Russia, a esclusione dell’antica regione della Galizia, che 100 anni fa faceva parte dell’Austria-Ungheria”; posizione che fa imbestialire Varsavia, che ne rivendica la proprietà da tempo più antico.

Più a sud invece, il leader del Medžlis dei tatari di Crimea, Mustafa Džemiliev, si dichiara erede dell’ultimo Khan Šakhin Geraj e pretende da Mosca la restituzione della residenza di Bakhčisaraj, quale condizione per il suo riconoscimento della Crimea russa.

Quindi, più a ovest, la questione verte sulle regioni dell’Oltrecarpazia e della Bucovina: la prima, con la città di Užgorod, appartenuta a suo tempo sia all’Ungheria che alla Slovacchia e che conta ancora forti minoranze ungherese e slovacca – caratteristico l’aneddoto, per cui gli abitanti dell’Oltrcarpazia, sentendosi a tal punto ungheresi, usano l’espressione “andare in Ucraina”. Per quanto riguarda la Bucovina, con la regione di Černovitsi, questa è appartenuta alla Romania fino alal fine della guerra e Bucarest ha più volte dichiarato la volontà di “proteggere” le minoranze rumene sia in Bucovina, sia in Bessarabia settentrionale (Moldavia) che meridionale, la cosiddetta “Bessarabia storica” o Budžak, in cui rientra parte della regione di Odessa.

Tirando qualche somma, all’Ucraina sono appartenute storicamente circa 8 regioni della parte centrale del paese e i territori occidentali, inclusa l’Oltrecarpazia, difficilmente potrebbero pretendere a tale titolo. “Ucraina meridionale, Donbass e Crimea”, afferma Vasilij Stojakin su dnepr.ru “appartenuti all’impero russo, furono donati all’Ucraina socialista dall’Urss. Dunque, chi parla di “occupazione russa o sovietica” dovrebbe essere anche pronto alla revisione delle frontiere ucraine a favore delle altre “vittime” di tali occupazioni”.

E Kiev è stata messa in allarme proprio in questi giorni da un’ennesima ondata di separatismo dell’Oltrecarpazia, i cui rappresentanti regionali, sulla base del disegno di legge sulla decentralizzazione – prevista per il Donbass dagli accordi di Minsk – chiedono la concessione dell’autonomia. Ma, si sa che dal progetto, prima ancora di divenire legge, era già scomparso ogni accenno allo “status speciale” o all’autonomia per il Donbass e, per quanto riguarda l’Oltrecarpazia, il governatore Gennadij Moskal (che nel Donbass occupato da Kiev manteneva l’ordine alla maniera di Stepan Bandera) spedito qui dopo le sparatorie dell’estate scorsa tra Pravyj Sektor ed esponenti delle oligarchie mafiose locali a Mukačevo – l’ungherese Munkácz – è pronto a ricorrere all’intervento dei militari per reprimere ogni velleità autonomista. Ma sembra che debba andare coi piedi di piombo, in una regione che riveste caratteristiche specifiche e che, ad esempio, per vicinanze di clan familiari, si differenzia totalmente dalla pur vicinissima Galizia. Già nel dicembre scorso, un centinaio di cittadine e villaggi dell’Oltrecarpazia avevano annunciato l’intenzione di dar vita a un “rione ungherese separato”, con capoluogo la cittadina di Beregovo, pochi chilometri a sudovest di Mukačevo e vicinissima ai confini ungherese e rumeno. L’iniziativa sarebbe stata appoggiata dalla “Unione degli organi frontalieri autonomi”.

In ogni caso, Kiev non è assolutamente intenzionata a venire incontro alle richieste di autonomia, che vengano dall’est o dall’ovest del paese. Nell’ottobre scorso la Bessarabia meridionale, compresa tra l’estuario del Dnestr e il delta del Danubio, minacciava di mettersi sulla strada del Donbass e della divisione da Kiev. I Gagauzi della Moldavia meridionale e i Bessarabi della regione di Odessa avevano proclamato l’intenzione di dar vita a una Repubblica autonoma di Budžak, la Bessarabia Vecchia, la cui capitale dovrebbe essere Belgorod-Dnestrovsk, l’antica fortezza ottomana di Akkerman. Il “presidente” temporaneo della nuova entità, il colonnello cosacco Aleksej Litvinenko, aveva dichiarato di voler riunire nella “Bessarabia meridionale ucraini, bulgari, gagauzi, moldavi, tsigani, ebrei”, dando vita “a organi provvisori di potere” con elezioni presidenziali, sistema finanziario autonomo e proprie forze armate. Il rappresentante bulgaro al parlamento Europeo aveva dichiarato di appoggiare il diritto del Budžak all’autodeterminazione democratica; i maggiori media rumeni, invece, erano tornati ad agitare il tema del recupero dei territori “storicamente rumeni, ingiustamente persi nei secoli XIX e XX a vantaggio dell’Ucraina occidentale” e avevano ammonito il governo a prepararsi per un probabile intervento in Ucraina per “difendere i territori rumeni di Bucovina settentrionale e Bessarabia meridionale”. L’Ucraina, scrivevano i media rumeni, “è uno stato artificiale, non omogeneo, apparso sulle rovine dell’Urss. Forse che, in caso di molto probabili sconvolgimenti interni, lo stato rumeno non dovrebbe intromettersi, a difesa dei rumeni residenti in Bucovina settentrionale, provincia di Herca, Bessarabia settentrionale e meridionale e, perché no, Transnistria?”.

La Bessarabia – gran parte della quale costituisce il territorio dell’odierna Moldavia e la cui parte meridionale fa parte della regione di Odessa – è rimasta sotto il giogo ottomano dalla metà del XVI secolo ed entrò a far parte dell’impero russo nel 1812, a conclusione della guerra russo-turca.

E proprio alla Turchia sembra invece che Kiev si appresti a “donare” parte del proprio territorio, secondo il progetto per la creazione di un centro autonomo dei tatari di Crimea nella regione di Kherson, in cui si insedieranno circa 200mila turchi-meskhetini, con la svendita ad Ankara, di fatto, di una cospicua porzione di territorio ucraino.

Insomma, tra territori in lotta per l’autonomia, regioni aggredite e massacrate per non aver riconosciuto il golpe banderista del 2014, province rivendicate o pretese da stati esteri, e circondari che la junta putschista non esiterebbe a donare ai propri “correligionari” in camicia bruna, Kiev rischia di ritrovarsi veramente a mendicare la carità della UE, avendo come sfondo uno scenario jugoslavo che non dispiacerebbe forse a USA e Nato.



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Ucraina: bombe al Donbass e onori al Medžlis dei tatari

di Fabrizio Poggi, 15 maggio 2016

Dopo il prevedibile nulla di fatto alla riunione del “Quartetto normanno” per gli accordi di Minsk, continuano i martellamenti delle artiglierie ucraine sui villaggi del Donbass, in particolare, Spartak, Dukačaevska e la periferia di Donetsk ma, soprattutto, sui centri di Sakhanka e Avdeevka, mentre ieri un abitante di Dontesk era rimasto ucciso e altri due feriti per lo scoppio di un’auto nel centro della città. In violazione degli accordi sul cessate il fuoco, le truppe di Kiev fanno uso di artiglierie e mortai da 82 e 120 mm.

Particolare intensità è stata registrata ieri nel bombardamento di Sakhanka, nel sud della Repubblica popolare di Donetsk; il fuoco proveniva dalla linea di Širokino in cui, dallo scorso 8 maggio, le truppe regolari sono state sostituite dal battaglione neonazista “Azov”, che ieri ha sparato oltre 170 colpi di mortaio da 82 mm contro il villaggio. Gli osservatori dell’Osce, giunti sul posto qualche ora dopo il bombardamento, sono stati accolti con urla dalla popolazione, che ha qualificato la loro opera come “beffarda”: “Dove eravate mentre sparavano sulle nostre case?”, hanno inveito gli abitanti? La missione, accompagnata dai rappresentanti del coordinamento russo-ucraino per il cessate il fuoco, non ha fatto altro che verificare i crateri delle esplosioni e gli spezzoni di granata rinvenuti in prossimità delle abitazioni. Il rappresentante russo, colonnello Aleksandr Lentsov, ha detto che l’Osce ha registrato la violazione degli accordi di Minsk (che prevedono il ritiro delle artiglierie dalla linea del fronte) da parte ucraina, constatando inoltre come nel villaggio non siano presenti milizie o reparti armati.

Intanto, Kiev sta procedendo a grandi passi alla realizzazione della sezione di “muro” (terrapieni, trincee controcarro, reticolati, torri di osservazione, mezzi di segnalazione, ecc.) alla frontiera tra la Russia e la parte della regione di Lugansk controllata dall’Ucraina: il “vallo europeo” alla cui costruzione era stato dato il via nell’autunno 2014 dall’ex primo ministro Arsenij Jatsenjuk, che definiva l’opera come il contributo ucraino alla difesa dell’Europa dalla “aggressione russa” – un contributo che dovrebbe risucchiare dalle casse ucraine (cioè UE) oltre 300 milioni di $.

In un modo o in un altro, con le cannonate sul Donbass o con i valli e i reticolati, sembra che l’Europa debba esser grata alle forze armate ucraine per aver fermato l’esercito più potente del continente. Perlomeno, questo è ciò di cui si vanta (non ci azzardiamo a dire che lui stesso lo pensi davvero) Petro Porošenko: “Abbiamo fermato l’esercito più grande del continente, liberato due terzi del territorio del Donbass e creato una potente coalizione mondiale”. Non da ora Porošenko decanta la potenza dell’esercito ucraino (i cui effettivi, nonostante le continue elargizioni occidentali, lamentano la perenne carenza di mezzi e le drammatiche condizioni di servizio) che sarebbe in grado non solo di difendere il proprio territorio, ma l’intera Europa.

E’ così che, in alto, qualcuno ha deciso di compensare tanto sforzo ucraino, relegando al terzo posto (nonostante il voto del pubblico) il concorrente russo Sergej Lazarev e assegnando ieri la palma del 61° Eurovision Song Contest di Stoccolma all’ucraina Jamala, per il motivo “1944”. La canzone, a detta della stessa vincitrice – una tatara di Crimea convinta della “ucrainicità” della penisola – avrebbe dovuto raccontare la vicenda dei tatari di Crimea, deportati il 18 maggio del 1944 per aver disertato in massa dall’Armata Rossa ed essersi schierati con le truppe hitleriane.

Secondo le dichiarazioni della stessa Jamala, il suo intento era in realtà quello di parlare della “annessione russa” della Crimea nel 2014; ma ciò, in base al regolamento del Contest, che non consente riferimenti politici, l’avrebbe automaticamente squalificata. Col parlare invece di uno temi più amati delle “rivelazioni” khruščëviane e dalla “storiografia” liberale, Jamala ha messo insieme un cocktail che tace sull’odierno blocco energetico della penisola da parte di Kiev ed esalta il Medžlis dei tatari di Crimea sponsorizzati dalla Turchia, il cui destino storico è perennemente compianto dai manuali occidentali sulle “repressioni di massa staliniane”.

Sulla vicenda del 1944, lo storico statunitense Carr-Furr ha notato come, contrariamente alla vulgata sul “genocidio etnico” dei tatari di Crimea a causa della loro deportazione in Asia centrale, il trasferimento non solo dei circa ventimila giovani maschi filonazisti disertori, ma della popolazione al completo (oltre 210mila persone), consentì a questa non solo di non scomparire, ma di continuare a svilupparsi, così che, al rientro in Crimea, si era addirittura accresciuta.

Ma, le narrazioni storiche cui ci hanno abituati, come si sa, non hanno l’obiettivo di insegnare qualcosa, bensì quello di servire solo gli interessi del momento.


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Ucraina: campi di addestramento ISIS a Mariupol

di Fabrizio Poggi, 16 maggio 2016

Non da oggi le agenzie di informazione scrivono degli interessi comuni, soprattutto nel settore del transito di prodotti energetici, tra Ucraina e Turchia e, inoltre, delle assonanze ideologiche e delle comuni simpatie filonaziste di Ankara e Kiev, del sostegno che la prima fornirebbe alla seconda e della collaborazione tra “Lupi grigi” e altre formazioni fasciste turche al Medžlis dei tatari di Crimea nelle loro ambizioni di “riconquistare” a mano armata la penisola. Non da ora, è di dominio pubblico il sostegno multilaterale di Ankara alle organizzazioni terroristiche che combattono il governo siriano e, in particolar modo, all’Isis. Nel quadro di tale intreccio di legami perversi, il vice Comandante di corpo delle milizie della Repubblica popolare di Donetsk ha dichiarato oggi che l’intelligence militare della DNR avrebbe scoperto, nell’area di Mariupol, controllata dalle forze ucraine, una base di addestramento di terroristi islamisti provenienti da paesi arabi, che operano anche da truppe mercenarie agli ordini di Kiev. Secondo i dati della ricognizione, a condurre l’addestramento dei nuovi adepti sarebbero direttamente alcuni comandanti dell’Isis e la rotazione dei reparti mercenari avverrebbe mensilmente; dopo di che, gli uomini così formati passerebbero direttamente in Medio oriente, attraverso Ucraina e Turchia. A detta di Basurin, l’arrivo di ogni nuovo contingente è contrassegnato dall’intensificarsi degli scontri.

Proprio negli ultimi giorni, tra l’altro, la situazione al fronte si è aggravata sensibilmente. Secondo le milizie, solo le continue e intense piogge delle ultime settimane, avrebbero ritardato l’offensiva su larga scala che Kiev starebbe pianificando da tempo, con l’impiego di mezzi corazzati. Nella zona meridionale del fronte, la ricognizione della DNR ha verificato la presenza di diversi blindati, camion carichi di proiettili per le artiglierie e per i sistemi razzo “Grad”, oltre una decina di cannoni controcarro “Rapira” da 100 mm.

Ancora Eduard Basurin ha dichiarato che la DNR si attende, da qui al prossimo 22 maggio, una serie di gro

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Hilfstruppen gegen Moskau (I)
 
17.05.2016
BERLIN/KIEW/MOSKAU
 
(Eigener Bericht) - Eine Berliner Regierungsberaterin fordert den Ausschluss Russlands aus dem Europarat. Das Vorgehen der russischen Regierung gegen die Krimtataren und das Verbot ihres Medschlis, einer politischen Organisation, machten es in Verbindung mit anderen Maßnahmen "unmöglich, die russische Mitgliedschaft im Europarat weiterhin zu rechtfertigen", heißt es in einer aktuellen Stellungnahme aus der Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP). Die Forderung kommt zu einem Zeitpunkt, zu dem die Krimtataren durch die offene Politisierung des Eurovision Song Contest (ESC) europaweit neue Aufmerksamkeit erhalten. Während ihre Deportation im Jahr 1944 die öffentliche Wahrnehmung beherrscht, gerät ihre NS-Kollaboration, die der Deportation vorausging, in den Hintergrund. Wie Historiker konstatieren, stand 1942 "jeder zehnte Tatar auf der Krim unter Waffen" - an der Seite des NS-Reichs. Krimtataren kämpften mit der Wehrmacht gegen die Sowjetunion, taten sich in der berüchtigten "Partisanenbekämpfung" hervor und lieferten jüdische Nachbarn den NS-Schergen aus. Schon in den 1920er Jahren hatten führende Tataren-Funktionäre anlässlich einer Moskauer Siedlungsmaßnahme zugunsten jüdischer Familien eine "Verjudung" ihrer Wohngebiete beklagt. Exil-Krimtataren stellten sich später, im Kalten Krieg, für Destabilisierungsbemühungen des Westens gegen Moskau zur Verfügung. In jener Tradition steht der Medschlis, der unter den Krimtataren selbst heute durchaus umstritten ist.
"Destruktives Verhalten"
In einer aktuellen Stellungnahme fordert Susan Stewart, eine Osteuropa-Expertin der vom Kanzleramt finanzierten Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP), den Ausschluss Russlands aus dem Europarat. Wie Stewart behauptet, habe sich Russland immer wieder eines "destruktiven Verhalten[s] in der Parlamentarischen Versammlung" des Europarats schuldig gemacht - etwa, indem es "Koalitionen" mit "Gruppierungen wie den britischen Konservativen" eingegangen sei. Nun komme erstens hinzu, dass das Land im Dezember 2015 ein Gesetz verabschiedet habe, das es dem russischen Verfassungsgericht erlaube, Urteile des Europäischen Gerichtshofs für Menschenrechte (EGMR) "zu ignorieren, wenn diese der Verfassung der Russischen Föderation widersprechen". Zweitens schreite Russland auf der Krim gegen politische Vertreter der Krimtataren ein und habe im April deren "gewählte Vertretung", den Medschlis, "zu einer extremistischen Organisation erklärt und damit verboten". Stewart erklärt: "Diese Kombination macht es unmöglich, die russische Mitgliedschaft im Europarat weiterhin zu rechtfertigen."[1]
Nur im Hintergrund
Die Forderung aus der SWP kommt zu einem Zeitpunkt, zu dem die Krimtataren und ihre Deportation im Jahr 1944 dank einer offenen Politisierung des Eurovision Song Contest (ESC) europaweit neue Aufmerksamkeit erhalten. In den Hintergrund geraten dabei in der öffentlichen Wahrnehmung die krimtatarische NS-Kollaboration und die erfolgreichen Bemühungen des NS-Reichs, die Minderheit für Ziele der deutschen Außenpolitik zu nutzen.
Zehn Prozent unter Waffen
Unmittelbar nach dem Überfall auf die Sowjetunion, verstärkt gegen Ende 1941, als klar wurde, dass der neue Kriegsgegner nicht - wie noch im Vorjahr Frankreich - in einem "Blitzkrieg" besiegt werden konnte, wurden in Berlin Pläne entwickelt, sowjetische Sprachminderheiten ("Volksgruppen") zur NS-Kollaboration zu bewegen und sie für den Kampf gegen Moskau zu nutzen. Dabei gerieten im Auswärtigen Amt, aber auch im Reichsministerium für die besetzten Ostgebiete unter anderem die rund 200.000 Krimtataren ins Visier deutscher Strategen. Befeuert wurden die Überlegungen durch die Hoffnung, mit Hilfe der Krimtataren die offiziell neutrale Türkei in den Krieg ziehen zu können: Ankara verstand sich als Schutzmacht turksprachiger Minderheiten, unter ihnen die tatarische Sprachgruppe auf der Krim. Das Auswärtige Amt stellte erste Kontakte zu türkischen Generälen her, die für Belange der Tataren empfänglich waren, und im Dezember 1941 vermittelte es zwei krimtatarische Exilpolitiker aus der Türkei zur Planung der Kollaboration nach Berlin.[2] Die NS-Führung zögerte zunächst; ursprünglich war vorgesehen, die Bevölkerung der Krim mitsamt den Krimtataren vollständig zu vertreiben, um die Halbinsel unter anderem mit "volksdeutschen" Südtirolern zu besiedeln und sie ins Deutsche Reich einzugliedern. Weil der Krieg jedoch nicht die erwünschten Fortschritte machte, stimmte Adolf Hitler am 2. Januar 1942 der Rekrutierung tatarischer Soldaten für die Wehrmacht und am 18. Januar der Aufstellung eigener Tatarenformationen zu.[3]
Partisanenbekämpfung
Umgehend begann die Einsatzgruppe D, die zuletzt etwa im Dezember 1941 in einem Massaker in Simferopol (Krim) mehr als 13.000 Menschen ermordet hatte - darunter fast 11.000 Juden und über 800 Roma -, krimtatarische Freiwillige für den Krieg gegen die Sowjetunion zu rekrutieren. In über 200 Ortschaften und fünf Kriegsgefangenenlagern gelang es ihr, 9.225 Tataren zum Kampf an der Seite der Wehrmacht zu bewegen. Weitere 1.632 wurden zu "Tataren-Selbstschutzkompanien" formiert und unter Leitung der Einsatzgruppe D in der berüchtigten Partisanenbekämpfung eingesetzt. Im März war die Zahl der Krimtataren, die sich für den Vernichtungskrieg gegen die Sowjetunion zur Verfügung gestellt hatten, laut Angaben des Historikers Manfred Oldenburg auf ungefähr 20.000 gestiegen. Oldenburg resümiert: "Damit stand jeder zehnte Tatar auf der Krim unter Waffen" - auf Seiten des NS-Reichs.[4] Zwar habe es auch Krimtataren gegeben, "die überhaupt kein Interesse an einer Zusammenarbeit mit den Deutschen hatten", und weitere, die als loyale Sowjetbürger von den Okkupanten "genau so unnachgiebig verfolgt wurden wie die übrigen Feindgruppen auf der Krim", konstatiert Oldenburg. Doch seien die Tataren "trotz der gelegentlich auftretenden passiven oder antideutschen Stimmungen" von der Wehrmacht mehrheitlich "als loyale und antibolschewistische Bundesgenossen angesehen" worden; sie hätten sich insbesondere durch "mutigen Einsatz ... im Kampf gegen die Partisanen" hervorgetan.
Vorzugsstellung
Im Gegenzug gegen die Kollaborationsleistungen gestanden die NS-Besatzer den Krimtataren durchaus eine Sonderrolle zu. So seien "tatarische Volksschulen eröffnet, tatarische Zeitungen und Zeitschriften gestattet und ein nationaltatarisches Theater organisiert" worden, berichtet Manfred Oldenburg; rund 50 Moscheen seien wiedereröffnet worden.[5] Bereits Ende 1941 hätten die Krimtataren eigene örtliche Komitees gründen dürfen - "zur Regelung der Schul-, Bildungs-, Religions- und Kulturangelegenheiten". In der Hoffnung auf umfassendere Selbstverwaltung sei "ein Großteil der Tataren bereit" gewesen, "mit den deutschen Besatzungskräften zu kollaborieren". Ebenfalls Ende 1941 begannen die NS-Okkupanten, Personen russischer Abstammung "im großen Umfang aus ihren Stellungen in Verwaltung und Wirtschaft" zu entfernen und sie "durch kollaborierende Krimtataren" zu ersetzen, schreibt Oldenburg. Durch ihre Vorzugsstellung motiviert, hätten die Tataren begonnen, "vor allem auf die Russen herabzusehen", was wiederum rasch "zu Unruhen unter der slawischen Bevölkerung" geführt habe. Gleichzeitig holten Berliner Stellen Krimtataren zu sich ins Reich, um dort einschlägiges Kontakt- und Hilfspersonal zur Verfügung zu haben. So entstand etwa auf Initiative des Reichsministeriums für die besetzten Ostgebiete eine "Krimtatarische Leitstelle". Noch am 17. März 1945 erkannte das Ministerium zudem ein "Krimtatarisches Nationalkomitee" als offizielle Vertretung der Krimtataren an.[6]
"Jüdischer Bolschewismus"
Begünstigt hat die Kollaboration ein offenkundig starker Antisemitismus unter den Krimtataren. Wie aus Berichten hervorgeht, beklagten diese sich bei der Einsatzgruppe D über Maßnahmen der sowjetischen Regierung aus den 1920er Jahren. Moskau hatte 1924 begonnen, Juden aus ukrainischen und belarussischen Gebieten auf der Krim anzusiedeln. Führungsfunktionäre der Krimtataren protestierten dagegen, klagten über eine angebliche "Verjudung" der Halbinsel - und sprachen sich stattdessen für die Ansiedlung von Tataren aus der Türkei sowie aus anderen Staaten aus. "Antisemitische Gefühle" träten "besonders unter den Tataren offen zutage", hieß es in einem internen Bericht der sowjetischen Behörden, die daraufhin begannen, die Ansiedlungsmaßnahmen mit harter Hand durchzusetzen und den antisemitischen Widerstand zu brechen.[7] Für die Zeit ab Ende 1941 hält Oldenburg fest, "dass viele Tataren den Juden in gleicher Weise wie den Bolschewisten Verachtung entgegenbrachten und sie diejenigen Juden, die sich den Ghettoisierungsmaßnahmen und den anschließenden Massenexekutionen hatten entziehen können, fortlaufend bei der Militärverwaltung denunzierten".[8] Krimtatarische Propagandablätter berichteten von 1942 bis 1944 mit Sympathie etwa von Vorträgen, in denen unter Titeln wie "Die Juden sind die Feinde aller Völker" behauptet wurde, Juden seien "blutdurstige Wilde"; es gelte nun, den "totalen Krieg" gegen den "jüdischen Bolschewismus" führen.[9]
Verbrannte Erde
Den von den Krimtataren unterstützten Deutschen fielen auf der Krim bis zur Befreiung der Halbinsel vom NS-Terror mehr als 200.000 sowjetische Soldaten und Partisanen, 20.500 Militär- und 8.000 Zivilgefangene, 38.000 Juden sowie Tausende Roma zum Opfer. Als die Okkupanten abzogen, hinterließen sie verbrannte Erde - und dankten den Krimtataren die Kollaboration, indem sie rund 80 krimtatarische Siedlungen zerstörten und einen Großteil der Bewohner umbrachten.[10]
Die deutschen Bemühungen, die Krimtataren für außenpolitische Ziele einzuspannen, endeten mit der Niederlage im Zweiten Weltkrieg nicht; die Bundesrepublik setzte sie unter veränderten Rahmenbedingungen und in veränderter Form fort. german-foreign-policy.com berichtet in Kürze.

[1] Susan Stewart: Der Europarat sollte auf Russlands Mitgliedschaft verzichten. www.swp-berlin.org 11.05.2016.
[2] Johannes Hürter: Nachrichten aus dem "Zweiten Krimkrieg" (1941/42). Werner Otto von Hentig als Vertreter des Auswärtigen Amts bei der 11. Armee. In: Christian Hartmann, Johannes Hürter, Peter Lieb, Dieter Pohl: Der deutsche Krieg im Osten 1941-1944. Facetten einer Grenzüberschreitung. München 2009. S. 369-391. Hier: S. 382f.
[3] Manfred Oldenburg: Ideologie und militärisches Kalkül. Die Besatzungspolitik der Wehrmacht in der Sowjetunion 1942. Köln/Weimar/Wien 2004. S. 121.
[4] Ebd., S. 122, sowie: Mikhail Tyaglyy: Antisemitic Doctrine in the Tatar Newspaper Azat Kirim (1942-1944). In: Dapim - Studies on the Holocaust 25/1 (2011). S. 161-182.
[5] Manfred Oldenburg: Ideologie und militärisches Kalkül. Die Besatzungspolitik der Wehrmacht in der Sowjetunion 1942. Köln/Weimar/Wien 2004. S. 120.
[6] Halil Burak Sakal: Germany and Turkestanis during the course of the World War II (1941-1945). Ankara 2010.
[7] Mikhail Tyaglyy: Antisemitic Doctrine in the Tatar Newspaper Azat Kirim (1942-1944). In: Dapim - Studies on the Holocaust 25/1 (2011). S. 161-182. Hier: S. 172ff.
[8] Manfred Oldenburg: Ideologie und militärisches Kalkül. Die Besatzungspolitik der Wehrmacht in der Sowjetunion 1942. Köln/Weimar/Wien 2004. S. 121.
[9] Mikhail Tyaglyy: Antisemitic Doctrine in the Tatar Newspaper Azat Kirim (1942-1944). In: Dapim - Studies on the Holocaust 25/1 (2011). S. 161-182. Hier: S. 170.
[10] Erich Später: Der Dritte Weltkrieg (18). In: konkret 6/2014, S. 22f.



Hilfstruppen gegen Moskau (II)
 
18.05.2016
BERLIN/KIEW/MOSKAU
 
(Eigener Bericht) - Eine in Russland verbotene, von Berlin jedoch unterstützte Organisation der Krimtataren kündigt die Eröffnung offizieller Vertretungsbüros in Brüssel und Washington an. Wie der Medschlis der Krimtataren mitteilt, will er beide Einrichtungen spätestens im Herbst eröffnen; der Brüsseler Repräsentanz messe er besondere Bedeutung bei. Der Medschlis, der in der westlichen Öffentlichkeit gemeinhin als einzig legitimes Gesamtorgan der Krimtataren dargestellt wird, vertritt tatsächlich nur eine Strömung unter den Krimtataren - eine prowestliche -, während eine zweite - eher prorussische - seine Politik seit Jahren dezidiert ablehnt. Die Spaltung unter den Krimtataren geht auf die letzten Jahre des Kalten Kriegs zurück, als ein jahrzehntelanger Parteigänger des Westens, der spätere Medschlis-Vorsitzende Mustafa Dschemiljew, sich für radikale Autonomieforderungen stark machte und einen scharf antirussischen Kurs einschlug. Als Dschemiljew in den 1960er Jahren in der Sowjetunion begann, für krimtatarische Autonomie zu agitieren, und vom Westen unterstützt wurde, um den sowjetischen Gegner von innen heraus zu schwächen, setzten sich Exil-Krimtataren in der Bundesrepublik für dasselbe Ziel ein - die "nationale Dekomposition Russlands", wie es damals hieß. Zu ihnen gehörte der zentrale krimtatarische Kontaktmann des NS-Reichs, der seine Kollaborationstätigkeit nun in der Bundesrepublik weiterführte und ab den 1950er Jahren auch für CIA-finanzierte Organisationen in München arbeitete.
Unruheherde
Die Bemühungen der Bundesrepublik und weiterer westlicher Staaten, insbesondere der USA, die Krimtataren in der Zeit des Kalten Kriegs für außenpolitische Zwecke zu nutzen, mussten von den Bedingungen ausgehen, die die Kollaboration der Tataren mit den NS-Okkupanten von 1941 bis 1944 geschaffen hatte. In Reaktion auf die Kollaboration [1] hatte die sowjetische Regierung die rund 200.000 Krimtataren im Mai 1944 in die zentralasiatischen Regionen der Sowjetunion, vor allem ins heutige Usbekistan, deportieren lassen - unter gräßlichen Bedingungen: Zahlreiche Krimtataren kamen bei der Deportation oder bald danach ums Leben; zuverlässige Angaben über die Opferzahlen liegen dabei nicht vor. Anfang der 1960er Jahre begannen krimtatarische Aktivisten, ein Recht auf Rückkehr auf die Krim für sich einzufordern; damit verbanden sie das Verlangen nach politischer Autonomie. Letzteres wiederum war für die westlichen Mächte interessant. Noch bis in die 1950er Jahre hatten sie zum Beispiel, um Moskau zu schwächen, ukrainische Nationalisten unterstützt, die mit allen Mitteln dafür kämpften, die Ukraine aus der Sowjetunion herauszubrechen (german-foreign-policy.com berichtete [2]). Das Streben der Krimtataren nach Autonomie schien eine Chance zu bieten, nach der Niederschlagung der Unruhen in der Ukraine durch die sowjetischen Behörden einen weiteren Herd der Instabilität im Innern des gegnerischen Staates zu schüren.
Appelle an den Westen
Eine herausragende Rolle hat in diesem Zusammenhang Mustafa Dschemiljew gespielt, der bis heute eine der wichtigsten Kontaktpersonen der deutschen Außenpolitik unter den Krimtataren ist. Bereits in den Jahren 1961/62 stand er, damals gerade 18 Jahre alt, als einer der Gründer der "Union der Krimtataren-Jugend" in erster Reihe des krimtatarischen Autonomiekampfes, den er verschärfte, nachdem seine Minderheit 1967 in Moskau vom Vorwurf der kollektiven NS-Kollaboration freigesprochen worden war. Mitte der 1970er Jahre ist er der westlichen Öffentlichkeit als Mitkämpfer des sowjetischen Regierungsgegners und Friedensnobelpreisträgers (1975) Andrej Sacharow bekannt geworden; damals machten Berichte über seinen Hungerstreik und über weitere krimtatarische Proteste die Runde. So war Dschemiljew 1974 festgenommen worden, weil er vorhatte, US-Präsident Richard Nixon bei dessen damals kurz bevorstehendem Moskau-Besuch öffentlichkeitswirksam eine Petition zur Lage der Krimtataren zu überreichen - als Appell, Druck auf die sowjetische Regierung auszuüben. 1986 wurde er, zum wiederholten Male in Haft geraten, auf Intervention von US-Präsident Ronald Reagan vorzeitig entlassen. Für die Bemühungen des Westens, einerseits Unruhe in der Sowjetunion zu schüren, andererseits Moskau bei Eintreten der zu erwartenden polizeilich-geheimdienstlichen Gegenwehr auf internationaler Bühne der Repression zu beschuldigen, besaßen Personen wie Dschemiljew eine hohe Bedeutung.
Kontaktmann des NS-Reichs
Dabei haben die westlichen Staaten stets auch versucht, Exil-Krimtataren für ihre Politik zu nutzen - in der Hoffnung, über sie in die Sowjetunion hineinwirken oder sie zumindest für ihre Propaganda einspannen zu können. Zu den einflussreichsten unter den Exil-Krimtataren gehörte der in der Bundesrepublik ansässige Edige Kirimal. Kirimal, 1911 geboren und auf der Krim aufgewachsen, floh Anfang der 1930er Jahre nach Istanbul, wo er Kontakt zu prominenten krimtatarischen Exilpolitikern aufnahm. Ende 1941 gehörte er zu den zwei Exil-Krimtataren, die vom deutschen Botschafter in der Türkei, Franz von Papen, nach Berlin vermittelt wurden, um dort bei der Planung der Kollaboration auf der Krim behilflich zu sein.[3] Kirimal blieb als zentraler Vermittler zwischen dem NS-Regime und den Krimtataren im Reich, führte dort die "Krimtatarische Leitstelle" und wurde kurz vor Kriegsende von seinem vielleicht wichtigsten Berliner Kontaktmann, Gerhard von Mende, zum "Präsidenten" eines "krimtatarischen Nationalkomitees" ernannt [4]. Von Mende arbeitete im Reichsministerium für die besetzten Ostgebiete, zunächst als Leiter des Referats Kaukasien/Turkestan, ab 1943 als Leiter der Führungsgruppe III Fremde Völker; er galt als wohl bedeutendster Stratege einer politischen Nutzung sowjetischer Sprachminderheiten, die er für die NS-Kollaboration zu gewinnen empfahl, um sie als Hilfstruppen für den Kampf gegen Moskau zu verwenden. Nach dem Zweiten Weltkrieg stellte von Mende seine Kenntnisse und seine Netzwerke erneut für den Kampf gegen die Sowjetunion zur Verfügung - diesmal der Bonner Regierung und ihren neuen westlichen Verbündeten.[5]
Nationale Dekomposition
Zu den Personen, mit denen von Mende dabei weiterhin zusammenarbeitete, gehörte der bisherige NS-Kontaktmann Kirimal. Kirimal suchte sich nach dem Zweiten Weltkrieg vor allem als Publizist zu krimtatarischen Themen hervorzutun; seine erste größere Schrift, die er 1952 unter dem Titel "Der nationale Kampf der Krim-Türken" veröffentlichte, promotete von Mende mit einem Vorwort. In einer werbenden Kurzrezension sinnierte Ende 1952 "Der Spiegel", Kirimal rühre "mit seinem Buch an die 'zeitlose' Problematik aller Gegner Rußlands: Wie ist diesem Koloß beizukommen? ... Soll man den 'Moskauer Zentralismus' anerkennen oder die zentrifugalen nationalistischen Kräfte des russischen Raumes fördern?" Kirimal neigte offenkundig der zweiten Lösung zu, ganz wie von Mende. "Kirimals Buch ist von Reichs-Ost-Minister Alfred Rosenbergs Berater, Prof. Gerhard von Mende, eingeleitet", fuhr "Der Spiegel" fort: "Von Mende war (und ist es offenbar geblieben) ein Anhänger der 'nationalen Dekomposition Rußlands', das heißt der Aufteilung des Riesenreichs in eine möglichst große Zahl nationaler Klein-Staaten".[6] Im Sinne dieser Strategie arbeitete von Mendes Schützling Kirimal seit den 1950er Jahren für den CIA-finanzierten Sender "Radio Free Europe" in München, bei dem sich diverse weitere "Volksgruppen"-Aktivisten aus von Mendes Netzwerken tummelten, dann für das ebenfalls CIA-finanzierte Münchner "Institut zur Erforschung der UdSSR" [7], für das er eine Zeitschrift ("Dergi") herausgab. Das antikommunistische Exil, in dessen Kreisen sich Kirimal in München bewegte, umfasste nicht zuletzt ukrainische Faschisten [8] - ein Milieu, mit dem Krimtataren um Dschemiljew jüngst bei der Blockade der Krim erneut kooperierten (german-foreign-policy.com berichtete [9]).
Die Spaltung der Krimtataren
Während Kirimal 1980 starb und den Untergang der Sowjetunion nicht mehr erlebte, konnte Dschemiljew 1989 die offizielle Aufhebung des Rückkehrverbots für die Krimtataren nutzen und sich wieder auf der Halbinsel niederlassen. Auf die damalige Zeit geht eine Spaltung unter den Krimtataren zurück, die bis heute gravierende politische Folgen zeitigt. 1988 gründete einer der bekanntesten Krimtataren-Anführer neben Dschemiljew, Jurij Osmanow, die "Nationale Bewegung der Krimtataren" (NDKT). Während Osmanow und die NDKT sich mit der Rückkehr auf die Krim zufriedengaben und eine gedeihliche Zusammenarbeit mit den anderen Bevölkerungsgruppen dort sowie mit den staatlichen Behörden favorisierten, spaltete sich 1989 unter Mustafa Dschemiljew die radikalere "Organisation der krimtatarischen Nationalbewegung" (OKND) ab.[10] Dschemiljew und die OKND verlangten ausdrücklich völkisch definierte Sonderrechte - eine krimtatarische "Autonomie" - und beriefen, um ihrer Forderung Nachdruck zu verleihen, 1991 auf der Krim einen "Kurultaj" ein, eine krimtatarische Nationalversammlung, die den "Medschlis" wählte, der als krimtatarisches Exekutivorgan firmiert. Während Osmanow und die NDKT - wohl auch wegen des traditionell starken russischen Einflusses auf der Krim - auf gute Beziehungen auch zu Russland nicht verzichten wollten, folgten Dschemiljew und die OKND einem prowestlichen, gegen Moskau gerichteten Kurs. Dschemiljew übernahm 1991 den Vorsitz des Medschlis, Osmanow wurde 1993 unter ungeklärten Umständen ermordet.
Keine Mehrheit mehr
War der Medschlis unter den Krimtataren zu Beginn der 1990er Jahre deutlich populärer als die NDKT, so hat sich dies im Laufe der Zeit geändert. Ende 2010 konstatierten die an der Universität Bremen publizierten "Ukraine-Analysen" einen "sinkende[n] Rückhalt" des Medschlis bei den Krimtataren. "Neue Akteure" seien "auf die politische Bühne getreten", die die "Führungsrolle" des Medschlis nicht mehr befürworteten, hieß es; der Umstand, dass die Organisation ihre "Monopolstellung verloren" habe und "nicht mehr die Unterstützung der Mehrheit der Krimtataren" genieße, werde im Westen "gemeinhin außer Acht gelassen".[11] Die "Ukraine-Analysen" wiesen auf die 2006 aus der NDKT heraus gegründete Partei Milli Firka hin, die "von Anfang an ... eine pro-russische Position" verfochten habe - im Gegensatz zum Medschlis, der sich von der Türkei unterstützen lasse und die Kräfte der Orangenen Revolution gefördert habe. Die Polarisierung unter den Krimtataren hat sich im Laufe der Zeit weiter zugespitzt. Im Mai 2013 - also noch vor dem Beginn der Majdan-Proteste - berichtete die US-amerikanische Jamestown Foundation von kräftig wachsenden Spannungen zwischen den beiden Flügeln.[12]
Strommasten gesprengt
Diese Spannungen sind mit den Majdan-Protesten und der anschließenden Abspaltung der Krim eskaliert. Milli Firka stellte sich gegen die Majdan-Proteste, warb für die Beteiligung am Sezessionsreferendum und befürwortete die Angliederung der Halbinsel an Russland. Der Medschlis unterstützte den Majdan und rief zum Boykott des Referendums auf; Dschemiljew forderte sogar, einen NATO-Einsatz auf der Krim in Betracht zu ziehen.[13] Dschemiljew und der Medschlis kämpfen weiterhin für die Rückgabe der Krim an die Ukraine. Dabei schrecken sie auch vor Gewalt nicht zurück: Im Herbst initiierten Aktivisten aus ihren Reihen gemeinsam mit ukrainischen Faschisten eine Blockade der Krim, in deren Verlauf sie Straßen für den Warentransport sperrten und mit der Sprengung von Strommasten die Stromversorgung auf der Krim lahmlegten; damit fügten sie der Bevölkerung der Krim gravierende Schäden zu (german-foreign-policy.com berichtete [14]). Während die russischen Behörden den Medschlis am 18. April als terroristische Organisation einstuften und ihn deshalb am 26. April verboten, hat die Vereinigung angekündigt, Vertretungsbüros in Washington, "vor allem" aber in Brüssel eröffnen zu wollen [15] - ein deutlicher Hinweis auf ihre Bereitschaft, sich dem Westen noch stärker als bisher als Hilfstrupp gegen Russland andienen zu wollen. german-foreign-policy.com berichtet in Kürze.

[1] S. dazu Hilfstruppen gegen Moskau (I).
[2] S. dazu Zwischen Moskau und Berlin (V).
[3] Johannes Hürter: Nachrichten aus dem "Zweiten Krimkrieg" (1941/42). Werner Otto von Hentig als Vertreter des Auswärtigen Amts bei der 11. Armee. In: Christian Hartmann, Johannes Hürter, Peter Lieb, Dieter Pohl: Der deutsche Krieg im Osten 1941-1944. Facetten einer Grenzüberschreitung. München 2009. S. 369-391. Hier: S. 382f. S. dazu Hilfstruppen gegen Moskau (I).
[4] Ian Johnson: A Mosque in Munich. New York 2010. S. 274f.
[5] S. auch Heimatdienst.
[6] Edige Kirimal: Der nationale Kampf der Krim-Türken. Der Spiegel, 10.12.1952.
[7] Gudrun Hentges: Staat und politische Bildung. Von der "Zentrale für Heimatdienst" zur "Bundeszentrale für politische Bildung". Wiesbaden 2013.
[8] S. dazu Alte, neue Verbündete und Ein Sammelpunkt der OUN.
[9] S. dazu Die Belagerung der Krim (I).
[10] Maximilian von Platen: Die Rückkehr der Krimtataren in ihre historische Heimat. Bundesinstitut für ostwissenschaftliche und internationale Studien: Aktuelle Analysen Nr. 33/1997.
[11] Yuliya Borshchevska: Neue politische Zersplitterung auf der "Insel der Krimtataren". Radikalisierung des politischen Programms? In: Ukraine-Analysen Nr. 84, 14.12.2010. S. 2-5.
[12] Idil P. Izmirli: Growing Sense of Polarization and Escalating Tensions in Crimea Ahead of 69th Anniversary of Crimean Tatar Deportation. www.jamestown.org 17.05.2013.
[13] Dario Thuburn:NATO should intervene in Crimea "before massacre': Tatar leader. uk.news.yahoo.com 13.03.2014.
[14] S. dazu Die Belagerung der Krim (I).
[15] Mejlis representations may open in Brussels, Washington in autumn. www.unian.info 22.04.2016.