Informazione

(francais / italiano)



11 settembre, riappare il fantasma di mezzanotte

di Giulietto Chiesa

su Il Manifesto del 09/09/2007


Ecco la nuova apparizione dell'ectoplasma, altrimenti detto Osama bin Laden. Vigilia del sesto anniversario dell'11 settembre, puntuale come il fantasma di mezzanotte. Il direttore della Cia, che l'ha annunciato, fa sapere che è la prima prova, dal 2004, che Osama sarebbe ancora vivo. Cioè dalla famosa esternazione, a tre giorni dal voto, che contribuì non poco alla rielezione di George W. Bush. Se tanto ci dà tanto, qualche cosa sta per accadere anche in questo caso.
Tra i terroristi arrestati in Germania, quelli presi in Danimarca, il clima di un attacco contro gli Stati Uniti sembra finalmente propizio. Proprio come aveva previsto Zbignew Bzezinski il 2 febbraio scorso parlando davanti alla commissione Difesa del senato americano.
Vedrete, aveva detto l'ex segretario alla sicurezza americano (sotto Jimmy Carter), quando sarà chiaro che Al Maliki non riesce a raggiungere gli obiettivi assegnatigli, Washington comincerà ad accusare l'Iran, poi ci sarà un attentato terroristico su grande scala, magari contro gli Stati Uniti, subito dopo il quale il presidente ordinerà l'attacco contro l'Iran. L'unica cosa che Bzezinski non aveva detto era che, per la messa in scena, sarebbe stato opportuno che riapparisse l'ectoplasma.
Il vuoto è stato riempito.
Peccato che l'ectoplasma avesse la barba un po' troppo nera. Forse hanno esagerato con la tintura.
Per adesso tutti scrivono le notizie che fornisce la Cia e, dietro la Cia, la Cnn e così via copiando. Ma non è escluso che, anche in questo caso, si scoprirà, tra un fotogramma e l'altro, il logo della Intelservices, la ditta americana che sembra abbia l'esclusiva delle immagini di Osama bin Laden.
Vedremo, ma per intanto sarà utile ricordare che non una sola delle apparizioni del suddetto ectoplasma è stata autenticata come vera.
A partire dalla prima, qualche mese dopo la tragedia, che fu trovata misteriosamente in una cassetta in una grotta afgana, da non meglio identificati militari americani. In quel caso, come in tutti i successivi, l'intero mainstream mondiale abboccò all'amo (volentieri per altro) senza verificare, senza controllare. Proprio come questa volta. Sarebbe bastato poco, allora, per scoprire che il protagonista somigliava a Osama bin Laden più o meno come chi scrive somiglia a Magdi Allam. Il naso non era suo, gli occhi nemmeno, aveva un anello d'oro che non avrebbe dovuto, e la telecamera sembrava proprio attaccata al bavero di uno spione ficcato nel gruppo per riprendere di nascosto. E soprattutto si capiva poco di quello che stava dicendo. Vatti a fidare delle traduzioni. Forse l'aveva fatta, in quel caso, il famoso Memri, che sta a Washington, che è stato diretto da un ex agente del Mossad e che sbaglia - non certo per caso - a tradurre perfino Ahmadinejad.
Spesso, quando mi capita di dubitare delle storie che ci hanno raccontato sull'11 settembre, c'è sempre qualcuno che mi chiede, tra stupito e indignato (anche tra gente di sinistra): ma come possiamo dubitare? Lo stesso Osama bin Laden ha rivendicato di essere stato l'autore dell'attentato!
In effetti bisognerebbe prima essere certi che quello che parla è Osama. E abbiamo molte ragioni per dubitarne. Ma, anche se lo fosse, resterebbero sempre non poche questioni da risolvere. Quando parla, le rare e tempestive volte che lo fa, riesce sempre a inanellare considerazioni irrilevanti e qualche sciocchezza. Anche in questo ultimo caso: «Da noi non si pagano le tasse», avrebbe detto. Ma vi pare che, con il poco tempo a disposizione, uno che pretende di tenere in scacco l'occidente intero non sappia inventare qualche cosa di più solenne, di più ieratico?
E, se non fosse lui che parla - cosa che inclino a pensare - come mai non ha mai avuto un soprassalto di orgoglio mandando ad Al Jazeera un veemente comunicato di smentita? Invece neanche uno. Come se fosse d'accordo e stesse lasciando che gli facciano fare la parte. Solo se fosse defunto un tale comportamento sarebbe scusabile.
Ma, se fosse defunto, chi è l'autore di questo ectoplasma? Del suo vice Al Zawahiri neanche a parlarne. Quello appare molto più di frequente, ma da quando abbiamo saputo che partecipò attivamente alle vicende delle brigate islamiche che combatterono in Bosnia e in Kosovo, equipaggiate dall'Mpri (Military personnel research incorporated, filiale Cia) e, qualche anno prima, fece un giro negli Stati Uniti, accompagnato da un agente dei servizi segreti americani, per raccogliere fondi a sostegno della Jihad, abbiamo pochi dubbi che si tratti di personaggio equivoco. Agente semplice, doppio, o triplo. E un agente che si rispetti non smentisce mai. Un po' come il defunto Al Zerkawi, il molto temibile capo di Al Qaeda in Irak, di cui il generale George W. Casey Junior dice di aver fabbricato alcuni documenti e il comandante delle operazioni psicologiche in Irak, Mark Kimmit, dice testualmente che «il programma Al Zarkawi di operazioni psicologiche (psyop) è la campagna d'informazione meglio riuscita» (vedi Washington Post del 10 aprile).
E come prendere sul serio il nuovo capo di Al Qaeda, tale Abu Omar al-Baghdadi, «commendatore dei credenti», se Kevin J Bergner, consigliere del presidente americano, rivela che colui che lo impersonò nel momento della sua solenne apparizione, il 15 ottobre 2006, era un attore e che «Al Qaeda in Irak e una pura mistificazione»? (New York Times, 19 luglio). Tutto si può fare, salvo credergli.


=== FRANCAIS ===


Ben Laden Show


11 septembre, voilà que revoilà le fantôme de minuit

par Giulietto Chiesa*

À l’occasion du 6e anniversaire des attentats du 11 septembre 2001, l’administration Bush a ressorti sa veille croquemitaine, Oussama Ben Laden. « Tremblez bonnes gens ! » hurle-t-on à Washington pour faire taire les mécontents de la crise financière et du désatre irakien. Tandis que le député européen Giulietto Chiesa se gausse de ce spectacle dérisoire et éculé.

14 SEPTEMBRE 2007

Voici la nouvelle apparition de l’ectoplasme, autrement dit Oussama Ben Laden. Veille du sixième anniversaire du 11 septembre, ponctuel comme le fantôme de minuit. Le directeur de la Cia qui l’a annoncé, fait savoir que c’est la première preuve, depuis 2004, que Ben Laden soit encore vivant. C’est-à-dire depuis la fameuse externalisation, à trois jours du vote, qui contribua de façon pas négligeable du tout à la réélection de Georges W. Bush. À cette allure, quelque chose est en train de se préparer cette fois aussi.

Entre les terroristes arrêtés en Allemagne et ceux pris au Danemark, le climat d’une attaque contre les États-Unis semble finalement propice. Exactement comme l’avait prévu Zbignew Brzezinski le 2 février dernier, devant la Commission Défense du Sénat états-unien [1].

Vous verrez, avait dit l’ex-secrétaire à la sécurité états-unien (sous la présidence de Jimmy Carter), quand il sera clair que Al-Maliki n’arrivera pas à atteindre les objectifs qu’on lui a assignés, Washington commencera à accuser l’Iran, puis il y aura un attentat terroriste à grande échelle, éventuellement contre les États-Unis, après quoi, immédiatement, le président ordonnera l’attaque contre l’Iran. La seule chose que Brzezinski n’avait pas dit c’était que, pour la mise en scène, il aurait été opportun que l’ectoplasme réapparaisse.

Le vide a été comblé

Dommage que l’ectoplasme ait eu la barbe un peu trop noire. Peut-être ont-ils exagéré avec la teinture.

Pour le moment, tout le monde reprend les nouvelles que fournit la CIA et, après elle, CNN et ainsi de suite en recopiant. Mais il n’est pas exclu que, même dans ce cas, on ne découvre, entre un photogramme et l’autre, le logo d’IntelCenter, la boîte US qui semble avoir l’exclusivité des images d’Oussama Ben Laden.

Nous verrons, mais en attendant, il sera utile de se souvenir que pas une seule des apparitions de l’ectoplasme cité précédemment n’a été authentifiée comme vraie.

À commencer par la première, quelques mois après la tragédie, qui fut mystérieusement trouvée dans une cassette au fond d’une grotte afghane, par des militaires états-uniens non mieux identifiés. Dans ce cas, comme dans tous ceux qui ont suivi, le courant dominant mondial dans son ensemble mordit à l’hameçon (volontiers d’ailleurs) sans vérifier, sans contrôler. Exactement comme cette fois ci. Il aurait suffi de peu, à l’époque, pour découvrir que le protagoniste ressemblait à peu près autant à Osama Ben Laden que l’auteur de ces lignes ne ressemble à Magdi Allam [2]. Le nez n’était pas le sien, les yeux non plus, il avait une bague en or qu’il n’aurait pas du avoir, et la caméra semblait vraiment accrochée au collet d’un espion fourré dans le groupe pour filmer en cachette. Et surtout on ne comprenait pas grand-chose à ce qu’il disait. Allez vous fier aux traductions. Peut-être que, dans ce cas, c’était le fameux Memri qui l’avait faite, l’agence de Washington, qui a été dirigée par un ex-officier du Mossad et qui se trompe —comme par hasard— pour traduire même Ahmanidejad. En principe, quand il m’arrive de douter des histoires qu’on nous raconte sur le 11 septembre, il se trouve toujours quelqu’un pour me demander, mi-stupéfait mi-indigné (même chez les gens de gauche) : mais comment peut-on douter ? Ben Laden lui-même a revendiqué être l’auteur de l’attentat !

En effet, il faudrait d’abord être certains que celui qui parle est Oussama. Et nous avons de nombreuses raisons d’en douter. Mais, même s’il l’était, il resterait toujours bon nombre de questions à résoudre. Quand il parle, les rares fois, et toujours fort à propos, où il le fait, il arrive toujours à boucler des considérations insignifiantes et quelque stupidité. Cette fois aussi : « Chez nous on ne paye pas d’impôt », aurait-il dit. Mais vous croyez vraiment, avec le peu de temps qu’il a à sa disposition, que quelqu’un qui prétend tenir en échec tout l’Occident n’arriverait pas inventer quelque chose de plus solennel, plus hiératique ?

Et, si ce n’est pas lui qui parle —chose que je suis enclin à penser— comment n’aurait-il jamais eu le moindre sursaut d’orgueil en envoyant à Al-Jazeera un véhément communiqué de démenti ? Pas un, au contraire. Comme s’il était d’accord et laisse qu’on lui fasse jouer ce rôle. Un tel comportement ne serait excusable que s’il était mort.

Mais, s’il était mort, qui est l’auteur de cet ectoplasme ? Son adjoint Al Zawahiri, n’en parlons même pas. Celui là apparaît beaucoup plus fréquemment, mais depuis qu’on a su qu’il avait participé activement aux épisodes des brigades islamiques qui ont combattu en Bosnie et au Kosovo, équipées par le MPRI (Military personnel research incorporociété de mercenaire externalisée de la CIA) et, quelques années auparavant, qu’il avait fait un tour aux États-Unis, accompagné par un agent des services secrets états-uniens, pour recueillir des fonds de soutien au Jihad, nous avons peu de doutes sur le fait qu’il s’agit d’un personnage équivoque. Agent simple, double ou triple. Et un agent qui se respecte ne dément jamais. Un peu comme le défunt Al Zarkaoui, le si terrible chef de Al Qaeda en Irak ; celui dont le général Georges W. Casey Junior dit qu’il lui a fabriqué certains papiers, et dont le commandant des opérations psychologiques en Irak, Mark Kimmit, dit textuellement que « le programme Al Zarkaoui d’opérations psychologiques en Irak (psyop) est la campagne d’information la mieux réussie » [3].

Et comment prendre au sérieux le nouveau chef de Al Qaeda, un certain Abu Omar al-Baghdadi, « commandeur des croyants », alors que Kevin J Berger, conseiller du président états-unien, révèle que celui qui le représenta au moment de sa plus solennelle apparition, le 15 octobre 2006, était un acteur et que « Al Qaeda en Irak est une pure mystification » ? [4]. On peut tout faire, sauf les croire.



Parlamentario europeo y periodista. Italia


Tribune publiée dans Il Manisfesto du 9 septembre 2007. Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio



[1] « Brzezinski confirme que les États-Unis peuvent organiser des attentats sur leur propre territoire », Réseau Voltaire, 6 février 2007.

[2] Magdi Allam est un journaliste italien d’origine égyptienne, directeur-adjoint du Corriere della Sera, que nos médias qualifieraient sans doute de « musulman modéré », NdT.

[3] « Al Qaïda en Irak : faut-il croire George Bush ou ses généraux ? », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 25 juillet 2007.

[4] Ibid.



Jörg Becker, Mira Beham

Operation Balkan 
Werbung für Krieg und Tod

Baden-Baden 2006 (Nomos Verlag)
130 Seiten - 17,90 Euro - ISBN 3-8329-1900-7


(Sull'importante saggio di J. Becker e M. Beham, pubblicato nel 2006 in Germania, si vedano anche:

Le Livre : Operation Balkan : Werbung für Krieg und Tod de Becker et Beham



« Opération Balkans » : privatisation de la propagande et des armées

par Jörg Becker, Mira Beham

Notre grille de lecture des conflits contemporains doit être actualisée en intégrant de nombreux acteurs non-étatiques. L’étude rétrospective des guerres de Yougoslavie conduite par Jörg Becker et Mira Beham pour la Deutschen Stiftung Friedensforschung fait apparaître une privatisation de la guerre : la propagande d’État laisse la place aux « relations publiques » confiée à des cabinets spécialisés, tandis que les opérations militaires elles-mêmes sont sous-traitées à des sociétés de mercenaires.

12 SEPTEMBRE 2007

Depuis la guerre du Kosovo de 1999, qui a fait prendre conscience une assez large partie de l’opinion publique du rôle des médias dans une guerre et, de manière générale, de la communication en temps de crise, une masse de littérature accrue considérablement et croissant continuellement est apparue à propos des médias et de la guerre. Il semble qu’en sciences de la communication la loi non écrite selon laquelle toute guerre entraîne une crise des médias durant laquelle les producteurs en médias sont incités à s’interroger sur leur manière de communiquer au sujet de la guerre, puis passent bien vite de nouveau à l’ordre du jour, tirant pour la prochaine guerre peu d’enseignements, voire aucun, à partir de celle qui vient d’avoir lieu, a cessé d’être en vigueur.

L’intérêt visiblement accru et plus ou moins durable porté à la manière dont les médias traitent maintenant les guerres a vraisemblablement deux raisons surtout. Premièrement, le 11 septembre 2001 et ses effets nous ont placés pratiquement dans un état de guerre permanente, ce qui entraîne et nécessite une réflexion sur les contenus et les formes de la communication concernant la guerre. Deuxièmement, la quantité et la qualité de la communication relative à la guerre et aux crises se modifient à une vitesse époustouflante.

Dans la recherche sur la paix, une sensibilité accrue à ce sujet se manifeste également. Toutefois, il est frappant que, de manière générale, —et non seulement dans la recherche sur la paix— deux aspects importants de ce problème ne jouent qu’un rôle mineur. Il s’agit d’une part des guerres des années quatre-vingt-dix dans les Balkans qui, mise à part la guerre du Kosovo, ne suscitent guère d’intérêt, bien que la guerre de l’OTAN contre la Yougoslavie en ait été la prolongation à maints égards, notamment sur le plan des médias [1]. L’autre question concerne la mesure dans laquelle la communication relative à la guerre et aux crises est aussi influencée par les médias, par des mesures de relations publiques [2].

Propagande et relations publiques

Celui qui, au XXIe siècle, s’intéresse à la propagande aura avantage à commencer ses lectures par l’œuvre de Harold D. Lasswell. À la fin des années vingt du siècle dernier, Lasswell a publié son livre Propaganda Technique in the World War I (technique de propagande pendant la Guerre mondiale) » [3], un classique sur les horreurs perpétrées par tous les belligérants durant la Première Guerre mondiale. Selon lui, la propagande de guerre a quatre objectifs : mobiliser la haine contre l’ennemi, renforcer l’amitié entre ses propres alliés, établir des modèles de coopération amicale par rapport aux puissances neutres et démoraliser l’ennemi. Ces objectifs de propagande belliciste n’ont pas changé jusqu’à aujourd’hui.

Dans son article « The Theory of Political Propaganda » (La théorie de la propagande politique) » [4], Lasswell exposait ainsi sa conception de la communication : « Les stratégies de la propagande s’expliquent le mieux par la terminologie du stimulus et de la réaction. Un propagandiste a pour tâche de multiplier les stimuli les plus susceptibles d’atteindre le but visé et de résorber ceux qui exerceront vraisemblablement des effets indésirables. » Ultérieurement, il a écrit que la propagande est la manipulation de symboles visant à influer sur des attitudes relatives à des thèmes controversés. La formation théorique des modèles de Lasswell reposait sur la base suivante : si les stimuli ont été choisis assez habilement et s’ils ne sont répétés qu’assez souvent, on peut parler de communication réussie et l’on peut s’attendre à une réaction unitaire de la « masse amorphe ».

Les réflexions de Lasswell s’appuient sur le modèle de réaction aux stimulations des sciences sociales dominantes. En tant que recherche sur la persuasion, c’est-à-dire sur la communication cherchant à inciter et à convaincre, elles sont à la base de toutes les conceptions admises dans la recherche actuelle des effets publicitaires, et dans le segment de travail des relations publiques. Comme la notion positive de propagande a été discréditée par son emploi à l’époque du national-socialisme, les représentants et partisans des relations publiques s’en distancent depuis longtemps.

Sur le plan de la définition, la séparation de la notion de propagande de celle des relations publiques reste cependant insatisfaisante. Il n’est pas non plus possible de distinguer strictement « inciter » par la propagande de « convaincre » par les relations publiques.

La tentative de distinction effectuée par Günter Bentele, titulaire de la chaire de relations publiques (RP) à l’université de Leipzig, prouve que la nouvelle notion de RP n’est que la modernisation de l’ancienne notion de propagande : « D’un point de vue logique systématique et compte tenu de l’objectif d’une théorie des RP différenciée, une assimilation pure et simple des relations publiques à la propagande est trop simple. Cette position est problématique, car elle doit faire abstraction de graves différences entre la propagande national-socialiste ou la propagande politique de la RDA et les relations publiques de type occidental. » [5]

Or le point de vue de Bentele est sujet à caution pour deux raisons.
 Premièrement, il chante les mérites d’un modèle du totalitarisme contestable —parce que trop simple sur le plan des sciences sociales— et dont la dichotomie crée un ennemi qui laisse perplexe : seuls les autres font de la propagande, alors que sa propre action éclaire le débat et informe le public.
 Deuxièmement, le fonctionnalisme structurel dépourvu de contenu de Bentele aboutit à de sérieux problèmes empiriques, car visiblement ce qui ne doit pas être ne peut pas l’être.

L’engagement d’agences de RP dans les guerres de l’ancienne Yougoslavie

Entre-temps, c’est le secret de Polichinelle que des gouvernements chargent des entreprises de RP d’embellir leur image dans d’autres pays. En revanche, il est peu connu qu’il y a depuis longtemps des campagnes de RP dont des gouvernements très divers ont chargé des entreprises et qu’ils ont payées pour décrire une fausse image de l’ennemi, préparer des guerres ou embellir l’idée que l’on se fait de dictatures.

Dans le système de dépendances réciproques « gouvernements/agences de RP pendant la guerre », nous avons recensé 157 contrats semestriels entre clients de l’ancienne Yougoslavie et 31 agences de RP diverses ainsi que neuf particuliers pendant les guerres de l’ancienne Yougoslavie menées de 1991 à 1992.

En août 1991, l’entreprise de RP Ruder Finn a été mandatée par le gouvernement croate, en mai 1992 par le gouvernement bosnien et en automne de la même année par les chefs des Albanais du Kosovo. Ainsi, Ruder Finn est la seule agence de RP qui ait travaillé pour les trois partis belligérants non serbes durant la guerre.

Le travail que Ruder Finn a effectué sur ordre de ces trois entités belligérantes se caractérise —fait plutôt inhabituel dans cette branche des services affichant un certain terre à terre— par la forte identification avec les objectifs des clients dont ont fait preuve aussi bien David Finn que James Harff, tous deux partenaires de Ruder Finn. Dans une interview destinée au documentaire de télévision De Zaak Miloševic, dont nous disposons en exclusivité et dont seuls des extraits ont été diffusés, Harff déclare : « C’est dans notre sang, nous avons les Balkans dans le sang à la suite de nos expériences personnelles et professionnelles. […] Le Kosovo nous a très inquiétés. L’action menée par l’OTAN en 1999 était évidemment appropriée, quoiqu’un peu tardive. […] Je dois dire que nous avons sablé le champagne quand l’OTAN a attaqué en 1999. » [6]

Les conceptions de la communication des agences de RP pendant les guerres des Balkans

Les agences de RP engagées par les parties à la guerre ont opéré, pour l’essentiel, avec les éléments suivants, qu’elles ont combinés dans leur forme et dans leur contenu : propagande politique, activités de lobbies, communication lors de crises, communication par les médias, gestion de l’information, gestion des affaires, affaires publiques (donc communication politique), consulting et espionnage.

Les agences de RP qui travaillaient pour des clients non serbes ont révélé les objectifs suivants de leurs activités :
 la reconnaissance par les États-Unis de l’indépendance de la Croatie et de la Slovénie,
 la perception de la Slovénie et de la Croatie comme Etats progressistes du type d’Europe occidentale,
 la représentation des Serbes comme oppresseurs et agresseurs,
 l’assimilation des Serbes aux Nazis,
 la formulation du programme politique des Albanais du Kosovo,
 la description des Croates, des musulmans de Bosnie et des Albanais du Kosovo comme innocentes victimes uniquement,
 le recrutement d’ONG, de scientifiques et d’officines de stratégie politique pour la réalisation de ses propres objectifs ,
 l’intervention des États-Unis dans les événements des Balkans
 la qualification de légitime et légale de la conquête par l’armée croate de la Krajina occupée par les Serbes,
 le maintien des sanctions de l’ONU contre la Serbie,
 une décision favorable lors de l’arbitrage relatif à la ville bosniaque de Brcko,
 l’accusation de génocide formulée contre la République fédérale de Yougoslavie devant la Cour internationale de Justice de La Haye,
 des résultats favorables au parti albanais lors des pourparlers de Rambouillet,
 la plainte contre Slobodan Miloševic déposée auprès du Tribunal pénal international de La Haye,
 la stimulation d’investissements américains dans les Etats qui ont succédé à la Yougoslavie,
 la sécession du Montenegro.

Les agences de RP qui travaillaient pour des clients serbes ont révélé les objectifs suivants de leurs activités :
 l’amélioration générale d’une image négative,
 l’amélioration de l’image de la République serbe de Bosnie,
 le recrutement d’ONG, de scientifiques et d’officines de stratégie politique pour la réalisation de ses propres objectifs,
 la stimulation d’investissements américains en Serbie,
 l’amélioration des relations avec les Etats-Unis après la déposition de Miloševic,
 l’abrogation des sanctions de l’ONU.

En résumé, on peut dire que les clients des Balkans voulaient atteindre deux objectifs par leurs activités de RP : premièrement, il s’agissait de se faire connaître des milieux politiques, de la société et de l’opinion publique des États-Unis ; on voulait se présenter de manière positive, c’est-à-dire déployer des activités diplomatiques ; deuxièmement, on s’efforçait d’atteindre des objectifs de guerre très concrets. Souvent, les deux aspects ont été mêlés. « Bad guys » et « good guys » —la simplification de conflits armés

Dans les guerres des Balkans les gouvernements en guerre ont pu changer leur propagande en messages crédibles grâce aux agences de RP et à leurs nombreuses voies de communication. Il en résulte une forte homogénéisation de l’opinion publique aux USA et dans les sociétés occidentales en général : Le gouvernement des États-Unis, Amnesty international, Human Rights Watch, Freedom House, le United States Institute of Peace, la Fondation Soros, des intellectuels libéraux et beaucoup de conservateurs, les Nations Unies, des journalistes, mais aussi le gouvernement de Zagreb, le gouvernement de Sarajevo, les dirigeants des Albanais du Kosovo, la UÇK —tous ont, avec des différences minimes, la même interprétation des guerres des Balkans. Dans une version courte un peu pointue cela se présente ainsi : Les Serbes ont succombé à une folie nationaliste et veulent ériger une Grande Serbie. Slobodan Miloševic, un communiste incorrigible, s’est imposé comme leur dirigeant et a attaqué avec l’armée populaire yougoslave les républiques et les peuples non serbes et a ainsi permis des viols collectifs, des épurations ethniques et des actes de génocide ; les autres nations ex-yougoslaves —Slovènes, Croates, Bosniaques, Albanais, Macédoniens— étaient des peuples pacifiques et démocratiques (les Monténégrins avaient une image partagée, tant qu’ils étaient solidaires avec Belgrade, ils passaient également pour agressifs mais quand ils ont rompu avec Belgrade, ils se sont transformés en peuple pacifique). C’est exactement l’image 1:1 que les agences de RP ont propagée. Et elle est concordante avec la propagande des partis de guerre ex-yougoslaves non serbes.

RP et sociétés militaires privées

Le gouvernement croate avait engagé de manière pratiquement permanente de 1991 à 2002 plusieurs grandes entreprises de RP qui se sont engagées aux USA pour ses intérêts politiques, économiques et culturels et qui ont propagé une image positive de l’État. Après la reconnaissance couronnée de succès de l’indépendance de la Croatie par les USA, il y avait encore un problème politico-militaire spécialement critique à résoudre – la question des Serbes de la Krajina. Et c’est à ce moment-là qu’il y a pour la première fois une combinaison prouvée d’activités d’une agence de RP et d’une société militaire privée.

En mars 1993, le bureau du président croate Franjo Tudjman a engagé l’agence de RP ­Jefferson Waterman International (Waterman Associates), et en septembre 1994 le gouvernement croate a signé un contrat avec la société militaire privée états-unienne MPRI (Military Professional Resources Inc.). MPRI est l’une des quelques douzaines de sociétés militaires privées semblables, qui réalisent l’entraînement militaire et des services auxiliaires associés pour des gouvernements étrangers. Selon un ancien collaborateur de haut rang des services secrets, ces programmes privés d’entraînement ont pour but « de faire avancer les objectifs de la politique étrangère des États-Unis » et ne peuvent être réalisés sans l’accord explicite du ministère des Affaires étrangères des USA. A l’aide de cette industrie de guerre privée florissante, le gouvernement des États-Unis peut accorder toutes formes d’aide militaire dans n’importe quel pays sans devoir solliciter l’accord du Congrès ou sans rendre des comptes en public [7].

Début août 1995, onze mois après la signature du contrat avec le MPRI, l’armée croate a déclenché l’« Opération Tempête » et a pris d’assaut en seulement quatre jours les zones UNPA dans la Krajina tenue par les Serbes. C’était exactement cette action à laquelle le public des USA devait être positivement préparé par la société de RP Jefferson Waterman International. Pendant que MPRI nie d’avoir à faire quoi que ce soit avec l’« Opération Tempête », les experts disent que cette attaque portait sans aucun doute « la griffe » des USA. Ce n’est pas seulement le nom « Opération Tempête » qui emprunte sciemment des éléments de l’« Opération Tempête du désert », donc de la guerre du Golfe de 1991, mais certaines actions se sont déroulées de façon exemplaire « comme sorties d’un manuel » de l’armée des États-Unis.

MPRI n’a pas seulement été actif en Croatie et la Croatie n’était pas le seul parti de guerre dans les Balkans à s’être servi d’une société militaire privée : ainsi le MPRI a formé l’UÇK au Kosovo et en Macédoine, et en même temps, il était officiellement actif pour l’armée de la République de Macédoine. Lorsqu’au printemps 2001 un conflit a éclaté entre l’armée macédonienne et l’UÇK et que l’armée avait mis l’UÇK au pied du mur à Ara inovo à l’est de Skopje, l’OTAN est intervenue et a mis à disposition 15 bus climatisés pour évacuer les combattants albanais avec leurs armes. Parmi eux se trouvaient 17 instructeurs du MPRI [8].

En résumé, on peut dire qu’il s’agit là d’une structure dans laquelle les activités des agences de RP sous forme d’entreprises d’économie privée et des sociétés militaires, également sous forme d’entreprises d’économie privée, sont complémentaires en faveur des objectifs politico-militaires des partis de guerre. Ce n’est donc pas seulement la propagande de guerre qui est privatisée, c’est avant tout la conduite de la guerre elle-même qui est privatisée.






Traduction Horizons et débats



[1] Alexander S. Neu a publié une des rares recherches scientifiques relatives à la communication en matière de guerre et de crises dans l’ancienne Yougoslavie de 1991 à 1995 : Die Jugoslawien-Kriegsberichterstattung der « Times » und der « Frankfurter Allgemeinen Zeitung ». Ein Vergleich (La couverture de la guerre de Yougoslavie par le « Times » et la « Frankfurter Allgemeinen Zeitung ». Analyse comparée), Baden-Baden 2004.

[2] La présente contribution porte sur des aspects importants du livre paru récemment Operation Balkan. Werbung für Krieg und Tod (Baden-Baden 2006). Le livre s’efforce non seulement d’évoquer, mais aussi d’assembler deux aspects négligés de la recherche sur la paix axée sur la communication, à savoir les guerres des Balkans ainsi que la communication relative aux guerres et aux crises. Il a été rédigé dans le cadre du projet d’une durée de deux ans intitulé « Die Informationskriege um den Balkan seit 1991 (Les guerres d’information à propos des Balkans depuis 1991) », que nous avons pu réaliser grâce au soutien durable du directeur et fondateur de la Deutschen Stiftung Friedensforschung (DSF), Dieter S. Lutz, décédé tragiquement entre-temps.

[3] Propaganda Technique in the World War, par Harold D. Lasswell (Paul Kegan, Londres, 1927). L’ouvrage a été réédité en 1986 par l’université d’Hawaï.

[4] « The Theory of Political Propaganda », par Harold D. Lasswell, in The American Political Science Review, 21e année, 1927.

[5] Citation d’après Public Relations. Konzepte und Theorien, par Michael Kunczik, 4e édition, Cologne 2002, p. 36.

[6] James Harff dans De Zaak Miloševic (L’Affaire Miloševic). Mise en scène : Jos de Putter, Pays-Bas 2003 (matériel de film en partie non publié).

[7] « Privatizing War. How affairs of state are outsourced to corporations beyond ­public control » (La privatisation de la guerre. Comment les affaires publiques sont externalisées dans des entreprises en évitant le contrôle public), par Ken Silverstein, in The Nation, 28 juillet 1997.

[8] « Mazedonien als Opfer internationaler Ignoranz ? » (La Macédoine, victime de l’ignorance internationale ?), Wolf Oschlies, in Blätter für deutsche und internationale Politik, cahier 8/2001.




Vendredi 07 Septembre 2007

Les pressions sur la Serbie continuent


Dans les Balkans les Occidentaux gardent deux objectifs : intégrer la Serbie dans l'OTAN et obtenir l'indépendance du Kosovo.
Pour atteindre le premier objectif, toujours le même élément de chantage : pas d'entrée dans l'Union européenne (UE), sans adhésion préalable à l'OTAN. L'adhésion préalable de la Serbie : c'est-à-dire l'installation de bases américaines sur son territoire, l'obligation pour son gouvernement d'investir de l'argent dans la modernisation de l'armée pour que ce pays pauvre puisse appuyer l'effort de guerre américain en Afghanistan ou ailleurs.
Le haut-fonctionnaire européen catalan Josep Lloveras, ex-éminence de l’Union européenne au Centrafrique (http://www.delcaf.cec.eu.int/fr/quoideneuf/changement_personnel_DCCE.htm) aujourd’hui représentant de l’UE en Serbie, chaud partisan apparemment de la fusion euro-étatsunienne a affirmé cette semaine : “Les intégrations européennes et atlantiques sont des processus cohérents et complémentaires et doivent être perçus comme tels » (http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2007&mm=09&dd=07&nav_category=92&nav_id=43591). Pourtant Belgrade trouve encore un peu la force de résister aux sirènes atlantistes. Le 5 septembre Vuk Jeremić, ministre serbe des affaires étrangères, qui présentait les objectifs du programme du Partenariat pour la Paix à Bruxelles s’est bien gardé de faire figurer l’adhésion à l’OTAN parmi les points de son programme, préférant s’en tenir à une participation active au Partenariat pour la Paix déjà existant « La Serbie ne pourra jamais oublier les événements tragiques de 1999 » a-t-il eu la dignité de dire à ses interlocuteurs de l’OTAN (en 1999 l’OTAN a gratuitement détruit les infrastructures de la Serbie, tué 2 000 civils et diabolisé ce pays sur des bases mensongères devant l’opinion publique mondiale). http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2007&mm=09&dd=05&nav_category=90&nav_id=43521 

En ce qui concerne l'indépendance du Kosovo, le chantage à l'adhésion européenne ne suffit pas non plus, car il faut aussi convaincre Russes et Chinois au Conseil de Sécurité. O certes, le président Bush comme à son habitude est prêt à reconnaître le Kosovo sans passer par l'ONU. Mais tout de même un Kosovo, reconnu seulement par la moitié des pays de la planète, cela ferait désordre - surtout si d'autres provinces sécessionnistes (la Transnistrie par exemple …) obtiennent la même chose ailleurs...
A Belgrade, on commence à rappeler certaines évidences : que le Kosovo étant une province serbe, si les nationalistes albanais proclament une indépendance unilatérale le 10 décembre comme ils l’ont annoncé, rien ne s'opposera à l'entrée de l'armée serbe dans la province pour y maintenir l'ordre. C'est ce qu'a déclaré le secrétaire d’Etat, Dušan Proroković membre du parti du premier-ministre Koštunica, dans l’International Herald Tribune mercredi 5 septembre, tandis que le ministre des affaires étrangères Vuk Jeremić, membre du parti, plus pro-occidental, du président Tadić, quant à lui, démentait le propos de son subordonné. Malgré le démenti, l'évidence juridique énoncée par Dušan Proroković ne plait guère aux Occidentaux qui entendent tenir en respect la petite Serbie. Tom Casey, le porte parole du Département d’Etat  américain a annoncé son intention de demander à Belgrade des « éclaircissements ». Cristina Gallach, porte-parole du représentant de la diplomatie européenne Javier Solana (ex politicien socialiste espagnol, et ex secrétaire général de l’OTAN qui pilotait le volet politique des bombardements sur la Serbie en 1999), a mis en demeure la Serbie d’éviter le “vocabulaire incendiaire” (http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2007&mm=09&dd=07&nav_category=92&nav_id=43576) – pareille mise en demeure n’a évidemment pas été adressée en des termes semblables aux séparatistes albanais qui ont pourtant été les premiers à agiter la menace d’une action unilatérale.
Le diplomate autrichien Wolfgang Petritsch, qui était émissaire de l’Union européenne à Rambouillet sur le Kosovo, et dont le pays a tant fait pour l’éclatement de la Yougoslavie (cf l’article de Diana Johnstone dans l’Atlas alternatif) a justifié dans Die Presse cette semaine la position européenne en ces termes : depuis 1999 "une thèse internationale s’est développée à propos de la responsabilité de chaque Etat de protéger ses citoyens". Selon lui, « la Serbie a directement enfreint cela au Kosovo dans les années 1990 par l’expulsion systématique de 850 000 Albanais, qui avait été manifestement planifiée » (or en réalité, la thèse de l’expulsion planifiée des Albanais a été démentie dans de nombreux ouvrages, et invalidée devant le Tribunal pénal international – et ce mensonge permet de faire oublier les milliers de Serbes, Roms, et autres membres de minorités persécutés, non protégés par la KFOR et le gouvernement nationaliste albanais depuis 1999), et « quelqu’un à Belgrade devra expliquer ce qu’ils ont à offrir aux deux millions de citoyens de la province, pour l’abandon de la recherche de l’indépendance » (pour mémoire on rappellera cependant que dès le début des années 1990 les nationalistes albanais du Kosovo sont entrés dans un processus de refus des institutions yougoslaves, et de création d’une société parallèle, que Milošević en 1999 a proposé de restaurer l’autonomie en vigueur dans les années 1980, qui avait pourtant généré de nombreux abus, et que le gouvernement néo-libéral qui lui a succédé a continué de soutenir l’idée d’une autonomie élargie).
Petritsch s’est laissé aller à l’expression de regrets devant le fait que l’Occident n’ait pas pu arracher le Kosovo à la Serbie dès 1999, ce qui lui aurait évité de devoir l’enlever à l’actuel gouvernement pro-occidental de Belgrade. Mais il a reconnu, un brin nostalgique, qu’hélas la Russie ne l’aurait pas permis même à l’époque d’Eltsine (http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2007&mm=09&dd=07&nav_category=92&nav_id=43575)
Mais la réécriture de l’histoire ne suffit pas à assurer le consensus au niveau européen sur l’affaire serbe. L’Espagne et la Grèce ne sont toujours pas prêtes à reconnaître l’indépendance du Kosovo comme les presse de le faire Washington. Il est vrai que Madrid ne tient pas à ce que le Kosovo indépendant (ou tout autre pays dans le monde) en retour reconnaisse l’indépendance de la Catalogne… L’aveuglement euro-états-unien après avoir semé le chaos au Proche-Orient va-t-il provoquer à nouveau le désordre au sein même du continent européen ?

publié par Atlasaltern


Bari

Martedì 11 settembre 2007

Ore 18.00

Libreria Feltrinelli,via Melo 119

 

ZERO. PERCHE' LA VERSIONE UFFICIALE SULL'11/9 E' UN FALSO

a cura di Giulietto Chiesa e Roberto Vignoli – Ed. Piemme, pag. 412


Ne discutono

Luciano Canfora (in teleconferenza)

Andrea Catone

Enzo Modugno

Nico Perrone

Augusto Ponzio

Coordina: Pasquale Tempesta


L'indice del libro e la introduzione di Giulietto Chiesa:

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5625




Tetova after Kosova (2)


( The first part can be read here:

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5617

Il dossier in lingua italiana può essere letto qui:

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5627 )

---

http://www.focus-fen.net/index.php?id=f1427

Focus News Agency (Bulgaria)
August 29, 2007

Faton Klinaku: If Albanian people are denied once
again freedom, KLA will rise again

Ivan Radev

The first meeting in the framework of the new 120-day
talks on defining the final status of Kosovo is
starting tomorrow in Vienna. 
The main goal of these talks, as well as the goal of
all the efforts made by the international community,
is to find such a solution to the issue which would
not cause a new wave of violence in Kosovo and the
region. 
Is it possible, however, to [fall back] to the
so-called “black scenario”, which often is mentioned
in the media when it comes to the future of Kosovo? 
In its attempt to present different points of view on
this issue, FOCUS News Agency talked to those who had
8 years ago, at least officially, left their guns –
the veterans from the Kosovo Liberation Army (KLA). 
A reporter of FOCUS News Agency visited the central
office of the Organization of the Veterans of the KLA
in Pristina and talked to the organization’s
secretary, Faton Klinaku.

FOCUS: What is the position of your organization about
the new round of talks on the status of Kosovo?

Faton Klinaku: The organization of the veterans of the
KLA has ever been against the talks in Vienna between
Kosovo Albanians and Serbia. 
There was a liberation war here. 
KLA fought against the occupier to liberate Kosovo and
now we don’t need talks between Albanians and Serbs,
i.e. between occupied and occupiers. 
People in Kosovo must have the right of
self-definition [determination] and the right to
decide on their own whether they would like to live in
their own state, or they want something else. 
The talks were unacceptable for us and they are still
such since no one could take the right of
self-definition from the Albanian people. As a result
of the negotiations Kosovo would hardly be able to
become a state since if there are talks, there are
also compromises.

FOCUS: In this case do you think that Kosovo should
declare independence on its own?

Faton Klinaku: Everywhere around the world new states
are established after its people’s self-definition. 
However, the declaration of independence is
unacceptable for us if it is made on the basis of
Ahtisaari’s plan. 
Kosovo's parliament took a decision approving the plan
of Marti Ahtisaari, which however is in contrast to
the people’s will. We could accept the declaration of
such an independence where the majority of the
citizens of Kosovo decides its fate, and we do not
accept declaring something that is not a real
independence.

FOCUS: Do you intend to undertake some actions to
protest against the talks?

Faton Klinaku: We have always tried to attract
people’s attention against the talks that were held in
Vienna and were in contrast to the will of the
majority of the Albanians. 
As far as future development are concerned, we are
making analyses and we are organizing different
debates with citizens and war veterans, so that we
could all be ready for protest and other actions when
the central bodies of the organization take decision. 
We have not decided yet on what we are [going] to
organize but our members are ready to follow each
decision of the leadership.

FOCUS: Do you think it is possible violence to erupt
again in Kosovo?

Faton Klinaku: Possible violence would do a favor to
those who do not allow Kosovo and the Albanian to
decide on their fate on their own. This would be in
favor of Serbia, as well as of other states that act
against the interests and will of the Albanian people.
Of course, some would like to see violence here again.
Those are the people that want to transfer the guilt
for the compromises of the politicians and the
unrealized will of the Albanians to the people that
would go out on the streets, so that to be able to say
later that the Albanian people are guilty for the
failure in establishing a state.

FOCUS: You said that the members of the organization
are ready for actions. Does it mean that you are ready
to enter a war again?

Faton Klinaku: If the international community fails to
recognize the right of the Albanian people for
self-determination, and the status is defined on the
basis of compromises, we would naturally resume the
fight. 
We fought for the freedom of the Albanian people. 
Every other decision different from that would lead to
violence for which both the politicians and the
international community would be guilty. If the
Albanian people are again denied their freedom we
would have to start the fight again. This is clear for
us because we fought for the people and we will fight
for its again.

FOCUS: What is your vision about the future of the
Albanians in Southern Serbia and Macedonia?

Faton Klinaku: Just like in Macedonia, liberating wars
were held in Presevo, Medvedja and Bojanovci too.
There the war was held by the Army for the Liberation
of Presevo, Medvedja and Bojanovci as the goals was
these territories to join Kosovo since they are
populated with Albanians. The war in Macedonia also
aimed to liberate the Albanian people from the
occupier since we view them as occupiers. 
Macedonians, Montenegrins, and the Serbs in Eastern
Kosovo (editor’s note – Southern Serbia) are
occupiers, and the Albanian people are living in the
conditions of classical occupations in their own
lands. 
That is why I think that Albanians could not guarantee
their rights being observed by means of an agreement,
and that the only way to do that is to live in their
own state, and our state is Albania. 
The issue is different as far as the decision of the
people of Kosovo is concerned. But speaking about the
Albanians in Macedonia and Eastern Kosovo, it is clear
that they live under classical occupation. The same
refers to the Albanians in Greece, who live under the
occupation of Greece since Greece denies recognizing
their rights. We have always said that each action
against the will of the Albanian people could cause
different dangers in the Balkans.

FOCUS: There is a debate going on in Kosovo about
identities. Do you think that Albanians in Kosovo have
some other identity than that of the Albanians in
Albania?

Faton Klinaku: Identities different from that of the
Albanian people were thought of by the Serbian
occupiers during the rule of Tito. 
The attempts at imposing some other identity would
fail because Albanians are only Albanians and cannot
be anything else. Such discussions are initiated by
our enemies - Serbs and other occupiers, who want to
separate the Albanian people. We have one and the same
language and culture and npo matter that the
establishment of an independent Kosovo is demanded
now, we are part of the Albanian people.

FOCUS: Do you think the partition of Kosovo into North
Serbian and South Albanian parts is possible?

Faton Klinaku: I would like to tell those who speak
about such partition and intend to raise the issue at
the new talks that this should be done on an ethnic
principle, which means that all Albanians must be
concentrated into one state. 
Each partition of Kosovo must be done in accordance
with the international principles – right of
self-defining, ethnical principle, or majority
principle. 
However, these principles should be applied not only
for Kosovo, but for Presevo, Macedonia, and Montenegro
as well. 

---

http://www.focus-fen.net/?id=n120741

Focus News Agency (Bulgaria)
August 30, 2007

Macedonia-based village of Tanusevci is empty

Skopje - The village of Tanusevci, located on the
Macedonian–Serbian border at Kosovo, is totally empty.
There is no one there – neither children, nor men, nor
woment - the Macedonian Vecer daily reads. 
The situation with the Albanian-populated village
became tense after Zhezair Shaqiri, known as Commander
Hoxha, stated that the residents in the village will



RAP YOUGO-BOSNIAQUE


"...Nous sommes devenus des esclaves de l’OTAN..."





(srpskohrvatski / italiano / english)


Sulla manifestazione nazista che ha visto in Croazia la
partecipazione di 60mila persone, si vedano

il video dell'evento:

http://www.youtube.com/watch?v=1tUR_JIrIAE

(la folla grida lo slogan ustascia "Za dom spremni!" - "Pronti per la
patria!")

e l'articolo:

‘Slightly Fascist’?
The New York Times Prods Croatia. Gently.
by Jared Israel [August 1, 2007]

http://emperors-clothes.com/croatia/times1.htm


> From: "Coord. Naz. per la Jugoslavia"
> Date: June 23, 2007 10:29:33 AM GMT+02:00
> Subject: [JUGOINFO] Manifestazione nazista di massa in Croazia
>
>
> Si è tenuto lo scorso 17 giugno in Croazia un concerto del noto
> cantante rock nazista Marko Perovic "Thompson". Il concerto, che ha
> visto la partecipazione di decine di migliaia di persone, si è
> trasformato in una occasione per manifestare, con slogan e simboli,
> la apologia del nazismo genocida croato (ustascismo).
>
> Sulla figura del rocckettaro nazista Thomson si veda anche:
>
> http://www.exju.org/comments/640_0_1_0_C/
> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3186
> http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5461
>
>
> From: romale @ zahav . net . il
> Subject: [Roma ex-Yugoslavia] Nevipe katar Croacija
> Date: June 21, 2007 12:52:06 PM GMT+02:00
> To: Roma_ex_Yugoslavia @ yahoogroups.com
>
>
> Poštovani,
>
> u Hrvatskoj se održao koncert 17. 06 2007 hrvatskog pjevača Marka
> Perkovića Thompsona". pred oko 60 000 gledatelja. Što je u ovome
> loše možete vidjeti iz dole navedene reakcije. Osim Margelovog
> instituta u Zagrebu reagirao je i srpski saborski zastupnik Milorad
> Pupovac a romski zastupnik koji je po nacionalnosti njemac nažalost
> nigdje ni glasa i po ovome što se može zakljućiti.
>
> Iz medija
>
> Margelov institut u Zagrebu traži opoziv ministra Kirina jer je,
> zakazala pravna država u slučaju Thompsonova koncerta. Centar
> Simon Wiesenthal iz Jeruzalema obratio se Mesiću, izražavajući
> zgražanje i gnušanje masovnim pokazivanjem fašističkih pozdrava,
> simbola i uniformi na koncertu
>
> Margelov institut u Zagrebu u otvorenom pismu premijeru Ivi
> Sanaderu traži opoziv ministra unutarnjih poslova Ivice Kirina jer
> je, ocjenjuju, "zakazala pravna država prije, u tijeku i nakon
> nedjeljnog koncerta hrvatskog pjevača Marka Perkovića Thompsona".
> Ostavku traže, kako se navodi, "s obzirom na to da službe za čiji
> je rad i odgovoran nisu spriječile nezapamćen ustaški skup na
> maksimirskom stadionu u nedjelju, 17. lipnja, te je time
> prouzročena nepopravljiva šteta ugledu i interesima Republike
> Hrvatske pri procesu prijama u Europsku uniju, zajednicu država i
> naroda utemeljenu na zasadama antifašizma". Premijeru predlažu da
> osobno inicira u Hrvatskom saboru žurno donošenje zakona o
> deustašizaciji.
>
> "S obzirom na naslov Thompsonove turneje "Bilo jednom u Hrvatskoj",
> napominjemo da je jednom u Hrvatskoj bio holokaust i da to čitava
> Hrvatska mora znati, priznati i s dužnim se pijetetom prema toj
> činjenici odnositi", kaže se u pismu koji je potpisao direktor
> Instituta Alen Budaj. Uz ostalo se napominje kako je "žalosno da
> malobrojna židovska zajednica grada Zagreba i nakon goleme
> tragedije holokausta mora gledati ustaške skupštine, na mjestu
> gdje su prije 66 godina razdvajani Židovi od nežidova.
>
> Žalosno je da hrvatska policija takve skupove blagonaklono
> dopušta: da omogućuje nesmetanu prodaju ustaških insignija,
> barjaka i dijelova uniforma, pronošenje ustaških simbola,
> izvikivanje ustaških pozdrava iz desetina tisuća grla, pjevanje
> ustaških pjesama maloljetnika, masovno dizanje ruku na fašistički
> pozdrav; da se naposljetku dopušta jednom pjevaču koncertno
> izvođenje pjesme koja počinje Pavelićevim pozdravom "Za dom -
> spremni!".
>
> Centar Simon Wiesenthal iz Jeruzalema izrazio je, također, u pismu
> hrvatskom predsjedniku Stjepanu Mesiću, zgražanje i gnušanje
> "masovnim pokazivanjem fašističkih pozdrava, simbola i uniformi na
> rock koncertu popularnog ultranacionalističkog hrvatskog pjevača
> Thompsona", kojem je u nedjelju u Zagrebu nazočilo 60.000 ljudi.
>
> Direktor Centra Efraim Zuroff u pismu Mesiću od njega traži
> zabranu koncerata pjevača poput Thompsona, na kojima se slavi
> fašizam i rasizam. "Prema hrvatskim medijima, koncert se pretvorio
> u masovnu fašističku demonstraciju u kojoj su deseci tisuća ljudi
> uzvikivali ustaški pozdrav 'Za dom spremni'. Osim toga, veliki broj
> sudionika nosio je ustaške uniforme i simbole", stoji u Zuroffovu
> pismo.
> Zuroff također izražava zabrinutost zbog toga što su na koncertu
> bili i visoki hrvatski dužnosnici, saborski zastupnici, kao i
> "ministar znanosti, obrazovanja i sporta".
>
> Prema hrvatskim medijima, koncert se pretvorio u masovnu
> fašističku demonstraciju u kojoj su deseci tisuća ljudi
> uzvikivali ustaški pozdrav 'Za dom spremni' "Pod tim okolnostima,
> smatram da je došlo vrijeme da se zabrane javni koncerti onih koji
> pjevaju nostalgične pjesme o Jasenovcu i potiču isticanje
> ustaških simbola", dodaje Zuroff napominjući da se time huška
> protiv svih nacionalnih manjina u Hrvatskoj. "Vjerujem da samo kada
> bi netko s vašim ugledom i izraženom antifašističkom reputacijom
> poveo borbu protiv tog ružnog vala obnovljenog fašizma, moglo bi
> biti spriječeno da taj izvanredno opasni novi trend zahvati cijelu
> Hrvatsku", stoji na kraju Zuroffova pisma predsjedniku Mesiću
>
> Ki hrvatska sine koncerto ko 17. 06. 2007, gilavda o hrvatsko
> gilavno Marko Perkovich Thomson. Ko koncerto sa kotar 60 000 manisha.
>
> So si kate bilache: O Marko Perkovich barjarol o fashizam hem o
> nazizam. Reakcija pala kodo kerda o Miguelo institut katar o
> Zagreb, srpsko parlamentarco Milorad Pupovac a amaro parlamentarsko
> manush savo si germanco na kerda reakcija.
>
> Hrvatsko medije phenena, o koncerto kerdilo fashističko
> demonstracije, kate 10 mije gjene phenenas o Ustashko pozdrav " Za
> dom spremni" Baro nomero phiravde ustashko uniforme hem simbolja.
>
> Ko koncerto sine hem bare manusha katar o parlamento, hem o
> ministro pala edikacija."
>
> "Prema hrvatskim medijima, koncert se pretvorio u masovnu
> fašističku demonstraciju u kojoj su deseci tisuća ljudi
> uzvikivali ustaški pozdrav 'Za dom spremni'. Osim toga, veliki broj
> sudionika nosio je ustaške uniforme i simbole", stoji u Zuroffovu
> pismo.
> Zuroff također izražava zabrinutost zbog toga što su na koncertu
> bili i visoki hrvatski dužnosnici, saborski zastupnici, kao i
> "ministar znanosti, obrazovanja i sporta".

IL DELIRIO ANTICOMUNISTA DEI SUCCESSORI DI ALOJZIJE STEPINAC


Croatie : les évêques catholiques attaquent le TPI, l’Europe et les
médias

Plusieurs évêques croates ont profité des célébrations du 15 août
pour lancer des messages controversés : Tito aurait été pire
qu’Hitler, et les médias actuels croates seraient dirigés par
Satan... La charge en règle lancée par l’épiscopat catholique touche
aussi le TPI, l’Union européenne et les autres institutions
internationales. Elle traduit surtout une perte réelle d’influence de
l’Église, secouée par de nombreux scandales que les médias n’hésitent
plus à évoquer...

http://balkans.courriers.info/article8704.html

---

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/8172/1/51/
Gli strani messaggi dei vescovi croati

29.08.2007 Da Osijek, scrive Drago Hedl
[Hrvatski: http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/
8171/1/218/ ]
Durante il Ferragosto alcuni vescovi croati si sono lasciati andare a
dichiarazioni e messaggi controversi, attaccando le istituzioni
internazionali, i media e la politica locale. Le reazioni degli
opinionisti e dei politici nella cronaca del nostro corrispondente

L’ex presidente jugoslavo Josip Broz Tito è uguale ad Adolf Hitler, e
i media croati sono governati da satana: sono solo alcuni dei
messaggi scandalosi che i vescovi croati hanno inoltrato dall’altare
durante la celebrazione della festa cristiana e nazionale del giorno
della Madonna, il 15 agosto scorso. I vescovi hanno sfruttato
l’occasione anche per fare i conti con gli omosessuali e gli
antifascisti, e pure per impartire una lezione all’Unione europea.
“L’Europa e le sue istituzioni”, ha detto il vescovo Juraj Jezerinac
“tentano di rigettare Dio, diffondono uno stato di indifferenza
religiosa, il secolarismo e la libertà incondizionata”. Jezerinac ha
fatto sapere all’Europa che, se vuole sopravvivere, “deve fare
ritorno alle proprie radici, cioè alla fede”.
Il vescovo di Zadar, Prendja, ha offerto al Tribunale dell’Aja la
garanzia per la liberazione del generale Ante Gotovina, il quale dopo
anni di latitanza è all’Aja in attesa dell’inizio del processo per
crimini di guerra. Il vescovo di Djakovo Marin Srakic, di fronte a
migliaia di credenti ad Aljmas, luogo di pellegrinaggio nella
Slavonia orientale, ha rivolto al figlio di Branimir Glavas, in
carcere in attesa del processo per crimini di guerra, un
riconoscimento scritto per il contributo alla costruzione della
chiesa del luogo.
“La Chiesa cattolica in Croazia oggi è una delle organizzazioni più
rigide e antieuropee, e con queste sue posizioni non desidera certo
il bene della Croazia”, afferma il noto commentatore del quotidiano
“Novi List”, Branko Mijic. L’editorialista dello “Jutarnji list”,
Davor Butkovic, però, analizzando le uscite dei vescovi croati
durante la celebrazione della festa della Madonna, conclude che “la
Chiesa cattolica in Croazia oggi è profondamente invecchiata” e che
“si trova in una società moderna, post bellica e in crescita, fatto
che conduce ad eccessi quotidiani, e che la rende sempre meno
importante”.
Uno di questi eccessi è accaduto il giorno prima della celebrazione
della festa della Madonna, durante la commemorazione
dell’anniversario dell’operazione Oluja (tempesta), l’azione militare
con cui la Croazia nel 1995 liberò Knin e il territorio dove i serbi
ribelli nel 1991 formarono la cosiddetta Repubblica Serba di Krajina.
Parlando a questo incontro, al quale ha partecipato l’intero vertice
statale croato, il vescovo di Sibenik Antun Ivas ha attaccato
l’Europa, la NATO e il Tribunale dell’Aja, affermando che quelli che
si trovano all’Aja “sono stati consegnati ad una giustizia mondiale
selettiva che alla maggior parte dei popoli è incomprensibile”.
Parlando dei negoziati della Croazia per l’ingresso in Unione
europea, cosa che è in assoluto l’obiettivo più importante della
politica estera del premier Ivo Sanader, Ivas si è chiesto “non sono
forse i negoziati con l’UE un pericoloso modo di evitare le questioni
importanti?” aggiungendo come in questi negoziati non ci sia risposta
alla domanda “dove risiedono l’uomo e l’integrità della persona”.
A questa dichiarazione del vescovo di Sibenik ha reagito anche il
premier Sanader. “Considero che ciò sia importante da dire, in
particolare adesso che alcuni cercano di insinuare uno scoraggiamento
sostenendo che, ecco, stanno processando noi croati, qualcun altro ci
scriverà la storia perché ci sono alcuni accusati all’Aja, e non
resta che vedere come finirà questo processo”, ha detto Sanader ai
giornalisti dopo la celebrazione a Knin, polemizzando con il vescovo
di Sibenik, aggiungendo che con l’ingresso nell’Unione europea e
nella NATO la Croazia renderà più stabile la sua posizione
internazionale, e che non c’è alcun timore che qualcun altro possa
scrivere la sua storia, secondo quanto aveva alluso il vescovo Ivas.
Ma le reazioni alle dichiarazioni della maggior parte dei vescovi
croati non giungono solo dagli opinionisti dei giornali e dai
politici. Esse, a dire il vero non molte, si posso anche sentire
provenire dalla stessa Chiesa croata. “La Chiesa con la celebrazione
dei suoi misteri è uscita dall’ambito della Chiesa, orientandosi di
più alla strada, al folclore e al divertimento che alla vita delle
persone. La celebrazione della festa alla presenza dei leader
politici e delle istituzioni statali non poteva passare senza fare sì
che nell’anno elettorale anche l’altare diventasse un’occasione per i
fini politici di certi gruppi”, dice il noto sacerdote di Spalato
nonché sociologo don Ivan Grubisic.
Le dichiarazioni della maggior parte dei vescovi croati durante la
celebrazione annuale della festa della madonna, oppure durante la
commemorazione dell’anniversario della operazione militare “Tempesta”
a Knin, non sono purtroppo delle novità nel comportamento di una
parte della Chiesa cattolica. Durante il governo del presidente
Tudjman, in cui la Chiesa aveva un grande appoggio, di gran lunga
maggiore di quello su cui può contare tra le fila del governo
attuale, venivano servite le messe in nome del capo ustascia Ante
Pavelic, che si mise dalla parte dei nazisti nel 1941 e con l’aiuto
dei quali creò lo stato fantoccio della NDH (Stato croato
indipendente), 1991-1945.
Durante questo stato furono commessi gravi crimini contro i serbi,
ebrei, rom ed anche contro i croati, soprattutto contro i comunisti
che non avevano accettato il regime ustascia. Uno dei più grandi
luoghi di esecuzione del regime di Pavelic fu il campo di
concentramento di Jasenovac.
La Chiesa non ha mai giudicato fino in fondo e in modo chiaro questi
crimini, e anche se alcune volte uno suoi gran dignitari lo ha fatto
in modo timido, ha cercato sempre di relativizzare con i crimini del
comunismo oppure con i crimini che i partigiani di Tito hanno
commesso contro gli ustascia e contro i soldati della milizia
territoriale durante la II Guerra Mondiale a Bleiburg.
La Chiesa durante la commemorazione dell’anniversario a Bleiburg è
sempre stata molto rappresentata, cosa che non potremmo certo dire
per Jasenovac.
Gli analisti credono che la dichiarazione di uno dei vescovi, secondo
il quale i media croati sono governati da satana, è in realtà la
vendetta per aver scritto apertamente sui casi di pedofilia
all’interno della Chiesa croata, ma anche per gli scandali di
corruzione che negli anni precedenti hanno scosso la sua Caritas. Sui
media croati, da quando all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso è
caduto il comunismo, non ci sono più testi che parlino della Chiesa
nel modo in sui lo si faceva durante quel periodo. Piuttosto i media
croati, così come non tacciono delle irregolarità nelle varie sfere
della società, parlano apertamente di quello che accade anche
nell’ambito della Chiesa cattolica.

--------

Begin forwarded message:

> From: Coord. Naz. per la Jugoslavia
> Date: August 21, 2007 11:12:03 PM GMT+02:00
> Subject: [JUGOINFO] Visnjica broj 669
>
>
> SOLO UN MILIONE 129MILA? E PERCHE' NON DUE MILIARDI 756MILIONI
> 371MILA?
>
> CROAZIA: VESCOVO, TITO COME HITLER, SUE VITTIME UN MILIONE
> BELGRADO - Sta facendo notizia in questi giorni nei Balcani,
> alimentando anche qualche polemica, il parallelo tracciato domenica
> scorsa da un vescovo cattolico croato tra la ferocia del nazismo
> hitleriano e quella dei gerarchi comunisti dell'Europa centro-
> orientale, Tito incluso.
> Pronunciando un'omelia nella cattedrale di Krka, monsignor Valter
> Zupan - le cui parole sono state riprese oggi anche dalla tv serba B
> 92 - ha avuto parole di fuoco per i crimini del comunismo, senza
> risparmiare le colpe attribuite da studi recenti al caudillo rosso
> della defunta Jugoslavia (croato anche lui): e addossando a
> quest'ultimo la responsabilita' specifica della morte di oltre un
> milione di persone.
> ''La ferocia dei crimini comunisti eguaglia quella dei crimini
> perpetrati da Hitler'', ha detto il presule parlando in un Paese come
> la Croazia che negli ultimi anni sta cercando di fare i conti anche
> con le memorie degli orrori (antiserbi e antisemiti) compiuti durante
> la Seconda guerra mondiale dal regime filo-nazista di Zagabria degli
> Ustascia, non senza sospetti d'acquiescenza da parte di esponenti
> della Chiesa locale.
> Un passato che secondo monsignor Zupan non va taciuto, ma non deve
> neppure far dimenticare il sangue versato a causa delle violenze di
> segno ideologico opposto. ''Le statistiche - ha affermato il vescovo
> - ci dicono che il comunismo, nel mondo, ha tolto la vita a 100
> milioni di esseri umani e che il nazismo ne ha uccisi 20,9 milioni
> durante l'epoca di Hitler. E non si tratta di numeri, ma di
> persone''. Quanto a ''Josip Broz Tito - ha aggiunto monsignor Zupan
> -, non si puo' dire che sia rimasto molto indietro''. Al suo nome -
> ha concluso citando le stime piu' elevate di alcune ricerche - e'
> legata ''la morte d'un milione e 129.000 persone''.
> 17/08/2007 19:01
>
> (Sulle dirette responsabilità del clero cattolico croato nello
> sterminio di oppositori politici, cristiani ortodossi, ebrei, rom ed
> altri indesiderati nella Croazia "indipendente" alleata di Hitler si
> vedano ad esempio i materiali raccolti alla pagina: https://www.cnj.it/
> documentazione/ustascia1941.htm )
>

(italiano / english)

Leonid Ivashov: The Struggle will Get Fiercer


1) Kosovo and Metohia: The Struggle will Get Fiercer (01.09.2007.)

...Russia has been adamant in its refusal to resort to treason the like of that committed in
its time by the then Russian premier Viktor Chernomyrdin... The pro-American enclave in
Kosovo provides for the concentration of U.S. armed forces in the region and the
development of its military base Camp Bondsteel...


2) L'Occidente interferisce negli affari interni della Russia. Molto probabili scenari
inquietanti e pericolosi (31.05.2007.)

...L'Occidente attua una politica di ingerenza negli affari interni della Russia... Nel corso
della storia, non c'è mai stata una fase di cooperazione autentica tra Russia e Occidente...


3) FLASHBACK: Russian troops withdrew from Serbia too early (14.05.2004.)


=== 1 ===

http://en.fondsk.ru/article.php?id=929

Strategic Cultural Foundation (Russia)
September 1, 2007

Kosovo and Metohia: The Struggle will Get Fiercer

Leonid Ivashov


Despite its territorial locality, the Kosovo problem
continues to be in the focus of attention of
international community, affecting the character of
interaction of the United States, Russia and Europe
and threatening to provoke a serious aggravation of
Russian-U.S. relations.

What is the most profound reason of this battle that
promises the emergence of new dividing lines in
European and global politics?

Had something of the kind happened somewhere in
Africa, everyone would have long forgotten all about
it, whereas the Kosovo problem has come to the fore,
and keeps exciting the whole world.

My explanation is that what is being modelled in
Kosovo and Metohia in the most critical form are the
models of mankind's development, where the interests
of different civilisations clash and where strategies
of the action of different power centres are taking
shape.

The main players on the Kosovo field include
international financial capital that is using the
United States as its high-power battering ram, Europe
that is now under U.S. control, and NATO as a military
arm of the U.S., as well as European capital and
Russia that is getting its feet on the ground, no
longer willing to toe the Western line.

The clashes of the parties, each with their own
positions, indicate the disappearance of the
illusionary end of the "cold war", thus refuting the
lies about the existence of a unipolar world.

The departure of the Soviet Union from the global
political arena was trumpeted as a victory of the
West, and "Western values" were proclaimed as
universal for all the nations, states and
civilisations.

Understandably, there can be no diversity of
traditions, faiths, socio-economic development models
and models of interrelation between the state and
society. Everything here is flatly uniform and
everyone obeys the power of money.

Serbs who retain their sense of national pride refused
to live in this generally faceless and spiritless
ghetto.

Quite like us, Russians, they are unwilling to turn
into bio-robots whose only dream is food and pleasure.
Quite like us, they wish to be human beings saving
their souls and memories of their history, speaking to
God rather than Mammon.

However, new lords of the world, oligarchs of the
global empire of capital are unwilling to see
disobedient nations and states choose an independent
way of development, denying the Judaic-Protestant
standards that are actually nothing but surrogates of
spiritual and moral values.

That is why the Greater Yugoslavia was thrown into
war, broken down to pieces and placed under the
control of oligarchs.

The leaders of Serbian resistance movement were taken
into custody by the illegal Hague Tribunal.

Slobodan Milosevic was murdered, and genocide against
Serbs started. It all happened due to the fact that in
the late 1990s Serbs became a symbol of unbroken
spirit and an example of the struggle waged by Slavs
for the preservation of their national identity.

A wide arsenal of techniques and means was used in the
fight for the subjugation of Serbs, including secret
operations of special services, mass brain-washing of
Serbs, the creation and funding of a "fifth column",
building up of separatist sentiments, the formation
and arming of gangster groups, the use of economic
sanctions and political isolation, encouraging drug
trafficking, and finally, an overt military
aggression.

That was followed by the adoption by the UN Security
Council of Resolution 1244. Paradoxically, it was
voted for with an eye to achieving results that were
the total opposite of what had been intended.

International peace-keepers and the UN mission did
their best to actually separate Kosovo and Metohia
from Serbia, tearing its spiritual heart out of the
body of the Serbian people.

Everything seemed to be ready for the legal
reinforcement of what had been done, for the
mortification of Serbs before the whole world and
establishing of a pro-American regime in Serbia, and
of Albanian fascist rule in Kosovo.

But things did not work out that way. The political
forces in Serbia, (with the exception of the "fifth
column" represented by Liberal Democrats) enjoying the
support of the nation rejected the capitulation.

They still continue their struggle.

Russia has been adamant in its refusal to resort to
treason the like of that committed in its time by the
then Russian premier Viktor Chernomyrdin.

Europe is currently making attempts – feeble as they
are – to identify something to substitute for the plan
worked out by Ahtisaari, who, according to mass media,
has been bought by Americans with the money of
Albanian Mafiosi.

Europe is on the lookout for a compromise, and that
was exactly how the German EU representative W.
Ischinger has described the idea of the division of
Kosovo into an Albanian and a Serbian zone.

The US attempts to take the Kosovo problem away from
the UN Security Council, handing its solution over to
the international Contact Group, have stumbled upon
the firm position of the Russian Foreign Ministry that
stated that "the suspension of the activities over
Kosovo at the UN Security Council does not signify the
removal of this subject from the framework of
activities of the United Nations. The final decision
as to Kosovo status should be made by the UN Security
Council based on the agreements between Serbs and
Kosovo Albanians."

What this means is Serbs have won a temporary victory,
and they continue to fight.

This fight is going to become more and more fierce
each and every day.

Serbs should not disregard the fact that the arsenal
of hostilities they are facing will be extending from
political pressure all the way down to the attempts to
strangulate Serbia by economic sanctions, terrorist
attacks and armed provocations.

The United States and the financial oligarchic circles
above it would hardly agree to lose control over the
Balkans.

The pro-American enclave in Kosovo provides for the
concentration of U.S. armed forces in the region and
the development of its military base Camp Bondsteel;
acting hand in hand with the U.S. military contingent
in Bosnia, Hercegovina and Bulgaria this would ensure
them control of the transit of hydrocarbons, carrying
out operations in the southern and south-eastern
directions and, when necessary, deploying any type of
weapons, including the elements of the U.S.
anti-missile system in Kosovo now under its control.

Indeed, such an ally of Washington as Agim Ceku is
tied up to Americans by the blood of hundreds of
murdered Serbs, supplies of drugs and the smuggling of
weapons to Europe and elsewhere.

Leaning on his assistance, the U.S. can finally make
true its idea of creating the "Greater Albania"
presenting Europe with a never-healing wound and a
criminal nursery for years to come.

Implementation of the project of a "Greater Albania"
would become a source of chronic instability for
Europeans similar to Iraq and Palestine in the Middle
East, Afghanistan and Kashmere in the Near East and
South Asia, the Caucasus and the Baltic states on the
space formerly taken by the USSR.

U.S. control over the Balkans would become for Russia
an obstacle in pursuing its policies..., facilitating
the process of destruction of historical ties with
Serbia and other Moscow's allies. On top of that
Americans and Britons would aggressively play the card
of "the clash of civilisations ", that is the standoff
among the Islamic, Orthodox Slavic and Western
Christian worlds.

The setting up of a gangster state based on the Kosovo
enclave meets the interests of the world's oligarchate
that is striving to consolidate the power of money and
criminal organisations globally.

Kosovo and Metohia are now the most important joint
strong point in the fight for a just world order; for
the preservation of national statehood as the basis of
development of international relations and for the
prospects of people retaining their Russian, Serbian,
German or French identities.

Who will win? No doubt the victory will be Serbian.

First, the winners in clashes of civilisation are they
whose historical roots are deeper, whose culture is
richer and whose spiritual foundations are firmer.

Americans, their masters and satellites have neither
the former, nor the latter two. Theirs is a Mammonish,
spiritless and perverted civilisation that has no
future.

The wars in the Balkans, the Middle East and
Afghanistan have smoothly transformed into the battle
for the spiritual and moral values, which the opposite
side is lacking.

Second, there exists an ethnic category of Chimera,
described in great detail by L.Gumilev.

Worming into the body of another ethnos (or state) the
chimera begins destroying it as a worm or a virus
killing the healthy body.

Kosovo Albanians Ceku, Thaci, Paccoli and their likes
have already found their way into the bodies of Europe
and the United States, and their systems that suffer
from lack of energy required for simple reproduction
are getting more and more sick.

Third, the time of the Western dominance in world
politics and the economy is getting near the end.

Super-big dynamically developing Oriental countries
are overtaking the historical initiative in the
development of mankind.

Russia is also turning its face to the East.

Russian society is more and more consistently and
consciously clearing itself of the
Yeltsinist-Chubaisit ideology of negation of the
Russian tradition and neglect of its history. And that
means that Russia will stand firmer on the side of
Serbs and their just cause.


=== 2 ===

http://www.resistenze.org/sito/te/po/ru/poru7f14-001645.htm

www.resistenze.org - popoli resistenti - russia - 14-06-07

da: www.voltairenet.org/article148632.html

L'Occidente interferisce negli affari interni della Russia

Molto probabili scenari inquietanti e pericolosi

Generale Leonid Ivashov*

31 maggio 2007

L'Occidente attua una politica di ingerenza negli affari interni della Russia, e attualmente
lo fa "abitualmente e a livello ufficiale", - è l'opinione di Leonid Ivashov, esperto russo di
problemi geopolitici.

"Nel corso della storia, non c'è mai stata una fase di cooperazione autentica tra Russia e
Occidente", pensa Ivashov.

L'Occidente, secondo lui, vorrebbe destabilizzare la Russia, ridurre la sua popolazione,
circondarla di strutture di controllo militare e impedire che ricostruisca la propria industria
della difesa e delle alte tecnologie.

Nel prossimo autunno, ci saranno tentativi di approfittare della campagna elettorale per
incrementare tale ingerenza e portare i cittadini russi, soprattutto i giovani, nelle strade,
ha affermato Ivashov in una tavola rotonda dedicata al futuro delle relazioni tra l'Occidente
e Mosca.

"E' uno scenario basato sul pessimismo, ma è anche il più probabile, e sarà accompagnato
dalla destabilizzazione nel Caucaso, dagli attentati terroristici e dai conflitti alle frontiere",
ha affermato.

Ivashov pensa che il Governo russo dovrebbe opporre a questa evoluzione drammatica un
proprio "progetto geopolitico nazionale" e tentare di raggruppare attorno alla Russia i
numerosi Stati che vedono in essa il leader spirituale del mondo.

* Il Generale Leonid Ivashov è vicepresidente dell'Accademia di Problemi Geopolitici. E'
stato capo del dipartimento Affari Generali del Ministero della Difesa dell'Unione Sovietica,
segretario del Consiglio dei Ministri della Difesa della Comunità degli Stati Indipendenti
(CSI), capo del Dipartimento di Cooperazione Militare del Ministero della Difesa della
Federazione Russa. L'11 settembre 2001 ricopriva l'incarico di capo di Stato Maggiore
delle forze armate russe.

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e
Documentazione Popolare


=== 3 ===

http://english.pravda.ru/world/europe/14-05-2004/5583-serbia-0

Russian troops withdrew from Serbia too early

14.05.2004

Source:

URL: http://english.pravda.ru/world/europe/5583-serbia-0

Before the 5th anniversary of the beginning of NATO aggression against Yugoslavia,
massacre of Serbs took place in the area.


28 people were killed, 850 wounded, more than 3,500 evacuated. The NATO aggression
was started under the excuse of stopping ethnic cleansing. However, genocide to Serbs
was not stopped by NATO troops. Even Commander of NATO
peace-keepers in Southern Europe recognizes that ethnic cleansing is in progress in
Kosovo.

International peace-keeping forces in Kosovo were not ready for such developments of
the situation . More than 60 peace-keepers were wounded during Albanian separatists
uprising. Today international troops protect only NATO prestige and their own lives, but
not the minorities of the region.

They did not really have this purpose in mind. As a participant of the negotiation on
Kosovo, I realized long time ago that the NATO and the forces behind it were looking any
excuse to interfere in Yugoslavia s domestic affairs, establish pro-NATO government,
disintegrate the country and oppress Serbs.

Kosovo radicals were acting as NATO allies, the alliance provided them with weapons and
training, encouraging their activity on disintegrating the country.

In December 1998 Russian Army General Staff gave NATO Commander general Wesley
Clarke detailed information on the weapons the Albanian radicals had, the ways of their
supplying with weapons, the location of the combatant bases and so on.
Joint actions could stop this dangerous process. However, NATO did nothing to stabilize
the situation. Moreover, in January 1999 general Clarke complained that NATO intelligence
was weak and could not confirm the information of
Russians.

The drama was Russia s failure to support Serbia. Russia wanted to be good for everybody,
it did not want conflicts with NATO (after Russia-NATO Act was signed in 1997, but could
not support NATO either.

Russian mass media depicted Slobodan Milosevic as the murderer of innocent civilians in
Kosovo. Only after NATO started bombing Yugoslavia, the Kremlin urged by Russian
society, expressed its protest against the aggression. But it
did not provide the victim of the aggression with the assistance as UN Chapter requires.
Russia did not even request the UN to have urgent meeting of the Security Council.

Serbs were fighting with courage, while NATO was exhausted. The main anti-Serbian tool
was used special envoy of Russian President Mr. Chernomyrdin. He was appointed on this
post under the US administration request.

Victor Chernomyrdin ignored the requests of Russian President, Foreign and Defense
Ministries and supported NATO by signing the ultimatum prepared by American
delegation.
Mr. Chernomyrdin arrived in Belgrad and submitted this ultimatum to Yugoslavian
authorities. Even President Yeltsin was indignant with his envoy s conduct and sent the
telegram in Belgrad to force him to follow President s orders. No result, and Serbs being
friendly to Russia, had to accept the ultimatum.

The advance of Russian paratroopers and deploying them in strategic aerodrome Slatina
inspired Serbs again. Russian soldiers did not allow to intimidate civilians and destroy
Orthodox churches in Kosovo.

??wever, this support did not last long either. Russian Ministry of Defense considered the
mission completed and withdrew the troops from Kosovo. This was the second case of
letting Serbs down.

This was the result of Russia's failure to introduce coherent foreign policy. Too many
Russian officials want to be good for Washington and Brussels in the first place.

Russia is encircled by NATO bases. Ukraine, Georgia and Azerbaijan allowed NATO troops
on their territory. Belarus has been under pressure both from the East and the West, and
can join NATO in future. NATO aircrafts patrol the air space of the Baltic countries former
Soviet republics. Meanwhile, Russian Foreign Ministry and Army General Staff continue
saying that there is no threat from the West for Russia.

UN resolution # 1144 authorizes and urges Russia to interfere in the Kosovo events. The
situation in the region would be absolutely different if Moscow made a statement of its
readiness to deploy Russian troops in Kosovo. Russia could
have offered Serbian forces to participate, and this would protect Serbian minority in the
region. The Germans and French would act differently under these circumstances as well.

The d?velopments in Kosovo undermine Europe. European politicians realize that the USA
is creating a criminal enclave in the Balkans, and it will shake Europe for many years. This
is revenge to Europe for growing anti-Americanism and resistance to the war in Iraq. Were
Moscow more confident, it could have a support of some European countries, especially
Germany and France.

Russia s lack of firmness contributes neglecting international law and driving Serbs out of
Kosovo and Metokhia. The offer of some Duma deputies to accommodate Serbs in Russia
sounds cynical. Russia cannot solve the problem of millions of
homeless and poor, millions of Russians are living all over the world. Who of our Slavic
brothers will go the country which betrayed them?

Serbs were the last pro-Russian nation in the Balkans. Today Russia is risking to lost the
remains of their support.

Leonid Ivashov

© 1999-2006. «PRAVDA.Ru». When reproducing our materials in whole or in part,
hyperlink to PRAVDA.Ru should be made. The opinions and views of the authors do not
always coincide with the point of view of PRAVDA.Ru's editors.


Parla molto di noi la questione «zingara»

di Alberto Burgio

su Il Manifesto del 17/08/2007


Ciclicamente, come le polemiche sui morti della strada o i roghi estivi (esempio non casuale), riesplode la questione dei campi nomadi. Che ci sia di mezzo il morto (i morti, come i bimbi arsi vivi a Livorno in quello che pare un ennesimo atto criminale) o le gesta squadriste dei padani (come l'anno scorso a Opera), cambia poco. Sta di fatto che di questa questione è impossibile liberarsi. Per nostra fortuna.
Perché? Perché la questione degli «zingari» parla di noi. Qualche giorno fa sul manifesto Enzo Mazzi diceva degli intrecci tra la loro e la nostra cultura. Si potrebbe scavare ancora e scoprire che c'è un legame profondo tra l'esperienza (e il disagio) della stanzialità e l'esperienza (lo stereotipo) del nomadismo. Che diventa un'icona del rimosso e catalizza (qui c'è una convergenza con l'antisemitismo) i furori razzisti della civitas christiana.
Ma non parla di noi solo per questo, la questione «zingara». È parte integrante della nostra storia politica. Di noi italiani (italiani come e non più delle decine di migliaia di rom e sinti cittadini di questa Repubblica), di noi europei (come altre decine di migliaia di rom e sinti e camminanti che vivono nelle nostre città). Faremmo bene a ricordarcene, e invece ce ne dimentichiamo. Perché si tratta di pagine cupe e pesanti come pietre.
La prima riguarda le guerre «umanitarie» nei Balcani. I rom di origine jugoslava (bosniaca e kosovara) sono profughi di quelle guerre di cui l'Italia fu sciagurata protagonista. Sono sfuggiti a vendette e «pulizie etniche» che hanno via via assunto le proporzioni di un pogrom. Si imporrebbe quindi, per cominciare, un bilancio serio dei conflitti che insanguinarono la Jugoslavia lungo gli anni Novanta. Un bilancio che non rimuova la destabilizzazione che li preparò con l'intervento di formazioni terroristiche sotto copertura occidentale.
La seconda pagina del nostro album riguarda le sistematiche persecuzioni inflitte a sinti e rom dopo l'89 in tutte le loro terre d'origine, dalla Slovacchia alla Boemia, dalla Moldavia alla Cechia, all'Ungheria, alla Romania. Nell'indifferenza generale della civile Europa.
La terza (sfondo alle altre) concerne lo sterminio nazista, cui il nostro paese partecipò con leggi e deportazioni. Si diceva delle convergenze con l'antisemitismo. Nel 1936 il Reich equiparò gli «zingari» - emblema di «asocialità» - agli ebrei. Lo sfondamento della Wehrmacht a est fu l'inizio di un calvario che mise capo allo sterminio di mezzo milione di sinti e rom. Ma anche l'Italia fece la sua parte. La persecuzione dei rom prese avvio qui, nei primi anni del fascismo. E le leggi del '38 riguardarono anche gli «zingari», non solo gli israeliti.
Storia? Non soltanto. Alla base di queste nefandezze operarono stereotipi che ancora impregnano le nostre discussioni. Di questo popolo si dipinge un ritratto che non è il suo. I rom jugoslavi avevano le loro case prima che esse venissero sottratte loro a forza. E all'est vivevano sì in condizioni disagiate, ma con un grado di integrazione che noi neppure immaginiamo.
Ma a chi interessa capire se urge giudicare? Si dice del degrado dei campi nelle nostre periferie. Quei campi che tanto spiacciono al cattolico onorevole Casini, ansioso per il decoro delle nostre «grandi città». Quei campi per i quali il democratico sindaco di Torino (come tanti altri dell'Unione, da Roma a Pavia) invoca «poteri straordinari» per i prefetti e interventi «anche oltre le regole pubbliche», pur di «ridurre il numero di rom». Allora bisogna dirlo chiaro: i campi come li conosciamo in Italia non si trovano in altri paesi europei perché altrove i rom vivono in comuni abitazioni grazie a un efficace sistema di sostegno, nel pieno rispetto delle regole.
Dopodiché siamo d'accordo: le prediche non bastano e nemmeno basta la memoria (che pure è un dovere politico, oltre che morale). Dunque che fare? Non si può scantonare da alcuni punti fermi. I rom rumeni non sono extracomunitari, sono europei come tutti gli altri. I rom italiani (70 mila) sono cittadini italiani, come tutti gli altri. A qualcuno potrà spiacere, ma è così. Quindi nessun diritto speciale, nessun trattamento ad hoc. Quanto agli apolidi, essi sono profughi, protetti dalla Costituzione, che riconosce loro (ancora) il diritto d'asilo. Piuttosto chiediamoci: quale risarcimento pensiamo debba ai rom immigrati nel nostro paese l'Italia, oggi accusata dalla Ue di non applicare la direttiva «contro la discriminazione basata sulla razza e le origini etniche», ieri in prima linea nelle guerre balcaniche?
Veniamo al Kosovo. In questi anni, pur controllando militarmente parte del territorio, l'Italia non è stata in grado (per responsabilità bipartisan) di tutelare la presenza dei rom nella regione. Nel Kosovo di oggi, protettorato militare e luogo di loschi incontrastati traffici, le minoranze (i rom, ma anche la piccola comunità ebraica) non hanno possibilità di sopravvivenza e sono costrette a esodi di massa, che riversano centinaia di migliaia di persone nel resto dell'Europa e in particolare in Italia. Domanda: dopo aver bombardato case, ospedali e infrastrutture civili, dopo aver consegnato il territorio alla mafia kosovara (per tacere dello scandalo degli aiuti umanitari, delle tonnellate di beni di vario genere destinati alle popolazioni balcaniche e rimasti a Bari, dei legami con la malavita meridionale), quali programmi sociali ci impegniamo a sostenere? Quale tutela dei tesori storici e artistici, quale difesa delle minoranze, della vita e della cultura di ognuno?
Le forze di occupazione in Kosovo (di questo ormai si tratta) preferiscono assecondare l'irredentismo schipetaro-albanese e gli appetiti degli americani (che intanto hanno installato, in funzione antirussa, la più grande base militare della regione). In questo quadro si gioca la partita dell'indipendenza formale del Kosovo albanesizzato, per la quale anche il nostro governo pare propendere.
Non si finga di non sapere che, ove venisse concessa, l'«indipendenza» cancellerebbe qualsiasi possibilità di convivenza democratica e paritaria tra le popolazioni della regione. E negherebbe ai rom ogni speranza di fare ritorno nella propria terra.
Non si faccia il solito doppio gioco di causare disastri e poi lanciare accuse per le loro conseguenze.



LA MIA SINISTRA È PIÙ A DESTRA DELLA TUA


Purtroppo la battuta non è mia: è d'un commentatore di destra ma è
azzeccatissima -- descrive perfettamente quel che succede fra i
"Polli di Renzo" nella loro rovinosa carica centripeta.
Il polverone marcato "lavavetri" è sintomatico -- noi vecchi cani
rossi credevamo che la Sinistra fosse una roba che si batteva perché
nessuno avesse fame e fosse costretto a mendicare un pezzo di pane...

Luciano Seno
(Fonte: http://it.groups.yahoo.com/group/resistenza_partigiana/
message/2974 )

("Kosovo: Il ritorno del colonialismo" è il titolo di questa approfondita analisi del saggista viennese Hannes Hofbauer, apparsa sulla rivista Ossietzky n.15/2007. Nella quale si passa al setaccio la scandalosa situazione economica che le potenze imperialiste hanno creato in Kosovo appoggiandosi sulla criminalità organizzata locale...)
 

-------- Original-Nachricht --------
Datum: Sat, 1 Sep 2007 23:40:32 +0200
Von: "Kaspar Trümpy" 
Betreff: Kosovo: Die Rückkehr des Kolonialismus

Der interessante Bericht von Dr. Hannes Hofbauer über die aktuelle Lage im Kosovo, "Die Rückkehr des Kolonialismus" im Attachement, beschreibt die wirtschaftlich missliche Lage in der Region. Kriegsschäden und mafiöse Strukturen in der Gesellschaft sind die Ursachen.

H.H. studierte in Wien Wirtschafts- und Sozialgeschichte. Er arbeitet als Historiker und Journalist. Von ihm stammt unter anderem das Standardwerk "Balkan Krieg, Zehn Jahre Zerstörung Jugoslawiens" (Promedia, Wien 2001). 


Kosovo: Die Rückkehr des Kolonialismus


Hannes Hofbauer 


Der hohe Metallzaun und der allradgetriebene Jeep sind in der Hauptstadt des Kosovo zu Sinnbildern einer neuen Zeit geworden, die von den meisten EinwohnerInnen Prishtines gleichwohl – noch – als Freiheit wahrgenommen wird. Im Zentrum der rasant gewachsenen Stadt haben sich die internationalen Verwalter hinter technisch mehr oder weniger ausgereiften Schutzmaßnahmen eingenistet, verbarrikadiert. Vor eisernen Gittern stehen dicht gedrängt Betonblöcke rund um die Bürogebäude von KFOR, UNMIK, OSZE und nationalen Sicherheitseinrichtungen. Damit soll verhindert werden, daß Sprengstoff direkt per Fahrzeug herangeführt wird.
Die Ausfahrt der Verwalter erfolgt ausnahmslos in geräumigen Allradfahrzeugen. Die wichtigsten von ihnen sind mit zwei Meter langen, leicht schwingenden Antennen ausgestattet, die nicht nur symbolisch den Eindruck vermitteln, daß die Befehle für die Insassen von weit her direkt über Satellitentelefone erteilt werden. Terrestrisch sind die mit allen erdenklichen Vollmachten ausgestatteten UNMIK-Bürokraten sowohl über die US-amerikanische Vorwahl 001/ zu erreichen als auch über die lokale Einwahl 00381/, die international nach wie vor als eine serbische registriert ist. In der Warteschlange passiert es dann schon einmal, daß es nicht, wie in Europa üblich, beruhigende Vertröstungsworte oder Musik zu hören gibt, sondern die Zeit bis zur Durchstellung an den gewünschten Apparat mit US-amerikanischer Werbung verkürzt wird.
Vom UNMIK-Komplex direkt im Stadtzentrum über die UNMIK-Büros entlang der Straße Richtung Basar bis zum Glaspalast der OSZE wird gut und gerne ein Viertel der Innenstadt von Prishtine (auf serbisch: Pristina, von internationalen Behördenvertretern genutzt. Befremdlich für einen in Kolonialverwaltung ungeübten Besucher mutet auch die Selbstdarstellung der zu Zehntausenden im Land weilenden »Internationalen« an. Als wäre die Größe des Gefährts, mit dem sie sich auf den Straßen bewegen, nicht augenscheinlich genug, um die Kraft der verschiedenen militärischen Kontingente oder zivilen Administrationen zu unterstreichen, touren die einzelnen Armeeeinheiten und Institutionen weithin sichtbar mit unterschiedlichen Nummerntafeln durch die Gegend. Auch die zivilen Verwalter lassen es dabei an Phantasie nicht mangeln: Ihre Autokennzeichen beginnen mit UNMIK-, UN-, UNHCR-, EU-, UNDP-, UNOPS- und OSCE, Vielfalt in der Einheit, wobei alle zivilen Einheiten formal der UNO, alle militärischen der NATO-geführten KFOR unterstellt sind.

Englischsprachige Kürzel dominieren: UNMIK, KFOR, OSCE

Im Vertrag von Kumanovo vom 9. Juni 1999 vereinbarten Generäle von NATO und Jugoslawischer Volksarmee nach 78 Kriegstagen den Rückzug der letzteren aus dem Kosovo. Die kurz darauf vom UN-Sicherheitsrat beschlossene Resolution 1244 beließ die Provinz bei Jugoslawien/Serbien, unterstellte sie jedoch – interimistisch – militärisch der NATO und zivil der UN-Verwaltung (UNMIK). Seither tummelten sich Hunderttausende Soldaten und Bürokraten aus fast aller Herren Länder in dem kleinen Nicht-Staat.
Jetzt machen Militärs aus 34 Staaten im Kosovo Dienst. Für einen gut bezahlten Auslandseinsatz können sich Polizisten aus 44 Ländern bei ihren jeweiligen nationalen Rekrutierungsstellen bewerben. Was die zivilen Verwalter betrifft, versagt die Statistik: Zu unübersichtlich ist das Geflecht aus UN-, OSZE- und diversen Nichtregierungsorganisationen, als daß irgendjemand wüßte, wie viele »HelferInnen« hier sind und woher sie kommen.
Zwischen 17.000 und 20.000 NATO-Soldaten befinden sich ständig im Land. Die größte Einheit, US-geführt, ist in Camp Bondsteel nahe Urasevac (albanisch: Ferizaj) stationiert, über die NATO-»Partnerschaft für den Frieden« dürfen auch Angehörige von Nicht-NATO-Staaten die Luft internationaler Einsätze schnuppern. Die ehemalige »Filmstadt Prishtine« ist zum militärischen Hauptquartier mutiert. Auch im Polizeiwesen haben Ende 2006 die USA (vor der Ukraine und Deutschland) mit über 200 Ausbildern die Nase vorn. Bei der UNMIK ist eine Bestandsaufnahme schon schwieriger, zu stark ist die Fluktuation in den zwar bestens entlohnten, aber offensichtlich doch recht mühsamen Jobs. Auf der Homepage der internationalen Verwaltung UNMIK (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo) ist am 8. Dezember 2006 noch nicht einmal der zu diesem Zeitpunkt bereits seit über drei Monaten amtierende Chef der Mission eingetragen. Der Deutsche Joachim Rücker – den Namen wird man sich aller Voraussicht nach nicht merken müssen – nahm im September 2006 bereits als sechster »Special Representative of the Secretary General (SRSG)« in nicht einmal sieben Jahren den Posten des Chefs der UN-Mission ein.
Wie unumschränkt UNMIK und KFOR in Kosovo herrschen, zeigt sich nicht nur in der Machtfülle des Missionschefs, der de jure sämtliche Vollmachten eines autokratischen Herrschers innehat, sondern auch – derselben Logik entsprechend – an der Ohnmacht der lokalen Politiker, auch im täglichen politischen Geschäft. So verfügt zum Beispiel der kosovarische Minister für Energie und Bergbau über keinerlei Zuständigkeiten für den monopolistischen Energieversorger KEK oder das riesige Bergwerk Trepca. Der Transportminister darf sich nicht um den einzigen Flughafen des Landes kümmern, der Justizminister hat keinen Einfluß auf Polizei und Gerichtswesen. Mimikry in höchster Vollendung ist die Folge. Die örtliche politische Klasse ist dazu verdammt, Tätigkeit zu simulieren, ohne selbst Kompetenz zugesprochen zu bekommen.
Die OSZE ist mit 850 Angestellten vor Ort; im Rahmen der Gesamtverwaltung wurde ihr die sogenannte »3. Säule« (von vier Säulen) beim Aufbau des Kosovo übertragen. Sie ist zuständig für »Demokratisierung« und »Institution building«, wozu auch der Aufbau einer lokalen Polizei gehört. Mit den drei anderen Säulen sind das Justizwesen, die zivile Verwaltung und die wirtschaftliche Entwicklung gemeint.
Die ganze Verwaltung des Kosovo krankt an einem wesentlichen strukturellen Defekt, wenn man sie an den Ansprüchen mißt, die sie an sich und das Land stellt: Exekutive und Legislative kommen von außen, beide noch dazu von unterschiedlichen Stellen. Und dazwischen sucht die kosovarische Elite verzweifelt ihren Platz.
Nehmen wir das Beispiel Polizei. Kein lokales Parlament hat seit 1999 darüber befunden, wie der Aufbau dieses wichtigen Organs der Gesellschaft zu geschehen habe. Der UN-Missionsleiter übergab, gewiß mit Zustimmung des NATO-Hauptquartiers, der OSZE die Befugnisse zu Aufbau und Ausbildung einer Polizeitruppe. »Erstmals in der Geschichte der UNO haben internationale Polizeieinheiten im Kosovo Exekutivgewalt von sich aus ausgeübt«, bemerkt der für das österreichischen Polizeikontingent zuständige Oberst Berthold Hubegger zu den Anfängen der UNMIK-Verwaltung im Kosovo. Seither wurde viel Geld in die Ausbildung lokaler Polizisten gesteckt, über 8000 Kadetten haben in der Zwischenzeit die Trainingscamps durchlaufen. Anfangs kamen 50 Prozent von ihnen direkt aus den Reihen der UCK. OSZE-Sprecher Sven Lindholm vermerkt, daß Ende 2006 noch 25 Prozent mit UCK-Hintergrund in Dienst stehen. Zwischen acht und 20 Wochen dauert die Ausbildung zum Polizisten. Die Frage, ob eine solche, vorbei an der lokalen Legislative, die freilich kaum Einfluß auf die Geschehnisse hat, überhaupt sinnvoll sei, beantwortet Oberst Hubegger aus dem österreichischen Innenministerium mit der Feststellung: »Als Österreicher gehen wir relativ unbedarft in solche Einsätze, weil wir keinen Rucksack eigener Interessen mit uns tragen.« Welche Interessen in US-amerikanischen oder deutschen Trainingsprogrammen zusammengepackt sind, darauf gibt der Oberst freilich keine Antwort.
Ganz andere Probleme bei der Rekrutierung zum Polizisten schildert einem dann ein einfacher Mann aus Prishtine: Nachdem er die Einschulung bestanden hatte, scheiterte sein Einstieg beim Kosovo Police Service (KPS) an den 1000 Euro, die sein Vorgesetzter, Kosovare wie er, als Bakschisch verlangt hatte. Freilich hätte er den Betrag, der etwa vier Monatslöhnen entspricht, aufbringen können, immerhin arbeitet sein Bruder als Staplerfahrer in Duisburg, aber er wollte einfach nicht in korrupte Machenschaften verwickelt sein.

Die Internationalen

Erstmals hat Peter Handke die Kaste der Neo-Internationalen beschrieben, die im höheren – imperialen – Auftrag seit dem Ende des Kalten Krieges Gesellschaften mitten in Europa kontrollieren, lokale wie nationale Politik bestimmen und ökonomische Interessen global agierender Konzerne durchsetzen. Er tat dies in seinem Bühnenstück »Die Fahrt im Einbaum«. Darin setzt sich der mutmaßlich wegen ebensolcher Kritik verhinderte Literaturnobelpreisträger mit den Folgen des Einmarsches von Medien- und anderen internationalen Vertretern in Bosnien-Herzegowina auseinander.
International im Wortsinn ist freilich nicht einmal ihre Zusammensetzung, vielmehr arbeiten militärische und zivile Verwaltungen, die unter NATO- oder UN-Ägide agieren, weniger zwischenstaatlich als vielmehr nebeneinander. Einzig ein gemeinsames Oberkommando verbindet die jeweils von nationalen Stellen in Washington, etlichen EU-Hauptstädten, Ankara, Delhi, Karatschi und sonstwo rekrutierten Soldaten oder zivilen Helfer. Sie kommen, weil es im Kosovo doppelt so hohe Gehälter gibt wie zu Hause, beste Karrieremöglichkeiten und steuerfreies Einkommen. »Ihre Auslagen sind gering und ihre Verantwortung noch viel geringer«, bringt es Albin Kurti von der Bürgerinitiative »Selbstbestimmung« auf den Punkt. Und weil dem so ist, fügt er hinzu, sollte man die Internationalen nach ihrer Heimkehr isolieren, »weil sie so viele Privilegien gewohnt sind, daß sie in ihren eigenen Gesellschaften noch Schaden anrichten könnten«. 
Weniger radikal, aber in der Substanz ebenso treffend, faßt der Pristhineer Philosoph Shkelzen Maliqi die Meinung vieler seiner Landsleute zusammen: »Alle diese Verwalter von außen sind wie ein eigenes Volk. Sie touren von Land zu Land, immer dorthin, wo es viel zu verdienen gibt. Zivile Menschenrechte sind ihnen ein Vorwand für ihr eigenes Fund-Raising. Ihre Expertise erschöpft sich im hohen Einkommen. Im Kosovo ist daraus eine ganze Industrie geworden.«
Die vorgebliche Risikolosigkeit ihrer Entscheidungen dient in erster Linie zur Verlängerung ihres Aufenthalts und perpetuiert damit indirekt die Kosten, die in anderer Form auf die lokale Bevölkerung abgewälzt werden. Längst hat man im Kosovo für die großteils in Westeuropa und Nordamerika überproduzierte technische und soziale Intelligenz, deren zweite und dritte Reihe nun ihren Dienst in den Kolonien versehen, verschiedene Spitznamen parat: »Domestic internationals« werden sie genannt, oder – im Falle der ungezählten Nichtregierungsorganisationen, die sich vor Ort tummeln – »MANGO«, was als Abkürzung für Mafia-NGO steht. 4000 Nichtregierungsorganisationen sollen im Kosovo bereits ihr Glück versucht haben.
Je nach Quelle drei bis vier Milliarden Euro sind in den Jahren seit der Machtübernahme durch die UNMIK von außen in die zivile Verwaltung des Kosovo gepumpt worden, zur Entwicklung lokaler Strukturen hat das Geld nicht beigetragen. »Die Internationalen füttern sich selbst mit ihrer Hilfe« oder »sie essen ihr eigenes Geld« lauten geflügelte Worte in Prishtine.
Doch viele Kosovaren scheinen es den »Internationalen« nicht übelzunehmen, daß und wie sie sich an den von EU und USA bereitgestellten Futtertrögen satt essen. »Die Mehrheit sagt Danke an die internationale Gemeinschaft«, meint Gani Demaj aus dem Justizministerium, »vor allem die Amerikaner und die Briten sind immer willkommen« – »aber auch die Deutschen«, fügt er hinzu, als er gewahr wird, welchen Medienvertreter er vor sich hat. Fast selbstverständlich das Eigenlob der »Internationalen«: Einer ihrer führenden Köpfe, der im Dienste Ihrer Majestät stehende Brite Paul Acda, Chef der »4. Säule« und damit absoluter Herrscher über die Privatisierung der kosovarischen Wirtschaft, meint auf die Frage, inwieweit man beim Protektorat Kosovo von einer Kolonialverwaltung sprechen könne, selbstbewußt: »Ich kam im Jahr 2000 hier her und habe das ganze Zollsystem eingeführt. 600 Zöllner tun seitdem gute Arbeit. Ich glaube nicht, daß wir das Land kolonisiert haben. Im Gegenteil: Wir haben fähige Leute geschaffen, die ihren Weg finden werden.« Muhamet Mustafa von »Riinvest«, dem einzigen unabhängigen Wirtschaftsinstitut des Landes, sieht das anders: »Die internationale Präsenz im Kosovo war gut für die Rettung im Notfall nach der Katastrophe von 1999. Als es darauf ankam, das Land zu entwickeln, war sie nicht erfolgreich.«

Großmachtinteressen

Mit dem Zerfall Jugoslawiens kommt es zur geopolitischen Neuordnung auf dem Balkan, wenn nicht bereits seine auch von außen betriebene Zerstörung ohnedies genau diesen Zweck verfolgte. Als Großmächte, die sich um militärische und politische Positionen sowie wirtschaftliche Vorteile in dem als Vakuum wahrgenommenen Raum bemühen, treten seit 1991 Deutschland, die von ihm geführte Europäische Union, die USA und fallweise Frankreich und Rußland auf. Serbien, das in den vergangenen Jahren als Jugoslawien und später als Serbien-Montenegro firmierte, scheint zu schwach, um eine über seine Grenzen hinaus entscheidende Rolle zu spielen. Wo diese Grenzen liegen, darum geht es im Ringen um den Einfluß im Kosovo seit dem Ende des Krieges 1999. In den über UN-Vermittlung geführten »Status-Gesprächen« versuchte Serbien im Jahr 2006 zumindest einen minimalen Einfluß auf »Kosovo und Metohija«, so die serbische Bezeichnung für die Provinz, zu halten.
Anschließend an den ohne UN-Mandat geführten NATO-Bombenkrieg gegen Jugoslawien war der UN-Sicherheitsrat auf den Plan getreten, um der Aggression der 19 NATO-Staaten im Nachhinein eine gewisse Legitimität zu verleihen. UNMIK- und OSZE-Präsenz im Kosovo können dennoch nicht darüber hinwegtäuschen, daß der Schlüssel für die zukünftige Entwicklung des kleinen Landes irgendwo zwischen Washington, Brüssel und Moskau gefunden werden wird.
Mehrere Akteure reflektieren üblicherweise widersprüchliche Interessen. Doch die Position Rußlands ist schwach, die Serbiens noch schwächer, und Widersprüche zwischen den USA und EU-Europa im Kosovo sind 2007 nur bedingt auszumachen. Der militärische Gleichschritt und der zivile Konsens von USA und EU kommen am besten in der Person von Javier Solana zum Ausdruck: NATO-Generalsekretär zur Zeit des Angriffs auf Jugoslawien und später EU-»Verteidigungs-« und Außenminister, hatte er von der für Makedonien entscheidenden Ohrid-Vereinbarung im August 2001 über die Verfassung der kurzlebigen serbisch-montenegrinischen Union bis zur Kosovo-Kontaktgruppe die Finger bei der Neuordnung auf dem Balkan wie kein anderer Politiker nach 1999 im Spiel. Als quasi entpersonifizierter Transatlantiker verband er damit die Interessen Washingtons und Brüssels auf ideale Weise. 
»Frieden und Sicherheit für den Kosovo« lautet die offiziell verkündete Devise deckungsgleich in allen Dokumenten. Niemand wird sich finden, der ein anderes Zukunftsbild für das großteils von AlbanerInnen besiedelte Land veröffentlichen würde. Hinter den Kulissen nehmen unterschiedliche Konzepte für die Zukunft des Kosovo allerdings langsam Konturen an. Die USA gelten als Unterstützer einer raschen und möglichst umfassenden Souveränität; es sieht auch nicht danach aus, daß die 2006 erfolgte Aufnahme Serbiens in die NATO-Partnerschaft für den Frieden daran etwas ändern würde. Im geopolitischen Ränkespiel könnte ein ideologisch moderater und dennoch sich festigender moslemischer Knoten im großteils slawisch-orthodoxen Umfeld für die USA langfristig von Nutzen sein. Für ein solches, immer wieder tatsächlich oder vermeintlich von Serbien bedrängtes Kosovo wären ständig Interventionen oder Interventionsdrohungen notwendig, eine Rolle, die die USA in strukturell ähnlicher Weise an vielen Brennpunkten der Welt bestens zu spielen gelernt haben; besonders auffällig im Nahen Osten, wo Israel Wächter und Militärbasis im arabischen Umfeld ist. Es sieht so aus, als ob sich Washington mit der Aufrechterhaltung seiner in wenigen Jahren aufgebauten Militärbasis »Camp Bondsteel«, der größten in Europa, zufrieden geben und die kostenintensive zivile und politische Betreuung des Landes an EU-Stellen abgeben will.

Das Land und seine Zerstörungen

Wenig mehr als 10.000 Quadratkilometer, das entspricht der Größe des Regierungsbezirkes Lüneburg in Niedersachsen, umfaßt der Kosovo in seinen aktuellen Grenzen. In Tito-jugoslawischen Zeiten bildete er 4,25 Prozent der Fläche des Vielvölkerstaates.
Wie viele Menschen auf dem Territorium Kosovos leben, darüber gibt es keine verläßlichen Angaben. Die letzte Volkszählung, an der sich alle beteiligten, liegt mehr als 25 Jahre zurück. Damals im Jahre 1981 wurde Pristina mit einer Einwohnerzahl von 65.000 angegeben, inzwischen gehen alle Schätzungen davon aus, daß über eine halbe Million Menschen Zuflucht in der Hauptstadt des Landes gefunden haben. Etwa zwei Millionen dürften es sein, die 2007 das Land bevölkern, davon 90 Prozent Albaner, fünf Prozent Serben in diversen Enklaven und der Rest Türken, Gorani, Zigeuner unterschiedlicher Selbstbezeichnungen sowie Bosniaken und Kroaten.
Juden sind nach 1999 nahezu sämtlich geflohen. Außerhalb der klar erkennbaren Enklaven, in denen sich ethnische Minderheiten halten können, ist das Land auch serbenfrei. Die einst 40.000 SerbInnen, die noch vor einer Generation in Pristina gelebt haben, sind bis auf wenige, die bei den internationalen Verwaltern als Übersetzer oder in ähnlichen Berufen arbeiten, allesamt ins serbische Kernland ausgewandert oder aus der Stadt vertrieben worden. Die Reste des Slawischen finden sich als Kuriosum auf den allgegenwärtigen dreisprachigen Straßenschildern, die neben dem Albanischen und dem Englischen die serbische Bezeichnung auflisten. Skurril muten dabei Neubenennungen von Straßenzügen wie »rr. Clinton« oder »rr. UCK« an, die – einer Verhöhnung der verschwundenen Serben gleich – politisch korrekt als »rd. UCK« und »ul. UCK« dreisprachig angeschrieben sind.
Ein Großteil der schätzungsweise 150.000 bis 200.000 vertriebenen Serben hat im Kernland Serbien Zuflucht gefunden. Dort leben viele von ihnen auch acht Jahre nach ihrem Exodus noch in zu Flüchtlingslagern umfunktionierten Hotels wie zum Beispiel im »Inex-Krajina«-Komplex im ostserbischen Negotin. Mehrere hundert Kosovo-Serben fristen darin ein trübseliges Dasein ohne Arbeit und ohne nennenswerte finanzielle Unterstützung durch die serbischen Behörden. Im Kosovo selbst sind diese ehemaligen BewohnerInnen weitgehend in Vergessenheit geraten, obwohl UNMIK und OSZE in allen ihren Proklamationen auf das Rückkehrrecht sämtlicher Flüchtlinge pochen.
Die Menschenrechtsorganisation KMDLNJ (Rat zur Verteidigung von Menschenrechten und Freiheit) trifft man unweit der drei alten Moscheen im Zentrum von Prishtine. Faik ist seit ihrer Gründung im Jahre 1989 mit dabei: »Damals haben wir uns um die der serbischen Repression preisgegebenen Albaner gekümmert«, meint der Aktivist, »heute besteht unsere Zielgruppe umgekehrt aus Serben, Roma, Aschkali, Gorani und Türken.« Etwa 200 Mitglieder umfaßt die auch von der UNMIK finanzierte Menschenrechtsvereinigung, die einzige eigenständige im Kosovo. Regelmäßig reisen KMDLNJ-Aktivisten zu Flüchtlingslagern in Nis, Belgrad und Kragujevac, um mit den Kosovo-Serben Kontakt zu halten und irgendwann ihre Rückkehr möglich zu machen. Allzu optimistisch wirkt Faik allerdings nicht, gibt es doch auch in letzter Zeit schwere Rückschläge für seine Vision eines multiethnischen Kosovo. Er erinnert an die ethnischen Säuberungen im März 2004: »7000 Menschen sind damals aus ihren Häusern gejagt wurden.« Die meisten von ihnen Serben und Roma.
Angesichts der allgemeinen zigeunerfeindlichen Stimmungslage haben schätzungsweise 70.000 Roma seit 1999 das Land – großteils in Richtung Serbien – verlassen. Außer wenigen Roma sind noch albanisch sprechende Aschkali und Ägypter geblieben sowie die Volksgruppe der Gorani an der Grenze zu Makedonien im Gebiet von Dragas (albanisch: Dragash) und Reste von türkischer Bevölkerung hauptsächlich in Prizren. Allen Minderheiten ist gemeinsam, daß sie von der albanischen Mehrheitsbevölkerung kaum akzeptiert und der Kollaboration mit der früheren serbischen Verwaltung verdächtigt werden.
Den Hintergrund für den Haß bildet der extreme ökonomische und soziale Zustand des Landes, der mit dem Wort Krise nur unzureichend umschrieben ist. Die flächendeckende Zerstörung Ende der 1990er Jahre, selbst Folge wirtschaftlicher und politischer Hoffnungslosigkeit und zugleich Ausdruck dieses Hasses, prägt den Kosovo bis heute.
Die Bomben der NATO zerstörten nicht nur die Infrastruktur, sondern verseuchten das Land auch mit abgereichertem Uran. Letzteres diente der Härtung panzerbrechender Munition, die durch US-Truppen vor allem im Kosovo (aber auch in Teilen Bosniens und der Vojvodina) weiträumig zum Einsatz kam. 78 Kriegstage haben die Krise der 1990er Jahre zur Katastrophe perfektioniert. Von den langfristigen Folgen radioaktiver Verseuchung will keine internationale Hilfsorganisation etwas wissen. Zerstörte Wohnquartiere wurden indes rasch wieder aufgebaut. Von einer wirtschaftlichen Konsolidierung kann dennoch keine Rede sein. 
Die gesamten 1980er Jahre hindurch waren unter Belgrader Verwaltung kaum Investitionen getätigt worden. Schon damals lag das Pro-Kopf-Einkommen im Armenhaus Jugoslawiens mit 730 US-Dollar pro Jahr acht Mal unter jenem Sloweniens (5500 US-Dollar) und drei Mal unter jenem Serbiens (2200 US-Dollar). Das Entwicklungsgefälle zwischen Kosovo und Slowenien hatte sich zwischen 1950 und 1990 verdoppelt.
Die 1990er Jahre beschreibt der Ökonom Muhamet Mustafa vom Riinvest-Institut als »Dekade der Deindustrialisierung«. Trug die industrielle Produktion 1989 noch zu 46 Prozent zum Bruttoinlandsprodukt des Kosovo bei, sank die entsprechende Kennziffer im Kriegsjahr 1999 auf 15 Prozent. In den seither vergangenen acht Jahren UNMIK-Verwaltung gab es keinerlei industriellen Entwicklungsschub. Ende 2006 betrug der Anteil der Industrie am Bruttoinlandsprodukt 17 Prozent. Im Klartext heißt das, daß alle in jugoslawischen Zeiten zwischen 1950 und 1980 errichteten Produktionsanlagen nicht mehr in Betrieb sind; daher gibt es für die Menschen keine Arbeit. »Seit 20 Jahren wurde hier nichts investiert, weder in Infrastruktur wie Straßenbau, Wasserversorgung oder Elektrizität, noch in Produktionsanlagen. Das ist eine extreme Situation«, sagt Muhamet Mustafa. 600 Millionen Dollar jährlich, davon 70 Prozent öffentliches Geld, waren es noch in den ohnedies bereits krisengeschüttelten 1980er Jahren, die laut Berechnung des Riinvest-Instituts in die kosovarische Wirtschaft gepumpt wurden; in den 1990er Jahren fand kein Aufbau mehr statt. Ganze 50 Millionen, durchweg privates Geld aus Kreisen der Diaspora, kamen damals pro Jahr ins Land. »Gleichzeitig strich Belgrad jährlich 300 Millionen an Steuern ein und verkaufte zudem serbische Produkte fast konkurrenzlos im Land.« Die von kosovo-albanischer Seite errichtete Parallelgesellschaft war zwar in der Lage, Schulen und Gesundheitseinrichtungen mehr schlecht als recht am Laufen zu halten, wirtschaftlicher Aufbau wurde indes nicht betrieben. Bis heute hat sich daran nicht viel geändert.
Für die Ärmsten der Armen hat sich die fast schon permanente Krise als tödliche Falle erwiesen. So sterben die aus den albanischen Siedlungsgebieten in die serbischen Enklaven im Norden vertriebenen Roma an den Folgen von Vergiftungen. Nahe dem seit Kriegsende stillgelegten Bleibergwerk Trepca hatten 550 von ihnen eine Abraumhalde als Wohnplatz zugewiesen bekommen. Die extrem hohen Cadmium- und Arsenwerte wurden von Medizinern erst gemessen, als in kurzer Zeit 35 Roma verstorben waren und sich bei vielen weiteren motorische Koordinationsschwierigkeiten und Gedächtnisverluste als Symptome einer Bleivergiftung zeigten. Erst im Jahr 2006 flog dieser Skandal auf, nachdem deutsche (s. tageszeitung vom 12.5.06) und französische Journalisten darüber berichtet hatten. Die UNMIK-Behörden konnten weder den kontaminierten Boden isolieren noch verhindern, daß vertriebene Zigeuner dort im wahrsten Sinn des Wortes ihre letzte Ruhestatt fanden.

Der Fall Haradinaj

Am 13. Februar 2000 erwiderten französische KFOR-Soldaten in Kosovska Mitrovica, der zwischen albanischer und serbischer Bevölkerung geteilten Stadt im Norden des Kosovo, das Feuer auf eine Gruppe Heckenschützen, die aus einem serbischen Wohnblock heraus die internationale Patrouille attackierte. Zufällig wurde einer der Angreifer getötet. Sein Name: Avni Hardinaj. Der gezielte Schuß aus einem französischen Gewehr verhinderte, daß die Absicht der Täter, nämlich der serbischen Seite einen Überfall auf die französische KFOR unterzujubeln, vereitelt werden konnte. Und damit die möglichen Folgen einer durch die internationale Gemeinschaft abgesegneten Aussiedlung der Serben aus der Stadt. 
Avni Haradinaj war nicht irgendwer. Er war einer von fünf für die albanische Sache im Kosovo kämpfenden Brüdern. Der berühmteste von ihnen, Ramush, agierte im Rang eines UCK-Führers nicht nur als der engste Verbündete von Hashim Thaci, sondern schaffte es im Dezember 2004 bis zum Ministerpräsidenten des Kosovo. Mit der Anklage beim Haager Kriegsverbrechertribunal im März 2005 erhielt seine Karriere einen Knick. 
Ramush Haradinaj wurde 1968 in Westkosovo geboren. Als Gastarbeiter in der Schweiz baute er bereits in den 1990er Jahren kosovo-albanische Strukturen auf, kehrte im Februar 1998 in seine Heimat zurück und leitete militärische Operationen der UCK. Im Bericht des deutschen Bundesnachrichtendienstes vom Februar 2005 steht über diese vielleicht schillerndste Figur der kosovarischen Politszene zu lesen: »Die im Raum Decani auf Familienclan basierende Struktur um Ramush Haradinaj befaßt sich mit dem gesamten Spektrum krimineller, politischer und militärischer Aktivitäten, die die Sicherheitsverhältnisse im gesamten Kosovo erheblich beeinflussen. Die Gruppe zählt ca. 100 Mitglieder und betätigt sich im Drogen- und Waffenschmuggel und im illegalen Handel mit zollpflichtigen Waren. Außerdem kontrolliert sie regionale Regierungsorgane.« (BND-Bericht vom 22.5.05, zitiert in:. Die Weltwoche 43/05)
Schon im Sommer 2000 hatten ihn mutmaßlich US-amerikanische Agenten vor einer Verhaftung durch die UNMIK im Kosovo bewahrt. Damals war Ramush Haradinaj bei einer Schießerei verletzt worden. Laut dem Nachrichtendienst »Central Intelligence Unit« (CIU) hatte der UCK-Mann am 7. Juli 2000 das Haus eines rivalisierenden Clan-Chefs überfallen. Eine Blitzaktion im höchsten Auftrag rettete ihn vor einer peinlichen Befragung durch die UN-Behörde. Ein italienischer Militärhubschrauber brachte ihn auf eine US-amerikanische Militärbasis (Die Weltwoche 43/05). Grund für diese Schutzaktion war die offensichtlich berechtigte Sorge, eine Verhaftung des beliebten UCK-Bosses könnte zu Unruhen in der Provinz führen. Nach einem längeren Aufenthalt in den USA führte Haradinaj ein paar politische Kleingruppen zur »Allianz für die Zukunft des Kosovo« (AAK) zusammen und wurde, als ob die USA dies bereits vorher so geplant hätten, nach den 2004er Wahlen Ministerpräsident.
Ähnlich schützend hielten die USA ihre Hand im Jahr 2005 über Ramush Haradinaj, als das Haager Tribunal seine Auslieferung mit der Begründung forderte, ihm würden über 60 Morde und mehr als 200 Aufträge zum Töten in Westkosovo vorgeworfen. Nach kürzester Zeit aus der Untersuchungshaft entlassen, bewegte sich Ramush Haradinaj Ende 2006 als freier Mann in Prishtine, wie ich anläßlich einer vom US-amerikanischen »National Democratic Institute« (NDI) ausgerichteten Party im Prishtineer Szenelokal »Strip Depot« live beobachten konnte. Haradinaj führt weiterhin die AAK und wartet auf seinen Prozeß in Den Haag. Genau gegenüber der UNMIK-Zentrale prangt über vier Stockwerke sein Konterfei. »Our prime has a job to do here« steht darauf in Anspielung auf eine eventuell bevorstehende Auslieferung nach Den Haag zu lesen.
Tatsächlich ist es mehr als seltsam, daß Den Haag sechs Jahre nach dem Ende des großen Mordens im Kosovo plötzlich neue Übeltäter entdeckte. Die koloniale Attitüde dieses Vorgangs ist offensichtlich. Recken wie Haradinaj waren offensichtlich gut genug, als es darum ging, Jugoslawien zu zerstören, jetzt, wo es darum geht, in Kosovo pflegeleichte Verwalter für westeuropäische und/oder US-amerikanische Interessen zu etablieren, beginnen sie zu stören. Wie lange die USA noch schützend die Hand über Haradinaj legen werden? Einer seiner engsten Weggefährten, Justizminister Ahmet Isufi, macht sich keine Illusionen: »Ramush wird nach Den Haag gehen, wenn er danach gefragt wird. Er weiß, daß er unschuldig ist. Denn die UCK lag mit Serbien im Krieg. Und er war ein sehr wichtiger Mann in diesem Krieg.«

»Keine Verhandlungen – Selbstbestimmung«

Am 28. November 2006, dem neuen kosovarischen Nationalfeiertag, demonstrierten über 10.000 Menschen im Zentrum von Prishtine gegen die Kolonialpolitik der UNMIK. »Keine Verhandlungen – Selbstbestimmung«, lautete die Losung der von der gleichnamigen Bürgerinitiative organisierten Veranstaltung. Das zentrale UNMIK-Gebäude wurde mit Farbbeuteln beworfen und vereinzelt UNMIK-Personal attackiert. Betonbarrikaden der UNO-Verwaltung kamen unter Hämmer und Sägen, wurden zerschlagen und in den umzäunten Komplex geworfen. Offiziellen Angaben zufolge gab es keine Verletzten. 
Zwischen die national-albanischen Sprechchöre der Demonstranten mischten sich soziale Begehren: »Für ein selbstbestimmtes Leben und für soziale Standards« hieß es aus der großteils aus Jugendlichen bestehenden Menge. Ihr Sprecher Albin Kurti erinnerte an die Proteste in Budapest anläßlich des 50-Jahr-Gedenkens zur Niederschlagung der ungarischen Revolte und an die Jugendunruhen in Paris.
Überall in der kosovarischen Hauptstadt haben Aktivisten der Gruppe »Vetevendosja« (»Selbstbestimmung«) ihre Hauptforderung an die Wände der Hausmauern gesprayt: »Keine Verhandlungen – Selbstbestimmung«. Sie trauen den Verhandlern von UNMIK genauso wenig über den Weg wie der albanischen Elite. Den »Internationalen« werfen sie koloniales Gebaren vor und den eigenen Parteien Verrat. »Die UNMIK ist eine pyramidal aufgebaute, autoritäre Struktur. Sie kamen hierher und haben die lokalen, parallel zur serbischen Besatzung aufgebauten Strukturen zerstört. Sie eignen sich alles an: politische Herrschaft und ökonomische Macht«, bilanziert die unumstrittene Führungsfigur der Gruppe, Albin Kurti, die Lage. »Wir wollen ein klares Zeitlimit für die Internationalen in Kosova.« Für die Nichtregierungsorganisationen im Land hat der begnadete Rhetoriker Kurti überhaupt kein Verständnis: »Heute haben wir hier 4000 NGOs und eine schwache Zivilgesellschaft«. 
Den Internationalen offizieller und inoffizieller Provenienz wirft Kurti vor, die individuelle Freiheit vor die kollektive zu stellen. »Die kollektive Freiheit«, meint er, »ist eine Voraussetzung für individuelle Freiheiten. Ohne Selbstbestimmung verkommt Freiheit zur Farce. Dehalb«, so der 32-Jährige im Gespräch, »bringen wir die Sache auf den Punkt: zuerst der Staat, dann der Pluralismus.«
Albin Kurti residiert mit seiner Gruppe »Selbstbestimmung«, die vor 2005 »Kosovo Action Network« geheißen hat, in einem Haus im Zentrum von Prishtine. Schriftreif sprudelt es aus ihm in perfektem Englisch heraus. Der 1975 in Prishtine geborene Kurti studierte Computerwissenschaft und Telekommunikation an der Universität Pristina, konnte aber sein Studium erst nach dem Krieg beenden. Im August 1998 schloß er sich dem legendären Adem Demaci an, der als Nelson Mandela des Kosovo gilt, weil er viele Jahre in serbischen Gefängnissen verbracht hatte. Der Bruch mit der UCK erfolgte bereits Ende Januar 1999, als der widerspenstige Adem Demaci auf Druck der USA durch Hashim Thaci ersetzt worden war. Demaci war nicht bereit gewesen, bei den Gesprächen im französischen Rambouillet Kompromisse über Souveränitätsrechte im Kosovo einzugehen. Am 27. April 1999, während die NATO Jugoslawien bombardierte und serbische Einheiten den Kosovo durchkämmten, wurde Albin Kurti von der Polizei verhaftet, mit dem Rückzug der Serben im Juni 1999 in ein Gefängnis in Nis transferiert. Nach zweieinhalb Jahren hinter Gittern kam er, der wegen Staatsgefährdung zu 15 Jahren verurteilt worden war, am 7. Dezember 2001 frei. Mittlerweile haben ihn seine radikalen Ideen auch schon kosovarische Gefängnismauern von innen sehen lassen. Den eigenen Eliten gilt er als »Leninist« und »Aufrührer«. Vize-Premier Lufti Haziri nannte die von Kurti initiierten Proteste »inakzeptabel« und »kontraproduktiv«.
Schon anläßlich ihres ersten massiven Auftretens mit Sprühaktionen im August 2005 wurden 175 Mitglieder der Gruppe »Selbstbestimmung« von UNMIK-Polizisten vorübergehend verhaftet. Über 18 Zentren hat Kurtis Netzwerk in ganz Kosovo aufgebaut, er selbst gibt die Mitgliederzahl mit 1000 Aktivisten und 10.000 Spendern an. Anders als ähnlich aufgebaute Jugendgruppen in anderen osteuropäischen Ländern, die von der Soros-Stiftung oder von US-amerika-nischen Fonds unterstützt werden, finanziert sich »Vetevendosja « nicht durch »fremdes Geld«, wie Kurti sagt, sondern durch Spenden von Kosovo-Albanern inner- und außerhalb des Kosovo. »Genau genommen sind wir illegal, weil ›Vetevendosja‹ nicht einmal behördlich registriert ist.«
Aufsehen erregte die Gruppe »Selbstbestimmung« im Herbst 2006 auch mit einem fingierten UNMIK-Flugblatt. Unter dem Titel »Zehn Merksätze für die Evakuierung«, der sich an das internationale Personal wendet, stand da zu lesen: »Heute wurden wir gezwungen, Kosovo zu verlassen. (...) Die Einwohner von Kosovo haben entschieden, unser Gesetz und unsere Kolonisierung nicht mehr zu tolerieren. Wir müssen unsere Flucht selbst organisieren. Die Evakuierung sollte nicht wie unsere Mission ablaufen, sie muß erfolgreich sein.« Das Flugblatt forderte die Internationalen mit zynischem Unterton auf, in Anspielung an die desaströsen wirtschaftlichen Verhältnisse und politischen Strukturen des Landes folgende Regeln beim Abzug zu beachten: »Verwendet keine Aufzüge oder sonstige Geräte, die mit Strom funktionieren. Vergeßt nicht das Wandbild von Kofi Annan. Besteht nicht darauf, im eigenen Jeep zu fliehen, nehmt den nächsten, der vorbeifährt. Traut der Lokalbevölkerung nicht. Schaut nur auf euch selbst, genau so wie ihr es während eurer Mission hier gemacht habt. Kümmert euch nicht um lokales Recht, ihr seid ihm nicht unterstellt. Behandelt das Land, wohin ihr geht, nicht so, wie ihr Kosovo behandelt habt, denn dort werdet ihr nicht über dem Gesetz stehen. Und zu guter Letzt: Vergeßt Kosovo nicht, denn ihr werdet niemals mehr eine Aufgabe wie diese bekommen, wo ihr tun konntet, was immer ihr wolltet.«
Im offiziellen politischen Leben des Kosovo herrscht über die Gruppe »Selbstbestimmung« geteilte Meinung. Je höher die Ränge, desto harscher die Kritik an ihr. Sabri Hamiti, Schriftsteller und Abgeordneter der größten Partei LDK, wollte gar nichts zu ihr sagen: »Es ist nicht an mir, so etwas zu kommentieren«, gab er sich hochnäsig. Ahmet Isufi von der AAK des Ramush Haradinaj wiederum erklärte: »Wir verstehen die jungen Leute und daß die Gesellschaft einen Druck erzeugt, um die Politiker zu besserer Arbeit anzustacheln.« Als »politisches Spiel« zwischen radikaler außerparlamentarischer Bewegung und der neuen Elite des Landes interpretiert Henriette Riegler vom Österreichischen Institut für Internationale Politik die Beziehungen zwischen Radikalen und Gemäßigten: »Entkolonialisierung ist ein hilfreiches Bild zum Verständnis der Lage. Die einen verhandeln, die anderen demonstrieren.«

Die albanische Frage

»Wo es Albaner gibt, dort ist unser Land«, lautet die im Kosovo weit verbreitete Auffassung, die nicht nur der Gesprächspartner Faton Klinaku, Vizepräsident der UCK-Veteranenorganisation OVL-UCK, vertritt. Auf einer in Großbritannien gefertigten Homepage der Bürgerinitiative »Vetevendosje« (»Selbstbestimmung«) fügen sich sieben Landesteile aus Serbien, Makedonien, Montenegro und Griechenland und der gesamte Kosovo gemeinsam mit dem »Mutterland« Albanien zur Vision eines Großalbanien zusammen. 
Tatsächlich existieren albanische Siedlungsgebiete – außer in Albanien und Kosovo – in Serbien, Montenegro, Makedonien und Griechenland. Eine nach ethnischen Kriterien gezogene Grenze würde alle betroffenen Länder destabilisieren. Dennoch sehen auch gemäßigte Kosovo-Albaner – auch das mit einer gewissen Berechtigung – nicht ein, warum ihnen verwehrt sein soll, was den Deutschen erlaubt wurde. So vermerkt beispielsweise der Philosoph Shkelzen Maliqi auf die Frage, was er zu einer möglichen zukünftigen Vereinigung Kosovos mit Albanien sagen würde: »Ich befürworte diese Idee. Nach einer möglichen Unabhängigkeit des Kosovo kann zumindest eine Konföderation mit Albanien geschlossen werden. Für den Moment allerdings ist es verboten, daran auch nur zu denken.«
Feuer am Dach der internationalen Wächter der nationalen Fragen brach kurzfristig im März 2006 aus, als sich der Außenminister der Republik Albanien – wieder einmal – nicht an das von UNO, NATO und anderen verordnete Gebot hielt, zur albanischen Frage Stillschweigen zu bewahren. In einer von der makedonischen TV-Gesellschaft veranstalteten Diskussion in Skopje meinte Besnik Mustafaj auf die Frage, wie es um mögliche zukünftige Grenzverschiebungen in der Region bestellt sei: Er könne die Unveränderbarkeit der Grenzen gegenüber den Nachbarländern mit albanischem Bevölkerungsanteil nicht garantieren, sollte der Kosovo unabhängig werden. Die Ängste in der Region vor großalbanischen Ambitionen hat Mustafaj damit nicht zerstreut, sondern angeheizt.

Welche Wirtschaft?

Eine herkömmliche Herangehensweise bekommt die Ökonomie des Kosovo nicht in den Griff. Das Binnenland mit seinen geschätzten zwei Millionen EinwohnerInnen lebt zum größten Teil von Rücküberweisungen emigrierter Kosovaren sowie von Spenden, verfügt seit 1999 über keine nennenswerte Industrie sowie völlig unzureichende Energieversorgung und Infrastruktur, verwendet unter Kontrolle ausländischer Verwalter seit Januar 2001 den Euro als Zahlungsmittel und importiert jährlich zwischen zehn und zwanzig mal mehr, als es exportiert. Seine traditionellen Handelskontakte mit Serbien sind aus politischen respektive albanisch-nationalen Gründen eingeschränkt. Es gilt zugleich als wirtschaftsliberalster Platz in Europa und als Armenhaus des Kontinents. Die Eigentumsverhältnisse sind ungeklärt.
»Rücküberweisungen und der Konsum des UNMIK-Personals« fallen Muhamet Mustafa vom Riinvest-Institut in Prishtine ein, wenn er an die Habenseite der Landesökonomie denkt. Dazu noch die extrem junge Bevölkerung als »human capital« sowie ein nicht ausgenütztes agrarisches Potential. Letzteres dürfte wegen der im NATO-Krieg verwendeten uranhaltigen Munition allerdings auf möglichen Exportmärkten auf Skepsis stoßen.
Zwischen drei und vier Milliarden Euro haben die meist aus Westeuropa stammenden Verwalter über die UNMIK in das Land gepumpt. Den Großteil verbrauchten die »Internationalen« für eigene Löhne und Ausgaben. Das erklärt zumindest zum Teil, wieso mehr als sieben Jahre nach der Machtübernahme durch die UNO die Elektrizitätsversorgung nach wie vor nicht klappt, der Industrieanteil am Bruttoinlandsprodukt – laut dem Wirtschaftsinstitut »Riinvest« – zwischen 1989 und 2006 von 47 Prozent auf 17 Prozent gesunken ist und die einzigen florierenden Wirtschaftszweige graue und illegale Sektoren – Stichwort: Mafiaökonomie – sind.
Im Weltbankbericht aus dem Mai 2004 wird ein weiterer schwerwiegender struktureller Defekt des Landes benannt: Die sich aus der Aufteilung Jugoslawiens ergebende Auslandsschuld wird den Kosovo noch auf Jahre hinaus einer restriktiven Finanzpolitik unterwerfen. Das Land ist pleite. »Es ist wichtig zu erkennen, daß die Ausgaben des ›öffentlichen Sektors‹ viel höher sind als das konsolidierte Budget Kosovos. Der öffentliche Sektor beinhaltet effektiv das UNMIK-Budget, den aus Spenden finanzierten Teil des Öffentlichen Investitionsprogramms und mehrere NGO-Projekte«, listet die Weltbank die schwarzen Löcher der lokalen Wirtschaft auf, in denen das Geld versickert. Ihre Forderung nach Sparmaßnahmen trifft – mangels Staat – die UNO und ihre Verwaltungsstrukturen im Kosovo. 
»Den beschränkten Zugang zu Märkten« nennt der Ökonom Wladimir Gligorow vom »Wiener Institut für Internationale Wirtschaftsvergleiche« (WIIW) als eines der Hauptprobleme, mit dem das Binnenland auch nach eventuell geklärtem Status wird fertig werden müssen. Eine einzige größere Straße führt von der Hauptstadt Prishtine aus dem Kosovo hinaus, es ist jene über das Amselfeld ins makedonische Skopje. Als am 15. Januar 2006 ein Bergrutsch diese Verbindung unterbrach, dauerten die Aufräumarbeiten 50 Tage, bis Prishtine auf dem Landweg wieder erreichbar war. Der einzige zivile Flughafen des Landes kann im Winter wetterbedingt oft tagelang nicht angeflogen werden. Zudem verweigert die UNMIK noch Anfang 2007 aus ideologischen Gründen der serbischen Fluggesellschaft »JAT« die Landeerlaubnis für Prishtine. Die traditionelle Verbindung Belgrad-Pristina wurde nicht nur im Flugverkehr gekappt, auch die Eisenbahn darf – von Serbien kommend – nicht einmal ins nordöstlich gelegene Mitrovica fahren. Langwierige Umstiegsprozeduren unterbrechen de facto auch diese Route. Importe finden dennoch, hauptsächlich über Makedonien, ihren Weg nach Kosovo.
Schwere Vorwürfe an die Adresse der internationalen Verwaltung erhebt Musa Limani, Professor für Makroökonomie

(Message over 64 KB, truncated)